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Chiara Scattone

Bioetica e sessualità: l’aborto nell’islam

“E certo Noi creammo l’uomo d’argilla finissima, poi ne facemmo una goccia di sperma in ricettacolo
sicuro. Poi la goccia di sperma trasformammo in grumo di sangue, e il grumo di sangue trasformammo in
massa molle, e la massa molle trasformammo in ossa, e vestimmo l’ossa di carne e produciamo ancora una
creazione nuova!” (Cor. XXIII, 12-14)

In Italia, un argomento sempre molto dibattuto e mai passato di moda è certamente quello che riguarda, in
particolare, la libertà della donna di scegliere o meno l’interruzione di gravidanza. Laici e religiosi, uomini e
donne di destra e di sinistra si sono da sempre scontrati sulla liceità dell’aborto e sul desiderio e sulla
necessità, ritenuta tale per alcuni, di riformare la legge 194 del 1978 che garantisce alle donne la libera scelta
di interrompere o meno una gravidanza indesiderata o rischiosa per la vita e la salute mentale della donna
stessa. Il problema dell’interruzione volontaria di gravidanza è certamente una questione da secoli
lungamente dibattuta, sia nel mondo cristiano-cattolico, sia in quello religioso nel suo complesso, sia da una
parte di non religiosi che credono nell’obbligatorietà della donna di dover partorire, anche contro la propria
volontà e nell’immoralità (non religiosa, bensì “umana”) di non desiderare il portare a compimento la
gravidanza. Non è però certo questa la sede opportuna per soffermarsi sulle questioni morali, etiche, mediche
e umane dell’argomento e, soprattutto, sul ruolo che gli Stati laici contemporanei, come il nostro, devono
mantenere al fine di tutelare il benessere dell’intera collettività e non seguire i desideri di singoli individui.
Vorrei qui portare ed esporre il caso, o per meglio dire l’esperienza, del diritto musulmano classico e la
soluzione teologica cui i giuristi islamici sono giunti nel corso dei secoli.
Nella dottrina islamica classica l’interruzione di gravidanza è lecita e legittima e può avvenire entro
determinati limiti temporali dal concepimento fissati dalla dottrina e dalla legge.
Prima però di affrontare le tappe cui viene suddivisa la gestazione, è certamente fondamentale iniziare
analizzando ciò che le prime due fonti del diritto classico, il Corano e la raccolta di Hadith (o detti e fatti
riferiti al profeta Muhammad), affermano circa l’embrionologia.
Il Corano – che, oltre a essere la prima fonte del diritto, è il Libro sacro, parola diretta di Dio rivelata agli
uomini tramite il profeta Muhammad – suddivide in sette tappe l’evoluzione dell’embrione all’interno del
ventre materno fin dalla creazione. “E certo Noi creammo l’uomo d’argilla finissima, poi ne facemmo una
goccia di sperma in ricettacolo sicuro. Poi la goccia di sperma trasformammo in grumo di sangue1 (alaqa), e

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La traduzione del termine alaqa come grumo di sangue, peraltro ripetuto più volte in diversi versetti del Corano in cui
viene descritta la creazione evolutiva dell’uomo (XL, 67; LXXV, 36-40; XXXV, 11 ecc) è stata recentemente al centro
di una polemica iniziata dal chirurgo francese convertito all’islam, Bucaille, il quale per primo ha posto in dubbio la
traduzione di “grumo di sangue”, ricordando che il termine arabo può essere tradotto anche come “aderenza” o meglio
“qualcosa che si aggrappa”. Tale interpretazione di alaqa dimostrerebbe come nel Corano siano presenti aspetti
scientifici di grandissima modernità, come è appunto l’idea, constatata dalla moderna embrionologia, che nella sua
evoluzione uterina, l’embrione attraversi la fase di attecchimento. Il cd. “miracolo scientifico” di cui per il Bucaille è
portatore il Corano, secondo lo stesso chirurgo è stato tenuto “nascosto” dalla volontà dei traduttori non-musulmani che

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il grumo di sangue trasformammo in massa molle e la massa molle trasformammo in ossa e vestimmo l’ossa
di carne e produciamo ancora una creazione nuova!”. Ecco, il passaggio più interessante di queste sette fasi
evolutive, è senza dubbio l’ultimo elemento, quella definito “creazione nuova” che il testo sacro indica come
ultima fase evolutiva e che suggerisce l’infusione dell’anima nel feto da parte di Dio, così come confermato
nel passaggio: “Allorché disse il tuo Signore agli angeli: ‘Io creerò un uomo d’argilla! E quando l’avrò
plasmato ed avrò alitato in lui del Mio Spirito, gettatevi prostrati davanti a lui”2
Il riferimento esplicito all’infusione dell’anima nel feto è un elemento decisivo per diversi motivi, primo fra
tutti la superiorità dell’essere umano sulle altre creature viventi che Dio proprio con l’insufflazione
dell’anima sancisce. In secondo luogo, tale esplicito riferimento pone una distinzione tra i due momenti
nell’evoluzione dell’embrione, che rappresentano lo spartiacque fondamentale per la determinazione della
qualificazione giuridica dell’azione abortiva. Difatti distinguendo tra una fase antecedente e una successiva
all’animazione del feto, i giuristi sono riusciti inserire nella classificazione sciaraitica3 l’atto di abortire,
distinguendolo, a seconda dei casi, come atto permesso, riprovevole o proibito secondo la Shari’a.
Come abbiamo visto, il Corano non indica un momento preciso in cui avviene l’infusione dell’anima, tale
informazione però si può rinvenire negli hadith di Bukhari, Muslim e Nawawi, anche se, le informazioni
raccolte negli hadith non sempre aiutano a determinare il momento esatto in cui Dio infonde l’anima nel
feto. Difatti, mentre Bukhari ricorda: “Ciascuno di voi viene creato nel ventre della madre per 40 giorni; in
altri 40 diventa grumo di sangue; in altri 40 un pezzo di carne; […] poi Dio soffia in lui lo spirito”, dove
pertanto viene indicato come il 120mo giorno, il momento in cui Dio anima il feto. In Muslim, pur
sottolineando le diverse fasi evolutive dell’embrione, non si parla mai di infusione dell’anima, “Dopo che 42
notti sono trascorse da quando lo sperma è penetrato, Dio invia un angelo che lo forma dando luogo a
orecchie, occhi, pelle, carne e ossa. Poi, l’angelo dice: “o Signore! è maschio o femmina? E il tuo Signore
decide ciò che vuole”.
Il dibattito circa la liceità dell’aborto nelle differenti fasi evolutive dell’embrione è sempre stato molto
vivace e “animato”, proprio a causa dell’assenza nel mondo arabo-islamico, di un’unica autorità valida e
riconosciuta da tutti. Solo su un punto la maggior parte dei giuristi si sono trovati concordi: l’aborto è sempre
considerato haram, ovvero proibito, dopo l’infusione dell’anima, che può avvenire, a seconda delle
interpretazioni, dopo 120 giorni o dopo 40 giorni dalla fecondazione, tranne nel caso dell’aborto terapeutico,
ovvero per salvare la vita della madre.
I giuristi pertanto, contrariamente a quanto stabilito unanimemente da tutta la giurisprudenza per l’aborto
terapeutico – da sempre sostenuto e riconosciuto come valido e legittimo per salvare la vita materna –, non

hanno preferito interpretare il termine arabo alaqa come “grumo di sangue”, eliminando così il valore scientifico del
Corano. Simili affermazioni trovano stentato riscontro, perché nelle stesse traduzioni operate da arabi si è sempre
prediletta la traduzione “blood clot” (grumo di sangue) a quella, peraltro presente, di “something which clings”, la quale
ha iniziato a diffondersi solo recentemente e successivamente alla polemica sollevata dal Bucaille.
2
Corano XXXVIII, 71-72.
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La Shari’a o via diritta indicata da Dio ai credenti nel monoteismo, più comunemente intesa come Legge sacra, indica
anche i limiti o regole che la divinità ha posto alla natura umana e alle azioni dell’uomo che pertanto sono state
qualificate e classificate in cinque categorie: atto obbligatorio (wajib, fard), proibito (haram), consigliato (mandub o
mustahabb), sconsigliato (makkruh) o libero (mubah, ja’iz).

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hanno mai trovato un accordo sull’aborto quale azione compiuta antecedentemente l’infusione dell’anima.
Una simile assenza di univocità dottrinale ha dato luogo molto spesso a contraddizioni e opposizioni che
hanno da sempre oscillato tra l’autorizzazione, alla dissuasione fino alla più ferma condanna.
Nell’islam sunnita esistono quattro differenti scuole giuridiche ortodosse e nel caso dell’aborto tra di esse
non vi è alcun accordo sull’opportunità e la liceità di compiere l’aborto prima dell’infusione dell’anima. Le
differenze presenti in ciascuna scuola in alcuni casi sono decisamente rimarcate.
La scuola hanafita concorda da sempre e nella maggior parte dei casi nel tollerare l’aborto – ritenuta azione
solo in alcuni casi tiepidamente sconsigliata –, se motivato da una valida giustificazione4, nei primi quattro
mesi dalla fecondazione5.
All’interno della scuola sciafi’ita l’opinione più rappresentativa è quella di al-Ghazali, il quale sostiene,
partendo dalle sette fasi evolutive indicate dal Corano, che “il primo grado dell’esistenza è quello in cui lo
sperma scorre nell’utero e si mischia con lo sperma della donna divenendo il tal modo ricettivo di vita;
distruggere ciò costituisce (già) un attentato contro un essere esistente; se la goccia di mélange diventa
mughda, massa molle, e alaqa l’attentato è ancora più grave; lo è ancora di più quando l’anima vi è stata
infusa esso ha assunto forma umana; ma il massimo dell’atrocità viene raggiunto quando il crimine è
commesso dopo che il feto è nato vivo”6. Al-Ghazali individua pertanto un’ascesi di gravità dell’azione
abortiva, indicando come reato l’interruzione di gravidanza fin dal momento della fecondazione – momento
che egli considera già come vita biologica –, ma che in un salendo di gravità raggiunge il suo massimo grado
con l’accusa di omicidio per il bimbo già nato. La scuola sciafi’ita tuttavia, oltre all’autorevole opinione di
al-Ghazali, ha sempre legittimato l’aborto entro i primi 40 o 42 giorni dal concepimento con l’accordo di
entrambi gli sposi, considerandolo però come atto riprovevole.
Per quanto concerne la scuola hanbalita, sono molti i giuristi che consentivano l’aborto nei primi 40, 80 o
120 giorni dalla fecondazione, seguendo la tesi unanimemente accettata nella scuola per cui l’aborto di un
feto privo di spirito poteva essere associato per analogia al coitus interruptus, poiché seppur in quest’ultimo
caso l’embrione ancora non esiste, mentre nel primo è già presente, in entrambi i casi non è ancora avvenuta
l’insufflazione dell’anima. Gli hanbaliti pertanto sostengono la liceità dell’aborto fino al momento in cui
l’embrione, seguendo le varie fasi indicate dal Corano, non sia ancora divenuto una massa solida,
allorquando compiere aborto diventa proibito. Secondo la tesi hanbalita quando l’embrione è ancora grumo
di sangue, non è solidificato e pertanto non può produrre un bimbo. Una tale permissitività ha ipotizzato la

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Tra le giustificazioni ammesse, la più frequente nel periodo classico era quella dell’esistenza di un precedente
bambino ancora da allattare mentre stava per iniziare una nuova gravidanza, tale situazione si credeva potesse
provocare un inaridimento o addirittura un prosciugamento del latte materno a danno del lattante. A conferma di questa
teoria si riportava un detto del Profeta (trasmesso da Abu Dawud) secondo il quale: “Do not kill your children under
falses pretences, for the suckling of the child while the mother is pregnant has the same effect as when a horseman is
overtaken (by an opponent) and thrown off the horse” in Nazer I., Karmi H.S. e altri, Islam and Family Planning: A
Faithful Translation of the Arabic Editino of the Proceedings of the International Islamic Conferente held in Rabat
(Morocco), Dicembre 1971, Beirut, International Planned Parenthood Federation, 1974, Vol. II, 538 e 543.
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Tali erano la disponibilità e l’accettazione dell’interruzione di gravidanza volontaria entro i primi quattro mesi dalla
fecondazione, che la maggior parte dei giuristi hanafiti concordano nel ritenere legittimo per una donna compiere un
aborto senza il consenso del marito.
6
Al-Ghazali, Le livre des bons usages en matière de mariage, Parigi-Oxford, Maisonneuve-Thornton 1953, p. 90.

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possibilità per la donna di prendere un medicamento che entro i primi 40 giorni dalla fecondazione la aiuti a
espellere dal suo corpo lo sperma dell’uomo ma non il grumo di sangue.
Da ultimo, la scuola malichita appare decisamente più rigida nei confronti dell’aborto, tant’è che ne viene
vietata la pratica fin dai primi 40 giorni, anche se i giuristi sono concordi nell’approvarlo per motivi
terapeutici nel caso in cui vi sia un pericolo per la madre. Una simile rigidità deriva dalla concezione
dell’embrione quale creatura che, seppur momentaneamente priva di anima, è in attesa dell’insufflazione
divina cui è destinata per volontà di Dio.

Come si è già potuto osservare, dopo l’infusione dell’anima tutti i giuristi concordano nel vietare l’aborto, se
non a fini terapeutici. Tale opinione deriva dall’idea sostenuta dalla maggior parte dei dottori, per cui alla
madre, in quanto forma di vita già sviluppata, sia riconosciuto un valore (umano e giuridico) superiore a
quello del feto, dal momento che ella è in grado anche successivamente – all’aborto terapeutico concesso –
di generare una nuova vita. Soccorrere la madre, dunque, significa ricorrere al principio giuridico del “male
minore”7 secondo il quale, se raffiguriamo la vita come un albero, è lecito sacrificare un ramo per salvare
l’esistenza dell’intera pianta e far sopravvivere così la donna.
Tra i validi motivi per cui è possibile sacrificare la vita del feto per salvare la madre vi sono la debole salute
materna o la convinzione che la salute del lattante già esistente possa essere danneggiata da una nuova
gravidanza se la madre non si dovesse ritrovare a non poter pià allattare e il padre non fosse in grado di
pagare una balia. Tale concezione anche se è stata scientificamente superata, viene utilizzata ancora oggi
come valido motivo per giustificare un aborto terapeutico.
Esiste tuttavia una minoranza di giuristi che non ha mai accettato l’opinione comune della liceità dell’aborto
terapeutico, e ha da sempre sostenuto che l’assenza di una reale certezza della morte della madre a causa
della mancata espulsione anticipata del feto, rappresenti già di per sé un valido motivo per non legittimare
l’aborto terapeutico.

Oggi a seguito degli enormi sviluppi dell’embrionologia occidentale, parlare ancora di infusione dell’anima
appare piuttosto ridicolo, per questo qualche giurista, come l’egiziano Shaltut, ha cercato di avvicinare la
moderna teoria scientifica con la dottrina classica islamica, assimilando il concetto di animazione con quello
della percezione da parte della madre dei movimenti del feto, attribuendo a questa fase di movimentazione
del feto il nome di animazione.
Il concetto di animazione pone tuttavia un altro problema giuridico di forza/debolezza tra l’embrione-feto
privo di animazione e il feto animato: il primo in quanto privo di anima si trova in una situazione di
inferiorità, mentre il secondo, in quanto feto animato e pertanto vita nascente dovrebbe risultare più tutelato e
protetto. A questo proposito già la dottrina classica era riuscita a dare una risposta, la Shari’a difatti
considera il nascituro quale persona di cui si spera l’esistenza, garantendone specifici diritti e tutelandone

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Secondo l’opinione del noto giurista-teologo egiziano Muhammad Shaltut la legge islamica permette di ricorrere al
male minore tra due mali, per cui è certamente un crimine abortire dopo il 4° mese e l’infusione della vita, tranne nel
caso in cui sussista un serio pericolo per la vita della madre.

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alcuni interessi, quali ad esempio l’acquisizione della libertà tramite affrancamento anche separatamente
dalla madre o l’acquisto di una liberalità o nel caso si apra una successione, la legge prevede che si debba
aspettare il parto per completare la suddivisione ereditaria8.
Il feto dotato di anima viene considerato non più solamente come un essere umano in potenza, bensì come un
individuo in crescita che diviene soggetto di diritto a tutti gli effetti; l’aborto in questo stadio di crescita
dell’embrione equivale a un omicidio. I giuristi concordano nel ritenere tali diritti validi fino al momento del
parto, in cui si accertano l’essere vivo e vitale del bambino9.
Come abbiamo visto, i problemi derivanti dalla scansione della crescita del feto nei due stadi pre e post
infusione dell’anima sono sorti recentemente con la moderna teoria embriologica. Sono molti i giuristi che
contestano l’idea classica di infusione dell’anima, tra di essi Hassan Hathout, il quale rifacendosi alla
medicina moderna considera fuori luogo parlare ancora oggi di infusione dell’anima, in quanto è stato
chiaramente illustrato come non esistano frontiere nello sviluppo dell’embrione prima dei 40 giorni o prima
del quarto mese, né è possibile attribuire alla percezione da parte della madre dei movimenti del feto il
momento dell’animazione di esso, poiché è stato rilevato come già prima del quarto mese il feto si muova
parecchio nell’utero materno, senza che la donna se ne accorga. Pertanto, conclude Hathout, l’aborto deve
sempre essere vietato perché l’inizio della vita umana avviene al momento della fecondazione dei gameti con
la formazione dello zigote portatore del patrimonio genetico di entrambi i genitori. A ulteriore
giustificazione di ciò il giurista-teologo riporta un atteggiamento del Profeta il quale era solito rimandare
dopo il parto le eventuali punizioni previste per le gravide, ritenendo, sempre secondo Hathout, il feto un
essere umano a tutti gli effetti, che ha diritto alla vita e alla sua tutela.
Attualmente la maggior parte delle moderne legislazioni dei Paesi arabo-islamici sono solite tollerare e
autorizzare l’aborto, assimilandolo per analogia al coitus interruptus e alla contraccezione; pertanto si
considera lecito praticare l’aborto entro i 120 giorni dalla fecondazione, in quanto si considera che il feto non
abbia ancora assunto una vera e propria forma umana. Dopo il 120mo giorno l’aborto è praticabile solo se
autorizzato dai medici che temono per la vita della madre o se esistono pericoli per il lattante (in presenza di
un lattante). Molti Paesi ammettono la possibilità di abortire anche qualora sia accertato, attraverso le
moderne tecnologie di diagnosi prenatale, che il feto risulti essere portatore di malattie genetiche gravi o sia
affetto da gravi anomalie cromosomiche incompatibili con la vita normale.
Nel 1971 il Congresso dell’Islam di fronte alla regolamentazione delle nascite di Rabat ha riassunto le
posizioni prevalenti nel mondo musulmano circa l’aborto, affermando nelle dichiarazioni conclusive che è
opinioni concorde dei giuristi musulmani dichiarare illecito l’aborto dopo i quattro mesi se non nei casi di
salvaguardi della vita della madre. Il congresso ha inoltre ribadito come l’aborto non debba essere
considerato uno strumento per il controllo demografico poiché l’islam, fin dai suoi inizi, ha da sempre
accettato la contraccezione.

8
Le moderne legislazioni si sono adeguate alla concezione classica dei diritti da attribuire al nascituro, una legge
egiziane del 1989 garantisce pieni diritti al feto dopo l’animazione.
9
Cfr. D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita, con riferimento al sistema sciafiita, ARE, Roma 1926.

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