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UN C CLUSIVA
IN AN APITOLO
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IMA
Prima edizione settembre 2021

© 2019 Serge Latouche

Titolo originale  La décroissance

© 2021 Bollati Boringhieri editore


Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
isbn 978-88-339-3305-4

www.bollatiboringhieri.it
1.
Perché uscire dalla società dei consumi?

L’uomo non è emerso dal cosmo e può sopravvivere


soltanto in simbiosi con l’ecosistema terrestre che è la sua
matrice. E per far questo deve necessariamente metabo-
lizzarsi con il suo ambiente. Le sostanze di cui si nutre,
che utilizza o che scarta, sono il materiale con cui costrui-
sce la propria vita. Tutte le società, tutte le culture
– salvo la nostra – hanno riconosciuto questa interdipen-
denza con la natura e celebrato il ciclo della vita. Soltanto
la modernità ha portato avanti un progetto prometeico di
ricostruzione e di artificializzazione del mondo. L’arro-
ganza dell’uomo contemporaneo, con il progetto del tran-
sumanesimo, spinge addirittura la sua ambizione fino a
volersi reinventare, a ricrearsi in una nuova specie supe-
riore. Nell’universo allora tutto diventa lo strumento di
questa costruzione: materia prima, utensile, prodotto. Il
cosmo matriciale, la madre terra, in questo modo viene
violato, tradito, dimenticando che il termine materiale
proviene dalla stessa radice di mater, madre. In questo
progetto demiurgico la madre Natura, la Gaia dei greci,
la Pachamama degli indiani delle Ande viene saccheg-
giata, violentata, negata e alla fine trasformata in secchio
della spazzatura.
4 Capitolo primo

Questo delirio di ricreazione è il risultato di una dop-


pia rottura interdipendente, sia pratica che concettuale:
l’artificializzazione del mondo legata all’emergere del-
l’immaginario tecnoscientifico e la mercificazione del
mondo legata all’emergere dell’immaginario economico.
La ricostruzione del cosmo come megamacchina, nella pra-
tica contemporanea, non sarebbe possibile senza l’onni-
mercificazione del mondo, e viceversa.

1. La doppia impostura della crescita economica

La crescita organica è un fenomeno naturale e in


quanto tale indiscutibile. Il ciclo biologico della nascita,
dello sviluppo, della maturazione, del declino e della
morte degli organismi viventi, come pure la riproduzio-
ne, sono la condizione della sopravvivenza della specie
umana, che deve metabolizzarsi con il suo ambiente ve-
getale e animale. Mentre tutte le società umane hanno
giustamente elevato un culto alla crescita biologica, sol-
tanto l’Occidente moderno ha fatto della Crescita astratta
la sua religione. L’organismo economico, ovverosia l’or-
ganizzazione della sopravvivenza della società, non più in
simbiosi con la natura ma votato a un suo sfruttamento
senza vergogna, deve crescere indefinitamente, così come
deve crescere il suo feticcio: il capitale. La produttività
del capitale, risultato dell’astuzia o piuttosto dell’inganno
mercantile, e nella maggior parte dei casi dello sfrutta-
mento della forza lavoro e del saccheggio della natura, è
assimilata alla crescita delle piante. La riproduzione del
capitale e dell’economia mette insieme la fecondità e il
profitto, il tasso di interesse e il tasso di crescita. Questa
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apoteosi dell’economia del capitale sfocia nel mito


dell’immortalità della società dei consumi. È così che vi-
viamo nelle società della crescita. La società della crescita
può essere definita come una società dominata da un’e-
conomia della crescita, e che tende a esserne assorbita. In
questo modo la crescita per la crescita diventa l’obiettivo
primordiale, se non il solo, dell’economia e della vita.
Non si tratta di crescere per soddisfare i bisogni fonda-
mentali, il che sarebbe una buona cosa, ma di crescere per
crescere.
La società dei consumi è l’esito naturale di una società
della crescita. Si fonda su una triplice illimitatezza: l’illi-
mitatezza della produzione e dunque del prelievo delle
risorse rinnovabili e non rinnovabili, l’illimitatezza della
produzione di bisogni – e dunque di prodotti superflui –,
l’illimitatezza della produzione di rifiuti – e dunque
dell’inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua.

2. Le illusioni contabili del pil come misura


della crescita e del benessere

La crescita economica il più delle volte viene identifi-


cata con la grandezza statistica che la misura, il prodotto
interno lordo (pil), autorizzando in questo modo dei con-
fronti temporali e internazionali. E in genere il pil pro
capite viene presentato come l’indice del benessere, se
non della felicità, delle diverse popolazioni del mondo.
Questa pretesa è in gran parte illusoria, non soltanto per-
ché bisognerebbe tenere conto della ripartizione della
ricchezza prodotta, che influisce fortemente sulla buona
salute di una nazione, ma anche perché per valutare più
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rigorosamente questa ricchezza sarebbe necessario de-


durre dal prodotto l’ammortamento del capitale (che gli
statistici trascurano perché difficile da calcolare) e ragio-
nare in termini di prodotto interno netto; infine e soprat-
tutto perché si dimentica il costo ecologico della crescita,
l’ammortamento del capitale naturale, per utilizzare il
linguaggio degli economisti.
L’ossessione del pil, definito come la somma dei beni
e dei servizi mercantili e assimilati, fa sì che venga con-
siderata come positiva ogni produzione e ogni spesa,
comprese quelle nocive e quelle che queste ultime ren-
dono necessarie per neutralizzarne gli effetti. Jacques
Ellul osserva che
si considera qualsiasi attività remunerata come un valore ag-
giunto, generatore di benessere, mentre l’investimento nell’in-
dustria antinquinamento non aumenta affatto il benessere, nel
migliore dei casi permette di mantenerlo. Probabilmente a volte
accade che l’aumento del valore da dedurre sia superiore all’au-
mento del valore aggiunto.

In effetti, è sempre più probabile che al di là di una


certa soglia l’aumento del pil indichi una diminuzione
del benessere. Per esempio, è stato calcolato che nei pros-
simi anni l’effetto serra potrebbe costare tra i 600 e i
1000 miliardi di dollari l’anno, cioè tra il 3 e il 5% del pil
mondiale. Secondo il rapporto del Millennium Ecosys-
tem Assessment (onu) del marzo 2005, «diversi paesi che
hanno mostrato una crescita positiva in realtà sembrano
registrare una diminuzione della ricchezza, se si tiene
conto del degrado delle risorse naturali». Secondo un
rapporto dell’Università del Texas, nel 2003 soltanto gli
ingorghi stradali sono costati agli Stati Uniti 63 miliardi
di dollari in tempo perduto e in consumo di carburante.
Perché uscire dalla società dei consumi? 7

Secondo la Banca mondiale, l’inquinamento e la conge-


stione del traffico di Dakar tolgono al Senegal cinque
punti di pil. In Francia i medici del lavoro stimano il
costo dello stress al 3% del pil. Il World Resource Insti-
tute ha tentato delle valutazioni della riduzione del tasso
di crescita qualora si tenga conto dei prelievi sul capitale
naturale. Per l’Indonesia, il tasso di crescita tra il 1971 e
il 1984 è stato portato dal 7 al 4% in media l’anno, inte-
grando soltanto tre elementi: la distruzione delle foreste,
i prelievi di petrolio e di gas naturale e l’erosione del
suolo. D’altra parte, è stato calcolato che nel 1985, te-
nendo conto di un elenco non esaustivo di fattori inqui-
nanti, l’allora Repubblica Federale Tedesca ha subito
danni per il 6% del pil. Secondo le informazioni fornite
dall’Accademia delle Scienze cinese, «se fossero contabi-
lizzati i costi nascosti dello sviluppo economico legati
all’inquinamento e alla riduzione delle risorse naturali, la
crescita media del pil cinese tra il 1985 e il 2000 do-
vrebbe essere ridotta da 8,7 a 6,5 punti». Ma comunque,
si può veramente pensare che siano state compensate
tutte le perdite di capitale naturale?
Gli indici trionfalistici di crescita della produttività,
cioè del successo del progresso tecnico, che dimostrereb-
bero in modo incontestabile il progresso del benessere,
derivano spesso da trucchi contabili. Indubbiamente il
nostro cibo, grazie al produttivismo dell’agricoltura, in-
corpora cento volte meno lavoro diretto che quello dei
nostri nonni, e le nostre preziose automobili venti volte
meno di quelle dei nostri genitori, ma un bilancio com-
pleto che incorporasse i costi sociali e ambientali del si-
stema agroalimentare e del sistema automobilistico da-
rebbe risultati meno brillanti. In agricoltura, il calcolo
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dei danni collaterali (prelievo di acqua, inquinamento del-


le falde freatiche, inquinamento dei fiumi e degli oceani,
mucche pazze, febbri suine e altre pandemie), probabil-
mente porterebbe a evidenziare una contropro-
duttività della crescita analoga a quella che Ivan Illich
indicava per l’industria automobilistica, la scuola o la
medicina.
Stando così le cose, l’aumento del livello di vita di cui
pensa di godere la maggioranza dei cittadini del Nord è
sempre di più un’illusione. Sicuramente quei cittadini
spendono di più in termini di acquisto di beni e servizi
mercantili, ma dimenticano – spinti dalla propaganda
produttivista – di dedurre l’aumento ben superiore dei
costi. Questo aumento assume forme diverse, mercantili
e non mercantili: degrado della qualità della vita non
quantificato ma subito (acqua, aria, ambiente), spese di
compensazione e di riparazione imposte dalla vita mo-
derna (medicine, trasporti, svago), aumento dei prezzi
dei beni che diventano più scarsi (acqua in bottiglia,
energia, spazi verdi...). Osserva Denis Bayon:
Le nostre società occidentali si trovano da alcuni anni nella situa-
zione di un individuo che per guadagnare 3000 euro è portato ad
adottare uno stile di vita talmente contro natura che lo costringe
a spendere 2000 euro per tentare (senza speranza) di compensare
gli effetti catastrofici sulla sua salute fisica e mentale.

Questo paradosso è corroborato da tutta una serie di


indici alternativi: indice del progresso autentico, indice
della salute sociale, prodotto verde, prodotto interno
dolce in Québec ecc. Il triste record francese di consumo
di antidepressivi illustra questo circolo vizioso
in cui la crescita ci ha fatto entrare. Per sopportare uno
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stress crescente provocato dalla vita moderna (condi-


zioni di lavoro, trasporti, ambiente ecc.), i francesi hanno
bisogno di droga, che permette di crescere ancora di più.
È evidente dunque che la crescita del benessere è ampia-
mente un mito.

3. La trappola dello sviluppo sostenibile

La Commissione mondiale dell’onu per l’ambiente e lo


sviluppo pubblicò nel 1987, sotto l’egida della signora
Gro Harlem Brundtland, negli anni ottanta primo mini-
stro norvegese, un rapporto che ha preso il nome della
promotrice e in cui era definito il concetto di sviluppo
sostenibile (sustainable development). Si tratterebbe di un
tipo di sviluppo economico che consentirebbe di soddi-
sfare i bisogni presenti senza compromettere la possibi-
lità per le generazioni future di soddisfare i loro. Molto
rapidamente lo sviluppo sostenibile, o durevole, è diven-
tato un mito su cui si sono incentrate tutte le speranze
di sviluppo. Secondo la vulgata si tratta in effetti di uno
sviluppo «economicamente efficace, ecologicamente so-
stenibile, socialmente equo, democraticamente fondato,
geopoliticamente accettabile, culturalmente diversifi-
cato». Insomma la panacea! Grazie a questa qualità di
pigliatutto, il concetto di sviluppo sostenibile, con i suoi
mitici tre pilastri (ecologico, sociale ed economico), ebbe
immediatamente un grande successo. Fare appello allo
sviluppo sostenibile permetteva di essere inquadrati
senza sforzi eccessivi tra i difensori della natura.
Tuttavia, per quanto diverso possa essere dallo svi-
luppo tout court, senza aggettivi, e ancor più dalla crescita
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tradizionale, lo sviluppo sostenibile presuppone comun-


que una crescita vigorosa, anche se si pretende verde ed
ecologica. Molte persone gelose della preservazione del
pianeta e pronte a impegnarsi, individualmente o collet-
tivamente, in azioni mirate a mettere in allarme chi an-
cora pensava che la crisi ecologica fosse una fantasia,
sono cadute, sicuramente in buona fede, nella trappola
dello sviluppo sostenibile. Dopo essersi impadronite in
massa dello slogan, ne hanno poi denunciato il preteso
snaturamento, facendo così il gioco degli ecotartufi.
In realtà, il concetto di sviluppo sostenibile era carico
di ambiguità fin dall’inizio. L’aggettivo sostenibile si rife-
riva alla natura che doveva essere preservata in modo
durevole, oppure qualificava esclusivamente lo sviluppo
economico, che non può durare indefinitamente in
quanto il pianeta è per definizione finito? È evidente al-
lora che lo sviluppo sostenibile è un ossimoro, la figura
retorica basata sull’accostamento di significati opposti,
che sollecita la nostra attenzione anestetizzando però il
nostro senso critico. Il discorso di Nicolas Sarkozy, allora
candidato alla presidenza della Repubblica, all’università
estiva dei Giovani popolari a Marsiglia, il 3 settembre
2006 – e si potrebbero citare molti altri esempi –, illustra
perfettamente questa ambiguità: «Lo sviluppo sosteni-
bile – sono le parole di Sarkozy – non è la crescita zero,
è la crescita durevole». Si tratta in realtà di farci accet-
tare i danni della crescita assicurandoci contemporanea-
mente una buona coscienza ecologica.
Contrariamente a quanto sostengono alcuni suoi al-
fieri, lo sviluppo sostenibile non è stato snaturato rispetto
al suo significato e alla sua funzione originaria. Inven-
tato, secondo la leggenda, da ecologisti sinceri, il pro-
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getto sarebbe stato stravolto da imprese multinazionali


impegnate nel greenwashing e da politici senza scrupoli.
Ma questo mito, che pure è duro a morire, non regge
alla prova dei fatti. Lo sviluppo sostenibile fu lanciato,
esattamente come una nuova marca di detersivo, e messo
in scena alla conferenza di Rio del giugno 1992 da Mau-
rice Strong, miliardario canadese del petrolio e segreta-
rio del pnue (Programma delle Nazioni Unite per l’Am-
biente). L’operazione riuscì al di là di ogni speranza e
ingannò molti, compresi gli intellettuali di attac e gli
ecologisti. Dopo che lo sviluppo come concetto etnocen-
trico ed etnocida si era imposto con la seduzione, combi-
nata con la violenza della colonizzazione e dell’imperiali-
smo, compiendo un vero e proprio stupro dell’immaginario
(secondo la bella espressione di Aminata Traoré), lo
stesso è avvenuto con gli aggettivi sostenibile o durevole.
La lotta di classe e le battaglie politiche si combattono
anche nell’arena delle parole, quando si tratta soltanto
di imporre delle sfumature semantiche che possono sem-
brare minime.
Per esempio, verso la fine degli anni settanta, il sustain-
able development ha avuto la meglio sull’espressione al-
trettanto ambigua di ecosviluppo, lanciata nel 1972 alla
conferenza di Stoccolma. Questo cambiamento è avve-
nuto discretamente, dietro le quinte, sotto la pressione
della lobby industriale americana e grazie all’intervento
personale di Henry Kissinger. L’ecosviluppo, di cui si era
fatto paladino l’economista Ignacy Sachs, sembrava
troppo eco e non abbastanza sviluppo, soprattutto dopo
che i paesi del Terzo Mondo se ne erano impadroniti alla
conferenza di Cocoyoc del 1974, rivendicando un nuovo
ordine economico internazionale. Dietro le discussioni
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sulle parole si nascondono divergenze di idee, di conce-


zioni del mondo e di interessi.
Lo sviluppo sostenibile, invocato in modo incantatorio
in tutti i programmi politici, «ha come unico scopo
– scrive Hervé Kempf – quello di mantenere i profitti e
di evitare il cambiamento delle abitudini, modificando
appena la rotta». Dichiarava Laurence Parisot, allora pre-
sidente del medef:
Per noi è fuori discussione l’andare verso una qualsiasi forma di
decrescita. Il progetto che molti dirigenti di impresa vogliono
portare avanti è quello dello sviluppo sostenibile, cioè quello della
capacità di realizzare una crescita il più possibile verde, una cre-
scita durevole, e d’altra parte per far fronte alle sfide ecologiche
abbiamo bisogno di investire nelle nuove tecnologie.

Il fatto che il principale promotore dello sviluppo so-


stenibile, Stephan Schmidheiny, si sia rivelato un serial
killer è quasi troppo bello per quelli che da anni denun-
ciano l’impostura di questo pseudoconcetto. Questo mi-
liardario svizzero, fondatore del World Business Council
for Sustainable Development (wbcsd), un raggruppa-
mento dei più grandi inquinatori del pianeta, amico di
Maurice Strong ed eroe di Rio 1992, che si presenta sul
suo sito come un filantropo ecologista, altri non è che l’ex
proprietario dell’impresa Eternit, chiamato alla sbarra
nel processo sull’amianto di Casale Monferrato. L’indu-
striale condannato dal tribunale di Milano a diciotto anni
di prigione e il paladino dell’ecologia industriale e della
responsabilità sociale dell’impresa si sono rivelati la stessa
persona. Eppure l’ex ministro francese dell’Ambiente
Yves Cochet, più lucido della maggior parte degli ecolo-
gisti, aveva messo in guardia: il wbcsd, un raggruppa-
mento di industriali ansiosi di difendere i loro profitti
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allineandosi alla moda verde, non era che «un club di


criminali in colletto bianco». In seguito, dato che la
marca sviluppo sostenibile è alquanto passata di moda tra
molti industriali (meno tra i politici), in Francia si è pre-
ferito parlare di crescita verde, altro straordinario ossi-
moro. La maggior parte dei sostenitori dello sviluppo
sostenibile, tra gli intellettuali seri, si è ritirata dall’ope-
razione in punta di piedi: da Herman Daly a Nicholas
Sterne, passando per Dominique Bourg e Nicolas Hulot.
Restano ancora soltanto alcuni irriducibili.
Come dice molto giustamente Thierry Paquot, «non è
lo “sviluppo” che va reso “sostenibile”, è il “sostenibile”
che va sviluppato». Insomma, lungi dall’essere sosteni-
bile, o durevole, lo sviluppo, come il suo doppio, la cre-
scita, sono destinati a essere, nel corso della storia, sol-
tanto «un breve fuoco d’artificio».

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