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PREFAZIONE: Nel programma di Pontano c’era innanzitutto l’intenzione di onorare i grandi

generi della poesia latina e di inseguire con l’imitazione i monumenti organici riscoperti nella nuova
stagione: Ovidio, Orazio, Lucrezio e Virgilio avevano creato questi monumenti gareggiando con la
letteratura greca. A questo punto si è messo in evidenza il progetto, da parte di Pontano, di
riproporre con i “Carmina” un modello di poesia lirica dove veniva privilegiato il distico elegiaco
(insieme di due versi: esametro e pentametro) rispetto ai metri oraziani; il poeta coltivava oltre ai
tre generi adoperati da Virgilio, anche il genere mitico-naturalistico di Ovidio, convertendolo nella
sua poesia astrologica.

INTRODUZIONE
1. I “CARMINA” PONTANIANI E LA MEMORIA DEL LORO POETA
La fama di Giovanni Pontano fu legata alla sua poesia, mentre la sua figura di pensatore e
politico non ebbe molta fortuna nel periodo più maturo dell’Umanesimo italiano.
Pontano trovava un’adeguata trattazione monografica, in una classificazione distinguendo scrittori
“minori”, “maggiori” e “critici”, col metodo delle vite degli uomini illustri.
La classificazione minore corrispondeva alla mancanza, nelle storie letterarie, di un capitolo
distinto a lui dedicato. Il libro sul ‘400 di Vittorio Rossi aveva raccolto una sorta di rilancio
‘800/’900centesco della figura di Pontano che dedicava un capitolo a tutto l’Umanesimo
napoletano: un umanista meridionale che aveva lasciato un’eredità tutta in lingua latina, non
poteva che essere trattato come “minore” nella letteratura italiana. Del resto tutto il suo secolo era
stato considerato minore dalla critica dell’età romantica, da Leopardi a De Sanctis.
Lo scenario del periodo si disperdeva nella distinzione tra scrittori in lingua italiana, latina e
dialettale per una considerazione della scrittura che poteva essere poetica e non poetica, e
Giovanni Pontano, poteva prendere un posto di primo piano fra gli umanisti “maggiori” in Italia.
L’edizione critica dei “Carmina” (1902) di Benedetto Soldati, preludeva alla riscoperta del Pontano
filosofo e naturalista e della sua personalità e, mentre si stava preparando il lavoro sull’umanista
napoletano, la sua poesia trovava posto fra gli “scrittori d’Italia” di Benedetto Croce, che superava
la distinzione linguistica. Le egloghe che gli editori moderni includono nei Carmina si distinguono
dalla struttura della raccolta elegiaca (triste) e lirica, sia per la storia del testo, sia perché si
distinguono fra loro a “causa” della sperimentazione bucolica (pastorale), riprendendone l’ordine
virgiliano. Il testamento poetico di Pontano è influenzato da:

 “Eroticon” - di Strozzi
 “Hermaphroditus” - di Panormita
 “Corpus” - di Sannazaro
L’opera comprendeva una varietà di metri e di temi al monumentum di Orazio. Pontano costruiva
un percorso dal livello lirico a quello discorsivo e riflessivo; delineava uno sviluppo di amor
profano, ad un tema come quello “coniugale”. Include l’amor filiale, lamenti per la scomparsa di
persone care affidati ai “giambi”.
Segno di questa volontà d’autore, che sancisce il monumentum, sono liriche iniziali ispiratisi al
“liber catulliano” o all’avvio autobiografico delle raccolte elegiache della classicità:

 “Parthenopeus” parte con un’allocuzione al “libro”


 “De amore coniugali” con la personificazione dell’elegia “compagna” di vita e di poesia, e
prosegue con carmi (poesie) nunziali e i primi ricordi di vita coniugale.
 “Tumuli” sono avviati da un addio al canto nunziale e un programma stilistico, terminando
con l’epitaffio immaginato sulla tomba del poeta stesso.
 “De laudibus divinis” scritto per l’occasione di un sacerdozio principesco, disegna
all’interno un percorso significativo dal tema della creazione a quello della Redenzione e
dei santi.
 “Hendecasyllabi” con “figure” amiche all’inizio e alla fine con un richiamo allo svago e alla
pausa che rappresentavano.
 “Lyra” deriva da un’unione di carattere metrico, intende richiamare l’origine e il carattere
del genere classico.
 “Eridanus” raccoglie una varietà di occasioni poetiche, si distingue per l’iniziale
celebrazione del fiume reso famoso dalla morte di Fetonte, ma anche dove è nato l’ultimo
amore del poeta e per conclusione richiama la tragedia dei propri affetti familiari.
L’editoria ‘500/’600centesca coglieva gli aspetti più evidenti del messaggio lirico pontaniano, la
poesia d’amore e le naeniae che caratterizzano la figura di Pontano, mentre l’opera dell’umanista
educatore e naturalista andavano a perdersi.
Per quanto riguarda la poesia, troviamo la figura critica di Giulio Cesare Scaligero, in quanto si
dedicò all’individuazione di errori metrici e difetti nella versificazione; non passò inosservato
neanche il giudizio di Erasmo che, nonostante il pieno rispetto per Pontano, non era indifferente
alla smoderatezza del lirico.

Nell’800/’900 ai critici e lettori non interesserà il senso unitario della raccolta di Pontano, tenuta
insieme per ragioni editoriali. Un esempio è il “Medaglione” dedicato da Francesco De Sanctis
alla poesia pontaniana, che tutto voleva essere tranne che una testimonianza del contributo
dell’Umanesimo meridionale al rinnovamento poetico e civile. De Sanctis scriveva per chi poteva
ancora leggere nella Storia del Settembrini l’elogio di Pontano per aver contribuito alla
laicizzazione della cultura rinascimentale; riprendeva i toni che egli stesso aveva usato per tutta
la poesia non impegnata della letteratura italiana, dal Boccaccio idillico al ‘700 galante.

Nel secolo successivo la grande impresa dell’editore Ricciardi permetteva di offrire fra i numerosi
poeti umanisti maggiori, il testo con una traduzione di una parte della poesia pontaniana. Pontano
vi assumeva, fra i poeti umanisti, una evidente preminenza che rappresenta un momento fondante
dell’attuale critica su questo versante dell’umanesimo, specie attraverso l’Introduzione di
Francesco Arnaldi.

Importante è l’opera che evidenzia Pontano prosatore col “De principe”, la più brillante opera
etico-politica. Nel frattempo la fortuna di Pontano si divide e, mentre lo studio del corpus in prosa
va al di là dell’educazione del Principe, si affronta la storia del testo di alcune sezioni del corpus
poetico e la critica favorisce la ricezione dei classici (Catullo, Ovidio, Virgilio,Properzio e Lucrezio).

L’ultima testimonianza di una memoria profonda di Pontano è estranea alla traduzione letteraria,
critica ed editoriale. Fra le traduzioni di Ugo Foscolo emerge quella del carme degli
“Hendecasyllabi seu Baiae”, che segue la tradizione delle “Anacreontiche” col gusto rococò.
Pontano riuscì ad essere ancora attuale nel classicismo ‘700/’800centesco perché la traduzione
foscoliana si affianca ai componimenti di quest’area. Troviamo successivamente la figura di
Manzoni, autore dell’Inno sacro – “Il nome di Maria” – lettore dell’Inno pontaniano “Ad Verginem
Dei Matrem”. E’ molto probabile che Manzoni avesse prestato attenzione nei suoi Inni sacri ad un
raro esempio di poesia religiosa, ovvero il “De laudibus divinis” di Pontano, che risponde al
percorso tematico di quella parte di “Carmina” in cui va riconosciuta una traccia analoga a quella
dei “Trionfi” petrarcheschi.
Nel primo ‘800 non bisogna dimenticare una drammatica corda lirica di Pontano, appena
accennata nei “Carmina” ma presente nella conclusione della “Fortuna”. Lì Pontano aveva
meditato sulla fortuna già nel dialogo “Charon” e aveva un interesse verso l’astrologia di
Tolomeo, riscrivendo con accenti drammatici e quasi lirici il tema della lotta fra l’uomo e il fato.
Nella riflessione pontaniana predomina il tema stoico della virtù.
La riflessione di Pontano è rara nel panorama umanistico, dove predomina il tema storico della
virtù come difesa vittoriosa invece che come lotta drammatica. La riflessione finale di Pontano ci
porta all’atteggiamento vicino a quello Giacomo Leopardi nella “Ginestra”, dove parla
dell’inesorabilità del fato e la dignità dell’uomo che vi si oppone alla paura religiosa.
Questo realismo rappresentativo conclusivo del trattato, era anticipato in un’altra lettera
leopardiana, il dialogo “Caronte”, ma la riflessione sul destino dell’uomo si rispecchia nei passi
“autobiografici” del “Urania”. La conclusione del canto leopardiano scritto a Napoli, dove il Vesuvio
è simbolo di fortuna negativa, richiama un’idea pagana di eroismo e fragilità umana, che si
esprime nella conclusione della prosa pontaniana alla quale anche Leopardi attingeva per le favole
antiche.

2. L’UNIFORME VARIETÀ DELLO STILE LIRICO PONTANIANO


L’espressione della sua esuberante vita sentimentale e la molteplice vena di filosofo e
naturalista, rappresentano due momenti concomitanti dell’impegno di umanista di Pontano.
Lo “svago” che predomina nella varietà tematica dei suoi versi, non è da intenderlo come un
diversivo letterario ma, al contrario, come un momento in cui si spezza la tensione delle
occupazioni della vita. Il piacevole erotismo, il sereno amore coniugale e gli affetti domestici,
riportano l’uomo alle sue dimensioni.

Questa riflessione la troviamo alla base delle sue poesie, ne sono quasi un simbolo gli
“Hendecasyllaby seu Baiae” - che cantano il piacere della spiaggia napoletana dove il poeta
invita gli amici a godere delle gioie della vita - e “Eridanus” - dove il tema del vecchio innamorato
tocca il limite dello scherzo e la poesia diviene con l’amore sollievo e conforto – ma, aldilà di
questo tema autobiografico che non è privo di ironia, in questa tarda poesia, la galanteria e il gioco
cedono il posto all’amore, come potente forza della natura: nel “De amore coniugali” vuol essere
un casto amore familiare, con saggi consigli alla consorte, accenni alla vita intima, saluti, addii o
carmi nuziali.

Il culmine di questa ricerca è in quelle dodici “Naeniae”, con le quali termina il secondo libro e che
sfruttano fino all’estremo la tecnica del diminutivo affettuoso. Esse sembrano assorbire
l’esperienza della lirica volgare e il ritmo della cantilena popolare: dedicate al figlioletto Lucio,
rappresentano lo sforzo di far rivivere la lingua latina, trasferendola dai generi illustri della
tradizione sul piano della quotidianità, e dimostrando di reggere il confronto con la lingua
volgare – la scelta del distico elegiaco consente quest’operazione.

- La prima Nenia è la più significativa, con accordi di suoni dolci, il tema è un invito al
sonno. Ma il tono affettivo si sviluppa anche in forme più intense e più complesse: lo
scherzo della nutrice che chiama “improbulus” (furfante) il piccolo e finge di lamentarsi
della sua violenza, si libra fra l’ironico e il lascivo ed offre nello stesso tempo al poeta
l’opportunità di giocare con le parole e alludere alla cadenza del tono infantile che usano i
grandi. Le nenie si collocavano al centro della raccolta dedicata all’amor coniugale, e la
stessa raccolta, con le sue novità, sembra rispondere all’evento artistico che poco prima
aveva ispirato Poliziano nella drammatica celebrazione dell’amore casto fra Orfeo ed
Euridice. La celebrazione della famiglia Gonzaga, alla quale Pontano fu vicino, recepiva
uno dei temi centrali degli epitalami umanistici, il felice frutto del matrimonio rappresentato
dai figli.
Un’impostazione più etico-pedagogica, meno giocosa rispetto alle Naeniae, ma con quasi lo stesso
tema, era il “Quinquennius”, un’egloga composta sempre per il figlio Lucio e consistente in un
affettuoso dialogo fra la madre e il bimbo, anche questa volta sullo sfondo di un tema pedagogico.
TRAMA: Il bimbo chiede dei tuoni e dei lampi, la madre cerca di dare conforto tra baci e abbracci
ma allo stesso tempo gli incute timore parlandogli dell’orco malefico che assale i bimbi capricciosi
e disubbidienti.

Fra lo scherzoso e il patetico si muove la poesia di Pontano; anche nei “Tumuli”, dove
predomina il compianto per la bellezza e la gioia che la morte dissolve. Anche il patetico è
ravvivato dal gioco verbale, che diviene il tramite letterario di una triste considerazione sul destino
della vita. A parte il vago ricordo letterario, la vena colloquiale con cui il poeta parla ai defunti, o
parla dei defunti a chi visita le tombe, va ricondotta al fondo più autentico della personalità di
Pontano, il cui ingegno versatile è indice di profonda esigenza di umanità quotidiana, dalla stessa
che si esplica nelle forme del gioco affettuoso, del sorriso che essa può offrire negli intervalli della
sapienza.

Sul tema del gioco e del sorriso, del piacere che allevia la tensione della sapienza, Pontano
medita traendone spunto per una trattazione dell’uso della parola, come si vede nel “De
sermone”. Si spiega in tal modo quel che di letterario appare sempre nei suoi carmi, anche
quando sembrano predominare l’emozione o l’affetto; si spiega quella facilità discorsiva che
richiama soprattutto Ovidio. Veri e propri esempi di epigrammatica, di lirica, di bucolica quasi
annunciano l’ambigua proposta finale di un poemetto epico carico di riferimenti autobiografici qual
è il “Sertorius”. Si definisce così non solo quella concezione della poesia, di cui il musico ben
accolto dagli accademici dà un esempio riflettendo motivi della lirica pontaniana, ma la rinascita del
buon gusto e della buona critica. Siamo in quel clima di ritorno alla poesia classica come ritorno
alla compostezza, alla sostenutezza espressiva, alla maturità letteraria, che sono proprie dell’etica
pontaniana.

3. IL GENERE ELEGIACO E LA MEDIAZIONE DI PROPERZIO

Nella raccolta dei “Carmina” (alla quale ci siamo riferiti finora) è adottato il distico elegiaco.
L’endecasillabo falecio, il senario giambico, la strofe saffica costituiscono un’alternativa per lo
sviluppo di una tematica uniforme, nonostante la gradazione dei registri.

L’esempio di questa variabilità era ovviamente Catullo, ma la predominanza del metro usato
nell’elegia latina rappresenta una scelta di genere, ovvero il genere ‘medio’ adoperato dalla
tradizione per l’argomento del lamento d’amore e adoperato sia da Properzio nelle elegie romane,
sia da Pontano per:
 La riflessione amorosa
 Il gioco infantile
 Lo scherzo familiare
 Per l’inno religioso.
L’elegia, nella sua funzione di riflessione e lamento, era stata “scavalcata” dalla canzone e dal
sonetto che in Petrarca costituiscono una scelta consapevole di poesia minore, ma ordinati in un
certo modo da formare un messaggio di confessione e di sublimazione.

Il primo sonetto petrarchesco corrisponde, sul piano retorico, ad una richiesta di comprensione da
parte del pubblico (“Rerum volgarium fragmenta”) per il livello umile e il tema amoroso scelto
dall’autore per il suo libro; in un successivo sonetto il poeta racconta la sua solitudine, cercata per
evitare che altri si accorgano della sua sofferenza d’amore, ma ritenuta inutile perché la stessa
natura, per quanto selvaggia, si accorge del suo dolore. Quel sonetto ricalcava un’elegia di
Properzio in cui il poeta parlava dei “deserta loca”, nei quali non era possibile, a chi cercasse di
celare il proprio dolore amoroso, riuscirci, perché non c’è luogo da cui fuggire.
Pontano ricorre ad un’altra elegia properziana per confessare la sua natura di poeta d’amore e
quindi “gracilis”, per dichiarare la propria incapacità di disprezzare una poesia così semplice. Ma
nell’incipit, pur evocando l’elegia properziana che diceva della impossibilità di nascondere alla
natura i segni dell’amore, ricalcava evidentemente il sonetto petrarchesco che l’aveva imitata,
ampliando la rappresentazione della natura come aveva fatto Petrarca (monti, spiagge, fiumi e
selve).

“Haec certe deserta loca et taciturna querenti


Et vacuum zephyri possidet aura nemus.
Hic licet occultos proferre impune dolores,
si modo sola queant saxa tenere fidem.
Pro quo divini fontes et frigida rupes
(…) Et datur inclito tramite dura quies.”

“Questi deserti luoghi per un taciturno dolore,


l’aura sola di zefiro varca la tacita selva.
Qui senza danno si può svelare l’occulto dolore,
poi che soltanto le rupi sanno serbare il segreto.
(…) Ed ecco invece i fonti divini e le gelide rupi
e i selvaggi sentieri per il mio triste riposo”

Laddove Properzio aveva citato inizialmente “deserta” e “nemus” e successivamente “fontes” e


“rupes”, Pontano inizia l’elegia I variando la disposizione dei quattro luoghi menzionati da
Petrarca e introducendo “prata” per “piagge” (entrambi luoghi bassi) e “flumina” per “fonti” (quasi
sinonimi), collocandoli tutti e quattro in due versi, ma continua a imitare Properzio con una
contaminazione che dimostrerebbe la sua percezione del sottile rapporto fra i temi delle due
elegie properziane (come fra il tema petrarchesco della impossibilità di nascondere i segni del suo
dolore) e quello della confessione di essere un poeta d’amore.

“Aerii montes et mollia prata nemusque


Et vos carminibis, flumina, nota meis”

“Monti elevati al cielo e morbide piagge


e tu selva, e voi fiumi, ben noti tramite i versi miei”

Gli “Amores” si aprono con un’elegia esultante, diretta a Fannia. Il poeta napoletano inizia con
l’aggettivo “candidus” riconducibile a Properzio per la prima notte di piacere, trasferendo il
termine con uno slittamento sensuale alla bellezza della donna e “prendendo” dalla stessa elegia
di Properzio, l’espressione di esultanza per la notte di piacere: qui Pontano trasferisce l’erotismo
properziano in un linguaggio più propriamente “spensierato”, quindi lontano dalla costante
licenziosità dei versi giovanili scartati. Properzio offre l’occasione soltanto di una sfumatura
voluttuosa estranea alla locuzione che Pontano ricalca, dove la donna dovrebbe coprire la sua
gioia e dove il poeta desidererebbe raccogliersi se la donna gli aprisse la porta.

Non tanto sul piano della tematica erotica avviene l’incontro di Pontano con Properzio quanto sul
piano stilistico fra i due poeti si manifesta una sostanziale divergenza. Predomina in Pontano
(nonostante la tematica properziana) lo stile neoterico, proprio quello che si dilegua nel poeta
latino: i diminutivi, le ripetizioni, le amplificazioni effusive, la misura epigrammatica - riprendono
dalla tradizione di Catullo, di Ovidio, perfino di Marziale. In Pontano l’assunzione della tematica
properziana rivela tenuità della propria tempra poetica, rivolgendosi ai monti, ai prati, ai fiumi della
sua terra che lo hanno generato poeta leggero adattando al suo caso Properzio, dove Amore
aveva vietato al poeta di disprezzare la poesia tanto gracile non per affrontare argomenti tragici,
ma per essere gradito a Cinzia.
In un’elegia successiva torna sul “servitium” e sui “vincula” cui è soggetto, e lamenta (come
Properzio) che la fedeltà non gli è servita a nulla. L’uso di “fides” fa pensare che Pontano avesse
avuto presente anche il principio enunciato in forma ironica da Propezio; in quel caso non è da
escludere che per Propezio, Pontano si servisse di un testo che aveva fides (fede), non preces
(preghiere). Successivamente Pontano trasforma l’ansiosa domanda che Properzio rivolge a
Cinzia ritiratasi a Baia immaginando il pianto di Fannia quando si ricorderà delle dolci notti.

Questa elegia pontaniana porta il segno di Properzio proprio quando sembra allontanarsene con
un tema che il Percopo riconosceva, ingenuamente, come il primo e unico elemento della vita
reale fra tanta imitazione. La delusione d’amore spingerebbe il poeta a farsi francescano, ma il
pensiero successivo della dissoluzione con la morte ricalca ancora Properzio che predice a Cinzia
la dispersione di tutte le sue grazie, mentre lo stesso ricordo del santo umbro non è estraneo,
forse con qualche intento parodistico, all’antico poeta umbro che l’umbro Pontano cercava ora di
recuperare.
La lunga elegia I - X degli Amores pontaniani costituisce una sorta di rapsodia di temi
properziani intorno al tema fondamentale della fides e dell’unicità dell’amore. Nell’argomento
della fides Pontano riesce ad inserire perfino il tema dell’infedeltà delle dee, eppure, dopo aver
dato, come Properzio, un elenco di esempi, conclude in modo assolutamente diverso: non la
rassegnazione dell’amante, l’accettazione di una fatalità, il riconoscimento della superiore legge
dell’amore, il furore che giustifica il peccato, ma la soluzione più borghese del pentimento che
riscatta.
In Properzio, Cinzia piangeva per l’infedeltà del poeta, e questi la consolava assicurandola della
sua costanza: “dicano quel che vogliono di te, che io sono sordo, ma tu non dubitare della mia
costanza.” Questa elegia properziana si accostava a quella precedentemente evocata da Pontano
e questi vi attingeva per esprimere la promessa di una eterna fedeltà.

Gli Amores di Pontano costituiscono una singolare testimonianza della fortuna di Properzio, non
perché alcune elegie attingano al poeta latino, ma perché la raccolta porta i segni di una decisiva
trasformazione del poeta napoletano da epigrammista salace ad elegiaco sotto la spinta
dell’indirizzo properziano proveniente da Ferrara. Cinnama, la donna cantata originariamente, è
sostituita da Fannia che ripete Cinzia ed è collocata ad apertura del libro con la sua bellezza
divina, la sua porta crudele, la sua tirannia; e il poeta non può amare che lei, non può poetare
che per lei, poiché ogni tentativo di sollevare il suo canto al livello dell’epica fallisce.

L’elegia I-XVIII riprende il tema svolto nelle prime tre elegie del terzo libro properziano, pur
risolvendolo in maniera più giocosa. Properzio aveva sognato di trovarsi in Elicona e di poter
cantare le grandi imprese come En- nio, mentre Calliope lo aveva riportato alla sua genuina
ispirazione di poeta d’amore: la fama non gli sarebbe venuta che dalla poesia d’amore. Pontano
comincia allo stesso modo proponendosi di lasciare i canti d’amore per l’epica, ma
capovolgendone il senso; l’ombra properziana era quella dell’Elicona, il luogo del sogno, mentre
l’ombra pontaniana è la molle ombra dove il poeta si è ormai divertito abbastanza e che intende
lasciare. Poi cita Properzio come esempio di fama eterna acquistata con la poesia, una fama che
anch’egli si attenderebbe per essere nato nell’Umbria; intanto si fa predire la fama dalla ninfa del
suo paese natio, la quale gli porge la lira, ma scompare all’arrivo di un comico corteo bacchico.
Quindi il poeta si rassegna chiudendo l’elegia con un pensiero inedito, che attribuisce alla
consuetudo anche la disposizione artistica oltre quella all’amore, e in cui riconosciamo l’etica
pontaniana.

La constatazione di dover seguire la propria natura e la propria sorte da il via, nel libro di
Pontano, al canto di amori diversi: rispunta subito Cinnama, non mancheranno una Thalia, una
Perilla e cinquecento amori al posto di Fannia crudele (I-XXV). La ristrutturazione dei versi
giovanili risentiva del modello properziano, ma il poeta del Parthenopeus capovolgeva il senso
del libro di Properzio proprio mentre ne citava l’autorità e sembrava riprenderne un tema
ricorrente. Il poeta latino, che aveva sognato di liberarsi della passione ed aveva aspirato ad una
poesia più alta, ma che in effetti aveva acquistato la gloria col solo canto di Cinzia, diventava lui il
modello irraggiungibile: anche Pontano ha tentato di ripercorrerne l’esperienza, ma ha dovuto
cedere alla sua precedente ispirazione. Il ritorno di Cinnama e dei più leggeri epigrammi
catulliani, che nella ristrutturazione degli Amores capovolge l’ordine cronologico della
composizione, dal nuovo, unico amore al ricordo dei molteplici amori, segna anche, da parte di
Pontano, la consapevolezza del suo linguaggio fondamentalmente affettivo, effusivo e
scherzosamente incline alla sensualità. Non abbandonerà più i basiola, le duplicazioni emotive, il
lusso dell’aggettivazione, nemmeno nel De amore coniugali, che termina con le splendide neniae
dopo essere cominciato con un’elegia tutta improntata a Properzio. Eppure a Properzio risale
l’impianto stesso della raccolta di elegie sull’amor coniugale, dove il fondamento è la fides,
ovviamente consacrata in questo caso dal matrimonio.

Già nel Partbenopeus era emerso il tema dell’unicità dell’amore assieme a quello della fides. Ora,
l’invito rivolto a Cinzia di evitare il trucco e di cercar di piacere a uno solo, viene trasferito nella
prospettiva morale del vincolo cristiano; in seguito i vincla, preparati dagli amorini per legare
Properzio e riportarlo a casa, diventano i sacri vincoli che prepara Hymen. E il ferrum crudele,
che distoglie da una vita che potrebbe trascorrere piacevolmente fra il vino e i piaceri d’amore,
vengono deprecati come nemici dell’amor coniugale.
Altrove l’insistenza sulla pax nemica di Marte richiama il pacis amor deus est di Properzio, e
perfino l’elegia sull’educazione dei figli trova un supporto in Properzio stesso. La ricerca di spunti
«coniugali» fa anche prendere un abbaglio al poeta napoletano, che assume le colombe
Caonie come simbolo di perfetta union; già in Parthen erano citate le colombe Caoniae per la
fedeltà: laddove Properzio citava le stesse colombe caonie correttamente per la loro veridicità nel
predire il futuro in fatto d’amore.

4. I GENERI VIRGILIANI

Le elegie, le liriche e gli epigrammi, che costituiscono una raccolta omogenea, non esauriscono la
ricerca pontaniana di una rifondazione della poesia antica, perché le “Eclogae”, il “De hortis
Hesperidum” e il “Sertorius”, pur scritti in tempi diversi, sembrano voler completare la figura del
poeta evocando i generi della trilogia di Virgilio, rispettivamente la “Bucolica”, la “Georgica” e
“l’Epica”, che tradizionalmente segnano le tre stagioni biografiche del più grande poeta
dell’antichità.

Virgilio (come Lucrezio per i poemi naturalistici) copriva tutti i generi e i livelli dell’arte poetica.
Ma se i generi lirici fanno riferimento alla persona del poeta, un notevole riflesso autobiografico
mostrano le egloghe, tradizionalmente allusive, nell’antichità, nei confronti della stessa vita
dell’autore e delle persone a lui vicine, e perfino il poema georgico, “De hortis Hesperidum”,
rivolto ad esaltare una pianta tipica del suolo napoletano, rappresentativa della poetica
dell’umanista (la poesia sempre verde, sempre in fiore, profumata e perenne), pronta a ricordare
per giunta la villa dello stesso poeta e quella dell’amico Sannazaro, oltre tutto impegnato anche lui
nel far rivivere progressivamente la trilogia virgiliana nei generi della sua poesia.
Perfino l’epica (il genere più lontano da tentazioni autobiografiche) se vogliamo considerare tale il
“Sertorius”, per la sua struttura narrativa alla maniera dei cantari e la sua diffusa imitazione
dell’Eneide, ha una certa affinità con la lirica popolata da figure amiche, poiché il poemetto è
rivolto a celebrare i nomi degli accademici e ad introdurre la controfigura dello stesso poeta
nascosto nello stesso dialogo “Antonius”, dedicato al Panormita.

Ma alla poesia bucolica Pontano si dedicò a distanza di tempo e sperimentando forme nuove
rispetto all’egloga tradizionale e incrociando la tematica della sua lirica.
L’argomento educativo e il gusto per l’evocazione del mondo infantile riappaiono, infatti, nel
“Quinquennius”, mentre nell’egloga “Meliseus” (ripresa da Sannazaro alla fine dell’Arcadia) il
poeta fa cantare dai pastori il dolore di Meliseo - controfigura del poeta - per la morte della sua
donna, recuperando l’antico motivo della poesia come sublimazione del lamento.
Motivo che ricompare in forma diversa nel “Maeon”: lì il dolore per la moglie morta, qui il pianto
per l’illustre amico scomparso.
In “Acon”, invece, il dialogo pastorale si trasforma in un epillio (breve componimento epico) mentre
la “Coryle” contiene un altro epillio mitologico, che racconta la trasformazione della ninfa Coryle
nella pianta omonima, l’avellana. Ma nella stessa Coryle, quel breve poemetto mitologico in distici
ovidiani, contiene a sua volta un episodio della vita di Cupido, fatto prigioniero dalle famose donne
degli elegiaci latini e liberato da Ariadna.

Anche il capolavoro della “Lepidina” - composta intorno al 1496 - nella quale la struttura del
carme bucolico (il pastore Macrone e la moglie Lepidina ricordano il loro primo incontro e
manifestano il loro tenero amore) si fonde con l’epitalamio (canto nuziale), in cui sfociava il “De
amore coniugali”, ma risolvendolo in forme spettacolari, quasi scenografiche: i due pastori
assistono alle nozze del dio Sebeto con la ninfa Partenope ammirando le mitiche schiere degli
invitati e il susseguirsi degli splendidi doni.
 Per la sua ampiezza l’egloga è un vero poemetto: divisa in sette pompae (processi,
feste) diviene la celebrazione dei luoghi, della vita e della ricchezza del suolo napoletano
nella forma tipica della tradizione alessandrina. Pontano celebrava i luoghi della sua
Napoli secondo l’uso della poesia pastorale anche volgare. Confluiscono in questa
celebrazione i più vari motivi della poesia pontaniana: la trasfigurazione fantastica del
paesaggio naturale, risolto nel vagheggiamento di figure femminili dipinte con ricchezza
di colori (nucleo centrale), ma talvolta la descrizione si amplia nel breve racconto o
prevale il gusto di tradurre nel contesto dell’egloga latina la realtà quotidiana. Così
quando descrive le ninfe della città, il poeta immortala anche i luoghi cari della sua
Napoli.

 Il dialogo fra Macrone e Lepidina si alterna con canti di donne e uomini, di driadi e oreadi
(figure mitologiche greche), che celebrano l’evento gioioso ed esaltano la fedeltà
coniugale: si inserisce il canto di Tritone e della ninfa Pianuri, la quale descrive il coro
degli eroi, e il carme si conclude con un vero e proprio Imeneo (lirica classica da cantare
in coro per accompagnare la sposa a casa dello sposo) cantato da Antiniana, che alterna
il suo canto con il ritornello del coro, e mentre augura la felice unione, profetizza la
fioritura poetica che onorerà il luogo sacro a Partenope, alludendo a Virgilio e allo stesso
Pontano rinnovatore del suo canto bucolico.

 Nella varietà esuberante del carme, il tema centrale è dato proprio dalla fusione del
naturalismo bucolico col mito sensuale della fecondità rappresentato dall’affetto degli
umili sposi e dal regale imeneo. La poesia stessa è celebrata come il frutto di questa
universale legge d’amore che ha dato vita al variopinto paesaggio partenopeo, e lo stesso
poeta non può che tradurre in un mito sensuale la sua vita di poeta a contatto con la
natura che lo ispira.

Il poema georgico “De hortis Hesperidum”, in due libri - composto intorno al 1500 - sebbene si
colleghi, per le nozioni sulla coltivazione sulle quali si fonda, si pone in sostanza come la
“Lepidina” sulla scia ideale di Virgilio e, come la grande egloga, intende celebrare la bellezza del
suolo napoletano: gli agrumi, i pomi dorati che la leggenda attribuiva ai giardini delle Esperidi, sono
esaltati come ornamento delle rive napoletane, dove Ercole li avrebbe portati. Al fondo è sempre
un mito erotico: l’amore di Venere per Adone avrebbe fatto trasformare lo sventurato giovinetto
nella pianta che serba la sua bellezza e vince ogni altra pianta per il profumo, lo splendore dei suoi
fiori e il colore dei suoi frutti.
 Il carattere didascalico dell’opera viene ravvivato, secondo i modi della poesia georgica,
da digressioni mitologiche o ricordi intimi: la moglie Ariadna, che negli anni felici
godeva col poeta le gioie della vita campestre, il giardino di limoni abbandonato dall’amico
Sannazaro, ora in esilio. Ma nello stesso tempo la struttura didascalica mette in
evidenza il significato più profondamente umanistico del poema, che idealizza quasi la cura
paziente con la quale l’uomo riesce a dominare la natura e ad estrarne il frutto più bello.
Perché in definitiva il citrius (pianta), caro a Venere, ne diventa quasi il simbolo naturale,
come l’alloro rappresenta simbolicamente la virtù profetica connessa con la figura mitica di
Apollo.

 Il motivo ricorrente del poema è appunto quello dell’eternità, della meravigliosa


bellezza di questo eccezionale frutto, al limite tra il naturale e il divino. La poesia è insieme
bellezza e ambizioni future. Questa idealizzazione della natura, alla quale si
abbandonava negli ultimi anni il poeta, va ricondotta da una parte al suo interesse per
l’osservazione realistica, dall’altra al gusto della bellezza trasfiguratrice.

Il mito dell’Amore che coinvolge l’uomo assieme a tutto l’universo, diviene il simbolo stesso
della vita e che nella natura trova la sua espressione più evidente: si viene configurando nella
poesia pontaniana proprio in relazione con l’approfondimento dei suoi interessi naturalistici.
Questi maturarono nell’ambiente napoletano al contatto con una tradizione scientifica che risaliva
agli influssi arabi; al “De rerum natura” il poeta andò dedicando infatti un esame filologico che
ebbe il suo peso nella costituzione del testo in occasione della stampa cinquecentesca.
Il passo del “canto di Sertorio” è quello in cui Pontano si nasconde dietro il nome latineggiante di
Pontius per compiere un’impresa, provocando con l’aiuto di Eolo un incendio che decide le sorti
della battaglia. Non è necessario pensare all’invenzione di un proprio antenato, come è stato pur
detto, perché Pontano colloca nell’antico evento gli attuali amici latinizzando il loro nome e
confondendoli nel disordine di nomi romani e barbari dell’epoca cui si riferisce la storia. Ma la
storia stessa è scelta da Pontano con una fondamentale motivazione autobiografica, quando si
pensi che Sertorio, il ribelle che combatté contro Roma radunando in Spagna un esercito, e lo
stesso scontro fra Spagna e impero possa alludere ironicamente alla rivalità fra l’Italia
aragonese e l’impero papale. Tutto converge verso la connotazione autobiografica del poemetto
epico.

5. IL POETA DELLA NATURA E LA NATURA DEL POETA

L’Urania e i Meteora, accompagnati dagli undici libri del trattato “De rebus coelestibus”,
rappresentano uno sforzo gigantesco per racchiudere tutta la materia astrologica e metereologica
entro gli schemi letterari della poesia latina. Uno sforzo che porta il segno dell’ispirazione
umanistica non solo nella fantasia mitologica, ma anche nella prospettiva che fa di queste opere
un’indagine sul destino dell’uomo e sulla fortuna.
Una volta accettato il principio scientifico degli influssi astrali e delle norme fatali che reggono il
mondo naturale ed umano, la libertà diviene ardua e problematica; ma il poeta tenta di risolvere il
problema accettando il principio provvidenziale o mostrando di aver fiducia nella vis (potenza,
forza) dell’animo, capace di liberarsi dagli ostacoli degli influssi astrali e delle inclinazioni
psicologiche. L’idealizzazione di questa grande natura dell’universo, perfetta nel ritmo dei suoi
movimenti, si conclude con una dolorosa considerazione che il poeta trae dall’esperienza della
propria vita: la morte inattesa e prematura della figlia Lucia viene assunta, alla fine del poema, a
simbolo dell’irrazionalità che domina gli eventi umani.

Il poema “Urania” sviluppa in cinque libri tutta la materia propriamente astrologica, prendendo le
mosse dalla formazione del mondo, in cui si riflettono, combinandosi, la concezione ovidiana del
chaos e quella cristiana del Genesi, trattando dei pianeti, dei segni zodiacali e delle altre
innumerevoli costellazioni che popolano il cielo.
 I numerosi miti intervengono ad alleggerire la materia scientifica. Ad un tema
romanzesco, che trovò sviluppo negli “Astronomica” di Manilio, nelle “Metamorfosi” di
Ovidio e negli “Argonautica” di Valerio Flacco, si riconnette il mito di “Andromeda”
liberata da Perseo.
Più raro è il ricorso al mito nel poemetto sulle perturbazioni atmosferiche, “Meteororum liber”, che
sembra ambire ad un maggiore rigore scientifico nell’illustrazione delle cause e degli effetti dei
fenomeni, e che pur alla fine richiama il simbolo mitico della poesia astrologica come segno di
un’unica e complessa esperienza naturalistica. Nel libro sulla meteorologia, pur precedente
all’Urania, appare lo sviluppo di questo doloroso motivo, nel quale si risolve il grande poema della
natura. La sfera sublunare rappresenta la vera natura di fronte alla quale l’uomo si trova, incapace
di prevederne gli impulsi irrazionali e spesso incapace di frenarne gli irrimediabili danni. Il libro
rappresenta il poema della Fortuna intesa nel senso negativo del termine.

 Il libro, edito precocemente in Germania e diffuso in ambiente colto come prodotto di


scienza, non ha avuto la stessa fortuna in Italia per la scarsa apertura mitica. Non così
l’Urania, il cui nome riemerge nel classicismo romantico del secolo XIX.
 I dolorosi eventi naturali occupano gran parte della trattazione e sollecitano
profondamente la fantasia del poeta, che trova larga possibilità di svolgere lo stile
tragico nelle allucinanti scene delle catastrofi naturali, dove è presente la suggestione
del pessimismo lucreziano.
 L’incanto del fenomeno naturale sarà evocato da Pontano in un’altra pagina
autobiografica, dove il discorso sulla naturalità del sentimento religioso viene sostenuto
anche da un affettuoso ricordo paterno. Ma è visibile che in un altro passo dei
“Meteora”, dedicato ancora all’incanto di un fenomeno naturale, questa volta quello delle
stelle cadenti, in cui l’esperienza personale emerge in for ma indiretta. Anche in questo
caso il riferimento al silenzio notturno è fatto attraverso un ricordo di guerra con parole
simili. È un passo che possiamo annoverare fra gli autobiografici del poema sui fenomeni
sublunari, quasi testimonianze d’autore.

All’impegno di far rinascere i generi letterari dell’antichità rimanda l’Urania, che nasce sulla scorta
della tradizione tolemaica, ma si sviluppa in senso mitologico, a differenza del Meteororum liber
più simile ai poemi didascalici. Nel poema che descrive il cielo e le fasce climatiche del mondo
terreno si opera la conversione dalla cosmologia mitologica di Ovidio, ordinata in forma
narrativa, a quella in forma descrittiva, dove la narrazione è occasionale e riguarda i miti secondo
lo schema etiologico. L’Umanista non manca di scendere sul terreno autobiografico, e quindi
fedele al lirico e all’elegiaco, sia quando concludendo il poema evoca la morte della figlia Lucia,
sia quando allude al proprio oroscopo, passando alla prima persona nel delineare il carattere e il
destino influenzati dal segno. I passi qui presentati offrono l’occasione di richiamare un momento
della riflessione autobiografica di Pontano astrologo, che da luogo ad una questione
interessante sulla circostanza astrale della sua nascita, e documenta la sua fede astrologica, la
quale spiega a sua volta l’indugio sulla fortuna con prudente ma spietata riflessione sulle origini
del successo, fino agli ultimi anni della sua vita, quando la polemica col Pico non si attenua.
L’Urania e il De rebus coelestibus costituiscono uno straordinario sforzo per comprendere le
ragioni del destino dell’uomo, mentre il “De fortuna”, con l’attenzione prestata all’irrazionale
motivazione dell’uomo fortunato, riconducono ad una pensosa motivazione esistenziale della sua
scrittura letteraria. Ma la testimonianza più curiosa potrebbe essere quella che riguarda la
rappresentazione di sé attraverso il suo oroscopo, in cui si intravede nelle opere astrologiche.

1. Nell’Urania la data di nascita di Pontano (risale al XVIII secolo sulla base di un sonetto
che diceva “beati quelli nati il 7 maggio”, come appunto Pontano, per il loro destino di
poeti) trova riscontro nei versi relativi al segno del Toro, se si tiene presente la carriera
politica dell’Umanista. In quei versi si dice, infatti, che il nato sotto quel segno vivrà a
contatto con i grandi, dai quali gli saranno affidati compiti rilevanti, potere e comando
supremo, e che acquisterà fama con le sue azioni.

2. L’uso della terza persona in questo caso non introduce alcun indizio che Pontano si
riferisse a se stesso, come non sembrano avere un significato autobiografico altri
particolari enunciati. Questi stessi versi sono però citati nel libro quinto del trattato De
rebus coelestibus, dove l’autore si dilunga sulla congiunzione fra Toro e Capricorno, e
sul concomitante influsso di Saturno, quest’ultimo famoso per infondere lo studio
dell’antichità e dei segreti della natura specie per il ‘domicilio’ che ha nel Capricorno, e
ancora di Marte, della Luna, di Venere e dell’Ariete, quest’ultimo specificamente riferito al
desiderio di gloria. Ne emerge la rappresentazione di un ideale carattere umano e di un
grande destino di intellettuale e di uomo d’azione.

3. Nei versi relativi al Capricorno l’uso della prima persona, che scatta quando si parla
delle qualità di chi è illuminato dal sole giunto allo zenit, sembra decisamente coinvolgere
l’autore, di cui si espone, più che la sorte, la disposizione culturale a conoscere i segreti
del cielo e a raggiungere la fama col suo ingegno, a prestare il suo servigio, ad avere
posizioni di comando e a coltivare la memoria degli antichi. E’ il profilo dello scienziato
astrologo, dell’umanista e del politico, quale Pontano aveva consapevolezza di essere.

Il giorno di nascita dell’Umanista era indicato in base alla notizia data da Alessandro d’Alessandro
nel “Dies genialis”, cui non si presterà più fede, secondo la quale Pontano festeggiava il suo
compleanno alla fine del mese di Dicembre, quasi fosse nato in quel mese, sotto il segno del
Capricorno. Sulla base dei versi dell’Urania, si può sanare la contraddizione. Nella mescolanza
della casistica astrologica spicca l’oroscopo di coloro che nascono in maggio ma con la complicità
del Capricorno, in funzione di ascendente, che rimanda all’influsso di Saturno e di un segno
contiguo al Toro quale l’Ariete. Di qui la nostra supposizione che Pontano, scrivendo del segno del
Capricorno, si sentisse particolar mente impegnato a riflettere sulla storia della sua vita e sulle
disposizioni del suo ingegno, tanto da poterne parlare come del suo proprio segno e quindi della
sua natura.

CRITICA: Non tenne conto di queste pur apparenti contraddizioni, anche perché il suo interesse
non era la determinazione. Michele Scherillo, critico, non trascurò il riferimento all’oroscopo, pur
limitandosi a ricordare quel che l’Umanista dice a proposito dell’Ariete, che più esplicitamente
nell’Urania l’autore collega al proprio carattere e al proprio destino. Richiamandosi ai versi del
poema astrologico dedicati all’Ariete il critico osservava come Pontano avesse messo in evidenza
la libera bocca, il valido consiglio, il proposito incostante, la varia fortuna, la fedeltà infeconda, i
travagli non ricompensati, l’opera spesa infruttuosamente.
Cercava felicemente di interpretare la riflessione di Pontano sulla sua vita, dando ai passi del
poema il valore di una riflessione autobiografica e metteva così in evidenza un aspetto
interessante della natura e della ideologia stoica del personaggio. Era l’aspetto che più
interessò gli storici intesi a rilanciare, fra Otto e Novecento, la figura dell’umanista politico, di cui
invece proprio la rinnovata considerazione del poeta lirico, dell’autore dei dialoghi faceti e del
teorizzatore dell’arte della conversazione, avrebbero aiutato a comprendere la complessità.

NOTA SULLA TRADUZIONE

Le più consistenti antologie di versi pontaniani tradotti sono dovute a:

 Andrea Gustarelli: Giovanni Pontano, Dai “Carmina”. L’Amore coniugale, i Giambi, le


Egloghe, la Lira, gli Inni religiosi, gli Orti delle Esperidi – questo riguarda solo alcune
sezioni, tradotte in prosa per intero.
 L. Monti Sabia: Poeti latini del Quattrocento, a cura di F. Arnaldi, L. Gualdo Rosa, L. Monti
Sabia, Ricciardi – questo offre un’ampia antologia di tutta la poesia pontaniana, per
grande parte in prosa.

L’opera di traduzione di Pontano elegiaco e lirico, in misura molto ridotta, si colloca specialmente
nel secondo e terzo decennio del secolo scorso, con una varietà di criteri metrici, di cui è utile
occuparsi brevemente. Si è cercato il più possibile di completare la bibliografia delle traduzioni (a
quella lacunosa fornita da Vasoli si rifà l’edizione Ricciardi), permettendo di confrontare la fortuna
toccata alle diverse parti degli Opera in versi, e mostrando solo alcune più significative differenze
nel metodo adottato dai traduttori.

Poiché l’intenzione, come si è accennato, è di semplificare la poesia pontaniana nella varietà


e proprietà dei suoi generi, che implicano una scelta metrica, si è esclusa la traduzione in prosa,
la quale può avere il pregio di essere al servizio del testo latino in senso contenutistico, ma
tradisce uno dei maggiori impegni del poeta, che in questo caso è uno straordinario studioso della
varietà metrica e della resa ritmica, come si rileva dalla ‘poetica’ svolta, almeno a proposito
dell’esametro eroico, nell’Actius, tutta basata sugli accenti, sulla composizione sillabica della
parola e sulla sua collocazione quantitativa nella metrica del verso.

Pontano è attento soprattutto alla varietà delle combinazioni, alla velocità e lentezza dovuta
all’alternanza di dattili e spondei e quindi alla frequenza degli accenti; ed è attento anche alla
collocazione delle parole quando concludono la misura del metro o la scavalcano, e alla
collocazione specialmente dei monosillabi.

Premesso e quasi scontato, quel che si è sempre detto sulla ‘impossibilità’ della traduzione in
quanto riproduzione in altra lingua di un testo poetico, cosa che vale anche per la traduzione in
prosa, poiché non trasmette uno degli elementi fondamentali della poesia, ovvero la forma
ritmica; si è voluto così seguire il metodo che nella tradizione italiana ha regolato la metrica
barbara, cioè un’imitazione del ritmo della poesia antica secondo il criterio della metrica italiana,
fondata sulla misura sillabica del verso e sulla coincidenza fra accento tonico e accento ritmico.
Questo metodo, che ha visto una quantità di soluzioni, riesce a garantire anche quando non è
felicemente applicato da un traduttore che possa definirsi ‘poeta’ (come Foscolo): la correttezza
del significato e la gradevolezza dell’ascolto secondo la norma della lingua di arrivo, e quindi
riprodurre, sia pure tecnicamente, il livello retorico della lingua di partenza.
Particolare è il caso nelle traduzioni delle poesie di Pontano, di versioni italiane nelle quali viene
aggiunta la rima che non è generalmente della poesia classica, ma è tipica della poesia
volgare e quindi rientrerebbe nell’esigenza di salvaguardare le caratteristiche della lingua di arrivo.
Le modificazioni del testo che esige la rima possono farla considerare inopportuna; la poesia nel
caso di Pontano ha una valenza fortemente retorica, nel senso che egli, poeta e critico, fa
consapevolmente della retorica uno dei momenti costitutivi della poesia. Quest’ultima d’altronde
non è altro che una modalità dell’arte del dire: Pontano stesso distingueva il “bene dicere ad
persuadendum” dal “bene dicere” in vista dell’ammirazione o della meraviglia, considerando
rispettivamente Cicerone e Virgilio.

L’accoppiamento di due ritmi diversi come il sette/ottonario e il novenario, fa dell’esametro


italiano, prosodico e accentuativo, il pari merito di quello propriamente metrico latino. Siccome si è
cercato di riprodurre il distico elegiaco (preponderante nei “Carmina”) ricalcando il melodioso
ritmo dell’esametro mediante due emistichi(nella metrica classica, la prima o la seconda parte di
un verso), di cui il primo è un settenario o più raramente un ottonario, mentre il secondo
generalmente un novenario, più raramente un ottonario o un decasillabo.
Questo è il sistema adottato dai traduttori in versi della poesia pontaniana in distici elegiaci.
Monti Sabia, che altrove traduce prevalentemente in prosa, usa invece una coppia di ottonari
sia in luogo dell’esametro che in luogo del pentametro, ottenendo una cadenza popolare, anzi un
effetto di cantilena; in tal modo la traduttrice intendeva forse riprodurre l’alternanza fra esametri e
pentametri, senza per altro rispettare il numero dei versi.

Un caso eclatante della ricerca di un metro italiano, tipicamente popolare e infantile, sia pur
metricamente non affine all’originale, è quello delle “Naeniae”. Tale soluzione, nonostante che
l’uso ottocentesco del metro popolareggiante possa giustificare la scelta, è lontana dal tono del
testo pontaniano, che vuole invece creare un genere umile scegliendo il distico elegiaco, ma
sollevandolo a livello della più dignitosa poesia. L’esperienza di Properzio è ben presente a
Pontano.
Più plausibili sono le traduzioni delle Neniae mediante endecasillabi sciolti (Claps), oppure
disposti in modo da riprodurre visivamente il distico elegiaco (Olivieri), oppure le traduzioni che
risolvono i due emistichi, sia dell’esametro, sia del pentametro, mediante serie di settenari, non
rimati, ma disposti in modo da riprodurre visivamente il distico (Pompili).

Qui si è risolto l’endecasillabo falecio (risale all’epoca arcaica) con l’endecasillabo italiano,
laddove Monti Sabia alterna irregolarmente l’endecasillabo con il decasillabo, anche se a
volte sdrucciolo e quindi di undici sillabe, e a volte composto da due quinari (verso che ha un
accento fisso sulla quarta sillaba metrica), che raggiungono la misura di undici sillabe quando il
primo emistichio è sdrucciolo. I faleci del carme dedicato a Focilla (II VIII) sono resi da Foscolo
con un’alternanza di endecasillabi a minore (accento secondario sull’ottava) con lo sdrucciolo alla
fine del primo emistichio e un decasillabo sdrucciolo.

Si è risolto il trimetro giambico (verso della poesia greca e latina formato da tre metri) con un
endecasillabo sdrucciolo (quando l’accento cade sulla terz’ultima sillaba), di dodici sillabe e alla
fine del verso mostra regolarmente la sua composizione giambica.
Questo verso è adoperato in alcune egloghe amebee (poesie) del Sannazaro, che intendono
riprodurre la rusticità bucolica: lo stesso Pontano adopera il trimetro giambico in funzione comica
negli interventi della maschera istrionica nel Sertorius.
L’esametro classico, usato per il poema epico e quello didascalico, trova in questa scelta una
traduzione in endecasillabi italiani, in virtù dell’autorevole tradizione che nella letteratura italiana
ha inteso recuperare l’eccellenza dell’esametro epico e didascalico latino.
Una varietà di soluzioni, evidentemente riconducibili al tono diverso avvertito dal traduttore,
s’incontrava già nel secolo XVII ad opera dell’Adimari, il quale predilige le quartine o le sestine
rimate, per cui la corrispondenza con l’originale viene sacrificata spesso. Vi si distinguono la
traduzione della nenia seconda, dove gli endecasillabi sono tutti tronchi.
L’uso di distici tradotti secondo la corretta tradizione della metrica barbara è invece, oltre nella
traduzione del “De tumulis” di Monti Sabia, nelle traduzioni di Lentini, di Sciuto e di Vecchi, il
quale ultimo ha preferito disporre i quattro emistichi del distico elegiaco in modo da farli
figurare come strofette di quattro versi ciascuna.

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