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COS’E’ LA POLITICA?
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1. INTRODUZIONE: L’IMPORTANZA DELLA POLITICA
Il nostro punto di partenza non può che essere definire cos’è la politica. Si tratta di una questione
estremamente complessa, vista l’ampiezza degli ambiti che essa abbraccia.
In primo luogo possiamo dire che la politica è ciò che determina la differenza tra pace e guerra.
Quest’ultima, infatti, ha sì anche cause di altro tipo (molto spesso i conflitti sorgono, per esempio,
in seno a interessi economici), ma la decisione che dà il via al vicendevole massacro è di natura
politica.
E’ chiaro che, in un contesto del genere, la “buona” politica si propone di eliminare la violenza o di
utilizzarla solo se strettamente necessaria; il suo fallimento, invece, comporta la guerra. Basti
pensare all’abbattimento del ponte di Mostar durante la guerra civile in Iugoslavia negli anni
Novanta: si tratta di un simbolo rappresentativo della sempre maggiore frammentazione della
Iugoslavia in quegli anni. Ma la frammentazione della Iugoslavia non era l’unico esito possibile.
In secondo luogo, la politica è al centro del discrimine tra libertà e oppressione.
Un esempio molto attuale è quello dei gay pride, che come ogni altra forma di manifestazione è
protetta dai tutori dell’ordine. Molti stati occidentali, come la Gran Bretagna, predispongono
queste figure per tutelare le libertà individuali (come, appunto, quella di manifestare). Ma in realtà
l’esempio della Gran Bretagna non viene seguito in tutto il mondo: basti pensare a molti luoghi del
Medio Oriente in cui essere omosessuali è punibile per legge.
Un altro esempio è quello di Hoodward e Bernstein, i due giornalisti che rivelarono al mondo lo
scandalo Watergate negli anni Settanta. In questo caso due privati compiono un’azione che va
contro il potere costituito dal Presidente. Si tratta di un atto che, per quanto destabilizzante, è
tutelato dalla legge. Ma questo, ancora una volta, non avviene in tutti i paesi del mondo:
l’opposizione al regime non è tollerata ovunque.
Un altro esempio ancora è quello di Badawi, blogger saudita ora in carcere con l’accusa di
apostasia, quando egli stava semplicemente conducendo un’attività giornalistica che però è
apparsa scomoda alla luce dei dogmi sauditi.
Dunque la protezione delle libertà individuali non è scontata, ma sorge in seguito ad una decisione
politica.
In terzo luogo, la politica può essere la ragione della differenza tra ricchi e poveri.
Svezia e USA, per esempio, sono più ricchi di altri Stati. La ricchezza di uno Stato dipende
sicuramente dalla produzione industriale e dal fattore economico, ma anche la politica è
fondamentale.
La disparità tra ricchi e poveri può essere molto accentuata (è il caso degli USA, dove i ricchi sono
molto ricchi e i poveri sono molto poveri) o poco (in Svezia c’è una situazione più equa). Alcuni
paesi accettano la disparità, altri invece no e, conseguentemente, assumono un diverso sistema di
redistribuzione dei beni. Su tutto questo incidono fattori politici.
Avendo spiegato in breve la complessità degli ambiti che la politica abbraccia, ci proponiamo di
dare una definizione della politica stessa. In particolare analizzeremo tre celebri punti di vista
diversi, appartenenti a tre celebri uomini: Aristotele, Hobbes e Machiavelli.
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Più famiglie, quindi, si riuniscono per formare un villaggio, il quale meglio risponde alle
esigenze produttive.
Ma anche il villaggio è troppo debole: più villaggi si riuniscono formando una polis.
Aristotele, quindi, conclude che la nascita della polis è un processo assolutamente naturale: come
diceva egli stesso, “l’uomo è un animale politico”. La caratteristica fondamentale dell’uomo è che
esso vive e si realizza nella polis, esattamente come un’ape in un alveare. Se l’uomo sfugge a
questa regola, allora o è una bestia o una divinità.
Il potere paterno.
E’ il potere del padre sui suoi figli giustificato dal fatto che quanto svolto dal capofamiglia è
nell’interesse dei figli. Si tratta di un potere genetico.
Il potere dispotico.
Viene esercitato dal padrone sullo schiavo. Il padrone, infatti, possiede una fonte di
autorità, ma essa è meno naturale rispetto a quella del capofamiglia. Lo schiavo obbedisce
al padrone non perché quanto fatto dal padrone rispecchi i suoi interessi (infatti quasi mai
è così), bensì per paura di ricevere una punizione.
Il potere politico.
Se il potere paterno e quello dispotico riguardano strettamente l’ambito familiare, il potere
politico è quello di prendere decisioni che valgono per tutta la comunità. Esso presuppone
che esistano un governante e un governato, e le decisioni vengono prese nell’interesse di
tutti. Il governato concede al governante il potere politico, e pertanto l’autorità e il suo
riconoscimento si basano sul consenso.
Si potrebbe obiettare a questa definizione: del resto viene spontaneo pensare che sia
impossibile la presenza di un governante e di un governato, dato che nella polis
sussistevano rapporti orizzontali. In realtà il paradosso si spiega considerando che la
distinzione tra governante e governato è solo formale, perché nella pratica essi coincidono.
Virtù (ossia governano coloro che sono più inclini, più propensi all’attività governativa)
Ricchezza (ossia governano gli aristocratici in quanto numericamente inferiori e detenenti
la maggior parte delle risorse)
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Numero (la decisione è presa a maggioranza dalla massa, perciò tanti uomini ignoranti
possono fare più di un virtuoso)
La scelta di uno di questi criteri deve essere orientata al bene di tutti, e non a quello della singola
autorità. Considerando il criterio scelto e l’orientamento per cui è stato scelto, possiamo delineare
questo prospetto delle forme di governo:
Dal prospetto notiamo quindi che quando non si decide in favore del bene comune, il regime si
corrompe. La politica ha quindi un ruolo pacificativo.
3. HOBBES E IL LEVIATANO
L’opera più famosa di Hobbes è il Leviatano, scritto nel 1651. La data non è casuale: era appena
finita la Guerra dei Trent’Anni (conclusasi nel 1648), vissuta da Hobbes stesso con grande terrore.
Si tratta di un conflitto la cui origine va analizzata a fondo, e Hobbes stesso vi riflette su a lungo
arrivando a concludere che il motivo di fondo è di tipo religioso: sovrani diversi si erano scontrati
per imporre ciascuno il proprio credo.
Entrando più nel particolare, il problema non è la religione in sé, bensì il fatto che essa ha giocato
in politica un ruolo fondamentale che ora non può più ricoprire: la religione era, addirittura, il
fondamento stesso della politica. Tant’è che il potere del sovrano risiedeva nell’autorità divina,
filtrata dal papa.
A disturbare questa visione fu lo scossone religioso inaugurato da Lutero, secondo il quale
l’autorità politica non passa dal Vaticano.
Il Leviatano è un’opera che, pertanto, nasce dalla volontà di trovare regole per convivere
pacificamente. Il punto è che per la religione tutti gli uomini sono uguali, e non adibiti a funzioni
diverse come diceva Aristotele. La metafora dell’alveare, quindi, non è più possibile.
In primo luogo il patto sociale non è un patto di sottomissione, bensì d’unione con il
leviatano. Per necessità i cittadini si impegnano a cedere parte dei propri diritti allo Stato,
tra cui quello di usare la violenza.
Il compito dello Stato è quello di fornire un sistema giudiziario che cerchi, per quanto
possibile, di risolvere i conflitti senza l’utilizzo della violenza. Ma c’è di più: in alcuni casi lo
Stato, essendo superiore al cittadino, può fare ricorso a quella stessa violenza che i
cittadini non possono utilizzare (per esempio, il soldato è autorizzato dallo Stato ad
uccidere).
Ne deriva quindi che la prima funzione del leviatano è quella di detenere il monopolio
della violenza legittima.
In secondo luogo, il leviatano ha una funzione di rappresentanza. Non a caso, come detto
nel punto precedente, il patto sociale è un patto d’unione: il leviatano si appropria di parte
dei nostri diritti, ma la sua azione è in cambio vincolata all’interesse del cittadino. Se
l’azione del leviatano non è più finalizzata agli interessi del cittadino, quest’ultimo
acquisisce il diritto di ribellarsi.
La nascita dello Stato ha come diretta conseguenza la creazione fisiologica di due ambiti diversi:
quello pubblico e quello privato. Le leggi dello Stato servono a limitare la libertà del cittadino in
ambito pubblico. Non a caso le leggi più problematiche sono quelle che riguardano l’ambito
privato: professione di fede, orientamento sessuale e così via.
4. MACHIAVELLI
Machiavelli visse a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Tra le sue opere più importanti
troviamo il Principe e i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio.
Il punto di partenza della riflessione di Machiavelli su come la politica possa mantenere l’ordine è
la constatazione del fatto che la politica è “il regno della fortuna”, dove “fortuna” è da intendersi
come il caso, e pertanto caos e disordine. Questo stesso disordine, secondo Machiavelli, si
concretizza nella stessa storia dei regimi politici, i quali attraversano continuamente un eterno
ciclo di decadenza. Questa teoria di Machiavelli riprende in buona misura quella dell’anaciclosi
polibiana. Vediamo le varie fasi della vita di un regime politico:
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1. Ogni comunità politica nasce per via di un proprio fondatore. Si instaura pertanto la
monarchia, la quale degenera successivamente in tirannide.
2. I virtuosi, vista la pessima situazione, uccidono il re. S’instaura pertanto l’aristocrazia, che
però degenera in oligarchia.
3. La massa si ribella e s’instaura la democrazia, che però degenera nell’anarchia, che si
concretizza nella guerra civile.
4. A porre fine a questa guerra non può essere altri che un condottiero virtuoso. Questi
riuscirà a porre fine alla guerra, riportando la comunità politica in una situazione di
monarchia. Il ciclo, quindi ricomincia.
Roma, nel corso della sua storia, è passata attraverso tutte queste fasi in cui i momenti di gloria
erano sempre destinati prima o poi a fallire. Ad un certo punto, tuttavia Roma ha istituito un
sistema “misto” formato da consolato, senato e tribuni della plebe: tre poteri diversi che si
tenevano in scacco reciproco perché portavano avanti istanze di diversi gruppi sociali. Il sistema
politico repubblicano era quindi volto a garantire la conflittualità.
La grandezza di Roma non è un caso: stando a Machiavelli la decadenza può essere fermata solo
prendendo in mano le armi, e quindi con la violenza. La stessa Roma aveva trasformato un popolo
di contadini in uno di soldati.
Ne consegue che il cittadino è colui che ha la possibilità di usare le armi. E buone leggi, pertanto,
rendono disponibili ai cittadini buone armi.
Si tratta di una visione agli antipodi rispetto a quella di Hobbes, secondo il quale il diritto di
compiere violenza rimane nelle mani del leviatano. Quindi, se per Hobbes la politica deve mirare a
rendere innocui i cittadini, per Hobbes essa si basa sull’uso della violenza.
La visione di Machiavelli può sembrare in apparenza abbastanza schizofrenica, ma si spiega
considerando il concetto di virtù dell’autore. La politica, per Machiavelli, è in effetti l’esercizio della
virtù, ma questa stessa virtù è la forza umana in grado di eliminare la decadenza del regime
nell’interesse di tutta la società. E se per eliminare la decadenza del regime servono le armi, va da
se che il cittadino virtuoso è colui che usa la violenza. Ne deriva che la guerra è la forma più alta di
virtù.
L’origine della decadenza sta nella natura pigra ed egoistica dell’uomo. Per porre fine al ciclo
“normale” della politica (ossia alla naturale decadenza) è necessario che intervenga una figura
“eccezionale”: quella del principe il quale, con il suo eroismo, riesce a vincere la situazione. Il
principe può armarsi in maniera diversa: alleandosi con un altro sovrano, ma in questo caso
diventerebbe soggetto al potere straniero; pagando dei mercenari, i quali però seguono chi li paga
di più. Ne deriva che il modo migliore di procurarsi un esercito è, per il principe, quello di dare le
armi in mano ai cittadini, i quali riconosceranno il principe stesso come leader. Il compito del
principe è quindi quello di costringere i cittadini a combattere per renderli virtuosi. Del resto il
cittadino è parte della comunità politica, e parte della vita politica consiste nella difesa dello Stato.
Il modello di Machiavelli spiega anche la Rivoluzione francese: il terzo stato ha imbracciato le armi
e si è impegnato in una “distruzione creativa” che ha comportato la leva di massa.
Concludiamo quindi che la violenza, secondo Machiavelli, è l’essenza di ogni comunità politica: il
principe vince la guerra con la violenza; i cittadini diventano virtuosi con la violenza; la ricchezza si
ottiene dai nemici sconfitti con la violenza.
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5. LA POLITICA COME SCIENZA
Abbiamo visto che Aristotele, Hobbes e Machiavelli traggono conclusioni diverse su cosa sia la
politica e quale sia il suo ruolo. Ma noi vogliamo invece adottare il punto di vista dei moderni
politologi.
In particolare, dare una definizione unica della politica è troppo complesso secondo i politologi di
oggi. Dal momento che essa si evolve in più aspetti, è più conveniente scomporla in tre
componenti: politics, polity e policy. La prima è l’organizzazione dei rapporti politici; la seconda è
la comunità politica e la definizione che i suoi membri danno di essa e di se stessi; la terza riguarda
l’output, il risultato della politica, e coincide pertanto con le politiche pubbliche.
Per studiare la politica nei suoi tre aspetti, come già detto, vogliamo adottare il punto di vista dei
politologi. Ma essere politologo vuol dire analizzare la politica per quello che è, e pertanto
dobbiamo adottare una metodologia diversa dal ragionamento filosofico impiegato da Aristotele,
Hobbes e Machiavelli: si tratta del metodo scientifico. Non a caso vogliamo studiare la scienza
politica, e quindi ci dobbiamo chiedere come la politica debba essere inquadrata nell’ambito delle
scienze.
In primo luogo la scienza, diversamente dalla filosofia, non vuole solo generalizzare, ma anche
sottoporre l’ipotesi ad una verifica empirica.
In secondo luogo, la filosofia ha un intento “normativo”, ossia vuole indicare cosa sia meglio
(infatti Aristotele parla della migliore forma di governo, Hobbes della forma politica più adeguata
per mantenere la pace, Machiavelli del miglior modo in cui esercitare la virtù); la scienza politica,
invece, vuole arrivare ad una verità assodata (come tutte le scienze positiviste).
In altre parole, quello che si vuole dire considerando queste differenze tra filosofia e scienza
politica è che la prima condanna dei comportamenti e ne elogia altri, mentre la seconda cerca
semplicemente di spiegarli. Diciamo, quindi, che quando compiamo una valutazione scientifica
dobbiamo elaborare un “giudizio di fatto”, ossia constatare dei dati oggettivi ed empiricamente
confermabili; dobbiamo invece rigettare i “giudizi di valore”, che invece si rifanno ad un ideale
preesistente e che pertanto si traducono in commenti del tipo “è bene” o “è male”. Questa
distinzione tra due tipi di giudizio fu al centro dell’interesse di Hume, stando al quale i giudizi di
fatto sono gli unici dai quali si possono fare inferenze (ossia deduzioni) corrette.
Va da sé che, per inquadrare la politica nell’ambito delle scienze, dobbiamo appunto dare una
definizione di cosa voglia dire “spiegare”. Anzi, di definizioni ne abbiamo addirittura cinque:
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Abbiamo quindi sottolineato, riportando il pensiero di Hume e dando anche una prima definizione
di cosa voglia dire spiegare, l’importanza della definizione empirica. Quest’ultima serve ad indicare
caratteristiche necessarie e ricorrenti:
5.1. POLITICS
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Per politics s’intende lo studio del rapporto tra attori politici, i quali interagiscono mediante un
sistema di favori (da non intendere come corruzione). Per esempio, in democrazia l’elettore vota
(e quindi favorisce) un candidato sperando che, una volta al potere, questi faccia l’interesse
dell’elettore stesso.
Possiamo dire che il rapporto tra attori politici è basato sulla ricerca del potere. Ma che cos’è il
potere? Nella sua forma più semplice, esso è la capacità di cambiare il comportamento di un altro:
un individuo A fa compiere a B delle azioni che normalmente quest’ultimo non compirebbe.
In politica la presenza di attori più o meno potenti implica l’instaurazione di una relazione di
comando: c’è chi comanda e chi ubbidisce.
Chi comanda deve, chiaramente, rendere duraturo il proprio comando: come si mantiene
l’ubbidienza? Si tratta di un problema attualissimo nelle nostre società moderne, in cui è ben
visibile la presenza di istanze diverse facenti capo a gruppi sociali diversi.
I modi per mantenere l’ubbidienza sono:
Relazione di dominio.
Si ha quando colui che comanda esercita un monopolio su una risorsa. In questo caso la
gestione del potere è a senso unico. Ma il difetto di questo tipo di comando è che esso
dura fintanto che si detiene il monopolio su quella specifica risorsa.
Per esempio, se il governo è l’unico detentore legittimo di armi e fa della minaccia di
violenza la base del proprio comando, esso durerà fintanto che sarà l’unico detentore di
armi.
Scambio.
Si ha quando vi sono due attori aventi ciascuno una propria risorsa, che però si scambiano
reciprocamente.
Per esempio si può avere una gerarchia di potere in cui A > B > C, cioè B comanda su C, ma
è a sua volta ubbidiente ad A.
Egemonia.
Si ha quando la parte comandata accetta il dominio del comandante perché lo ritiene
legittimo, e non perché è costretta.
Il potere è poi composto da due risorse fondamentali: potestas e auctoritas.
La potestas è costituita da tutte le risorse economiche, coercitive ed ideologiche.
Le prime servono a pagare incentivi oppure a sanzionare; le seconde si basano sull’uso della
violenza (seguendo la logica “obbedisci oppure ne paghi fisicamente le conseguenze”); le terze
consistono nella capacità di stabilire quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Ma nessuna di queste risorse dura nel tempo se non c’è anche l’auctoritas.
L’auctoritas è il potere di vedere riconosciuto legittimamente il potere. Per convincere gli altri della
validità del proprio potere si possono seguire tre principi:
Principio carismatico.
Essenzialmente si obbedisce al capo perché questi possiede delle doti eccezionali. Tutte le
comunità barbare, per esempio, avevano un re che poteva anche essere identificato con la
divinità. Altri esempi più moderni sono Napoleone e Hitler (quest’ultimo addirittura
considerato il fondatore della “vera” Germania).
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Le conseguenze di questo principio sono tre:
1. I servitori sono i fedeli del sovrano: in altre parole, tutta l’amministrazione dello Stato è
gestita dagli amici del leader.
2. Il leader può fare tutto quello che vuole, in quanto “straordinario”.
3. La struttura amministrativa è un riflesso dell’autorità.
Principio tradizionale.
Si obbedisce all’autorità perché la sua figura è parte di una tradizione o è addirittura sacra.
Per esempio, a volte si obbedisce ad un re in quanto figlio di un re precedente.
In questo caso i servitori dello Stato sono al contempo anche servitori del re.
Principio legale.
Il potere è legittimato dalla legge (come nel caso delle democrazie): la Costituzione
stabilisce i ruoli, i poteri e le limitazioni di chi governa. Buoni esempi sono Obama e Trump,
leader che hanno ottenuto e ottengono obbedienza anche da chi non li ha votati.
L’amministrazione dello Stato è gestita da “burocrati”: si tratta di persone non fedeli al
sovrano o ai suoi servitori, ma solo ed esclusivamente della legge.
Abbiamo quindi visto che la politics si basa sul potere, di cui abbiamo fornito alcune nozioni. Ma
nell’analisi della politics in sé, quali quesiti ci dobbiamo porre? Essi sono principalmente tre:
Regimi politici.
Si tratta dei meccanismi politici per come sono, ossia limitati dalla Costituzione e, più in
generale, dalla legge.
Attori e processi.
Gli attori sono tutti coloro che agiscono o partecipano al gioco della politica; i processi sono
i rapporti tra attori.
E’ a più alta espressione di potere politico (in virtù del fatto che esistono gerarchie di
potere).
Lo Stato nasce con la fine del feudalesimo e, quando si impone, esclude ogni altro
competitor: lo Stato realizza quella visione politica che per noi è “normale”. Esso dà infatti
alla dimensione politica un’autonomia da quella economica o quella religiosa.
Appunto, lo Stato si trova sopra tutti.
E’ l’istituzione che detiene il monopolio legittimo della violenza.
Per istituzione s’intende un luogo dove si concentrano delle prerogative, delle funzioni. Le
istituzioni servono a dare stabilità in quanto durature nel tempo, anche se cambiano le
persone al loro interno. Per esempio, il presidente degli USA ha determinati poteri legati al
titolo, alla figura. Ma la persona cambia ogni quattro anni.
Ecco, lo Stato è quell’istituzione che non solo ha le armi, ma non accetta che altre persone
al suo interno le usino autonomamente: esso, appunto detiene il monopolio legittimo della
violenza, e pertanto definisce chi è buono e chi è cattivo, autoattribuendosi il ruolo di
buono. Se lo Stato è come il nostro, ciò non causa problemi; se è repressivo, diventa un
problema.
E’ l’arbitro di ultima istanza nella soluzione delle controversie.
In altre parole, esso si pone come pacificatore. Per risolvere le controversie serve un
apparato dotato di giudici; nel feudalesimo, invece, le controversie erano risolte dal
signore. In questo lo Stato è quindi migliore del feudo, perché si basa sull’applicazione della
legge.
E’ l’organizzazione che controlla la popolazione su un dato territorio.
Il territorio deve essere contiguo, e non distribuito “a macchia di leopardo” (se non tramite
sistemi di enclave e simili). In altre parole, lo Stato deve avere un territorio facilmente
delimitabile (soprattutto per motivi di difesa).
Il problema del territorio si può talvolta incrociare con quello dell’identità: talvolta nel
risultano dei problemi, come nel caso della Iugoslavia negli anni Novanta.
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Esso si concepisce come diverso, superiore a tutte le altre organizzazioni (Chiesa, o anche la
mafia). Lo Stato svolge solo funzioni che riguardano la sfera pubblica: la religione, per
esempio, deve essere trattata in maniera diversa a seconda dell’ambito (pubblico o
privato).
E’ autonomo, quindi sovrano. Il suo potere non è determinato da altri attori e non accetta
alcuna interferenza da parte di altri Stati. Gli Stati, però, si trovano tra di loro come se
fossero nello stato di natura. Se c’è una controversia tra due Stati, non esiste un leviatano
hobbesiano superiore al quale essi si possano rifare (infatti i tribunali internazionali, l’ONU
e simili non detengono la sovranità degli Stati), e pertanto risolvono il problema con la
violenza.
Lo Stato, entro un certo limite, è centralizzato: vale a dire che la titolarità del potere è
unica e indivisibile. Lo Stato è rappresentato, quindi, da una sola figura.
Un’eccezione parziale è la Svizzera, dove c’è uno Stato unico che si coordina con la libertà
caratteristica delle confederazioni.
La Francia, al contrario, è estremamente centralizzata: le decisioni vengono prese
praticamente solo a Parigi e si applicano su tutto il territorio nazionale (mentre in Svizzera
esse vengono prese dai singoli capoluoghi dei vari cantoni).
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1. Fallimento funzionale: lo Stato non riesce a mantenere la stabilità dei prezzi (Venezuela)
2. Fallimento culturale: lo Stato non riesce a legittimarsi agli occhi dei cittadini, e non riesce
ad ancorarne l’azione ad un principio. Pertanto viene minato il principio di sovranità.
5.3. POLICY
Per policy s’intende l’output del processo politico, pertanto è costituita dalle decisioni concrete
che vengono prese. Ne è un esempio l’insieme delle regole per decretare quando si può andare in
pensione (stipendio annuo, età, ecc.). Ma non si tratta di regole riguardanti esclusivamente
l’ambito economico: se un candidato alle elezioni propone tra i propri obiettivi quello di
legittimare la pensione solo dagli 85 anni in su, non sarà votato da nessuno. Si tratta quindi di
decisioni che hanno quindi un grande peso politico.
Lo studio della policy coincide quindi con le politiche pubbliche. Quando ne parliamo, dobbiamo
interrogarci sui seguenti aspetti:
Distribuzione costi/benefici.
Fasi del processo decisionale.
Quali sono? Chi decide se una questione deve ricadere nell’ambito della politica pubblica?
Quali questioni sono nell’interesse di tutti? Chi monitora che la decisione presa venga
realizzata?
Attori coinvolti e le loro relazioni.
Processo d’implementazione.
Si tratta del ruolo della burocrazia nell’implementazione del processo decisionale. Infatti a
volte le migliori politiche hanno effetti disastrosi proprio a causa del processo
d’implementazione.
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CAPITOLO 2:
COS’E’ LA SCIENZA?
17
1. INTRODUZIONE
La conoscenza scientifica è particolare, dal momento che essa si basa su regole precise e metodi
rigorosi, cioè codificati, replicabili. Lo scienziato in laboratorio segue tecniche e procedure
standardizzate, ed è quello che vogliamo compiere anche noi: come detto nel capitolo precedente,
vogliamo adottare il punto di vista del politologo.
Vogliamo quindi capire non solo cosa sia la politica, ma anche cosa sia la scienza. E’ proprio
l’obiettivo che ci prefiggiamo in questo capitolo.
Per studiare la scienza dobbiamo porci alcuni interrogativi:
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2.1. TRATTARE I FENOMENI POLITICI COME FOSSERO SCIENTIFICI
Vediamo ora come trattare i fenomeni politici come se fossero scientifici. Come detto nel
paragrafo precedente, il processo si compone di tre fasi:
Connotazione/Intensione.
Il significato di un termine può esplicitare più o meno proprietà di un concetto. Nella
definizione che abbiamo dato di partito possiamo aggiungere, per esempio, limiti temporali
o geografici. Tutti questi limiti sarebbero proprietà.
“Connotare” significa quindi rendere evidenti le proprietà che la definizione di per sé
presuppone.
Denotazione/estensione.
Si tratta dell’insieme di tutte le proprietà e i significati ((?))
Scala d’astrazione.
Quando definiamo qualsiasi concetto siamo liberi di attribuirgli quante proprietà vogliamo.
Per esempio, se vogliamo parlare di un concetto ad alta connotazione possiamo parlare,
per esempio, del terrorismo da intendersi come violenza generata da organizzazioni
strutturate, in Italia e negli anni Settanta.
Più un concetto è connotato, meno esso è denotato: in altre parole, all’aumentare delle
proprietà diminuiscono i referenti empirici (questo per via della sempre maggiore
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precisione del concetto). Impostando la “scala d’astrazione”, ossia il grafico della
denotazione in funzione della connotazione, notiamo infatti che:
Denotazione
Connotazione
2.1.2. OPERAZIONALIZZAZIONE
L’operazionalizzazione è il passaggio necessario dal significato al referente, e consiste
nell’attribuire un contenuto empirico ad un concetto non osservabile. Ne è un esempio la
democraticità di un sistema politico: una volta definito il concetto di democrazia, come facciamo a
determinare quale Stato è più o meno democratico?
Per misurare l’oggetto considerato, bisogna scegliere le proprietà del referente utili a misurarlo.
Per misurare con le proprietà dobbiamo innanzitutto dare una “definizione operativa”, cioè
scegliere quali sono le proprietà rilevanti da osservare ai nostri fini.
Dobbiamo poi stabilire un “indicatore”, cioè un’unità di misura che rilevi una proprietà
dell’oggetto. Gli indicatori vengono espressi sotto forma di variabili: per esempio,
un’organizzazione terroristica può avere obiettivi politici o economici, ma le variabili possono
anche essere numeri.
Quando per uno stesso fenomeno abbiamo più variabili, possiamo combinare gli indicatori in un
“indice”.
Come esempio di operazionalizzazione, possiamo considerare il concetto di qualità della vita.
Come unità d’analisi possiamo scegliere una città, una provincia o una regione: vogliamo stabilire,
per esempio, in quale provincia italiana si viva meglio. Come indicatori abbiamo molti candidati: il
reddito pro-capite, la qualità dell’aria, il taso di criminalità e strutture varie (discoteche o altro).
Quali scegliamo? Come li armonizziamo in un indice? Possiamo organizzare una tabella di questo
tipo:
20
Milano 10 583
Roma 20 567
Palermo 106 427
Napoli 107 417
Un altro esempio può essere quello del concetto della sensibilità al terrorismo, ossia quanto è
grave la presenza del terrorismo. Come unità d’analisi prendiamo tutti gli Stati del mondo. Come
indicatori abbiamo molti candidati: il numero di attentati, vittime e feriti, danni e distruzione fisica,
costo di politiche anti-terroristiche, costi non materiali (psicologici, soprattutto, e ne è una
dimostrazione il fatto che moltissimi americani andarono dallo psicologo dopo l’11 settembre).
Possiamo armonizzare i dati raccolti in una tabella come questa:
Argomento: terrorismo
Terrorismo di Stato (è il Terrorismo privato, ma Terrorismo da parte di
caso dei regimi totalitari) sponsorizzato dallo Stato attori privati (Al Qaeda,
(Iran di Khomeini) brigate rosse)
Criterio classificatore: attori implicati
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La tipologia, in linea di principio, è affine alla classificazione, ma si basa su due o più criteri.
Nel caso del terrorismo, possiamo considerare come criteri il luogo della violenza e
l’obiettivo politico. Si viene a definire la seguente tipologia:
Avendo detto cosa sono una classificazione e una tipologia, va detto che per classificare bisogna
seguire due regole.
La prima è il “criterio discriminante”, cioè bisogna dividere in classi facendo in modo che le classi
stesse che si vengono a creare siano omogenee, ossia abbiano un numero di elementi interni più o
meno pari a quello delle altre classi.
La seconda è il “criterio dell’esaustività”, cioè ogni caso deve trovarsi in una e una sola cella della
tabella ottenuta tramite classificazione. In altre parole, ogni caso non deve essere contestabile.
Per quanto riguarda le tipologie, invece, un accorgimento particolare è quello di scegliere criteri
non sovrapposti: ciò significa che i criteri in questione devono essere indipendenti l’uno dall’altro.
In altre parole, si indagano aspetti diversi del fenomeno.
Fonti secondarie.
Si tratta di fonti derivanti da altri: qualcun altro ha già raccolto i dati di cui abbiamo
bisogno. Per la misurazione del reddito pro-capite, per esempio, esistono già i dati
dell’ISTAT. Dobbiamo quindi semplicemente prendere il dato dalla fonte.
Le fonti secondarie hanno il vantaggio di essere semplici da trovare, ma lo svantaggio che i
dati sono già stati “manipolati” da qualcun altro (non necessariamente in cattiva fede,
infatti colui che ha manipolato i dati può semplicemente avere una svista oppure non
possedere una buona metodologia).
Fonti primarie/dirette.
Sono fonti che generano nuove informazioni. Possono essere interviste, analisi sul campo,
sondaggi, oppure documenti ufficiali. Un esempio particolare di fonte primaria è la
cosiddetta “osservazione partecipante”: per studiare un ambito, si lavora in quell’ambito
(per esempio, per studiare i diritti umani si diviene attivisti per i diritti umani). La filosofia
alla base dell’osservazione partecipante è semplice: chi può studiare un esperienza meglio
di chi la vive? Va però detto che l’osservazione partecipante ha un difetto: essendo il
ricercatore direttamente coinvolto, manca l’obiettività dello studio.
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Una volta raccolti, i dati dovrebbero mettere in luce variazioni concomitanti. In altre parole i casi di
studio dovrebbero presentare delle differenze per alcune proprietà, e se raccogliamo informazioni
su più proprietà dovremmo trovare delle correlazioni tra questi stessi dati. Un esempio banale può
essere una correlazione del tipo “maggiore è la povertà, maggiore è il terrorismo”. Questo tipo di
formulazione costituisce un’ipotesi.
Per ipotesi s’intende la supposizione che esista una relazione tra due fenomeni (non
necessariamente dei fatti).
Alla formazione delle ipotesi partecipano alcune variabili:
Metodo sperimentale.
Si basa su due gruppi: al primo viene dato uno stimolo, mentre il secondo rimane come
gruppo “di controllo”. Questo metodo ci permette di parametrizzare, cioè di trasformare le
altre variabili in un parametro grazie all’esperimento inaugurato dallo stimolo.
Metodo statistico.
Si basa su tanti casi di studio e fa uso di variabili numeriche. L’analisi statistica è forte non
perché spieghi bene la relazione causa-effetto in un singolo caso, bensì perchè mette
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semplicemente in correlazione due valori in molti casi. Insomma, il metodo statistico ci dice
che la nostra generalizzazione “vale un po’ ovunque”.
Però esso ha un limite: non si capisce, appunto, quale sia la causa e quale sia l’effetto.
Inoltre, le relazioni trovate in statistica possono essere spurie: in questo caso vi è
un’ulteriore variabile che determina tutti e due i valori che stavamo studiando in
precedenza.
Nel caso del terrorismo, possiamo immaginare che la relazione “maggiore è la povertà,
maggiore è il terrorismo” sia da sostituire con un’altra del tipo “più basso è il grado di
istruzione, maggiori sono povertà e terrorismo”.
Un altro esempio è “più pompieri vedo passare, maggiore è il numero di morti
nell’incendio”, da sostituire con “maggiore è la gravità dell’incendio, maggiore è il numero
di morti e di pompieri coinvolti”.
Metodo comparato.
Consiste nel confronto tra le proprietà di due o più oggetti di studio in un singolo momento
(si parla di “stato” di un oggetto) oppure in un intervallo di tempo più o meno lungo.
Abbiamo visto che i metodi sono diversi: l’analisi statistica ci fa vedere poche cose di tanti casi; il
metodo comparato ci fa vedere tante cose di pochi casi. Ma come scegliere i casi? Per esempio,
possiamo considerare:
Comparazione binaria.
Si basa su due casi, quindi si pone il problema della precisione dei criteri scelti per la nostra
analisi: più casi ho, più corretta è la nostra ricerca.
Comparazione d’area.
Si scelgono paesi che appartengono alla stessa area geografica. Si può scegliere questo
metodo perché le pressioni geopolitiche sono simili, permettendoci quindi di considerare
alcune variabili come costanti.
Per esempio, il problema della sicurezza può essere trattato così perché i problemi legati
alla sicurezza sono sempre gli stessi.
Comparazione multi-casi.
Si basa su almeno venti casi di studio.
Comparazione sincronica e diacronica.
La comparazione sincronica avviene in un dato periodo di tempo (per esempio, si può
studiare il terrorismo in vari paesi nel 2018).
La comparazione diacronica avviene nel corso di più periodi (pe esempio, possiamo
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studiare la variazione della povertà di un paese nel corso degli anni e vedere, anno per
anno, come ne risente il terrorismo).
La comparazione considera quindi sempre almeno due casi. Esiste poi lo “studio di caso”: esso
consiste nello studio, appunto, di un solo caso, ma nella maniera più profonda possibile (anche
non considerando solo dati numerici). Lo studio di caso può essere di più tipi:
Studio ateorico.
Non ci sono ipotesi da provare, solo dati da raccogliere per descrivere. E’ quello che fanno i
giornalisti.
Studio interpretativo.
Fa riferimento a categorie concettuali per descrivere un fenomeno. Per esempio, c’è chi
descrive la Lega come un partito populista o di estrema destra.
Studio di generatore di ipotesi.
Si prende in considerazione un fenomeno nuovo, lo si studia a livello descrittivo e si
formula un’ipotesi.
Per esempio, il terrorismo non è un fatto nuovo: se vengo a sapere di un attentato, posso
studiare chi ha commesso l’attacco e ipotizzare che il movente sia la povertà.
L’UE, invece, è un fenomeno completamente nuovo in quanto mai visto prima nella storia:
perché è nata? Perché le condizioni della sua nascita non si sono manifestate altrove?
Studio di controllo di una teoria.
Porta alla corroborazione di una teoria o alla sua smentita.
Analisi del caso deviante.
Il caso deviante è quel fenomeno che tradisce pienamente un’aspettativa. Per esempio, la
NATO è un caso deviante perché tutti accettavano l’idea che le alleanze tra Stati nascessero
in nome di un nemico comune: la NATO, invece, continua ad esistere anche dopo la fine
dell’URSS.
La verità, di fronte a così tanti metodi, è che in realtà non esiste un modo migliore di controllare
una teoria. A volte è meglio addirittura combinare metodi.
Osservano alcuni fenomeni e ne trascurano altri (infatti solo alcune variabili di quelle
raccolte durante la ricerca sono effettivamente utili).
Sono necessariamente generali (cioè rendono conto di alcuni fenomeni o casi di fenomeni.
Inoltre, esse sono composte di varie parti:
27
L’approccio metodologico.
Per esempio, si possono preferire analisi quantitative oppure più analitiche (di un discorso,
con l’osservazione partecipante, con interviste e così via).
Capire la letteratura scientifica per paradigmi ci aiuta ad anticipare i punti di partenza di vari
autori.
I paradigmi si sostituiscono con il tempo. Ma le teorie e i paradigmi permettono che il sapere sia
cumulativo?
Popper dice di sì, ma anche che le teorie funzionano solo fino ad un certo punto. Nessuna può
essere comprovata al 100%, ma al massimo corroborata. Se anche un solo caso su centinaia è
deviante, la teoria va in crisi. In questo senso Popper fu influenzato da Einstein.
In generale, fino al Novecento i positivisti dicevano che basta osservare empiricamente per
indurre, e quindi capire il mondo: Popper critica, appunto, l’induttivismo.
Fino al Settecento, in Europa si credeva che i cigni potessero essere solo bianchi. Questa teoria è
stata corroborata per secoli, ma con la scoperta dell’Australia si è scoperto il cigno nero. Le teorie
procedono quindi da generalizzazioni astratte, e solo dopo vengono messe alla prova.
Tali teorie nascono per risolvere un problema e partono da un’ipotesi la cui validità deve essere
provata empiricamente. Ma il controllo empirico, ad un certo punto, fallisce, e si ritorna quindi al
punto di partenza.
Stando a Popper, quindi, le ipotesi possono essere solo falsificate. Per migliorare la teoria che ha
fallito è necessario elaborarne una più generale, cioè che ampli il numero di variabili intervenienti
spiegando sia il caso “normale” che l’ormai ex-eccezione. Schematizzando questo ragionamento, si
viene a creare il seguente ciclo:
Problema
L’idea di Popper non è quindi quella di cancellare completamente i ragionamenti del passato, ma
amplificarli e lavorarci su. Il fallimento delle teorie, paradossalmente, è la chiave del progresso.
Secondo Kuhn, invece, la scienza si sviluppa seguendo varie fasi che fanno parte di una dicotomia.
Nella “scienza normale” gli scienziati seguono il paradigma, una tradizione affermata, e ampliano
con esso la conoscenza. Poi si ha la “scienza straordinaria”, cioè dei momenti in cui chi studia
critica il paradigma e mette in discussione le teorie precedenti.
Ogni scienza ha un periodo pre-paradigmatico, in cui vi sono tante proposte di paradigma che
competono tra di loro. Alcuni paradigmi sapranno spiegare meglio la realtà di altri.
Più avanti nel tempo, chi farà scienza si affiderà a questi paradigmi (ormai affermatisi) come se
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fossero veri e propri dogmi.
La scienza normale ha il vantaggio di favorire il dialogo, ma il difetto che chi non si conforma al
paradigma dominante viene bollato come eretico. Il paradigma dominante, però, prima o poi non
riuscirà a spiegare un’anomalia. Il paradigma entra così in crisi, e ne consegue la rivoluzione
scientifica, con la quale nascono paradigmi nuovi che adottano nuovi punti di vista rispetto al
paradigma della tradizione precedente (la quale finisce in obsolescenza).
Ne consegue che quello che pensavamo di sapere in un momento precedente ora non funziona
più: non vi è quindi un vero progresso sulle spalle delle teorie passate, ma ogni volta si riparte da
zero.
Paradigma razionale
Paradigma (neo)istituzionalista
Paradigma culturale
L’attore economico è razionale, cioè calcola accuratamente costi e benefici (si parla
addirittura di homo economicus). L’attore politico è anch’egli razionale: cerca di votare per
il candidato più conveniente per gli interessi dell’attore stesso.
I fenomeni politici possono essere spiegati alla luce del comportamento del singolo, il quale
è libero. Nel complesso, il risultato finale di un comportamento in politica è la sommatoria
delle scelte dei singoli individui.
Questo tipo di osservazione secondo cui tutto può essere spiegato considerando il singolo
individuo (e non il risultato collettivo, che è invece un aggregato formato dalla semplice
somma dei singoli comportamenti) viene definito individualismo metodologico.
Vista l’idea generale, va anche detto che il paradigma razionale si basa su alcuni assunti:
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L’individuo costituisce un attore fondamentale della società.
In altre parole, molti comportamenti di peso sono individuali, come le scelte in Parlamento.
Gli elettori agiscono in modo razionale ed egoista.
Per quanto riguarda la razionalità, gli elettori dispongono di informazione perfetta: sanno la
differenza tra un partito e un altro e sono consapevoli di cosa comportino le proprie azioni.
Pertanto ogni attore, nel prendere decisioni, prevede i risultati delle proprie possibili azioni
e crea un ordine di preferenze in base ai vari outcome possibili.
Questo ordine di preferenze –il quale rientra nella sfera dell’egoismo- deve essere stabile,
coerente (cioè basato su un unico criterio) e transitivo (cioè, se A è meglio di B e B è meglio
di C, allora necessariamente A è anch’esso meglio di C).
Le preferenze degli attori sono esogene, cioè al di fuori della nostra comprensione.
Infine, va detto che l’oggetto del paradigma razionale è il comportamento degli attori. Le azioni
compiute dagli attori possono essere di tre tipi:
Azioni individuali
Azioni interattive
Azioni collettive
A vuole spendere poco, quindi la scelta da lui preferita è $10. Supponendo però che egli sia
obbligato a scegliere tra le altre due opzioni è comunque chiaro che per A $15 sarebbe
preferibile a $25.
Quindi l’ordine di preferenze di A è $10 -> $15 -> $25
B è per la via di mezzo, quindi la scelta da lui preferita è $15. Ma supponendo che egli sia
obbligato a scegliere tra $10 e $25, quale sarebbe la sua preferita? Probabilmente $10,
perché è più vicino a $15 rispetto a $25.
Quindi l’ordine di preferenze di B è $15 -> $10 -> $25.
C vuole spendere tanto, quindi la scelta da lui preferita è $25. Il suo ordine di preferenze,
pertanto, è $25 -> $15 -> $10.
Confrontiamo ora le proiezioni di spesa due alla volta e segniamo chi preferisce quale proiezione
in base al proprio ordine di preferenze:
A e B come attori
Pari e dispari come strategie
Ora decidiamo i payoff in maniera del tutto arbitraria. Si consideri il seguente grafico:
P +4; -4
B
p D -3; +3
A
d P +2; -2
B
D +1; -1
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Essenzialmente il grafico mostra i payoff determinati dalla risposta di B alla mossa di A. p e d sono
le possibili mosse di A, mentre P e D quelle di B. I numeri separati da punto e virgola, invece, sono i
punti: in ogni coppia il numero prima del punto e virgola è il punteggio di A, l’altro è quello di B.
Immaginando che questi siano, appunto, i payoff, cerchiamo di determinare quale strategia sia
migliore (giocare pari o giocare dispari). Per farlo ricorriamo alla cosiddetta “strategia del
maximin”, volta a minimizzare la perdita. Riportando i vari payoff in un grafico più ordinato,
abbiamo:
B
P D
A p +4; -4 -3; +3
d +2; -2 +1; -1
Se gioca pari, +4 e -3. Teniamo a mente -3, che è il peggiore tra i due.
Se gioca dispari, +2 e +1. Teniamo a mente +1.
La strategia migliore per A per minimizzare il danno è quindi quella di giocare sempre dispari.
Per B, i risultati possibili sono:
B
C NC
A C -1; -1 0; -10
NC -10; 0 -5; -5
B
C D
A C 3; 3 1; 4
D 4; 1 2; 2
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cercheranno di darsi la colpa a vicenda: in questo caso, si verifica il risultato 2; 2. Questo risultato,
ossia il peggiore per entrambi i giocatori al contempo, viene definito “risultato paretottimale” o
“equilibrio di Nash”.
Il risultato 2; 2 nasce quindi da un incentivo difensivo fornito ad entrambi i giocatori: ciascuno dei
due vuole evitare di essere fregato. Ma vi è anche un incentivo offensivo: se uno dei due giocatori
riesce a convincere l’altro a cooperare, lo può fregare.
Come migliorare e ottenere, quindi, la cooperazione reciproca? L’unico modo è reiterare il gioco
un numero infinito di volte: se uno dei due giocatori perde, un domani potrebbe ricapitare una
situazione simile in cui si sarà più pronti dopo aver imparato dai propri errori precedenti.
La strategia migliore, in ogni caso, è quella del “colpo su colpo”: la prima volta si coopera; le altre
volte si replica la mossa dell’avversario.
B
C D
A C 3; 3 2; 4
D 4; 2 1; 1
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Analizziamo le combinazioni:
B
Cinema Stadio
A Cinema 4; 3 2; 2
35
Stadio 1; 1 3; 4
I risultati preferibili sono 4; 3 (andare entrambi al cinema) e 3; 4 (andare entrambi allo stadio),
perché uscire insieme è comunque meglio che uscire da soli: in questi casi uno dei due è
felicissimo perché va dove vuole e con chi vuole; l’altro non va dove vuole, ma solo con chi vuole.
2; 2 e 1; 1 sono i risultati di peggiori, perché né A né B sono in compagnia l’uno dell’altro. E’ quindi
necessario coordinarsi per riuscire ad andare nello stesso posto.
In questo caso i punti di equilibrio sono 4; 3 e 3; 4.
Il problema fondamentale di questo gioco non è più, quindi, quello della coordinazione, bensì
quello della cooperazione. Il punto non è quindi costringere l’altro a fare quello che si vuole a tutti
i costi: gli interessi in comune sono di più rispetto a quelli in conflitto. Ne deriva una minore
conflittualità rispetto a quella che abbiamo trovato negli altri giochi: A può anche accettare un 3; 4
ben volentieri, così come B può accettare un 4; 3.
La battaglia dei sessi è un esempio banale, ma spiega molti comportamenti reali.
Gli standard tecnici si basano su questo gioco: alcuni, per dirne una, elaborano standard comuni
per i prodotti agricoli (fertilizzanti permessi, ecc.) comunicando reciprocamente senza una reale
conflittualità.
Per esempio, USA e Canada hanno sistemi agricoli diversi, con prodotti conseguentemente
anch’essi diversi. Per definire “biologici” i prodotti scambiati tra i due Stati quindi, vi sono visioni
diverse da parte di ciascuno Stato: vi è pertanto un conflitto. Ma esso non è sufficientemente
grande perché venga meno un accordo.
Costi decisionali.
E’ il tempo impiegato a raggiungere la decisione comune. Per esempio, se in ambiente
universitario si discute dell’utilizzo del quarto d’ora accademico e uno studente non è
d’accordo, la decisione salta e bisogna ridiscutere tutto quanto.
Costi esterni.
Si tratta dei costi in termini di tempo e denaro necessari per far rispettare la decisione
presa. Se si decide che il quarto d’ora accademico è da porre all’inizio della lezione e una
persona sola non vuole che sia così, tale persona va convinta o costretta.
Possiamo tracciare un grafico dei costi in funzione del numero di decisori:
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Costi Costi decisionali
Costi esterni
N° decisori
Se una decisione viene presa in maniera non democratica i costi decisionali sono minimi, ma quelli
esterni sono massimi. Viceversa nel caso della democrazia.
I due costi hanno quindi il problema di avere andamenti opposti: qualunque criterio si scelga non
sarà mai perfetto.
Esistono decisioni dal forte impatto. Per esempio, per fare cambiamenti alla Costituzione non
basta la maggioranza relativa: ci vuole ben di più. Questo perché la Costituzione determina le
regole stesse della politica. Quindi, per esempio, snellire il processo di approvazione di una legge è
difficile.
Esistono, poi, decisioni dall’impatto relativamente limitato, come alcune politiche pubbliche.
In Unione Europea le decisioni vengono prese all’unanimità anche se gli Stati che non approvano
non sono molto importanti (per esempio, Cipro e Malta, che hanno un PIL basso, sono considerati
pari della Francia in questo senso).
Alcune decisioni possono infatti portare vantaggi nel breve periodo, ma svantaggi nel lungo
periodo: per esempio, partecipare ad una missione militare troppo lunga. Non intervenire
in missione, quindi, comporta quindi costi non voluti nel breve periodo, ma vantaggi nel
lungo periodo. Ma così non è stato nel caso del Vietnam.
Se ogni scelta è razionale, allora della ragione non ce ne facciamo nulla.
Le scelte razionali non possono sempre essere espresse in numeri (per esempio entrare in
guerra alleandosi con uno Stato A o uno Stato B).
Gli attori, secondo gli assunti del paradigma razionale, sembra quasi che sappiano
perfettamente quello che accadrà dopo aver compiuto una scelta. Ma nessuno può
prevedere esattamente il futuro: molto spesso si verificano conseguenze irrazionali e
inattese. Per esempio, l’intervento in Afghanistan contro il terrorismo ha aumentato il
numero di terroristi.
L’approccio razionale non si basa solo sui fini dell’attore, ma anche sui mezzi e la loro
coerenza con l’obiettivo. Per esempio, Bin Laden voleva uccidere delle persone, e quindi
sarebbe stato più razionale se, per raggiungere il proprio scopo, avesse fatto scelte diverse
in termini di mezzi.
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L’assunto del principio razionale è che ogni attore sappia tutto quello di cui c’è bisogno. Ma
molto spesso dei dettagli vengono nascosti in partenza ai giocatori.
Il secondo è quello delle critiche alla teoria dei giochi:
Molte delle decisioni che prendiamo derivano da condizionamenti esterni: per esempio,
molto spesso le mode stabiliscono come ci vestiamo.
L’individualismo è un approccio “riduzionista”, cioè non riesce a spiegare alcune
circostanze. Per esempio, secondo il paradigma razionale attori aventi preferenze diverse
prenderanno sicuramente decisioni diverse; ma la realtà dimostra che a volte prenderanno
le stesse decisioni.
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Le regole formali sono organizzazioni nazionali ed internazionali, nonché le leggi (quindi
rientrano nella categoria della formalità la Costituzione, l’Unione Europea, la World Trade
Organization, per esempio)
Le regole informali sono essenzialmente prassi e abitudini. Per esempio, richiamare il
proprio ambasciatore da uno Stato ha un significato. Un altro esempio è il
“multilateralismo”, ossia prendere decisioni congiunte consultandosi prima.
Chi fa parte delle istituzioni agisce seguendo dei ruoli: gli attori all’interno delle istituzioni possono
fare solo alcune cose. Perciò le istituzioni plasmano il loro comportamento.
Le istituzioni hanno tre effetti fondamentali:
Istituzionalismo razionalista.
Si rimane fedeli al paradigma razionale, integrandolo con l’istituzionalismo.
Istituzionalismo sociologico.
L’idea di base è che le istituzioni non limitano il comportamento, ma vi danno un
significato.
Istituzionalismo storico.
Si poggia sul ragionamento per cui le istituzioni sono stabili nel tempo –cioè continuano ad
esistere- ma si evolvono. Una scelta presa in un dato punto nel tempo, quindi, potrebbe
comportare una limitazione delle scelte nel futuro.
Le istituzioni danno un significato alle cose (e alle azioni). Non c’è alcuna azione che non
abbia significato se non c’è un’istituzione che ci consenta di comprenderla.
Per esempio, un omicidio può essere un atto eroico in guerra; in tempi di pace è un
crimine. Per analogia, un intervento armato può essere visto come operazione di pace.
L’azione rimane identica, ma il suo significato varia in base al contesto. Le istituzioni
contano quindi più delle azioni, e definiscono gli interessi degli stessi attori.
Logica dell’appropriatezza.
Gli attori interagiscono tra di loro, e la struttura delle loro preferenze dipende
dall’interazione. In questo senso gli istituzionalisti dicono che le istituzioni sono il
framework e stabiliscono per ogni contesto quali atteggiamenti sono appropriati. Secondo
l’approccio sociologico, gli attori si comportano in modo coerente con la propria identità:
l’attore politico si comporta in modo razionale coerentemente con la propria immagine.
Nel 2004 nell’UE si è passati da 15 a 25 Stati. In seguito a quale ragionamento è stata
concessa la possibilità di accedervi, visto che comporta un grande costo economico? La
decisione deriva dalla logica dell’appropriatezza, perché gli Stati dell’UE si percepivano
come “rami cittadini del mondo”, ossia avevano stabilito la propria identità di “buoni vicini
di casa” e pertanto non potevano escludere gli Stati dell’Europa centro-orientale.
Istituzioni e diffusione delle norme.
Per esempio, la comunità internazionale ha fatto grande pressione sul Sudafrica in merito
alla questione dell’Apartheid. L’istituzione influenza l’attore modificandone i filtri cognitivi.
41
Ecco un esempio che spiega bene il punto di vista del neoistituzionalismo sociologico:
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stato.
Sistema pensionistico retributivo vs. contributivo ((?))
44
Il paradigma razionale parte dal comportamento dei singoli attori, quello neo-istituzionalista dal
contesto istituzionale in cui gli attori operano. Il paradigma culturale, invece, parte da fenomeni
non materiali che sono la causa ultima dell’agire degli attori. In estrema sintesi vogliamo proporre
3 considerazioni. Che valore diamo alle idee? Come le pesiamo?
Idee.
Ne è un esempio il comunismo, secondo cui ci sono fenomeni economici che comportano
azioni politiche. La collettivizzazione è il fine ultimo della politica: la società più uguale è la
migliore.
Il liberalismo, invece, sostiene che la politica nasca per tutelare le libertà individuali e non
debba interferire con esse: l’individuo è superiore alla società. Conseguentemente, lo stato
non deve intervenire nel mercato.
Tutte queste idee hanno portato allo sviluppo di un sistema politico, di politiche pubbliche
e così via.
Valori.
Sono le varie convinzioni di cosa sia giusto o sbagliato. Ne è un esempio lo scontro, negli
anni Novanta, tra aiuto umanitario e sovranità ((?))
Credenze condivise.
Sono i significati che gli attori politici danno alle azioni e ai ruoli degli altri attori. La bomba
atomica coreana, per esempio, non è solo un ordigno, ma ha un valore (è un esempio visto
anche nel paradigma istituzionalista). Gli attori politici, in altre parole, arrivano a
condividere delle convinzioni.
Un altro esempio è l’intervento statunitense in Kosovo, il quale non spiega alla luce di
interessi economici: gli USA vennero convinti a partecipare in quanto “nazione
indispensabile”, cioè vi era la convinzione che nessuno all’infuori degli USA fosse in grado
di risolvere la situazione.
I concetti di idee, valori e credenze condivise sono stati riassunti nel macro-concetto di “cultura”,
elaborato negli anni Sessanta. Noi spieghiamo comportamenti politici riferendoci alla cultura
politica o civica degli attori. In questo modo possiamo spiegare come mai in alcuni stati c’è la
democrazia e in altri no. In altre parole, la democrazia c’è quando c’è un certo tipo di cultura, e
non quando è conveniente averla (ragionamento proprio del paradigma razionalista).
La cultura come variabile indipendente è utile, quindi, per spiegare le forme di governo. Ma poi è
utile anche per spiegare certe politiche pubbliche. Per esempio, Patman prende in esame il caso
dell’Italia: ci sono politiche pubbliche prese a Roma e applicate su tutto il territorio nazionale. Ma
queste politiche pubbliche hanno un output diverso di regione in regione, di provincia in provincia.
Patman parla del “capitale sociale”, prendendo le regioni come unità di analisi: dove c’è il capitale
sociale più elevato le politiche pubbliche hanno output maggiore. Questo capitale sociale è simile
alla cultura, e serve quindi a spiegare le differenze tra gli output di una politica pubblica.
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Patman si chiede anche perché la partecipazione politica riscontri affluenza maggiore in alcune
circoscrizioni piuttosto che in altre.
Il paradigma culturale è quindi importante da studiare perché:
Componente cognitiva, che riguarda le conoscenze che le persone hanno della politica.
Se volessimo formulare una domanda avente per risposta la componente cognitiva,
sarebbe “Quanto conosco io della politica?”.
Immaginando di dover operazionalizzare questa variabile dovremmo utilizzare degli indici,
pensando per esempio a chi è al potere come primo indicatore. Io conosco a quale titolo è
al potere colui che è al potere? Cioè, come mai il primo ministro ha i suoi poteri? Per
elezioni o per altri motivi?
Possiamo quindi dire che la componente cognitiva, riguardando informazioni oggettive, si
può misurare come “alta” o “bassa”: una persona può avere un’alta o una bassa
conoscenza dei meccanismi della politica.
Componente affettiva, che riguarda l’atteggiamento di chi risponde nei confronti della
macchina politica.
Si tratta di impegno o disimpegno, attrazione o meno. Se dovessimo elaborare una
domanda la cui risposta sia la componente affettiva, sarebbero “Come faccio a partecipare
alla politica? Votando, facendo manifestazioni o candidandomi alle elezioni?”
Questa dimensione è quindi legata non solo alle informazioni che si hanno, ma anche al
proprio interesse e comportamento. E’ una scelta d’istinto.
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Quindi possiamo dire che la componente affettiva si può misurare con “partecipazione” o
“non partecipazione”.
Componente valutativa, ossia il giudizio che si dà della politica.
La domanda fondamentale in questo senso è “La politica è solo una cosa disonesta, in cui ci
si sporca le mani? E’ un male o c’è anche del bene?”
Una volta presa coscienza di queste dimensioni, dobbiamo essere più precisi nei confronti degli
orientamenti della cultura politica. Ci sono tre orientamenti:
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La democrazia liberale americana e il comunismo sovietico volevano entrambi conquistare il
mondo, ma con l’89 l’ideale comunista mostrò i propri limiti e l’URSS non riuscì a tenere il passo
rispetto agli USA. Quindi sul campo, nell’ambito del reale, l’ideale liberale ha sconfitto l’ultima
alternativa che si era proposta nel corso della storia (oltre al comunismo vi erano stati fascismo e
nazismo). Nessun sistema materiale, quindi, pare funzionare bene quanto quello americano.
Per questo si è alla fine della storia: non ci sono più antitesi alle idee liberali. Pertanto Fukuyama
prevede per gli anni Novanta una sempre maggiore democratizzazione del mondo. In un mondo
con solo democrazie, tranne qualche eccezione (tipo Cuba) il conflitto tra Stati non verrà meno, ma
sarà un conflitto diverso, magari di tipo economico. Ma al di là delle speculazioni, ciò che intende
dire Fukuyama è che saranno in ogni caso conflitti ben diversi da quelli dei regimi del passato. Sarà
quindi un futuro molto più pacifico, e gli unici nemici rimanenti saranno le non-democrazie.
Un altro contributo è quello di Huntington, il quale fece suo il termine “civiltà”. Secondo Huntigton
dovremmo rivedere pesantemente le nostre categorie concettuali: esistono idee che hanno un
potere di condizionamento dell’agire delle persone che rendono obsoleto lo Stato. Quindi gli Stati
contano per Fukuyama, ma non per Huntington, perché essi vengono da lui visti come sub-unità
delle civiltà. Il mondo non è raffigurabile con 192 stati, bensì con 7 o 8 civiltà, ciascuna delle quali
comprende al proprio interno più Stati.
Contrariamente alla visione di Fukuyama, il mondo non sarà più pacifico perché le civiltà si
scontreranno.
Le civiltà sono raggruppamenti di persone, anzi, sono la più alta organizzazione di persone (a livello
numerico). Esse costituiscono il più alto livello d’identità culturale: ogni persona s’identifica in una
civiltà. In base alle variabili di lingua, cultura, tradizioni e religione (quest’ultima è forse la più
importante), Huntington delinea le seguenti civilità:
Occidentale
Cristiana orientale
Latino-americana
Islamica
Indù
Cinese
Giapponese
Buddista
Africana
Queste civiltà saranno in conflitto, in particolare negli anni Novanta ci sarà uno scontro inevitabile
tra civiltà occidentale e quella islamica. Le ragioni dello scontro saranno:
La globalizzazione.
I progressi della tecnologia e dell’economia hanno reso il mondo un “unico villaggio
globale” (McLuhan), quindi ci sarà una maggiore vicinanza di popoli fisicamente lontani che
ora hanno più occasioni di contatto. Le differenze tra le varie civiltà ne risulteranno
esasperate.
Ci sono diversi canali per cui l’Occidente esporta o addirittura impone il proprio modello. In
altre parole l’occidente, coerentemente con la propria vocazione culturale, ha dei propri
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usi e costumi che diventeranno sempre più ingombranti nella vita di altre civiltà,
aumentando le tensioni.
Lo scontro tra civiltà avverrà a diversi livelli:
Livello micro.
S’intende dire all’interno agli Stati stessi, per esempio negli Stati multiculturali. Basti
pensare all’ex Iugoslavia (con gli scontri tra gli ortodossi e i musulmani). Si tratta di scontri
interni ad una civiltà.
Livello macro.
S’intende dire che ci saranno civiltà che si muoveranno guerra reciprocamente. Quando
queste grandi potenze lo faranno, ci sarà lo scenario peggiore: guerre quasi apocalittiche.
Torn States.
Si tratta di stati particolarmente instabili dove la maggioranza appartiene ad una civiltà, ma
l’élite politica è ispirata ad un’altra civiltà. Un esempio è la Turchia negli anni Novanta: la
popolazione era fortemente legata alla religione, ma nel frattempo si stava promuovendo
la laicità cara ad Ataturk. In Stati del genere si hanno spesso guerre civili.
Concludiamo quindi che la differenza fondamentale tra Fukuyama e Huntington è che il primo
parte dalle idee, mentre il secondo crede che le idee vadano a pescare dalla cultura delle persone.
Si tratta di due visioni del mondo antitetiche, ma che riguardano entrambe il paradigma culturale.
Comportamento Cultura
Struttura politica
Una seconda critica è come misurare la cultura. Dobbiamo distinguere la cultura politica
dal comportamento. Non possiamo dire che c’è una cultura politica avversa alla
democrazia perché non c’è democrazia: sarebbe una spiegazione tautologica. Piuttosto
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vogliamo dire che c’è una cultura non partecipativa e che da essa discende il regime
autoritario. Se vogliamo misurare la cultura dobbiamo basarci solo su sondaggi, ma
nessuno ci dice che i sondaggi siano rappresentativi. Misurare la cultura, quindi, significa
misurare qualcosa che non ha peso. Misurare la cultura indipendentemente da quello che
si vuole spiegare, quindi, è molto difficile.
Una terza critica è che così come l’approccio razionalista presupponeva che gli attori
fossero razionali, anche qui si semplifica: ci si basa sull’idea che tutti i fattori materiali non
siano rilevanti. Questo impone che siamo in grado di separare il peso delle variabili culturali
da quello delle variabili materiali. Per fare un esempio, una domanda che possiamo porci è
se un particolare comportamento di voto dipenda dalla cultura politica: votare destra o
sinistra potrebbe dipendere dalla cultura. Ma a monte della mia cultura politica c’è un
fattore pregresso di natura materiale: la struttura di classe. Se osserviamo una correlazione
tra operai che votano sinistra e imprenditori che votano a destra significa che la classe
operaia ha una determinata cultura in linea con la sinistra. E’ un’ipotesi logica, ma c’è una
risposta più semplice: l’offerta politica di sinistra è più conveniente per gli operai.
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CAPITOLO 3:
I REGIMI NON DEMOCRATICI
1. INTRODUZIONE
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In questo capitolo ci concentreremo sui regimi non democratici. Dal momento che è collegato con
l’architettura del potere, questo argomento rientra nella politics. Osserveremo quali sono i
processi che determinano come ottenere il potere, esercitarlo e perderlo. Più in generale,
vedremo anche tutta le fasi della “vita” dei regimi non democratici: instaurazione,
consolidamento, crisi.
Per quanto riguarda la classificazione, si definiscono non democratici:
I regimi autoritari
I regimi totalitari
I regimi post-totalitari
I regimi sultanistici
I regimi ibridi
2. I REGIMI AUTORITARI
Stando alla definizione di Juan Linz, si dice che un regime è autoritario quando si contraddistingue
per queste 5 caratteristiche:
1. Pluralismo limitato e non responsabile.
Un regime autoritario si basa sul fatto che il pluralismo è limitato dallo Stato, ossia ci sono
pochi attori che possono partecipare al gioco della politica e che quindi possono aspirare
ad avere il potere. In democrazia chiunque può fondare un partito ed ergersi a portatore di
valori condivisi. Le società contemporanee sono molto articolate: ci sono partiti che fanno
gli interessi dei giovani, alcuni degli anziani, altri di entrambi; esistono differenze etniche
interne ad alcuni stati. Perciò le società contemporanee possono essere classificate a
seconda di diversi interessi. Nelle società precedenti alla Rivoluzione francese, invece,
c’erano nobili, borghesi e terzo stato. Evidentemente, quindi, il pluralismo sociale è
limitato, e ne consegue un pluralismo politico altrettanto limitato: non a caso prima della
Rivoluzione francese la politica era solo per i nobili. Ogni società moderna, invece, articola
degli interessi, propone diversi gruppi che esprimono interessi diversi.
C’è da chiedersi quali siano gli attori istituzionali che partecipano alla politica. Può anche
essere che un regime non accetti il pluralismo nella legge, ma l’apparato repressivo non
funzioni; oppure che il pluralismo sia ammesso in misura molto arbitraria.
Nei regimi democratici la responsabilità è di chi è al potere per elezioni: si può premiare chi
è al potere votandolo ancora o non votandolo. In un regime autoritario, invece, la
differenza è che chi è al potere non rende conto delle proprie azioni a tutto l’elettorato.
Il regime quindi rimane solido fintanto che gli attori che sono al potere sono soddisfatti.
2. Scarsa mobilitazione politica.
La mobilitazione politica è la partecipazione della popolazione, della massa, ai canali della
rappresentanza: elezioni, manifestazioni di supporto al regime, iscrizione al partito. In un
regime autoritario questi comportamenti hanno bassa affluenza. Qualora questa sia un po’
più alta non è dovuta alla volontà, ma alla costrizione. Si dice quindi che la politica realizza
una finzione di momento democratico: magari si indicono anche elezioni, ma sono fasulle;
magari i cittadini partecipano anche alle manifestazioni a favore del regime, ma solo sotto
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minaccia.
Altra conseguenza della scarsa mobilitazione politica è l’assenza di tutela dei diritti civili:
diritto di associazione (ossia quello di riunirsi in un partito), di libertà di parola e così via. A
volte questi diritti ci sono, ma sono molto limitati.
Inoltre, le organizzazioni per la rappresentanza politica –cioè i partiti- non sono molto ben
strutturati: i partiti italiani hanno sedi capillari e grande affluenza, per esempio; nei regimi
autoritari invece sono solo una bella maschera.
3. Mentalità caratteristiche.
Il sistema autoritario si accontenta di una qualche mentalità, di alcuni slogan o parole
chiave, di alcuni concetti di pura retorica propagandistica (come quello di patria). Il sistema
totalitario non si basa su un’ideologia, ma si basa solo su questi slogan/mentalità
caratteristiche.
4. Leader o piccolo gruppo al potere.
Il potere è nelle mani di un piccolo gruppo di persone. Magari il leader è il fondatore del
regime, ma una volta che muore c’è una crisi di successione o viene deciso un successore
puramente per formalità: il vero potere è nelle mani di un piccolo gruppo.
5. Limiti mai definiti all’esercizio del potere, ma prevedibili.
Il potere politico non è arbitrario, cioè il detentore del potere non può fare quello che
vuole. I limiti all’esercizio del potere, però, possono essere in parte erosi. Cioè, c’è un certo
margine di discrezionalità: lo stesso comportamento, per esempio, può costare ad un
cittadino la galera, ma non ad un altro.
Definite queste cinque caratteristiche, possiamo analizzare i vari sottotipi di regime autoritario.
Questi vengono determinati dalla coalizione dominante e sono:
Regime militare
Regime civile-militare, in cui i militari necessitano degli alti vertici civili
Regime civile, in cui il potere è rappresentato da un partito e i militari sono al servizio del
potere, ma non sono essi stessi il potere
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2. Mentalità/ideologia.
E’ praticamente assente perché i militari non sentono l’esigenza di giustificare le proprie
azioni in maniera articolata: di solito usano la scusa di poter fare meglio dei leader che
hanno mandato il Paese di turno a rotoli. La capacità repressiva è più importante della
giustificazione.
3. Mobilitazione dall’alto.
Conseguentemente al punto 2, al regime militare non interessano le percentuali di
affluenza al voto (se il voto c’è) o le manifestazioni pro-regime.
4. Strutturazione del regime.
E’ caratterizzata da una bassa innovazione: semplicemente i leader vengono sostituiti dai
militari, ma l’apparato statale rimane invariato o non riceve cambiamenti significativi.
La letteratura ci suggerisce che i militari possono essere classificati in tre categorie a seconda di
come esercitano il potere:
Militari moderatori.
L’idea che guida il militare è che il suo ruolo sia quello di custode dell’ordine. I militari
fungono da “veto power”, ossia si arrogano il diritto di impedire un certo corso d’azione: i
militari intervengono perché la leadership politica non sta seguendo la loro visione. Questo
si verifica nei paesi dalla situazione economica negativa, oppure a causa di un assetto
politico già di per sé instabile. I militari stanno al potere il più brevemente possibile per
sistemare la situazione e poi indire elezioni. La politica dei militari moderatori, quindi, dura
poco (qualche mese). Capita però molto spesso che, anche una volta risolta la situazione, i
militari vogliano rimanere al potere.
Militari guardiani.
Non si limitano a indire nuove elezioni, ma cercano di risolvere i problemi dell’ordine
(limitando i diritti o esercitando le proprie prerogative) –pertanto diventano veri e propri
ministri che proteggono lo stato dai nemici interni- ed economici –cercando di stimolare la
produttività con piani di industrializzazione e quant’altro.
Militari governanti.
I militari incrementano ancora ulteriormente i propri poteri arrivando a coprire tutti i
luoghi di potere dei vari dicasteri: i militari possono diventare addirittura sindaci. Il
cittadino ha quindi sempre a che fare con un uomo in divisa (anche per il pagamento delle
tasse, per esempio). In casi molto rari i militari, in questa situazione, organizzano un partito
di massa per ripulirsi la faccia. Il partito diventa la maschera attraverso la quale i militari
governano.
Ma perché sono proprio i militari ad entrare in politica? Le motivazioni sono principalmente due:
In primo luogo hanno armi di ogni tipo, anche pesanti. Tre anni fa in Turchia, per esempio, i
militari hanno usato i carri armati. Ma un’altra risorsa dei militari è quella di essere in grado
di prevenire l’instabilità che può seguire ad un colpo di Stato, bloccando strade e vie di
comunicazione.
In secondo luogo essi sono estremamente disciplinati. Per definizione, infatti, il militare è
colui che segue gli ordini del proprio superiore. Per esempio, i colonnelli seguono i generali
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e i generali seguono i ministri. E’ difficile la posizione di un colonnello che deve seguire un
ordine di un generale deviante.
Con quali motivazioni i militari intervengono?
I moventi principali sono crisi economiche, sconfitte in guerra, o la sensazione di essere minacciati
da qualche scelta presa dalla leadership politica (in altre parole i militari intervengono quando la
loro esistenza o dignità è minacciata, come nel caso della guerra delle Falkland in Argentina).
Un altro motivo può essere la mancanza di finanziamenti sufficienti al corpo dei militari.
O ancora, i militari possono intervenire quando si ergono a rappresentanti della classe media: in
America latina, per esempio, i militari sono borghesi. Essendo militari e borghesi affini, essi si
coalizzano in una sorta di partito (magari non ufficialmente riconosciuto). In questo senso è
frequente che i militari rappresentino un’etnia: e quando lo stato minaccia l’etnia, i militari
intervengono.
Un’ultima ragione per cui i militari possono intervenire è quando la leadership civile interferisce in
modo eccessivo, ossia prende decisioni che loro osteggiano fortemente o che prende senza prima
consultarli. I militari e i civili vivono una tensione costruttiva sia in democrazia che in non-
democrazia: i militari, per esempio, prendono ordini da figure relativamente ignoranti nel loro
ambito, e infatti è rarissimo che il ministro della difesa sia anche un militare.
Infine, quali sono le situazioni di contesto che rendono più probabile l’intervento dei militari?
Da un punto di vista sociale, una condizione è la divisione interna tra etnie: in questo caso è
fondamentale che i militari appartengano ad una delle due etnie in conflitto. Un’altra condizione è
la crisi economica, sulla quale pesa l’incapacità dei governi di dare un corso deciso alla politica
economica (più governi successivi, per esempio, possono prendere direzioni diverse). Un’altra
condizione ancora è quella di grandi trasformazioni sociali, ovvero nascono fenomeni di
industrializzazione e urbanizzazione. Nel caso dell’industrializzazione, l’effetto è che si fanno più
soldi in città che in campagna e pertanto si hanno migrazioni di massa. E’ il caso dell’America
latina: i contadini diventano operai e le istanze degli operai non vengono assorbite dalla politica
perché comporta sforzi troppo dispendiosi, perchè i partiti e gli organi di potere dovrebbero
dividere il potere con un grande gruppo di persone che prima non c’era.
Coalizione dominante.
C’è una qualche cooperazione tra i militari e gli alti burocrati civili. Per esempio, per fare un
bilancio nazionale bisogna avere studiato economia e pertanto il ministro delle finanze è
un potenziale alleato. O ancora, un leader politico all’opposizione nel regime politico
precedente può trovare una sponda nei militari. Un altro caso è quello di particolari gruppi
sociali dotati di grandi risorse economiche, ossia l’alta borghesia finanziaria: i ricchi padroni
di risorse e capitali, magari neanche necessariamente nazionali.
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In ogni caso, questi tre tipi di alleato interessano ai militari in virtù delle loro competenze
tecniche o del loro patrimonio, in maniera tale che i militari abbiano la vita più facile. Agli
alleati i militari tornano a loro volta comodi perché così ne possono influenzare le politiche.
Vengono quindi favorite politiche di liberalizzazione, ossia di movimento di capitali e merci
per rendere più attraente l’economia. I ricchi diventano più ricchi, i poveri crescono ma
molto lentamente: si ha grande disparità sociale. Le parti della coalizione rimangono in
piedi fino a quando ci guadagnano tutte.
Mentalità/Ideologia.
Il regime tecnico non ha bisogno di una giustificazione, il regime organico/corporativo
invece necessita di qualche formulazione teorica (sui due tipi di regime civile-militare vedi
poco sotto).
Mobilitazione dall’alto.
La mobilitazione è possibile, ma bassa. Se i militari si alleano con i politici, questi ultimi
possono entro qualche misura mobilitare il consenso. Se invece i militari si alleano con la
borghesia finanziaria, chiaramente, i risultati saranno molto inferiori.
Strutturazione del regime.
E’ medio-alta.
Infine, si definiscono due tipi di regime civile-militare:
Coalizione dominante.
Si ha un partito unico strutturato e forte che stabilisce la leadership. Per vedere chi
comanda dobbiamo vedere chi comanda il partito unico. Nei regimi democratici, invece, ci
sono più partiti che competono.
Il partito necessita di armi, ma non ne ha di per sé.
Mentalità/ideologia.
Diventa importante: non avendo armi, il partito necessita di legittimarsi.
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Mobilitazione dall’alto.
E’ molto frequente. Il partito chiede espressamente alla gente comune di iscriversi e
manifestare a favore del regime per ottenere certi benefici, e si tratta quindi di scelte
imposte dal partito. Nel regime democratico gli stessi comportamenti non avvengono
dall’alto, ma dal basso.
Strutturazione del regime.
Una volta ottenuto il potere, quali strutture vengono a crearsi? Il partito necessita di
produrre, e per fare ciò è necessario riformare lo Stato. La strutturazione, pertanto, è alta.
I tipi di regime civile sono quattro:
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propone iniziative che accompagnano il cittadino dalla culla alla tomba.
Tuttavia, il partito fascista non riesce ad eliminare alcune figure che lo limitano: il leader
fascista è capo del partito e del governo, ma non capo dello Stato (in Italia, per esempio,
c’era il re). Mussolini in particolare, inoltre, non riuscì ad eliminare la Chiesa. Per i
comunisti non è così: se non ti va bene il regime, finisci nel gulag.
C’è repressione, ma non c’è terrorismo di Stato (la differenza sta nel fatto che la
repressione prende di mira chi è “meritevole” di essere punito; il terrorismo colpisce anche
gli innocenti).
3. I REGIMI TOTALITARI
I regimi totalitari sono in un certo senso affini a quelli autoritari perché mantengono le due
principali caratteristiche di questi ultimi:
Il pluralismo è limitato
Il pluralismo è incarnato in un leader o un piccolo gruppo al potere per doti carismatiche (e
non per un mero processo decisionale interno al partito
Tuttavia gli studiosi Friedrich, Brezinski e Arendt studiano a lungo i regimi totalitari e fanno notare
che, rispetto ai regimi autoritari, essi hanno anche alcuni elementi di novità:
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Il prefetto o un gerarca nazista? Pertanto si duplicano anche le figure.
Dal momento che le decisioni non vengono più prese nelle strutture statali, lo Stato diventa
una cinghia di trasmissione, un mero esecutore.
Quindi concludiamo che il partito unico di massa è simile a quello dei regimi autoritari
perché organizza la vita del cittadino dalla culla alla tomba, ma vi è questa enorme
differenza per cui il partito unico diventa tutto e lo Stato è nulla a confronto. La
mobilitazione cittadina è quindi assolutamente necessaria: visto che il partito controlla
tutto, o stai con il partito o sei nemico pubblico. Tertium non datur.
Terrorismo di Stato.
Ci sono delle parti della società che sono trattate alla stregua di un nemico oggettivo
(scelto dallo Stato) che è tale per il semplice fatto di esistere, e non in base alle sue azioni
(pertanto chiunque in un certo momento può diventare un nemico oggettivo). Lo Stato si
sente minacciato per via di questa “impurezza” insita nel nemico. Non importa quello che
fai, ma importa quello che lo Stato dice che sei.
Ne deriva che lo Stato attua una violenza indiscriminata che dà vita al terrorismo di Stato: il
caso degli ebrei è lampante.
Ideologia di trasformazione sociale.
Il regime non solo necessita di una giustificazione per restare al potere, ma si propone un
motivo ben più elevato: ha la missione di trasformare la società. E se questo è il suo
obiettivo, si tratta di una rivoluzione permanente: il regime non sarà soddisfatto fino a
quando non sarà raggiunto l’obiettivo.
Nel caso del nazismo, la società deve omologarsi. Questo porta alla conversione di tutti: se
lo Stato mi dice che il suo ideale è quello comunista, io contadino devo vendere il mio
pezzo di terra. Domenico Fisichella, studioso, parla di “istituzionalizzazione del processo
rivoluzionario”.
Altissima mobilitazione.
Il partito vuole che il cittadino si interessi alla politica per portare a compimento i propri
scopi. Si ha quindi una differenza rispetto al modello autoritario, il quale ritiene che meno il
cittadino sappia, meglio sia.
Controllo monopolistico dei principali aspetti dell’economia, dell’informazione (censura) e
della coercizione (forze dell’ordine, gruppi paramilitari, ecc.)
Esercizio del potere imprevedibile.
Lo Stato decide in maniera arbitraria ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Ma alla luce delle nostre considerazioni sui regimi autoritari e su quelli autoritari, una domanda
sorge spontanea: il regime fascista è autoritario o totalitario? Le correnti di pensiero sono due:
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4. I REGIMI POST-TOTALITARI
I regimi post-totalitari vengono plasmati dal processo politico della destalinizzazione. Fino alla
metà degli anni Cinquanta sono regimi che risentono dell’influenza di Stalin, il quale muore nel ‘53.
Nel ‘56 Chruscev tiene un discorso in cui dice che è necessaria la destalinizzazione, innescando
quindi un cambiamento nei regimi comunisti ortodossi. Rimangono quindi i caratteri del regime
totalitario sovietico, ma le evoluzioni successive ne attenuano profondamente l’intensità.
Gli elementi caratterizzanti dei regimi post-totalitari sono due:
Pluralismo sociale/istituzionale.
Non è un pluralismo politico. Però, per esempio, nei sistemi totalitari si voleva che tutti i
cittadini seguissero comportamenti sociali determinati. Ci sono parti istituzionali che
riescono ad ottenere una certa autonomia.
Tra le riforme di Kàdàr, per esempio, vi era il ritorno della proprietà privata, che favorì così
la nascita di imprenditori.
Ideologia indebolita e ritualizzata.
Sono tutti comunisti di facciata, ma nessuno ci crede più: il comunismo ha ancora simboli e
feste, ma solo a fini simbolici. Il grado di appeal grazie all’ideologia è quindi pari a zero: il
regime non riesce più a mobilitare le persone e nemmeno si sforza più. Il partito unico non
ha nemmeno la volontà e la forza di obbligarle.
Riforme.
Ci sono importanti riforme economiche e sociali. Proprio l’Ungheria di Kàdàr è un buon
esempio: il regime scricchiola perchè non si riesce a mobilitare le masse. Quindi si fanno
delle concessioni e delle riforme, il cui momento più elevato è la libera iniziativa
imprenditoriale e la ripresa della proprietà privata. Il primo effetto di queste riforme,
quindi, è economico: la produzione aumenta. Il modello di pianificazione quinquennale
rimane, ma accanto ad esso si hanno nuove attività che aumentano la ricchezza. Il modello
di produzione comunista, quindi, non è efficiente quanto la produzione privata.
Il range d’azione dello Stato, conseguentemente, si abbassa: nel settore privato lo
stipendio non è scelto dallo Stato, così come la quantità e la qualità di beni prodotti.
Queste riforme aumentano quindi il benessere, ma lo Stato perde delle leve di controllo
sulla vita delle persone. Lo Stato, in un certo senso, si fa da parte e diventa meno invasivo.
La mobilitazione ideologica non è più ciò che consente al regime di sopravvivere: al
contrario, ci si compra il consenso offrendo concessioni in maniera tale da garantirsi
l’accettazione passiva.
All’interno del partito, inoltre, non servono solo persone che abbiano studiato Marx.
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Servono persone che abbiano studiato anche per ottenere competenze più utili, come
quelle economiche. Si ha quindi anche il ringiovanimento dell’élite politica.
Nei vari stati che possiamo prendere in considerazione (Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia,
Bulgaria) possiamo parlare di tre fasi del post-totalitarismo:
- Precoce.
Il totalitarismo ha portato il male, e quindi si accetta di allontanarsi dal dogma comunista.
Ma la leadership rimane la stessa.
- Maturo.
E’ il caso della Cecoslovacchia degli anni Settanta. E’ un regime che accetta qualche critica
da parte della società civile. Questo perché la leadership si è indebolita. Quindi si accettano
anche alcune forme di organizzazione extra-politica tra i cittadini.
- Congelato.
Il ruolo del partito non viene messo in discussione, ma tutto il resto è mutato.
5. I REGIMI SULTANISTICI
Contrariamente all’immaginario collettivo, i regimi sultanistici non si trovano solo in Medio Oriente
–bensì anche in Africa. Alcuni caratteri esteriori sono simili a quelli dei regimi autoritari, ma il
regime sultanistico necessita di essere classificato a parte perché possiede due elementi genetici
peculiari.
Analogamente ai regimi autoritari, non hanno bisogno di giustificare la propria autorità e al
massimo cercano di enfatizzare la figura carismatica del leader, celebrandolo (a volte quasi come
in un culto della persona). Quando il sovrano muore e viene meno il carisma del leader, il regime si
trova in una situazione di difficoltà. Nei regimi democratici si indicono elezioni per rimpiazzare il
leader, mentre in questo regime il problema è più spinoso.
Anche qui il pluralismo è limitato: il diritto di stabilire quali attori sono conformi alle regole e quali
no è tutto del sultano, il quale può anche cambiare idea o contraddirsi. Il limite al pluralismo non
dipende quindi da una coalizione dominante, bensì da una persona sola che stabilisce in base alle
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proprie preferenze ciò che va bene o meno, senza riflettere le istanze di un gruppo sociale.
Inoltre, il sultano non ha bisogno di una mobilitazione. Se vengono indette elezioni, esse hanno fini
puramente simbolici. Non c’è bisogno di grande affluenza alle cabine elettorali, perché la fonte del
potere del sultano è un’altra e non necessita del consenso per essere considerata legittima.
I caratteri in cui il sultanato si discosta dal regime autoritario sono:
6. REGIMI IBRIDI
I regimi ibridi (o di transizione) coprono circa il 30% degli Stati. Esempi calzanti sono l’Indonesia, il
Messico e la Russia. Si tratta di regimi che hanno caratteristiche tipiche sia dei regimi democratici
sia dei regimi autoritari.
Gli elementi mutuati dalla democrazia sono:
La presenza di elezioni
Una discreta apertura al pluralismo, per cui vi sono più partiti
Tuttavia, per esempio, il diritto di voto è limitato, anche con la violenza. Alcuni gruppi umani non
possono votare o formare partiti. In questo, quindi, i regimi ibridi non hanno ancora raggiunto lo
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status pienamente democratico. Il blocco all’apertura è dovuto ad un veto player dal potere
considerevole. I veto player possono dichiarare la presenza del suffragio universale, ma si possono
manipolare le regole di corsa al voto per alcune etnie.
Anche le fonti d’informazione sono ampiamente manipolabili dallo Stato.
Questi regimi sono una tappa all’interno di due possibili percorsi di evoluzione di uno Stato: dalla
democrazia verso l’autoritarismo o dall’autoritarismo verso la democrazia. In ogni caso, quindi, si
tratta di regimi che nascono dalla crisi di un regime precedente.
Si tratta anche di regimi non stabili nel tempo: iniziano seguendo una traiettoria che, in seguito,
s’interrompe.
Se si parla di regimi che erano in partenza autoritari, la coalizione dominante comincia a perdere il
passo ed è costretta a fare concessioni alla popolazione.
Se si parla di regimi che erano in partenza democratici ((?))
Di seguito le caratteristiche dei regimi ibridi:
Coalizione dominante.
E’ meno coesa, e quindi fa fatica a trovare posizioni comuni. Spesso si viene così a creare
una situazione in cui, per esempio, all’interno della coalizione vi sono due fronti dal peso
uguale. L’opposizione, forse, si può risolvere inglobando un terzo fronte sociale che aiuti la
coalizione a trovare un nuovo equilibrio.
Ma il principio rimane quello: la coalizione rimane sempre piccola, magari si allarga di poco.
La coalizione dominante non riesce più a governare in modo univoco come prima, e quindi
ne deriva la debolezza del regime.
Mentalità/Ideologia.
Se i leader politici dicono cose tra di loro discordanti perché la coalizione si è indebolita, la
mentalità e l’ideologia divengono entrambe assenti. Non essendoci più alcuna promessa da
fare alla popolazione, non essendoci più una direzione precisa a causa della presenza di
fazioni opposte, mentalità e ideologia sono entrambe assenti.
Mobilitazione dall’alto.
La mobilitazione è assente: non si può comprare il voto del cittadino con la promessa di un
beneficio (perché i benefici sono pochi, vista la frammentazione della leadership) o la
minaccia di violenza (perché non si riesce più a mantenere l’ordine).
Strutturazione del regime.
Veramente scarsa. Il regime ha un apparato burocratico, ma esso ha grandi problemi di
funzionamento perché segue le direttive della leadership (nel limite del personale e delle
risorse disponibili). Ma se la coalizione si è frantumata, tutto cade in pezzi.
Basti pensare al mantenimento dell’ordine: i poliziotti possono ricevere ordini
contraddittori.
Possiamo classificare i regimi ibridi in base al valore più o meno reale delle elezioni:
Democrazia elettorale/illiberale.
E’ una democrazia in cui le elezioni hanno un qualche risultato e cambiano effettivamente
lo spettro del Parlamento. Non si ha un unico partito che esercita un monopolio politico.
Inoltre il Parlamento ha qualche capacità di freno nei confronti dell’esecutivo: il sovrano
deve rendere conto, in qualche misura, al Parlamento. Questo vale per il bilancio, le
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dichiarazioni di guerra e così via.
Tuttavia non è un regime pienamente democratico perché vengono limitate le libertà
politiche delle persone, come la libertà di associazione (ossia la possibilità di fondare un
partito), che viene invece fornita in maniera arbitraria e discriminante.
Autoritarismo elettorale.
E’ più vicino ai regimi autoritari che non a quelli democratici. Le elezioni sono platealmente
manipolate, nonostante ci sia un certo grado di apertura. Il pluralismo, pertanto, è uno
specchio per le allodole.
La capacità del Parlamento di influire sul leader è minima. Il Parlamento è costituito da un
unico partito.
Democrazia senza legge.
Essenzialmente riflette gli “Stati falliti”, ossia regimi in cui la legge non ha gli strumenti per
essere applicata. Magari si tratta di regimi dalla costituzione democratica, ma vi sono limiti
tali per cui nei fatti la democrazia non è applicata (come l’azione di gruppi criminali, signori
della guerra, ecc.).
Il diritto di voto può essere garantito per tutti sulla carta, ma nei fatti questo non è
rispettato. Questo perché vi sono sacche di potere autonome: a dominare non è la
coalizione dominante, bensì degli attori criminali esterni alla legge.
Instaurazione.
Molto raramente nasce con una rivoluzione, più spesso con un colpo di Stato. La coalizione
precedente viene eliminata da un’élite di pochi. L’instaurazione, quindi, dura poco.
Consolidamento.
E’ quel momento in cui la coalizione dominante assurta al potere deve stabilire un
contratto di governo: si determina chi deve ricoprire quale posizione e quali sono gli
obiettivi comuni del Governo. E’ la fase in cui si stabilisce se alla politica partecipano solo
militari o sia militari che civili.
I risultati possibili sono due:
1. La persistenza del regime è stabile, quindi le opposizioni vengono eliminate e si forma
una coalizione coesa.
2. La persistenza del regime è instabile, quindi si possono impiegare mesi o anni per
trovare un contratto di governo.
Crisi.
Non c’è regime che non vada in crisi. La caratteristica comune a tutte le crisi dei regimi
autoritari è sempre interna: la coalizione dominante attraversa una depressione profonda.
Quando si verifica uno scossone nell’élite, è un segnale che il regime non democratico sta
per trasformarsi. L’élite può entrare in crisi per due motivi.
Il primo è una serie di cambiamenti nei gruppi dominanti dovuta ad uno scossone sociale:
un gruppo umano diventa più forte degli altri, e di conseguenza cerca di ottenere più
potere. Chi è alla coalizione dominante, quindi, cerca di evitarlo e ne nasce un conflitto.
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Negli Stati la cui economia era basata sull’agricoltura, per esempio, i latifondisti vennero
sfidati dall’emergere della borghesia.
Il secondo è una serie di contrasti interni sulle politiche. Per esempio, si possono avere
divisioni sulla direzione che deve assumere l’economia (se essa debba essere orientata
all’agricoltura o all’industria, se le industrie debbano essere nazionalizzate oppure no).
Il terzo è che possono ascendere al potere nuovi attori rilevanti aventi la capacità di
organizzarsi. Ci sono attori sociali impossibili da non vedere: la modernizzazione in America
Latina, per esempio, ha dato vita ad una classe operaia accomunata da esigenze urgenti
che hanno condotto all’organizzazione sindacale della classe operaia stessa. Di fronte
all’ascesa della classe operaia, si poteva scegliere tra inglobarla nella coalizione dominante
oppure espellerla. In entrambi i casi lo shock è evidente: se si ingloba la classe operaia
nell’élite allora l’élite non è più tale; se si decide di tenerli fuori, bisogna reprimerli (e la
violenza ha un costo non indifferente).
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1. Repressione della società civile, per quanto possibile (visto che vi è stata una perdita della
capacità repressiva). Si inaugura uno stato di emergenza tale per cui lo Stato si prende il
diritto di fare delle cose che prima non poteva fare.
2. Apertura pseudo-democratica. Possono essere fondati alcuni partiti, sindacati o gruppi
d’interesse, si può esprimere un certo grado di dissenso. Però magari i gruppi d’interesse
non possono essere votati, oppure non possono comparire in televisione.
Le condizioni per evitare questo stallo in cui chi vuole mantenere il potere è ostacolato dalle nuove
aperture democratiche sono tre:
1. Una delle due fazioni deve vincere sull’altra, perché finché rimangono in equilibrio non
accadrà nulla. Una cosa del genere succede quando attori prima dominanti passino
all’opposizione.
2. Mobilitazione di attori sociali prima indifferenti.
Per esempio, si può mobilitare il ceto medio in favore della neonata opposizione
dall’apertura pseudo-democratica.
3. Nuovo vigore alle tradizionali forze d’opposizione grazie al supporto di gruppi religiosi,
militari o di altro tipo.
In conclusione, per risolvere la crisi di un regime autoritario serve fornire un’alternativa politica: è
necessaria una nuova coalizione dominante che sia più forte di quella precedente. Il modo
migliore per traghettare uno Stato verso un regime democratico è quello di scendere a
compromessi con la precedente élite autoritaria: per esempio, gli stessi militari che venivano
utilizzati per reprimere indiscriminatamente possono adesso servire alla democrazia.
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CAPITOLO 4:
I REGIMI DEMOCRATICI
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1. INTRODUZIONE
Vogliamo apprezzare, nel bene e nel male, la complessità dei regimi democratici. Essi hanno
modalità di realizzazione delle policy che variano tra di loro. Cerchiamo semplicemente, in pieno
spirito politologico, di liberarci dalla tentazione normativa (quella per cui ci si chiede quale sia la
migliore forma di democrazia) e da quella prescrittiva (quella per cui ci si chiede quali scelte sia
necessario compiere per migliorare l’output democratico) per limitarci a descrivere gli elementi
distintivi della democrazia.
La visione che adotteremo nella descrizione della democrazia è quella procedurale, ossia
cercheremo di curarci di meno delle decisioni che vengono prese in democrazia per abbracciare,
invece, un’analisi dell’iter decisionale. Vogliamo capire perché alcune democrazie funzionano in un
certo modo mentre altre no, e vedremo perché anche le democrazie dal funzionamento peggiore
sono comunque in grado di fornire determinati servizi.
La democrazia nasce in Europa e attecchisce anche da altre parti del mondo. In Europa, America e
Giappone esistono condizioni che rendono possibile l’architettura democratica. Vogliamo quindi
anche analizzare quali fattori abbiano creato il background necessario al fiorire della democrazia:
economiche, come la Rivoluzione industriale; storiche, e così via.
Infine, vogliamo analizzare il processo di democratizzazione, ossia l’esportazione della democrazia
in altri paesi del mondo.
L’idea di partenza è che ogni democrazia è come un corpo umano, il quale non è semplicemente la
somma dei suoi organi: questi organi, infatti, collaborano tra di loro. Ma nel corpo umano vi sono
anche batteri e impurità: allo stesso modo, le democrazie convivono tutte con dei paradossi e
compiono a volte scelte laceranti.
I paradossi democratici sono i seguenti:
Gli attori politici devono concordare su alcuni aspetti vincolanti per tutti, ossia le regole. La
democrazia come principio si basa su un’idea molto semplice: tutti i conflitti all’interno
della società devono essere risolti pacificamente, indipendentemente dalla loro profondità.
Posto che tutti gli attori in gioco concordino sulle regole nel limite entro il quale tutti le
rispettino, si può avere dissenso sui contenuti perché ((?))
Non solo bisogna essere d’accordo sulle regole, ma chi le elabora deve seguirle
scrupolosamente. Nei regimi autoritari, invece, le élites si concedono delle libertà che
vanno al di sopra della legge. In democrazia, al massimo, si può discutere
sull’interpretazione della legge. Vi è pertanto certezza sulle regole, ma i risultati sono
spesso incerti.
Inoltre la democrazia non può decidere su tutto, perché altrimenti il sistema non sarebbe
più democratico: la democrazia, infatti, non può in alcun modo toccare la proprietà privata
e le libertà individuali del cittadino.
La maggioranza comanda, ma deve anche accettare che il proprio comando sia vincolato al
rispetto delle minoranze. In altre parole non si può fare quello che si vuole anche se si è
stati vincitori nel processo decisionale.
C’è una forte tensione tra la trasparenza e la segretezza. Un processo democratico deve
rendere possibile l’attribuzione delle responsabilità: bisogna essere in grado di ricostruire il
69
processo della politica e vedere chi ha fatto cosa. D’altro canto, esistono alcuni ambiti
politici che richiedono segretezza: basti pensare ai vari servizi d’intelligence assolutamente
legittime e che operano in segretezza seguendo il diritto internazionale. Questo perché per
lo Stato è necessario mantenere segrete delle informazioni: nel 2006, per esempio, una
fuga d’informazioni aveva lasciato trapelare una strategia di bombardamento dell’Iran da
parte degli USA. La segretezza era necessaria, chiaramente, perché il piano non era stato
messo in atto.
C’è una tensione sull’allocazione delle risorse in ambiti diversi: welfare (ossia tutti gli aiuti
per il benessere del cittadino, come pensioni, indennità e così via) e warfare (spese per
l’esercito). Il warfare, nonostante la guerra sia effettivamente un evento condannabile, è
condotto in favore della protezione del cittadino.
Ci sono due macro-orientamenti di politica economica che una democrazia può seguire:
libero scambio e protezionismo. La prima consiste nella riduzione dei dazi doganali e
nell’accettazione di beni dall’estero; al processo di importazione si accompagna anche un
processo di esportazione di beni diversi. Lasciare libero spazio all’importazione, però,
comporta degli svantaggi per certi settori produttivi locali, perché gli stessi beni importati
dall’estero costano di meno. Da qui il protezionismo, che consiste nel proteggere i beni
prodotti nazionalmente imponendo una tassa ai beni in entrata. Il protezionismo, per
esempio, serve a proteggere le industrie nascenti.
2. DEFINIZIONI
Il risultato di quanto abbiamo detto finora è che in democrazia dobbiamo riscontrare un processo
decisionale che rispetti i seguenti requisiti:
Approccio formale/costituzionale.
Si concentra sul testo costituzionale, cioè va a vedere come lo Stato definisce nella forma i
meccanismi di acquisizione e gestione del potere. Se sono garantite le libertà individuali, se
l’esecutivo deve rendere conto delle proprie azioni a qualcuno (elettorato, parlamento,
ecc.), allora il regime è democratico. Questo aspetto consente anche di fare delle
comparazioni storiche: cambiando la costituzione possono cambiare i rapporti di potere.
Ma c’è un limite importante: quello che è scritto sulla carta può essere disatteso nella
realtà. Se la costituzione è disattesa, allora il regime non è più democratico.
Approccio sostanziale/fattuale.
Tiene in conto il risultato del processo politico. Da un punto di vista sostanziale, le politiche
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pubbliche di un regime democratico sono inclusive e mirano all’uguaglianza di tutti di
fronte alla legge, ed entro un certo limite anche in ambito economico. L’approccio
sostanziale ci dice essenzialmente in quali aspetti, nei fatti, un regime si avvicina all’ideale
democratico.
Ma anche qui c’è un limite: se l’approccio formale si dimentica il contenuto, l’approccio
sostanziale si dimentica completamente della forma.
Approccio procedurale.
Esso stabilisce che in una democrazia devono necessariamente avvenire certi processi.
Questo garantisce che vengano rispettate sia la forma che il contenuto della democrazia. Di
questi tre approcci, quindi, quello procedurale è il migliore.
Abbiamo quindi appurato che l’approccio procedurale è il migliore. Entrando nel suo merito
specifico, esso afferma che una democrazia debba rispettare questi requisiti:
Ci devono essere elezioni libere e devono essere competitive, corrette (ossia ci deve essere
parità di voto, non ci devono essere classi privilegiate nel processo elettivo) e ricorrenti
Ci deve essere il suffragio universale.
Inclusione delle cariche politiche nel processo democratico.
Vale a dire che il processo di voto deve coinvolgere i funzionari dell’esecutivo. In altre
parole, chi governa trova la propria legittimità nel voto elettorale. Le cariche politiche
vengono assegnate ad alcune persone esclusivamente in virtù del processo democratico.
Non si può avere, per esempio, una democrazia in cui il primo ministro sia una carica
ereditaria.
Autonomia di istituzioni e processi da poteri esterni.
In ogni società esistono sacche di potere autonomo, legittime o illegittime (come lobby o
organizzazioni criminali, come la mafia), che possiedono risorse morali o economiche. In
realtà, però, non esiste processo democratico che non risenta almeno in minima parte di
questi fenomeni.
Logica di inclusività.
Tutti i gruppi organizzati della società devono avere un accesso alla politica. Questo non
significa che tutti i gruppi abbiano il diritto di andare al governo, però hanno tutti quello di
competere.
Pluralismo partitico e garanzia di competizione.
Libertà di espressione, associazione e rispetto dei diritti della persona. In altre parole, la
democrazia è tale nella misura in cui viene garantita a qualcuno la possibilità di critica, di
opposizione. Chiaramente l’opposizione non deve essere violenta.
Secondo alcuni la democrazia nasce nel momento in cui si accetta che ci siano opinioni
diverse da quella dominante: secondo questi studiosi, quindi, la democrazia sarebbe da
ricondurre alle tesi luterane, grazie alle quali la democrazia sarebbe nata prima in Europa.
Fonti di informazione molteplici e alternative.
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Democrazia diretta. Si basa sul referendum
Democrazia indiretta. Si basa sulle elezioni
Di seguito tre differenze tra i due tipi:
Il singolo partecipa alla politica in modo attivo nel primo caso, passivo nel secondo. Nella
democrazia indiretta, infatti, il voto non consente di decidere direttamente per una
questione, bensì ci consente di selezionare una persona che rappresenti i nostri interessi.
La democrazia diretta ci consente di studiare un “ambito micro” in cui il peso specifico di
un voto è pertanto elevato. In “ambito macro” questa possibilità è difficile da realizzare,
perché il peso specifico del voto è infinitamente inferiore. Proprio per questo il sistema
indiretto è una soluzione pratica, empirica.
Infine, vi sono limiti euristici: non è discriminante ((?))
Lijphart studia le democrazie e scrive alcune pagine in cui spiega come mai sia necessario
confutare la teoria secondo cui la democrazia americana è superiore alle altre in qualità. Lijphart
adotta due criteri:
Lijphart in sostanza dice che apparentemente il sistema americano funziona meglio di quello
europeo perché gli americani hanno una cultura politica più omogenea: a volte democratici e
repubblicani prendono le stesse decisioni (un fenomeno, questo, noto come bipartisanship);
inoltre vi è un presidente sostenuto da un unico partito. In Europa, invece, vi sono coalizioni di più
partiti.
Ma non sempre le democrazie europee sono peggiori di quella statunitense: l’Olanda ne è un
esempio.
73
testo scritto, le riforme istituzionali sono più facili (perché altrimenti bisognerebbe scrivere
i testi delle riforme).
4. Controllo di costituzionalità, ossia se è previsto che leggi siano da valutare rispetto al
testo della Costituzione (scritta o meno). Nell’assetto costituzionale a principio consensuale
c’è una Corte che può giudicare la validità della legge anche se è stata approvata dal
Parlamento.
Unendo i puntini, possiamo tracciare questa tabella riassuntiva, nella quale vengono rapidamente
confrontati gli otto criteri di cui abbiamo appena parlato con le loro realizzazioni nel modello a
principio maggioritario –chiamato da Lijphart “modello Westminster”, in riferimento alla Gran
Bretagna- e in quello a principio consensuale:
Dalla tabella deduciamo, appunto, che lo Stato che più si avvicina al principio maggioritario è la
Gran Bretagna. Nella colonna subito a destra dei buoni esempi sono l’Olanda e altri Paesi con
sistema consensuale. Tutti gli altri Paesi, invece, hanno alcune caratteristiche del primo e altre del
secondo modello, quindi si possono avvicinare di più al principio maggioritario o a quello
consensuale rimanendo però, di fatto, “nel mezzo”.
Forma parlamentare.
Forma presidenziale.
Forma semi-presidenziale (molto rara, rappresentata principalmente dalla Francia).
Le differenze principali tra la forma parlamentare e quella presidenziale sono la struttura del
governo e la legittimazione del governo. Si veda la seguente tabella:
LEGITTIMAZIONE
Diretta Indiretta
Monocratica Presidenziale (USA) Cancellierato
STRUTTURA DEL (Germania)
GOVERNO Collegiale Esecutivo collegiale ad Parlamentare (Italia)
elezione diretta
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(estremamente raro,
è rappresentato
principalmente da
Cipro e Uruguay)
La fonte della legittimità di un governo è importante per le modalità di acquisizione del potere.
Essa può essere di due tipi:
Legittimazione diretta.
E’ la legittimazione che proviene direttamente dal popolo tramite elezioni: il capo
dell’esecutivo è chi ha vinto le elezioni. Il Presidente degli USA, per esempio, ha più libertà
dal Parlamento perché è stato votato.
Legittimazione indiretta.
Il capo dell’esecutivo non è direttamente eletto dalla popolazione: la sua legittimità deriva
dal Parlamento. Il Parlamento è legittimo perché è stato votato dalle persone, quindi il
capo dell’esecutivo ha una legittimità di riflesso.
Come viene meno la legittimazione?
La stabilità dell’esecutivo nel sistema presidenziale è garantita: difatti il Presidente è tale perché
votato direttamente dalla popolazione, pertanto può cadere solo se arriva a fine mandato, dà le
dimissioni o muore. Tuttavia risolvere le questioni problematiche è più difficile, perché c’è una
certa rigidità (la figura del Presidente è appunto irremovibile per le ragioni che abbiamo detto).
Nel sistema italiano, invece, il parlamento ha maggior potere: esso può infatti sfiduciare il
Governo. Questo consente di risolvere più facilmente le problematiche: se si ha un problema basta
sfiduciare il Governo. Ma, conseguentemente, il Governo stesso soffre di una maggiore instabilità.
Se il Parlamento sfiducia il Governo, il nuovo Presidente del Consiglio viene scelto dal Presidente
della Repubblica e approvato dal Parlamento: i cittadini non hanno alcun diritto di sceglierlo.
Per quanto riguarda la struttura dell’esecutivo, essa può essere:
Monocratica.
Uno solo comanda, gli altri sono tutti dipendenti. Il Presidente ottiene la legittimità e poi
sceglie da solo i propri ministri.
Collegiale.
C’è un Primo Ministro, che però è semplicemente un primus inter pares. La legittimità è
ottenuta da un gruppo di persone (e non da un singolo individuo) grazie alla fiducia del
Parlamento. Ma perché la fiducia venga data, è necessario un iter completo di
approvazione da parte del Parlamento stesso.
Il sistema semipresidenziale, invece, ha aspetti mutuati da entrambi gli altri sistemi. La legittimità
del governo deriva da una doppia fiducia: vi è un Presidente della Repubblica che è anche capo
dell’esecutivo (come nel caso americano), ma il Governo ha bisogno della legittimazione del
Parlamento (come in Italia).
Si tratta di un sistema difficile da gestire: molto spesso le elezioni danno risultati contraddittori
perché il Governo vuole fare una cosa, il Parlamento un’altra. Le soluzioni possono essere la
coabitazione o lo scioglimento delle Camere (potere esclusivo del Presidente nei confronti del
Parlamento in caso di ostilità del secondo al Governo).
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4. I REGIMI DEMOCRATICI: CONDIZIONI PRE-POLITICHE
La democrazia nasce in Europa e poi si diffonde nel resto del mondo. La domanda da porsi è:
perché proprio in Europa? I motivi vanno ascritti a quattro tipi di variabili che consentono
l’esistenza del pluralismo politico.
In primo luogo variabili economiche:
Una prima tesi si è diffusa negli anni Cinquanta ed è detta “tesi di Lipset”, secondo la quale
perché ci sia democrazia è necessaria una certa ricchezza. Con lo sviluppo della produzione
industriale, si è sviluppata la democrazia. L’idea è che se c’è qualcuno abbastanza ricco da
proteggersi dal potere politico, il potere politico gli dovrà stare attento. Quindi gli Stati con
reddito pro-capite annuo più alto sono democratici (Svezia, USA, Canada).
Ma non tutti i Paesi industrializzati divennero democratici a seguito della Rivoluzione
industriale. Infatti in questo ragionamento si può insinuare un dubbio: siamo sicuri che sia
la ricchezza a portare la democrazia e non la democrazia a portare la ricchezza? Del resto la
democrazia si basa sul libero mercato, che stimola lo sviluppo e quindi la ricchezza.
Quindi sicuramente c’è una correlazione tra ricchezza e democrazia, ma in realtà le
modalità di questa correlazione sono tutt’altro che chiare. Magari è una correlazione
spuria: in tal caso, ci sarebbe un altro fattore che spiegherebbe sia democrazia che
ricchezza.
La Cina, per esempio, è ricca (ha un tasso di sviluppo elevato) ma non democratica.
Esistono quindi regimi ricchi non democratici ed esistono anche democrazie povere.
Assenza di disuguaglianze economiche estreme.
Se la tesi di Lipset guardava la ricchezza media, questa seconda tesi guarda agli estremi. Se
le disuguaglianze sono estreme, l’impulso democratico viene da chi è molto povero (se uno
è ricco, infatti, è improbabile che voglia cambiare le cose), ma i poveri non hanno grandi
risorse e, piuttosto che impegnarsi nella partecipazione politica, protestano (anche con
forme di terrorismo). La ricchezza quindi è distribuita equamente.
Variabili sociali:
Pluralismo sociale.
La democrazia è più probabile laddove è più semplice esprimere più interessi diversi.
Alto livello di alfabetizzazione.
E’ in parte una conseguenza della ricchezza economica. Un maggior livello di
scolarizzazione dà una maggiore capacità di informarsi e ottenere un impiego che dia un
maggior tempo libero da dedicare all’impegno civile.
Vi sono anche variabili culturali. La domanda di base da porsi è “Quali sono i valori propizi per la
democrazia?”. Le risposte sono due:
1. Cultura civica.
Vi è più democrazia dove si incentiva l’idea che si può fare la differenza.
76
2. Propensione delle élites al compromesso.
Vi è più democrazia dove l’opposizione ha la stessa dignità dell’élite al governo: si tratta
semplicemente di un gruppo diverso con interessi diversi.
Infine, vi sono anche variabili storiche. In particolare, la domanda di base è “Perché la democrazia
è nata in Europa?”. La risposta è che l’Europa è stato il primo continente in cui si è avuto un
processo di State-building: e, chiaramente, non può esistere democrazia senza Stato. La presenza
di uno Stato, infatti, permette di risolvere i problemi fondamentali dell’ordine e della sicurezza:
dopo tutte le guerre tra gli Stati europei, la pace di Westfalia e il Congresso di Vienna hanno
sancito l’accettazione della divisione interna dell’Europa. Essenzialmente, quindi, possiamo dire
che la democrazia nasce soprattutto in quegli Stati che sono tutto sommato stabili: pur essendoci
divisioni interne e simili, il confine esterno non è messo in discussione.
5. LA DEMOCRATIZZAZIONE
Nei prossimi paragrafi vedremo la democratizzazione, ossia quel processo che rende un regime più
vicino alla nostra definizione di democrazia.
Oligarchia competitiva
Poliarchia
Competizione
Partecipazione
Egemonia chiusa Egemonia includente
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L’egemonia chiusa è la situazione delle monarchie del Settecento. Da lì, aumentando il grado di
competizione, aumentò il riconoscimento di alcuni diritti: il sovrano rimaneva il sovrano, ma iniziò
a pensare che si potesse competere per essere suoi consiglieri. Quindi all’interno di un’élite
ristretta si è sviluppò la competizione in virtù dello sviluppo di risorse diverse (latifondo e capitale).
Questo percorso venne seguito principalmente dall’Inghilterra. A governare erano quindi sempre
poche persone, ma c’era già più competizione che in passato: chi era al potere doveva tenere in
conto la presenza di altri attori. Questa fase intermedia è nota come oligarchia competitiva. Da
questa fase l’Inghilterra ampliò solo successivamente il suffragio, approdando alla poliarchia.
Con l’ampliamento della partecipazione, invece, si ha il caso della Francia e della Russia: con la
Rivoluzione francese si ampliò il diritto politico. Questo tipo di cambiamento può essere misurato
tenendo conto dell’evoluzione del diritto di voto. Questa situazione intermedia è nota come
egemonia includente. Solo successivamente è aumentata la competizione, comportando anche qui
l’approdo alla poliarchia.
I percorsi egemonia chiusa oligarchia competitiva poliarchia ed egemonia chiusa
egemonia includente poliarchia sono quindi diversi, ma portano allo stesso risultato.
Ma come detto in apertura di paragrafo, esiste un terzo sentiero per arrivare alla democrazia:
Oligarchia competitiva
Poliarchia
Competizione
Partecipazione
Egemonia chiusa Egemonia includente
Come visibile nel grafico, si tratta di quello che porta direttamente dall’egemonia chiusa alla
poliarchia. E’ il sentiero proprio degli Stati di recente democratizzazione, in cui i processi di
competizione e partecipazione si sono sviluppati al contempo. Gli Stati di recente
democratizzazione sono però i meno stabili, perché partecipazione e competizione si sono
sviluppati molto velocemente. Nelle democrazie più stabili, invece, i due processi si sono sviluppati
uno alla volta e si sono consolidati nel tempo.
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segue un periodo di riflusso, in cui si fa un passo indietro, ossia gli Stati democratici sono tornati ad
essere non democratici. Le tre ondate di democratizzazione sono:
79
prendere decisioni a volte contraddittorie: includere gruppi sociali poco accettati
precedentemente, per esempio. E’ quanto abbiamo già visto nei regimi autoritari.
2. Transizione.
E’ una fase osservabile anche nei regimi ibridi: il regime autoritario ha mantenuto alcuni
aspetti, ma ha anche assunto caratteristiche proprie della democrazia. La transizione si dice
“continua” se l’apertura al pluralismo avviene senza rivoluzioni, ma segue un percorso
programmato: concessione graduale di alcuni diritti e loro tutela. Si dice invece
“discontinua” se il regime autoritario non è ancora così convinto di aprirsi, e quindi si
verifica un evento traumatico –colpo di Stato, uccisione del leader, manifestazione di
massa. Un esempio è la Romania di Ceausescu.
Nella fase di transizione, in ogni caso, si pone il problema di definire il ruolo della vecchia
élite –la quale ha perso necessariamente potere- nella neonata democrazia. Non è detto
infatti che l’élite venga eliminata del tutto.
3. Instaurazione.
E’ la fase che porta alla codificazione di quei (potenzialmente) otto aspetti che definiscono
una democrazia (vd. par. 3.1). Inoltre vengono garantiti i diritti civili e politici e si ha
apertura al pluralismo politico per tante persone.
La domanda fondamentale è: chi sono i nuovi attori che potranno determinare come sarà
la democrazia? Si distingue tra attori esterni (come nel caso dei militari americani in Iraq)
ed interni.
Gli attori esterni ((?))
Un altro aspetto rilevante è che l’instaurazione coincide con la fase di constitution building,
durante la quale si fanno scelte importanti: si decidono il sistema elettorale (proporzionale
o maggioritario) e la struttura dello Stato (centralizzato o decentrato), e tali scelte possono
portare a situazioni più o meno conflittuali.
Durante l’instaurazione è importante che si risponda a tre questioni conflittuali:
1. Strutturazione del conflitto di classe: vogliamo accettare tutti i partiti dall’estrema
sinistra all’estrema destra? In effetti i partiti estremi sono anti-sistema, quindi possono
causare problemi.
2. Partecipazione di massa. La partecipazione di massa comincia come agitazione anche
violenta e si trasforma in partecipazione elettorale. Quei gruppi che mobilitavano le
persone devono ora ottenere il loro voto, ma questa mole di voti deve essere utilizzata in
modo cauto: se si vince le elezioni, bisogna ancora tutelare le minoranze che hanno perso.
La partecipazione di massa è quindi basata sul fatto che il potere di chi vince le elezioni
dura solo per un tempo limitato, e nel mentre chi ha vinto le elezioni deve tutelare chi le
potrebbe vincere un domani.
3. Continuità/discontinuità con il vecchio regime. Si può decidere di eliminare delle
strutture del vecchio regime che però fornivano dei servizi, quindi si devono trovare delle
alternative (è il caso dell’Italia post-fascismo).
La fase di constitution building può quindi durare diverso tempo.
4. Consolidamento.
Lo studioso Leonardo Morlino fa notare che secondo studi precedenti la democrazia, dopo
l’instaurazione, falliva o aveva successo. Ma egli aggiunge che c’è una via di mezzo: la
democrazia, come dimostrato dal caso italiano, ha bisogno di consolidarsi. Per fase di
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consolidamento s’intende un “processo di definizione nei suoi caratteri essenziali e di
adattamento in quelli secondari delle strutture e norme democratiche innescato dal
trascorrere del tempo”. Un regime democratico, una volta instaurato, deve definire in
maggior dettaglio quali sono i suoi meccanismi di funzionamento e adattarsi alle
circostanze sociali, economiche, storiche e così via. La democrazia deve essere in grado di
distribuire la ricchezza sia quando c’è la ricchezza che quando non c’è. Quali sono i processi
che consentono alla democrazia di adeguarsi? Morlino parla di due processi principali:
1. Legittimazione. La democrazia non è un semplice meccanismo: avere la possibilità di
andare a votare e poi avere affluenza minima al voto renderebbe insensata la democrazia.
La legittimazione è appunto ciò che rende le alternative non-democratiche inaccettabili agli
occhi dei cittadini oppure li accetta solo come extrema ratio e per un periodo limitato.
La legittimazione è:
- Accettazione del compromesso democratico (pluralismo politico)
- Rispetto della legalità (chi ha il potere è comunque sottomesso alla legge, non è più
speciale degli altri), che rappresenta una garanzia per chi non vince le elezioni
- Neutralità dei militari
- I gruppi imprenditoriali (attori sociali importanti) devono riconoscere nel sistema
democratico la migliore alternativa possibile. Non è così banale: magari nel regime
autoritario precedente gli industriali avevano condizioni privilegiate perché in un combutta
con i piani alti della politica.
2. Ancoraggio. In Italia la legittimazione non è mai stata molto efficace. La mancanza di
legittimazione può in qualche misura essere sostituita dall’ancoraggio. Le ancore possibili
sono:
- I partiti. Più i partiti sono radicati, stabili nel tempo, più costituiscono un canale di
rappresentanza. Il partito garantisce che, anche se tutto il resto sembra funzioni male, il
cittadino abbia un canale di comunicazione con la politica.
- Gruppi di interesse, cioè lobby e sindacati forti. Le lobby costituiscono un circuito di
rappresentanza alternativo. Per esempio, i gelatai ricercano un partito che tuteli gli
interessi dei gelatai. Ma la Federazione Italiana Gelatai fa già questo compito pur non
essendo un partito.
- Rapporti clientelari. Un rapporto clientelare è l’emissione di un beneficio pubblico in
cambio di un interesse privato (e quindi è qualcosa ai limiti dell’illegalità). Gli esempi di
favoritismi, corruzione e così via sono tutti rapporti di tipo clientelare.
- Assetti neo-corporativi, cioè triangolazioni tra Governo, sindacati e associazioni di
produttori. Il Governo, in questo caso, si impegna a risolvere le vertenze sindacali
elargendo benefici a tutti. Per esempio, gli operai possono protestare per un aumento della
busta paga. Il Governo, in questo caso, può decidere di aumentare la busta paga al posto
dell’associazione dei produttori. Si tratta di una condizione win-win: vincono sia
l’associazione dei produttori che gli operai. Ma, se quest’azione viene reiterata a lungo
termine, la stabilità economica dello Stato ne potrebbe risultare minata.
81
CAPITOLO 5:
I PARTITI
82
1. INTRODUZIONE
Nei due capitoli precedenti abbiamo trattato le forme di governo. Ora però dobbiamo interessarci
agli attori che competono per ottenere il potere nell’ambito dei circuiti adibiti all’interno dello
Stato: stiamo parlando dei partiti.
Il partito è una realtà recente, infatti nasce nello Stato moderno. I motivi fondamentali sono due:
2. DEFINIZIONI
Non è facile definire cosa sia un partito per due motivi:
I partiti tendono a celarsi dietro tanti nomi. Il “Movimento 5 Stelle”, per esempio, è
addirittura partito di governo. Altri nomi famosi sono “Lega” o “Alleanza Nazionale”. Il
primo problema è quindi quello di capire chi costituisca un partito pur non definendosi
tale.
Nei regimi autoritari i partiti hanno grandi differenze rispetto ai partiti in democrazia,
perché nei regimi autoritari le elezioni sono fittizie. Di conseguenza è difficile trovare una
definizione comprensiva di tutte le esperienze diverse del partito.
Secondo la definizione di Giovanni Sartori un partito è “qualsiasi gruppo politico identificato da
un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni ed è capace di collocare attraverso le elezioni
(libere o no) candidati alle cariche pubbliche”.
Da questa definizione discendono alcune caratteristiche fondamentali del partito:
Carattere associativo.
Perché ci sia un partito deve essere garantito il diritto di associazione, uno dei diritti politici
fondamentali. Nella storia questo diritto non è stato diffuso subito in maniera allargata. Il
partito deve quindi nascere dal basso, spontaneamente.
Condivisione di principi e valori tra i suoi membri interni.
I membri del partito non puntano semplicemente ai propri interessi individuali. Ci sono
sicuramente anche quelli, ma questi interessi individuali devono promuovere una visione di
quale sia il bene comune per tutta la collettività.
Organizzazione stabile.
All’interno del partito si prevede che chi ne faccia parte abbia una propria funzione.
Esistono quindi degli amministratori e dei leader di partito, nonché candidati che possono
coincidere con i leader oppure no. Infine, si ha la massa degli iscritti (i “militanti”).
83
Partecipazione volontaria.
I partiti non possono obbligare le persone ad iscriversi, quindi c’è un rapporto identitario
tra partito e militante: chi fa parte del partito si sente parte di una comunanza di ideali.
Occupazione delle cariche elettive.
La finalità dei partiti è quella di entrare nel processo decisionale.
3. FUNZIONI
Nella letteratura si sottolineano sei funzioni principali ripartite tra funzioni di input e di output.
I partiti si posizionano come canale di comunicazione tra lo Stato e la società. Nello specifico,
servono a convogliare richieste da parte della società (su vari temi come sicurezza, normazione,
crescita economica e così via) e renderle evidenti ai meccanismi della politica, i quali devono dare
una risposta a queste stesse istanze. A questo ruolo del partito sono associate le funzioni di input
(o rappresentative):
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Partecipazione alla formulazione delle policy.
Le politiche pubbliche sono decise dagli organi di Stato, in ultima istanza dal Governo. I
partiti insinuano nell’amministrazione pubblica i propri iscritti: in altre parole, i partiti
possono quindi occupare anche l’amministrazione, come negli USA.
Controllo sul governo.
I partiti all’opposizione vogliono rendere il Governo della maggioranza responsabile delle
proprie azioni e, soprattutto, comunicarle ai cittadini. I partiti all’opposizione, in altre
parole, sono importanti perché senza di loro nessuno ci dice se chi è al potere stia
governando nel migliore dei modi. Quindi i partiti all’opposizione sono una garanzia di
democrazia.
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si tratta quindi dei ricchi che, avendo già un proprio patrimonio economico, partecipano
alla politica. Inoltre partecipano alla politica solo quando serve: alle elezioni e, in generale,
solo nelle occasioni più importanti. E’ il caso della House of Lords in Inghilterra: ne
consegue che i partiti di notabili di Weber sono affini ai partiti ad origine interna di
Duverger.
Partiti di massa.
I politici del partito di massa, invece, fanno proprio i politici di mestiere: i partiti di massa si
basano pertanto su persone che non hanno risorse proprie per vivere, se non quelle
relative alla propria professione. Ma è chiaro che non si può essere sia operaio che uomo
politico. E’ quindi necessario che nel partito di massa i rappresentanti abbandonino il
proprio ruolo di operai/artigiani per dedicarsi completamente alla politica. Il partito di
massa dispone di risorse finanziare perché ogni iscritto al partito paga una piccola quota.
Nel partito di notabili è il politico che usa i soldi personali che investe, mentre il partito in
sé non ha risorse. Ne consegue che nel partito di massa il politico svolge la propria attività
politica permanentemente.
Riassumiamo quindi brevemente la nascita del partito secondo l’approccio strutturale.
Il partito nasce all’inizio dell’Ottocento come partito a origine interna (il modello di riferimento è
quello britannico). Verso la metà del secolo questi partiti diventano nazionali perché devono
abbracciare un elettorato esteso su tutto il territorio (in concomitanza con l’estensione del
suffragio). I partiti di massa trovano la prima vera e propria forma di espressione verso la fine
dell’Ottocento: in questo periodo arrivano in Parlamento i primi deputati non eletti da partiti
elitari. Con la fine della Grande Guerra nascono nuovi partiti di massa diversi da quelli operai e
contadini: si tratta dei partiti estremisti, cioè quello fascista, comunista e nazista. Questi partiti
aggiungono una volontà “anti-sistema” e nascono anche in ambienti diversi da quello della
fabbrica.
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partiti. Quando l’integrazione nazionale è contesa, come nel caso della Catalogna, si
verifica questo fenomeno.
Stato vs. Chiesa.
Questa frattura è nata quando lo Stato ha cominciato a normare in merito a servizi
precedentemente sotto le competenze della Chiesa: istruzione e matrimonio, per esempio.
Questa frattura ha portato all’emergere di partiti confessionali: coloro che sostenevano
l’interesse della Chiesa si sono contrapposti a partiti di ispirazione laica (liberali, radicali).
Le altre due fratture sono dovute alla Rivoluzione industriale. Questa ha determinato che i gestori
dei capitali fossero i ricchi, non i latifondisti:
Gruppo dirigente.
Risulta rafforzato perché deve competere per “rubare” elettori agli avversari, anche se
questi stessi elettori erano prima considerati nemici. Il gruppo dirigente deve dire cose che
prima non diceva solo per accaparrarsi voti.
Le tessere degli iscritti tendono a calare, perché i partiti accetteranno anche versamenti da
parte di lobby (gruppi di interesse privati, che possono essere industrie o sindacati).
Ne consegue che l’élite del partito diventa professionista della politica.
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Quindi il rapporto con la base elettorale diventa meno intenso rispetto al partito di massa.
E’ importante che l’elettore sia fedele solo alle elezioni: i militanti, cioè i fedeli per sempre,
contano di meno. All’infuori delle elezioni, il partito non cerca di sensibilizzare le masse alla
propria causa: viene quindi meno l’appiglio ideologico.
La finalità del partito è quindi quella di attirare elettori eterogenei, andando a rubare
nell’orto degli altri partiti.
Nel 1982 Panebianco definisce il concetto di partito professionale-elettorale, il quale punta a
bucare lo schermo delle televisioni. Sulla scia del partito pigliatutto, Panebianco ha ricondotto
questo tipo di partito alle trasformazioni del tessuto sociale, che hanno favorito una maggiore
eterogeneità culturale nell’elettorato: quest’ultimo è ora meno controllabile dalle organizzazioni
partitiche e ai cambiamenti tecnologici con l’impatto della televisione. Il partito professionale-
elettorale si contraddistingue per le seguenti caratteristiche:
Per ottenere voti, il partito ha bisogno di una leadership solida. I candidati alle elezioni
sono più importanti dei burocrati e del programma elettorale in sé, perché i leader devono
vendersi attraverso gli schermi televisivi. In altre parole, il partito deve vendere un
prodotto, e tale prodotto sono i candidati.
I partiti iniziano a finanziarsi sia attraverso le lobby sia attraverso i fondi pubblici.
Accettano nuove figure professionali: non è tanto importante l’ideologo, quanto piuttosto
l’esperto di marketing.
Il rapporto con gli elettori è saltuario: ciò che conta è mantenere i legami solo alle elezioni.
Il peso dell’elettore è quindi maggiore di quello dell’iscritto.
Vuole attirare elettori eterogenei.
Esiste poi il partito mediale-personale, nato negli anni Novanta. Il caso studio da cui nasce l’idea è
quello di Forza Italia, i cui caratteri sono riscontrabili anche in altri partiti all’estero:
Il partito deve contare sul suo leader, cioè il partito si identifica con una persona. Forza
Italia, infatti, è Berlusconi. La scelta del leader non è problematica: il partito è
un’emanazione del leader.
I finanziamenti derivano da un capitale privato, cioè quello del leader.
Il leader è carismatico: gestisce il partito come se fosse una sua impresa, cioè prende lui
tutte le decisioni.
Il partito si basa sui media: Berlusconi è capace di sfruttare la televisione per accaparrarsi
voti negli anni Novanta. Il leader non si accontenta delle elezioni: tante più sono le
occasioni di presentarsi al pubblico, meglio è.
Lo scopo è quello di attirare attori eterogenei.
Infine, verso la fine degli anni Novanta si parla di “cartel party”, che mette in luce come i partiti
siano arrivati ad una specie di declino: i tesserati e i fondi diminuiscono; il tasso di affluenza alle
elezioni dimostra che il partito prende meno voti. Il partito, insomma, ha meno risorse e meno
successo: come sostenersi? Appunto, il cartel party nasce come risposta a queste domande:
accordandosi fra loro per aumentare il finanziamento pubblico, i partiti sarebbero entrati in una
reciproca competizione, favorita dalla riduzione della distanza ideologica e da una maggiore
convergenza nei programmi delle varie coalizioni di governo. In questo quadro, il finanziamento
pubblico ai partiti avrebbe rafforzato il progressivo legame tra partiti e Stato, favorendo il
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passaggio dei partiti da organismi interni alla società (partiti di notabili) a organizzazioni
intermedie tra stato e società civile (partiti di massa) per diventare, infine, una struttura interna
allo stato (cartel party).
Le caratteristiche del Cartel party sono le seguenti:
Comitato.
Rappresenta la struttura di base dei partiti che nascono nella prima metà dell’Ottocento
(liberali, conservatori, radicali) in una fase di suffragio censitario. Il comitato è una struttura
non stabile e informale, che è formata da una membership ristretta, un club di
gentiluomini, di elevata estrazione sociale, che si riunisce saltuariamente, di solito durante
il periodo di campagne elettorali. La figura del politico “gentiluomo” si basa più sulla qualità
che sulla quantità (numero di simpatizzanti). Il partito di notabili è quella parte dei partiti
che serve a coagulare il consenso: convincere gli altri nobili ad essere eletti. Una volta finite
le elezioni, il comitato si scioglie. Proprietari terrieri, industriali, commercianti decidono di
sostenere un candidato e finanziarne la campagna elettorale affinché questo sostenga i
loro interessi in parlamento. Il comitato di affida a finanziamenti privati: ciò è possibile
perché c’è gente che ha risorse sufficienti da dedicare alla politica. Ne consegue che i
membri del comitato non sono professionisti. Il comitato è quindi una struttura
organizzativa “precaria”, fondata su incontri sporadici, con un’intensificazione delle attività
a sostegno delle candidature focalizzata nel periodo elettorale.
Sezione.
E’ la filiale locale di un partito distribuito su base nazionale. La sezione è fatta apposta per
attirare nuovi iscritti: ci sono tante sezioni a livello locale che però devono essere
coordinate a livello nazionale. Le strutture locali sono pagate da quella nazionale. La
struttura burocratica necessaria per far funzionare la sezione e metterla in contatto con la
struttura nazionale è la “burocrazia di partito”. Il politico gentiluomo viene quindi sostituito
dal “burocrate”, che trae il proprio sostentamento grazie all’attività svolta presso il partito.
Il carattere permanente della sezione consente alla leadership di raggiungere due obiettivi:
allargare i consensi tramite un’attività di socializzazione e sostegno continua e ottenere
finanziamenti dagli iscritti mediate il versamento di piccole quote.
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Cellula.
La cellula è diversa dalla sezione perché ha una membership chiusa. I membri si ritrovano
in ufficio, in fabbrica o presso qualche amministrazione, perciò non hanno diffusione
capillare a livello territoriale. Ogni cellula è responsabile della propria azione a livello
locale; invece ogni sezione è coordinata con le altre a livello nazionale. La cellula è alla base
dei partiti comunisti.
Milizia.
E’ il corrispettivo di destra della cellula. Al suo interno si ha una struttura paramilitare: la
milizia è una caricatura in piccolo di un esercito. I membri sono militari o ex militari, quindi
all’interno della milizia ritroviamo una gerarchia che riflette quella dell’esercito.
Oggi possiamo sintetizzare tre elementi fondamentali nella struttura di un partito:
Apparato.
Si tratta del personale dipendente del partito. Sono le persone che lavorano nel partito per
svolgere le funzioni del partito stesso.
Gruppo parlamentare.
Sono i candidati e gli eletti. Svolgono la propria funzione principalmente all’interno del
Parlamento.
Iscritti.
Sono coloro che pagano di tasca propria e partecipano alle attività del partito senza un
tornaconto immediato.
Queste tre componenti possono cooperare o anche trovarsi in competizione reciproca. Su
quest’ultimo punto ci sono tre possibili motivi di tensione:
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8. I SISTEMI PARTITICI: INTRODUZIONE
Al fine di comprendere più approfonditamente le dinamiche relazionali che si instaurano tra i vari
partiti nell’ambito di un determinato contesto nazionale, è indispensabile introdurre il concetto di
sistema partitico. Un sistema partitico può essere definito come un complesso di interazioni tra le
unità che lo compongono (i partiti appunto). Tale sistema presuppone una relazione orizzontale,
competitiva, fra almeno due partiti, e un’interdipendenza verticale fra più elementi, quali, oltre ai
partiti, l’elettorato, i parlamenti e i governi.
Il problema fondamentale posto dall’elaborazione di una teoria organica dei sistemi partitici è
l’individuazione di criteri in grado di:
I partiti producono un output in termine di politiche pubbliche in base alle richieste degli attori
sociali (che invece costituiscono l’input). L’esigenza della società viene filtrata dai partiti attraverso
l’output. In che modo interagiranno tra di loro i vari partiti all’interno di un sistema? Cioè, quanto
sono propensi a cooperare oppure no?
Chiaramente esistono diverse possibili configurazioni di sistema. Per determinare le differenze
bisogna risolvere due questioni, ovvero quelle indicate poco fa:
Potenziale di ricatto.
E’ la capacità che possono avere alcuni partiti, spesso collocati agli estremi dello spazio
politico, di condizionare le strategie degli altri partiti, allontanando i moderati dal centro e
imprimendo, una spinta centrifuga alla competizione. Il Movimento Sociale Italiano (Msi),
pur non avendo un grosso seggio elettorale, poteva essere contato proprio a causa del suo
potenziale di ricatto. L’ideologia antisistema ha la capacità di condizionare anche gli altri
partiti (di destra o sinistra). L’elettore può essere attratto dall’ideologia, quindi i partiti di
destra devono adeguarsi per sottrarre voti al partito di estrema destra e pertanto
prendono posizioni più estreme. Un partito piccolo agli estremi può contare molto più di
quanto si pensi.
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Potenziale di coalizione.
Indica l’utilità che alcuni partiti, anche piccoli, ricoprono nella formazione di maggioranze di
governo. Ovvero un partito piccolo può essere molto utile per raggiungere la maggioranza
di governo (ossia può essere determinante per formare un governo quando gli altri partiti
non raggiungono la maggioranza alle elezioni). Ne è un esempio il Partito Liberale Italiano,
utile alla Democrazia Cristiana per formare un governo.
Inoltre, dobbiamo poi aggiungere la distanza ideologica tra i partiti. Che tipo di interazione
reciproca hanno i partiti? Oltre a destra e sinistra esistono partiti estremi antitetici. Più i partiti
sono vicini, più sono propensi al compromesso. Sartori individua quindi un altro criterio che si
aggiunge ai due appena analizzati (più, chiaramente, la grandezza elettorale): si tratta del grado di
polarizzazione tra le varie componenti di un partito. Vediamo di seguito:
Un sistema altamente polarizzato prevede la collocazione dei partiti in uno spazio politico
“lungo”, dove ad entrambi gli estremi si collocano formazioni antisistema la cui distanza
reciproca è massima. I partiti tendono a convergere, ci sono punti su cui vanno d’accordo
ma la distanza ideologica non è conciliabile.
All’opposto, un sistema non polarizzato si caratterizza per il posizionamento dei partiti in
uno spazio politico “corto”, dove mancano ad entrambi gli estremi formazioni antisistema
e, sia a destra che a sinistra, prevalgono posizioni moderate. Come già detto, quindi, dove
c’è meno frammentazione ideologica i partiti saranno più propensi al compromesso.
Abbiamo quindi visto che, oltre alla grandezza elettorale, secondo Sartori vale la pena tenere in
conto altri tre criteri fondamentali. Se combiniamo insieme il numero dei partiti rilevanti con la
distanza ideologica possiamo impostare un grafico ((GRAFICO)).
Da questo grafico ricaviamo la classificazione di Sartori, secondo cui i sistemi partitici possono
essere competitivi o non-competitivi. Analizziamoli entrambi distinguendo il formato dalla
meccanica.
A partito unico (solo a un partito è consentito operare, mentre tutti gli altri sono fuori
legge)
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A partito egemone (l’egemonia è irreversibile, salvo un mutamento di regime)
C’è un solo partito ammesso (sistema monopartitico), ma in alcune circostanze c’è un sistema a
partito egemonico.
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CAPITOLO 6:
I GRUPPI D’INTERESSE
1. INTRODUZIONE
L’idea di gruppi di interesse è interessante perché al centro di dibattiti contemporanei. I gruppi di
interessi sono in grado di influenzare un decisore politico e fare pressione perché questo organizzi
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la cosa pubblica rispondendo alle loro esigenze. Coloro che fanno lobbying non rappresentano gli
interessi di tutti poiché non soggetti dei meccanismi elettorali: al contrario, fanno gli interessi di
chi li paga. Esiste una visione per cui le lobby sono qualcosa di cattivo, uno strumento di chi è più
forte per mantenere il proprio potere; esiste anche una visione buona, tale per cui avere tanti
gruppi di interesse consente di stimolare il decisore politico in varie direzioni e quindi permettono
di trovare equilibrio tra interessi altrimenti discordanti.
Durante la prima guerra mondiale si ha un problema fondamentale che tutti i governi devono
risolvere: se si vuole combattere bisogna produrre armi. I sindacati, uno dei tanti gruppi di
interesse, rappresentano uno strumento di disciplina nei confronti della classe operai. Questo
perché i sindacati sono ciò che convince la classe operaia a fare quello che il governo vuole
evitando proteste e forme di dissenso affini. I sindacati sono quindi mediatori tra gli interessi degli
operai e quelli dello Stato. Finita la guerra, i sindacati richiedono la propria ricompensa: il governo
inizia quindi a fare i conti con questi gruppi.
2. DEFINIZIONI E TIPI
Alla base della definizione ci sono alcuni problemi.
“Gruppo di interesse” è infatti solo una delle dizioni possibili: per esempio, si può parlare anche di
“gruppi di pressione”. Un gruppo di interesse è una qualsiasi associazione che si attiva perché
vuole conseguire un risultato volendo però attivarsi in politica: la partecipazione alla politica è
quindi il discrimine fondamentale tra le lobby e, per esempio, un club di scacchi. La definizione del
gruppo di interesse in sé, quindi, ci dice soltanto che esistono soggetti che si attivano presso la
politica per tutelare un proprio interesse.
Il gruppo di pressione, invece, è leggermente diverso: come detto dal nome, l’organizzazione
utilizzerà strumenti coercitivi. Diversamente dal gruppo di interesse, quindi, quello di pressione
presuppone la capacità di minacciare il decisore pubblico con delle sanzioni (come ritorsioni e
scioperi). Il gruppo di pressione può anche condividere con il decisore politico delle informazioni
importanti: magari il governo deve decidere una norma molto tecnica, e il gruppo offre le
competenze tecniche necessarie. Pensiamo ad una legislazione che debba tutelare la diversità
ittica in Mar Mediterraneo. Per scrivere una legge che stabilisca quello che si deve fare è
necessario il contributo degli attivisti, che costituiscono un gruppo di pressione: governo e attivisti
hanno lo stesso scopo, ossia tutelare il Mediterraneo, perciò collaborano.
Vi è anche una distinzione tra lobby e gruppi di interesse. “Lobby” ha un significato
contestualizzato, ben preciso: è un termine che nasce dal Parlamento britannico. La lobby era
l’anticamera del Parlamento ed era il luogo in cui i deputati, di tanto in tanto, accoglievano le
richieste di singole persone. Il lobbying è quindi la pratica di accedere direttamente al decisore
politico. Si tratta quindi di un termine molto generale: accedere al decisore politico è qualcosa che
si può fare in molti modi diversi. E’ quindi più corretto parlare di “lobbying”, non di lobby.
Infine, che si parli di gruppo di interesse o di pressione, si parla comunque di “gruppo”. Ma se
guardiamo al processo decisionale, esistono gruppi di interesse che in realtà costituiscono un
unico attore. E’ il caso delle grandi imprese, che possiedono strumenti di minaccia anche forti: per
esempio quello di chiudere uno stabilimento e riaprirlo in un altro paese. E’ il caso della FIAT: una
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volta era parte di Confindustria, ma Marchionne la fece uscire poiché non apprezzava la linea di
quest’ultima.
Queste considerazioni ci consentono di dare una definizione operativa di gruppo di interesse: si
tratta di “un’associazione formale di individui o di organizzazioni, ma anche un’istituzione pubblica
o privata, che cerca di influenzare a proprio favore le politiche pubbliche senza assumere
responsabilità di governo”.
I gruppi di interesse hanno sempre queste caratteristiche:
Un’organizzazione formalizzata.
C’è sempre una gerarchia: un amministratore delegato, un responsabile per le relazioni
internazionali e così via.
Aggregazione per lo più volontaria.
Per partecipare all’associazione si è liberi di iscriversi: ogni impresa, per esempio, è libera di
iscriversi o meno a Confindustria.
Lo scopo non è quello di prendere decisioni in prima persona, ma di influenzare il decisore
politico.
3. TIPI
Possiamo classificare i gruppi di interesse in base al loro obiettivo:
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Vi è poi un caso deviante: quello dei movimenti sociali, come le primavere arabe. I movimenti
sociali rappresentano un attore che nasce dalla società per conseguire un obiettivo politico. Questi
movimenti, oggi, hanno obiettivi extra-materiali: lo “skolstrejk for klimatet”, per esempio. I
movimenti sociali vengono definiti “reti di interazioni prevalentemente informali, basate su
credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su tematiche conflittuali attraverso un uso
frequente di forme di protesta”. Se per essere parte di associazioni e sindacati è necessario essere
tesserati, i movimenti hanno un’organizzazione molto più fluida ed informale. Inoltre, in questi
gruppi vige il principio per cui non si condivide semplicemente un interesse, ma un’identità. Gli
obiettivi dei movimenti sociali sono molto spesso conflittuali, perché spesso sfociano in proteste
su tematiche scottanti. I movimenti sociali promuovono modelli sociali ed economici.
Si veda questa tabella, che riassume i vari tipi di gruppi di interesse ((TABELLA 8.1))
4. FUNZIONI
Per quanto concerne le funzioni, i gruppi di interesse presentano analogie e differenze rispetto ai
partiti. La principale differenza è che i partiti costituiscono un canale elettorale della
rappresentanza; i gruppi di interessi, invece, un canale funzionale. Sono quindi entrambe modalità
di organizzazione di un interesse. I partiti hanno chiaramente una base molto più ampia, mentre i
gruppi di interesse sono molto più omogenei al proprio interno perché rappresentano una sola
categoria di individui.
I gruppi di interesse sono simili ai partiti nelle loro funzioni politiche:
Partecipazione politica.
I gruppi di interesse cercano di tutelare un proprio interesse partecipando però
pubblicamente. Mentre i partiti sono attivi praticamente solo alle elezioni, i gruppi di
interesse non hanno un appuntamento elettorale e sono pertanto attivi sempre. L’opinione
pubblica in molti casi preferisce partecipare alla politica attraverso i gruppi di interesse che
non tramite i partiti (partecipazione inter-elettorale).
Rappresentanza politica.
I gruppi di interesse cercano di sintetizzare e rielaborare le richieste provenienti dalle
imprese che ne fanno parte, cercando di accontentare quelle principali.
Educazione politica.
I gruppi di interesse forniscono competenze tecniche per interfacciarsi con la politica,
arrivando talvolta a formare veri e propri leader politici (per esempio, i leader di sindacati
possono diventare sindaci). Nella visione più ottimistica si ritiene che le persone possano
partecipare a più gruppi di interesse: partecipare a diversi gruppi crea identità multiple e
crea un miglior compromesso all’ascolto dell’altro, perché si possono capire meglio le
prospettive altrui. In questo senso, quindi, i gruppi di interesse svolgono una funzione
educativa. Grazie alla loro azione i gruppi arricchiscono le società democratiche, poichè
forniscono informazioni su una grande quantità di temi. Insieme ai partiti, i gruppi
partecipano al dibattito pubblico sulle politiche e sulla democrazia, e possono fare da
bacino di reclutamento politico ai candidati i quali, se eletti, potranno essere alleati dei
gruppi di provenienza.
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5. TEORIE
Le teorie che vedremo di seguito cercano di rispondere ai quesiti sull’interazione tra
amministrazione dello Stato e gruppi di interesse.
La presenza di tanti gruppi di interesse che tirano per la giacchetta il decisore politico crea
una situazione di equilibrio e moderazione: la decisione finale è la somma di decisioni tra
loro contrastanti, centrifughe. Il Governo non cerca di accontentare solo uno degli interessi
in causa, perché altrimenti i detentori degli altri interessi potrebbero minacciare il Governo
stesso. Quindi i Governi cercano spontaneamente di trovare una soluzione di
compromesso: questo è l’equilibrio.
Gli stessi gruppi, consapevoli della competizione reciproca, non fanno richieste estreme,
perché se un gruppo facesse una richiesta estrema difficilmente otterrebbe quello che
vuole proprio in virtù della presenza di interessi contrapposti. Se invece le richieste sono
moderate, allora è più facile arrivare ad un compromesso. In sostanza i gruppi di pressione
si trovano come le imprese sul mercato: elaborano prodotti simili che costano lo stesso
prezzo. Questa, appunto, è la moderazione.
La presenza di gruppi di interesse garantisce la socializzazione dei suoi membri, cioè gli
individui sono più inclini a capire la posizione altrui.
Avere gruppi di interesse vivaci consente di rendere gli individui della società più autonomi
dallo Stato.
Questa teoria è accettabile se diamo per buoni alcuni assunti:
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diffusione del potere fra i gruppi e di possibilità potenziale di eguale accesso alle arene
decisionali.
Tipo di associazioni.
Le associazioni sono monopolistiche (per ogni dato settore vi è un unico gruppo di
interesse), obbligatorie (chi fa parte di una categoria deve necessariamente iscriversi al
gruppo di interesse), gerarchiche (l’associazione prende delle decisioni e i suoi iscritti le
devono accettare) e funzionalmente differenziate (ogni settore produttivo ha un proprio
sindacato).
Logica di partecipazione dei membri.
Non è più volontaria, quindi i membri non hanno capacità di influire sull’organizzazione. Il
processo di intermediazione degli interessi prevede la possibilità da parte dei capi delle
associazioni di riformulare e trasformare gli interessi della membership secondo le
esigenze dell’organizzazione. Ciò può tradursi in taluni casi nell’imposizione, anche
coercitive, ai membri del rispetto degli accordi.
Modalità di influenza sulle istituzioni.
E’ molto più semplice rispetto al modello pluralista, perché per ogni settore si hanno
pochissime parti in causa. Si ha un’interazione standardizzata, rigida: la contrattazione è
più semplice. Il principio non è più quello del lobbying, ma di concertazione: non si ha una
negoziazione tra due gruppi diversi e il governo. Quest’ultimo non svolge una mera
funzione arbitrale, ma è un soggetto chiave del processo decisionale con i suoi fini
autonomi rispetto a quelli dei gruppi di interesse. Dal momento che il processo decisionale
non è aperto all’influenza di tutti i gruppi, il lobbying diventa secondario, perché a contare
sono i rapporti triangolari e di concertazione Stato-imprenditori-sindacati.
Gli effetti del corporativismo sono:
PLURALISMO CORPORATIVISMO
CASO EMPIRICO USA Austria, paesi scandinavi
ASSUNTI Associazioni in competizione Associazioni monopolistiche,
Adesione volontaria gerarchiche, differenziate
Rapporti fluidi con lo Stato Adesione obbligatoria
Rapporti non fluidi con lo
Stato
CRITICHE Gruppi più forti favoriti Potenzialmente
Free riding antidemocratico
Critica normativa
VANTAGGI Politiche moderate Minore tensione nelle
Socializzazione relazioni industriali
Società autonoma dallo Stato
6. ACCESSO A ISTITUZIONI
I gruppi di interesse possono influenzare in modi diversi il decisore politico. Ma come?
In primo luogo, quali fattori favoriscono l’azione dei gruppi? Vediamoli:
Lo sviluppo socio-economico.
I Paesi dove vi è una maggiore ricchezza diffusa sono quelli in cui i gruppi hanno una
maggiore influenza. Nei Paesi poveri vi sono pochissimi gruppi con molte risorse, mentre gli
altri sono molto più poveri. Cioè, nei Paesi poveri il pluralismo dei gruppi è molto limitato.
Quindi nelle società meno sviluppate la struttura dei gruppi è molto semplice: vi sono pochi
gruppi che rappresentano una piccola frazione della società, e sono pertanto lobby di
ricchi, nel senso giornalistico del termine.
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Una data cultura politica.
Vi è una maggior propensione sociale all’associazionismo negli USA che non in Francia. I
gruppi di interesse in Francia sono meno diffusi, meno attivi. Questo perché sin dalla
Rivoluzione francese il giacobinismo si è dimostrato a favore del bene comune e contro gli
associazionismi particolari. Negli USA, invece, vi è una cultura liberale tale per cui
l’interesse collettivo è la sommatoria degli interessi particolari. Le associazioni che cercano
di soddisfare i propri interessi, quindi, aumentano il bene pubblico.
Il contesto istituzionale.
Si tratta essenzialmente di com’è organizzato in termini di accentramento o
decentramento amministrativo: la decentralizzazione (cioè il trasferimento di funzioni e
responsabilità dal governo centrale a livelli diversi, periferici), è favorevole ai gruppi perché
favorisce il moltiplicarsi dei punti di accesso e fanno riferimento a tanti livelli decisionali e
non solo uno –il governo centrale (il caso americano è coerente con questa visione, perché
la struttura è fortemente decentrata).
Il tipo di partiti o coalizioni di partiti.
Vi sono partiti che tendenzialmente hanno relazioni privilegiate con i sindacati e i gruppi di
interesse. Esistono partiti progressisti: i partiti di centro-sinistra hanno una base elettorale
che tende a coincidere con la base dei sindacati. Se i partiti hanno affinità con particolari
gruppi di interesse, questi ultimi hanno una maggiore possibilità di entrare nell’arena
politica. Per quanto riguarda le coalizioni di partiti, più sono i partiti interni alla coalizione,
più sono i punti di accesso delle associazioni alla politica.
Lo stile di policy.
La propensione alla consultazione dei gruppi è maggiore nei sistemi in cui il potere
decisionale è decentralizzato e le burocrazie pubbliche dipendono almeno in parte dalle
informazioni fornite dai gruppi di interesse.
Quali strategie di lobbying? Vediamole:
Rapporti faccia-faccia.
Il caso americano è interessante. Si tratta di rapporti trasparenti e regolamentati. Un altro
caso interessante è quello del Parlamento Europeo, in cui i lobbisti si scambiano
informazioni. Vi è un rapporto diretto: il gruppo può negoziare direttamente con il decisore
politico che vuole influenzare. Questa strategia è tipica dei gruppi d’interesse più forti.
Grass-roots lobbying
E’ il lobbismo dal basso. E’ una strategia indiretta, che parte dalla mobilitazione
dell’opinione pubblica. E’ l’azione tipica dei gruppi promozionali, che partono da eventi,
proteste e così via.
Coalizioni tra più gruppi di interesse.
Più gruppi possono allearsi a breve termine se hanno un obiettivo comune, per esempio
l’abolizione di una legge.
Finanziamenti elettorali.
Negli USA dei singoli gruppi di interesse possono finanziare la campagna elettorale di alcuni
candidati. La capacità di pressione, chiaramente, in questo caso è ancora più forte. E’ la
situazione tipica delle elezioni statunitensi.
I gruppi d’interesse si possono collocare in maniera diversa nel processo decisionale:
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Insider.
Il sistema politico riconosce il gruppo come attore legittimo nella decisione politica.
Outsider.
Non viene negata la loro legittimità, infatti viene concessa la capacità di fare attivarsi in
vario modo (con manifestazioni, per esempio). Ma il governo non concede l’autorizzazione
alla decisione politica, oppure gli outsider rimangono volontariamente fuori.
Chi è insider tendenzialmente ha più risorse. Gli insider possono fare faccia-faccia, gli outsider
molto probabilmente no.
Ma quali sono le risorse dei gruppi di interesse? Vediamole:
Risorse finanziarie.
Avere ampie riserve finanziarie può consentire di corrompere, ma non è detto. Avere
risorse può anche finanziare studi, ricerche, previsioni, analisi. Questi studi saranno
chiaramente coerenti con gli interessi dell’associazione. Nel caso della Libia, per esempio,
esistono associazioni che monitorano la tutela dei diritti umani dei rifugiati, oltre che volti
chiaramente a finanziare dei programmi di sviluppo.
Risorse numeriche.
Si basano su una partecipazione molto elevata. I sindacati non hanno tanti soldi, ma nel
momento in cui dialogano con il governo sanno di rappresentare gli interessi di tante
persone, tutte aventi diritto di voto. Avere tanti tesserati è una risorsa in sé, una risorsa di
massa.
Risorse di influenza e di sanzione.
I gruppi di interesse hanno una membership limitata, ma le persone che ne fanno parte
hanno un ruolo importante nel settore in cui operano. Basti pensare allo sciopero di certe
figure professionali: sono associazioni che non pullulano di iscritti (come quella dei piloti
d’aereo), ma con la loro azione possono bloccare delle funzioni fondamentali per la società
(i voli).
Risorse di expertise.
Sono quelle risorse di una comunità epistemica, cioè un gruppo di scienziati e ricercatori
aventi competenze tecniche fondamentali per l’attuazione delle politiche: ingegneri
strutturali nel caso dei terremoti, per esempio. Senza che la comunità fornisca dati,
l’amministrazione non può attuare le politiche pubbliche.
Risorse organizzative.
Capacità di ottenere la conformità da parte dei propri membri. L’associazione ha una
grossa presa sulla categoria che rappresenta. Quando l’organizzazione decide di
proclamare lo sciopero, l’adesione allo sciopero è elevata.
Risorse simboliche.
Hanno un grande impatto: basti pensare alla capacità di influenzare l’opinione pubblica
attraverso i media. Alcuni gruppi si appellano a valori, simboli ampiamente diffusi e
condivisi. Questo, a catena, consente di avere un’alta capacità di partecipazione e così via.
E’ tipico delle organizzazioni ecologiste.
Esistono diversi modi in cui i gruppi di interesse possono accedere alla politica. Vediamo questi
canali d’accesso:
105
Partiti.
I partiti fungono da gatekeeper, hanno una funzione di vincolo d’accesso. Sono il principale
referente dei gruppi d’interesse. Nel momento in cui un gruppo si attiva per tutelare un
proprio interesse, si rivolge ad un partito. Le possibilità di interazione sono quattro:
Alcuni membri di partito possono essere anche sindacalisti, quindi il partito può influire sul
sindacato. Influenza partito-sindacato e sindacato-partito sono inversamente
proporzionali. Analizziamo ciascuna delle quattro possibilità di interazione:
1. Con il dominio il partito domina sul sindacato. Quello che il partito decide, il sindacato
accetta. Il sindacato è quasi uno spin-off, perché nasce dal partito. Era un po’ il rapporto tra
la democrazia cristiana e la Coldiretti.
2. Con la subordinazione c’è un partito che è subordinato rispetto ad un’associazione di
categoria. E’ la storia del partito laburista inglese nella sua fondazione. Esso nasce dal
sindacato degli operai.
3. Nella simbiosi le piattaforme politiche di partito e l’organizzazione sono molto simili, cioè
partito e organizzazione collaborano e si rafforzano a vicenda nelle rispettive sfere di
attività. Il sindacato può decidere autonomamente cosa fare, ma dipende (magari
economicamente) dal partito. La simbiosi è favorita dalla vicinanza ideologica.
4. Nella collaborazione/scambio non vi è alcun rapporto privilegiato: a differenza degli altri
casi, i gruppi di interesse si avvicinano non al solito partito, ma cercano di stringere legami
con il partito che vince le elezioni. Infatti è frequente nei governi che seguono il principio
maggioritario, come in Gran Bretagna o l’Italia della Seconda Repubblica.
Governo e burocrazie pubbliche.
I gruppi di interesse possono avere un’azione diretta su chi prende le decisioni e su chi le
mette in atto. Da ciò derivano rapporti di parentela, cioè il gruppo può avere elementi di
affinità sociale o ideologica con l’amministrazione. Gli amministratori pubblici sono
privatamente membri della stessa associazione. Ciò può avvenire perché alcuni ambienti
dell’amministrazione pubblica vengono colonizzati dai partiti. Se un partito che magari sta
al governo per tanti anni riesce a nominare o a fare in modo che gli esponenti
dell’amministrazione siano affini alla sua causa, tutte le organizzazioni vicine a questo
partito avranno un accesso diretto all’amministratore.
Ma derivano anche rapporti di clientela, non necessariamente da intendersi come scambio
privato. Piuttosto si ha quando l’amministratore trova in un gruppo un rappresentante
credibile dei beneficiari della politica pubblica. L’associazione diventa istituzione
privilegiata: quando l’amministratore offre dei servizi, si rivolge subito ad uno specifico
sindacato. Supponiamo che sia necessario riformare l’istruzione: l’amministratore non sa
cosa sia meglio fare, ma si rivolge ad un sindacato che ne sa di più e che quindi può
condizionare più facilmente la decisione politica.
Parlamento.
Tipico degli USA e, più recentemente, del caso europeo.
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Corti di giustizia.
Sono organi neutri, non prendono decisioni politiche. La corte costituzionale, per esempio,
deve interpretare asetticamente il diritto.
Corpi sovranazionali.
Sono le istituzioni sovranazionali: i Parlamenti nazionali europei prendono decisioni
derivanti da ratifiche del Parlamento europeo. Quindi i gruppi preferiscono condizionare i
parlamenti internazionali.
Media.
Sono i canali tipici degli outsider, cioè loro che non sono ascoltati dagli altri attori.
Portano avanti istanze sociali che normalmente sfuggono ai partiti e che non devono
essere colte soltanto in periodo elettorale.
Promuovono dibattiti e convegni per sensibilizzare il cittadino su temi specifici.
Favoriscono la partecipazione politica dei cittadini perché rappresentano una finestra di
proiezione alternativa ai partiti.
Visto che accolgono una platea differenziata di individui, i gruppi d’interesse favoriscono il
compromesso piuttosto che lo scontro.
Offrono ai decisori pubblici informazioni tecniche e conoscenze specialistiche
107
Ecco, invece, alcuni argomenti contro:
108
CAPITOLO 7:
LA BUROCRAZIA
1. INTRODUZIONE
Nell’immaginario comune vediamo la burocrazia come un male della politica, un incidente della
storia, una serie di problemi che si accavallano sulla nostra vita. Ma se la burocrazia è così
schizofrenica vi è un motivo: essa nasce con lo Stato e, man mano che questo va ampliandosi, essa
stessa si espande. La burocrazia, con le sue funzioni mille funzioni, in realtà si rivela importante
tanto per lo Stato quanto per il cittadino. Mettere in luce il ruolo della burocrazia è, appunto,
109
l’obiettivo di questo capitolo.
2. DEFINIZIONE
Nel Settecento la burocrazia era un apparato di servitori dello Stato o, meglio, del sovrano: la
distinzione tra pubblico e privato era ancora lontana dalla sua attuazione. La prima connotazione
di burocrazia è il “bureau”, insieme di funzionari del re. Ma se pensiamo ad un’altra accezione,
può essere un insieme di procedure che riguardano le funzioni. La burocrazia è quindi un insieme
di procedure volte ad uno scopo. A seconda della prospettiva, possiamo dare diverse definizioni di
burocrazia.
Possiamo partire da una prospettiva funzionale:
110
3. IL MODELLO WEBERIANO
Secondo Weber l’esistenza della burocrazia è strettamente legata allo Stato: “Ogni potere si
manifesta e funziona come amministrazione; e ogni amministrazione richiede in qualche modo il
potere”. Stando a Weber, esistono tre tipi di potere legittimo, a ciascuno dei quali si associa una
tipologia di apparato amministrativo:
Potere carismatico.
La legittimità viene dal riconoscimento delle qualità eccezionali del capo.
L’amministrazione è formata dalla cerchia di amici del capo.
Potere tradizionale.
La legittimità viene dal carattere sacro delle tradizioni. L’amministrazione assume forme
patrimoniali o feudali.
Potere razionale-legale.
La legittimità viene da norme astratte, formali e legali che danno il diritto di comando a
coloro che sono chiamati ad esercitare il potere. L’amministrazione è una burocrazia.
In ultima istanza, quindi, la burocrazia è “l’insieme di organizzazioni che funzionano secondo il
principio delle competenze di autorità attribuite ad uffici e specificate attraverso regole
impersonali ed universali”. Si tratta di una concezione tipica dello sviluppo dello stato moderno: il
burocrate è vero che è sottoposto al potere politico, ma è anche un soggetto della legge. La
burocrazia è fondamentale perché nasce con l’istituzionalizzazione: le persone passano, ma le
istituzioni no.
Esistono tre elementi fondamentali della natura di uno Stato, tutti e tre coerenti con la diffusione
della burocrazia:
Razionalità.
I meccanismi di selezione delle competenze e definizione dei ruoli è quello che, sulla carta,
è il migliore possibile. Prima i titoli si trasmettevano di padre in figlio. E’ l’organizzazione
che consente l’unità del comando attraverso una catena gerarchica di uffici.
Neutralità.
I burocrati sono neutri, non interferiscono con la burocrazia: eseguono gli ordini e basta.
Questo fa sì che i burocrati debbano agire senza un minimo di coinvolgimento personale:
dai giudici ai medici, passando per gli insegnanti. Il giudice emette la sentenza, senza
trovare una soluzione: egli deve applicare meccanicamente il diritto.
111
Gerarchia.
La burocrazia è organizzata per livelli gerarchici.
Competenza.
Il personale è selezionato in base alle competenze.
4. FUNZIONI
La burocrazia non fa altro che eseguire degli ordini: si dice che essa non interviene nella fase di
“implementazione” del processo politico; piuttosto, interviene nell’applicazione della legge. La
burocrazia non interviene quindi a monte, bensì a valle. Ma nella realtà vi sono circostanze in cui
l’intervento dei burocrati nelle decisioni è evidente.
La burocrazia ha cinque funzioni:
Consulenza.
Si tratta di consulenza con i decisori politici. Questi decidono cosa fare, i burocrati
eseguono. Ma se i burocrati hanno competenze tecniche, lo stesso non si può dire dei
decisori politici. I burocrati possono quindi suggerire ai decisori politici le soluzioni possibili
ad un problema.
Riscossione delle imposte e redistribuzione del reddito.
La burocrazia nasce per la riscossione delle tasse. Le tasse sono ciò che permette allo Stato
di funzionare, svolgendo opere pubbliche e pagando i suoi funzionari.
Erogazione di servizi pubblici.
La burocrazia fornisce quei servizi pubblici che i privati non offrirebbero in quanto
antieconomici. Vale per molti ambiti, come l’istruzione: tutti stanno meglio se istruiti. Una
società nel suo complesso funziona meglio se l’istruzione è elevata. Ma quest’ultima ha un
costo elevato. Se l’istruzione fosse solo privata i costi sarebbero elevati. L’istruzione è
quindi un servizio pubblico e uguale per tutti. Per questo esiste il MIUR.
Regolazione.
Tutti i governi devono porre delle regole ai comportamenti: divieti di sosta, per esempio.
Stabilizzazione (in regimi paesi in via di sviluppo e alcuni regimi autoritari).
La burocrazia civile e quella militare possono svolgere funzioni e ricoprire ruoli
direttamente politici, sostituendo in parte o completamente la classe politica. E’ quello che
succede in alcuni regimi militari. In questo caso, chiaramente, viene vanificata la nozione di
neutralità (par. 3).
112
Innanzitutto, la neutralità ha diversi limiti. I funzionari dovrebbero eseguire gli ordini in maniera
completamente asettica: ma secondo Peters, se confrontiamo il modello organizzativo di vari stati
notiamo che in realtà tra decisore politico e burocrate si possono instaurare cinque tipi di legame.
Vediamoli di seguito:
Modello formale.
Proprio del caso tedesco e britannico. Il decisore politico dà ordini che vengono eseguiti dal
burocrate. C’è quindi quasi un rapporto gerarchico. E’ l’unico dei modelli che non
contraddice Weber.
Modello village life.
Tipico del caso francese. In Francia i burocrati sono altamente competenti perché
maturano le proprie competenze in strutture educative predisposte: su tutto il suolo
francese si trovano le grandi scuole fatte apposta per chi vuole ricoprire i grandi vertici
dell’amministrazione pubblica. Da queste scuole escono quindi importanti burocrati, ma
anche decisori politici, come lo stesso Macron. Vi è quindi una socializzazione pregressa:
decisore politico e amministratore condividono un’ideologia (economica soprattutto) di
fondo, hanno obiettivi e valori comuni. Hanno quindi una visione comune di cosa sia il bene
per il Paese. In molti casi il decisore politico è stato prima amministratore.
Modello funzionale.
Abbiamo visto che nel modello village life si ha un’integrazione orizzontale fra élite
politiche e amministrative da considerarsi in tutte le alte sfere del governo. Il modello
funzionale presenta caratteristiche simili in termini di condivisione delle decisioni fra le
élite, ma con un’integrazione verticale lungo linee funzionali. Ne consegue che ci sono
legami stretti fra le élite politiche e quelle amministrative nella stessa area funzionale. Si
attiva così una competizione fra le élite politiche ed amministrative di un certo settore
rispetto a quelle facenti capo ad altri settori.
Modello avversariale.
Postula che i burocrati non vadano per nulla d’accordo con la politica, e che ci sia quindi
una competizione aperta quando si decide per una politica pubblica. I burocrati hanno dei
propri obiettivi, e sono tanto più felici quante più risorse e autonomia possiedono.
Modello dello Stato amministrativo.
E’ l’opposto del modello formale, poiché vede un rovesciamento dei ruoli: il burocrate
prende decisioni politiche, si sostituisce alla politica. Questo può accadere quando si ha
una crescita nel lavoro dei governi e questo diventa più complesso dal punto di vista
tecnico. Organi legislativi e dirigenti politici non professionalizzati specificamente hanno
necessariamente bisogno di burocrati esperti per smaltire il lavoro (anche in virtù del fatto
che i burocrati hanno un maggiore accesso alle informazioni su cui basare le decisioni), e
pertanto questi ultimi arrivano a dominare il processo decisionale.
Per quale motivo il burocrate può
Decentramento.
E’ un modello che prevede alcune unità che stanno al di fuori della catena, sulla base del
modello americano. In Italia esistono, per esempio, dei ministeri che per una serie di motivi
non riescono a svolgere completamente delle funzioni: si creano quindi agenzie parallele
unite al governo da un rapporto uguale, di subappalto. Alcune funzioni del governo
vengono quindi svolte da agenzie: basti pensare alla CIA in USA. La gerarchia concede
l’unità del comando: ogni parte è subordinata ad un’altra. Ma con il modello decentrato si
hanno parti parallele, di coordinamento. Esistono quindi divisioni e dipartimenti che
mettono in crisi la gerarchia del modello weberiano.
Discrezionalità.
E’ il problema del burocrate di base. Innanzitutto vale la pena sottolineare che esistono
dirigenti, funzionari e burocrati di base. I burocrati di base sono quelli che offrono il servizio
finale all’utente. Egli si trova molte volte ad offrire un servizio avendo una mancanza di
risorse, cioè non è in grado di soddisfare tutte le domande che riceve. Per esempio, nei
servizi sociali il burocrate può allocare casa ai senza tetto. Ma come stabilire quali famiglie
avranno l’alloggio e quali no? In questo ambito le decisioni prese non gli sono state affidate
da nessuno, ma egli non può fare diversamente. La discrezionalità influisce sull’output.
114
5.3. LIMITI DELLA COMPETENZA
Infine, esistono limiti per quanto riguarda la competenza. Molto spesso nella realtà esistono più
modelli di selezione dei burocrati. In particolare, esistono diverse modalità di selezione delle
competenze: il principale scontro è quello tra il modello burocratico-professionale e quello
burocratico-regolativo.
Questi due modelli vanno analizzati in base a quattro criteri:
Formazione.
Nel sistema regolativo una persona studia per diventare burocrate; in quello professionale
il burocrate ha già delle conoscenze pregresse derivanti dalla propria professione. Nel caso
americano, può essere nominato ambasciatore una persona che ha competenze diverse
perché la nomina avviene per una scelta funzionale: l’ambasciatore può essere un
insegnate, per esempio. Una persona quindi magari eccelle nella propria professione e
viene conseguentemente paracadutata in un’altra, appunto quella della burocrazia.
Accesso.
Nel sistema regolativo il concorso pubblico consente l’uguaglianza di trattamento per tutti,
cioè non c’è una professione che conta più delle altre: si parte tutti dallo stesso punto. Nel
sistema professionale, invece, si hanno nomine politiche, cioè la competenza è decisa dal
politico.
Carriere.
Nel modello regolativo, la carriera rimane all’interno della pubblica amministrazione
(quindi il burocrate può al massimo passare da un ministero ad un altro); in quello
professionale la carriera può essere permeabile: da amministratore politico si può
diventare amministratore d’impresa, per esempio.
Competenze.
Nel sistema regolativo vi è un profilo generalista, cioè quasi tutti hanno studiato
giurisprudenza; in quello professionale, invece, vengono definite competenze specializzate.
Un terzo modello, oltre a quello professionale e regolativo, è quello del “pubblico impiego
contrattuale”: si tratta di una via di mezzo tra il settore pubblico e quello privato. Nasce a partire
dagli anni Novanta e si basa su un impianto originario di tipo regolativo: il funzionario è colui che
sa applicare la legge. Tuttavia vi sono elementi riguardanti il diritto privato: per esempio, la
competenza del funzionario non si misura solo nell’applicazione della legge, ma anche in base al
fornimento di una certa prestazione. Il dirigente deve quindi anche garantire un modello di
responsabilità di fronte all’utente finale: lo scopo del funzionario è quindi anche aumentare
l’output del proprio servizio.
115
Quali sono le sue origini? Dagli anni Settanta si crea un circolo vizioso, perché porta gli Stati a
svolgere sempre più servizi. Addirittura lo Stato entra nel mercato con delle imprese nazionali:
basti pensare alle ferrovie dello Stato. Lo Stato svolge quindi dei servizi, ma ha un problema:
queste imprese sono economicamente traballanti perché lo Stato spende più di quanto guadagna.
La pubblica amministrazione offre quindi dei servizi, ma andando in perdita, indebitandosi. Quindi
si pone il problema di rendere l’amministrazione in grado sì di fornire servizi gratuiti, ma anche di
essere efficiente, cioè ridurre i costi. Su quest’ultimo proposito vale la pena far notare che le
nuove tecnologie informatiche diedero grande stimolo all’invenzione di nuovi metodi di
snellimento delle procedure burocratiche.
In cosa consiste il NPM? Questo nuovo sistema pone l’enfasi sul divorzio tra output e l’outcome: il
primo è ciò che l’amministrazione effettivamente fa; il secondo è l’output per come percepito dal
fruitore del servizio.
I burocrati non devono essere valutati solo in base al rispetto delle procedure, ma anche in base al
risultato. Le nuove figure professionali che ne scaturiscono applicano anche elementi di diritto
privato: i funzionari possono ricevere dei premi anche in base all’efficacia della propria azione.
Questi premi servono a ridurre il gap tra output e outcome: maggiore è l’efficienza del burocrate,
migliore sarà il risultato percepito dal cliente.
Inoltre si ha il downsizing degli apparati e dei programmi: i programmi della pubblica
amministrazione devono rimpicciolirsi, perché sono stati forniti troppi servizi non importanti.
Ancora, si ha la deregolamentazione/ri-regolamentazione: la burocrazia richiede troppa carta
perché essa, con le sue leggi, ha un ruolo di garanzia nei confronti del cittadino. Se una persona
apre un’attività deve compilare tantissimi documenti, di cui molti sono superflui: di fronte a ciò,
una possibile forma di deregolamentazione è l’autocertificazione. La ri-regolamentazione avviene
dopo la deregolamentazione e ha il compito di assicurarsi che chi vuole fare qualcosa non abbia
obiettivi negativi. Negli USA la burocrazia, che aveva il compito di controllare numerosi aspetti
sociali ed economici, è stata deregolamentata: ciò ha causato la crisi finanziaria del 2007.
Ancora, un altro aspetto è il decentramento: le politiche pubbliche devono essere fornite dalla
pubblica amministrazione più vicina all’utente finale. Questa politica, coerentemente con il
downsizing, ha comportato la riduzione dell’apparato burocratico delle capitali spalmandolo su
livelli intermedi.
Un ultimo aspetto è quello della privatizzazione/outsourcing. Gli stessi servizi prima offerti
pubblicamente vengono ora offerti da imprese private, e questo comporta un cambiamento in
termini di costi: l’impresa privata non può permettersi di offrire servizi gratuiti o a basso costo.
Il NPM funziona?
Sicuramente ci sono dei pro. In sostanza ha concesso ad alcuni burocrati di avere un approccio
meno concentrato sul controllo del processo e più sul risultato. Ciò ha consentito di concentrarsi
su obiettivi più ambiziosi, come il miglioramento del sistema produttivo. Questo ha consentito di
contenere le spese della burocrazia.
Ci sono però anche dei contro. In primo luogo, l’idea della pubblica amministrazione come
esecutrice imparziale viene in parte meno, perché ora ci sono imprese private che offrono questi
servizi: non vi è più, quindi, una concezione egalitaria. Molto spesso, per esempio, per un medico
privato un paziente anziano comporta costi troppo alti. Inoltre, la deregolamentazione ha
condotto a comportamenti predatori: in assenza di regole, ci si può costruire le proprie.
116
Infine, ci sono anche costi relativi allo smantellamento sotteso allo snellimento: i “costi di
riduzione dei costi” sono elevati.
117
CAPITOLO 8:
LE POLITICHE PUBBLICHE
1. INTRODUZIONE
Politics e policy sono cose diverse. Questa distinzione è utile a fini analitici, ma in realtà politics e
policy si influenzano vicendevolmente in maniera piuttosto evidente. In un sistema democratico, il
118
potere può fare cose diverse da quelle che può fare in un sistema non democratico. Dagli anni
Cinquanta le politiche pubbliche, le quali sono un prodotto della policy, hanno effetto sulla politics:
i servizi offerti dalle politiche pubbliche favoriscono alcuni gruppi sociali. Le politiche pubbliche,
quindi, assecondano alcuni interessi attivando o creando esse stesse dei nuovi attori sociali. Per
esempio, il welfare state porta lo Stato ad intervenire in economia per fornire sussidi di vario tipo.
Ma nel momento in cui lo Stato offre servizi ad una parte della società, altri attori si attivano per
richiedere servizi e lo Stato accontenta anche questi ultimi, perché chi protesta crea problemi.
Accontentando più gruppi sociali, lo Stato si indebita.
2. DEFINIZIONI
Quali sono le caratteristiche di una politica pubblica? Vediamole:
Le politiche pubbliche non si esauriscono in una singola decisione, bensì in una catena di
fasi.
Magari si decide di risolvere un problema con una determinata soluzione, la si mette in atto
ma poi la si cambia perché non ha funzionato. Il processo decisionale è quindi qualcosa che
richiede uno studio lungo anni.
119
Le politiche pubbliche non sono piani coerenti e lineari.
Molto spesso le politiche pubbliche hanno effetti imprevisti. Per esempio, si può ampliare il
numero di corsie di un’autostrada per snellire il traffico, ma il traffico magari aumenta. C’è
quindi un divorzio tra l’obiettivo dichiarato e il risultato concreto. A volte si fa qualcosa per
migliorare un servizio, ma questo non migliora.
Non sono solo atti formali.
La legge in realtà è solo una fase del processo: una volta elaborata, si deve implementarla.
Questo può prevedere decreti attuativi aggiuntivi.
In sintesi, quindi, possiamo riassumere le politiche come quella catena di scelte, azioni e decisioni
che collegano intenzioni, azioni e risultato (quest’ultimo composto da output e outcome).
3. TIPOLOGIE
Per quanto riguarda le tipologie di politiche pubbliche, vale la pena sottolineare l’importanza del
contributo di Lowi. Questi parte dal fatto che le politiche pubbliche hanno un carattere coercitivo:
in alcune politiche pubbliche la probabilità di essere sanzionati in caso di trasgressione è alta, in
altri casi è bassa. Inoltre, Lowi parte anche dall’applicabilità della coercizione: la legge può
determinare che l’oggetto della coercizione è individuale; a volte, invece, la punizione può essere
“ambientale”, cioè non sanziona un singolo individuo.
Se combiniamo questi due aspetti troviamo quattro classi diverse:
Politiche regolative.
Lo Stato decide che chi non rispetta la decisione verrà molto probabilmente punito. Queste
politiche, quindi, prescrivono un comportamento, determinano un percorso di azione. Chi
rientra nell’ambito della categoria soggetta alla politica pubblica deve comportarsi in un
certo modo. Il codice della strada, per esempio, stabilisce regole di comportamento per
tutti coloro che circolano per strada. Le sanzioni sono ben specificate. Un altro esempio è
quello degli standard di sicurezza: può essere che si sancisca un’azienda perché non ha
messo un cartello di pericolo alta tensione.
Politiche distributive.
Sono molto più positive. Lo Stato definisce una categoria di soggetti e fornisce dei benefici:
sussidi di disoccupazione, sconti fiscali, sussidi per le imprese e così via. I beneficiari della
politica pubblica sono ben definiti. Per usufruire di un sussidio non è necessario essere
puniti, logicamente.
Politiche redistributive.
Distribuiscono a qualcuno togliendo ad altri. L’esempio può essere un cambiamento nella
120
tassazione: magari si può decidere, con un cambiamento di governo, che i ricchi paghino di
più e che i ceti medi paghino di meno. La probabilità di sanzione è quindi chiara: se una
persona deve pagare più tasse, preferirà evaderle. Quindi la legge deve per forza di cose
mettere in chiaro questo aspetto. Questa sanzione viene applicata sia a singoli che ad
imprese, e più in generale a chiunque non si adegui alla politica: non viene quindi definito
un soggetto ben definito, perché chiunque non paghi le tasse verrà punito.
Politiche costituenti.
La possibilità di sanzione è quasi inesistente. Sono quelle politiche che riguardano
esclusivamente l’organizzazione della politics: ne sono buoni esempi la legge elettorale, le
leggi anti-trust, i finanziamenti ai partiti e così via. Le politiche costituenti sono importanti,
e non hanno un diretto ambito di applicazione nella società.
Per quanto riguarda il luogo delle politiche distributive, va detto che queste politiche sono decise
generalmente all’interno del parlamento, più precisamente nelle commissioni parlamentari e
attraverso processi consensuali di mutuo accomodamento (log rolling). Nelle politiche
redistributive, invece, gli attori centrali sono gli esecutivi e i presidenti in quanto molto più
coercitive rispetto alle politiche redistributive: ne consegue che in questo caso si preferisce la
logica decisionale maggioritaria all’accomodamento. Per le politiche regolative, si ricerca il
compromesso attraverso il negoziato e l’arena chiave per gli esiti decisionali è il parlamento. Per
quanto riguarda le politiche costituenti, invece, è difficile trovare una logica decisionale distintiva,
dal momento che esse si applicano all’ambiente in cui operano gli attori stessi.
Un altro contributo importante, oltre a quello di Lowi, è quello di Wilson. La tipologia di Wilson è
elaborata sulla base di costi e benefici delle politiche pubbliche. Per quanto riguarda i costi, essi
possono essere concentrati oppure essere diffusi:se si stabilisce una tassa sui redditi sopra i
duecentomila euro il costo è concentrato; se si decide un aumento dell’IVA si ha un costo diffuso. I
benefici possono riguardare pochi o tanti attori.
Da questi criteri si possono individuare quattro tipologie di politiche pubbliche:
Client politics.
Sono solo negli interessi di alcuni, e i costi di queste politiche ricadono su tutta la società.
Per esempio, si possono offrire incentivi ad un settore automobilistico grazie ai soldi delle
tasse, che sono essenzialmente i fondi dello Stato.
Interest groups politics.
Si ha uno scontro tra chi ci guadagna e chi ci perde. Per esempio, venditori di armi e
pacifisti, ambientalisti e aziende che inquinano. La politica, in questo caso, accontenta solo
una delle due parti.
121
Majoritarian politics.
Sono politiche nell’interesse della maggioranza. Un esempio è quello delle missioni militari:
una missione di pace promuove la pace. Benefici sono diffusi e costi pure.
Entrepreneurial politics.
Si tratta di politiche dai costi concentrati e con benefici diffusi. Avere meno armi in
circolazione, per esempio, ha un effetto diffuso alla società. I costi ricadono interamente
sui produttori di armi.
La prima fase del processo decisionale è l’agenda setting, durante la quale si decidono quali
questioni devono essere risolte. L’agenda di partenza viene definita “sistemica”, in poiché
comprende tutte le questioni da risolvere. Questa viene scremata: ne deriva l’agenda
“istituzionale”, la quale tralascia alcune questioni non di interesse collettivo. Una banca che è in
crisi, per esempio, è una questione privata. Ma se la banca ha tanti clienti, ci sono tante persone
che perdono i propri risparmi. Una banca che fallisce può quindi diventare parte dell’agenda
istituzionale. Dall’agenda istituzionale si passa poi attraverso un’ulteriore scrematura: il risultato è
l’agenda “decisionale”. Il risultato finale della politica pubblica è quindi che il decisore sceglie in
modo arbitrario le questioni che vuole risolvere.
Alcune questioni possono entrare in agenda decisionale per la pressione di gruppi d’interesse
esterni alla politica (outside initiation). Un altro fattore di stimolo può essere quello degli stessi
attori partitici: magari un partito vuole riformare il sistema di finanziamento, quindi quelle regole
che determinano il gioco politico (inside initiation). Ancora, un altro stimolo può essere quello del
cambiamento della burocrazia.
Una volta scelta l’agenda decisionale, si formulano delle possibili soluzioni alternative applicabili.
Se si hanno due gruppi sociali che si scontrano si può accontentare l’uno o l’altro, oppure trovare
un compromesso. Alcuni problemi richiedono soluzioni tecniche, come la protezione del
Mediterraneo. Non sempre la soluzione tecnica è fattibile: se si dice che per tutelare il
Mediterraneo non si può più circolare con le navi, allora questa soluzione non è accettabile per
ovvi motivi.
Valutate le alternative disponibili, si calcolano costi e benefici. Magari una soluzione A ha costi
diffusi, una soluzione B concentrati. L’opzione migliore viene scelta sulla base della seguente
analisi del decisore pubblico:
Razionalità sinottica.
Il decisore politico è sufficientemente informato e razionale da prevedere le conseguenze
122
della propria azione. Ma lo Stato controlla solo l’output, mentre l’outcome dipende da altri
fattori. La razionalità sinottica, quindi, presuppone dei requisiti che in realtà non ci sono.
Razionalità limitata.
Lo Stato ha degli obiettivi, ma il tempo e il costo necessario per ottenere tutte le
informazioni è spropositato. Una legge che limita l’uso della armi ha come obiettivo la
riduzione della criminalità, e un’accurata analisi avrà comunque esiti probabilistici. Lo
Stato, quindi, si accontenta della prima soluzione che trova soddisfacente, e non
necessariamente la migliore. Se ho 10 soluzioni alternative, non le analizzo tutte: cerco
quella più vicina all’obiettivo, e se è soddisfacente la mantengo attiva.
Incrementalismo incoerente.
L’obiettivo ultimo di una politica pubblica potrebbe a volte richiedere troppo tempo, o
comunque una scelta di diversi parametri. Se si vuole abbassare l’inquinamento bisogna
stabilire una serie di regole relative alla circolazione dei mezzi, alla riqualificazione degli
edifici, e così via. Il processo decisionale viene quindi scomposto in vari micro-obiettivi che
vogliono man mano avvicinarsi all’obiettivo complessivo. Ogni decisione che viene presa è
una politica in sé, ma rappresenta una base per la politica successiva. Questo processo
incrementale, “per tappe”, comporta un adeguamento: passando da una fase all’altra si
possono modificare gli obiettivi. Non c’è quindi una traiettoria coerente, anzi: molto spesso
una decisione contraddice quella prima.
Bidone dei rifiuti.
Il decisore politico accumula problemi e soluzioni. A volte, problemi e soluzioni si
accoppiano in modo quasi casuale. Gli stessi obiettivi possono modificarsi. Il decisore
politico prende quindi decisioni perché costano poco o in base alla tradizione.
La decisione politica è quindi razionale, ma solo fino ad un certo punto. Comunque sia, una volta
che la decisione viene presa, segue la fase di implementazione. La messa in opera,
l’implementazione, prevede un processo top-down: c’è una legge e l’amministrazione ha un certo
margine di discrezionalità. Il risultato della decisione dipende in buona sostanza dal modo in cui
l’amministrazione interviene nell’implementazione.
Una volta che la decisione viene presa, si passa all’implementazione. Nel modello weberiano
l’amministrazione statale è incaricata di metterla in atto. Ma gli stessi burocrati hanno la capacità
di rendere efficace o inutile la politica pubblica: il modello top-down è peggio del modello bottom-
up, perché nell’implementazione della politica pubblica esistono margini di incertezza. A volte
magari non vi sono abbastanza fondi a sostegno della politica pubblica.
Tra decisione e implementazione, nei vari paesi, vi sono delle irregolarità: vi è un modo di
articolare il decision making diverso in Francia rispetto a quanto accade in Gran Bretagna. Si
considerano due criteri:
123
Il secondo è l’approccio del decisore politico al problem solving. Questo può essere
anticipatorio, cioè si regolamentano dei settori prima che la mancanza di regolamentazione
crei problemi, oppure reattivo, cioè cerca di risolvere il problema dopo che questo si è
verificato.
In base a questi criteri si può impostare un grafico che mette in luce i vari stili nazionali di policy:
124
5. QUALI ATTORI?
Non solo il governo e il parlamento elaborano politiche pubbliche. La Costituzione, infatti, prevede
più in generale l’esistenza di diversi attori istituzionali aventi l’autorità di prendere decisioni. Gli
attori istituzionali in questione sono:
Governo.
Sono i governi in primis a dover trovare le soluzioni ai problemi in agenda istituzionale
(chiaramente l’agenda setting è orientata dall’intento di essere rieletti alla successiva
turnata elettorale). Rispetto ad altri attori possono gestire un’enorme mole di informazioni
da utilizzare a seconda della politica pubblica per la quale si sta discutendo; dispongono
della burocrazia sia per i pareri tecnici sia per il processo di implementazione; risaltano
facilmente nei media, riuscendo a presentare facilmente i propri programmi.
Parlamento.
Nel parlamento vengono elaborate o recepite leggi elaborate altrove. Il parlamento può
essere più o meno forte del governo. A seconda del contesto, il parlamento può avere un
grande ruolo o essere una semplice cinghia di trasmissione.
Burocrazia.
Interviene nella fase d’implementazione, ma ha capacità d’intervento anche in altri
momenti. La pubblica amministrazione ha una certa discrezionalità nella propria azione,
viste le importanti risorse di tipo informativo, conoscitivo e di expertise. Ne consegue che
talvolta la pubblica amministrazione può prendere decisioni autonome senza l’esplicito
consenso governativo.
Ma vi sono anche altri attori, non-istituzionali, che hanno un ruolo importante pur non essendo
prevista direttamente nella Costituzione la loro capacità di prendere decisioni:
Partiti.
L’ideologia di un governo può essere importante: un partito orientato a sinistra punta quasi
sempre a migliorare le condizioni del ceto medio e degli operai; un partito di destra può
essere più orientato all’aumento della produttività.
Gruppi di interesse.
Media.
Hanno una forte capacità di orientamento dell’opinione pubblica su alcuni temi. Il
problema della sicurezza è evidente: i media che danno risalto a tre casi di criminalità
accendono l’attenzione su questo problema, ma che il tasso di criminalità sia alto in senso
assoluto è tutto da dimostrare.
Esperti.
Le comunità epistemiche sono importanti nella fase di formulazione delle alternative se
sono richieste competenze tecniche, così come nella fase di valutazione di una politica
pubblica. Ma non è detto che gli esperti siano neutrali.
6. MODELLI DI INTERAZIONE
Formalmente il processo di policy-making si svolge nelle sedi istituzionali. Ma dal punto di vista
sostanziale la formulazione avviene anche negli uffici dei gruppi di interesse e in organizzazioni
125
varie. I vari attori coinvolti, istituzionali e non, sono uniti da tre tipi di legami possibili: issue
networks, triangoli di ferro e policy community. Lo studio di queste “reti politiche” (policy
networks) è dovuto essenzialmente alla perdita relativa di importanza dello Stato a seguito della
globalizzazione e delle crisi economiche, che hanno inciso molto sulla società, la quale è invece
divenuta molto più complessa. Di seguito un breve prospetto delle reti politiche, cioè le possibili
interazioni tra Stato e società:
Triangoli di ferro.
Sono una realtà riscontrabile essenzialmente negli USA dove, in talune aree di policy,
tendono a svilupparsi relazioni di forte cooperazione fra specifici attori pubblici e privati
che gestiscono la formulazione in arene isolate dall’influenza di altri attori statali o esterni.
La struttura rigida e impenetrabile dei triangoli di ferro non rappresenta però il sistema
politico che, invece, risulta più frammentato e dinamico.
Nei triangoli di ferro il tavolo della negoziazione della politica pubblica vede solo tre
elementi o più elementi raggruppabili in tre unità. Se si parla di vendita di armi sono
presenti sempre alcuni parlamentari della commissione difesa, i vertici della gerarchia
militare e i gruppi di interesse che rappresentano i venditori di armi. Si ha quindi una
decisione più semplice, perché ci sono solo tre elementi da conciliare in tutto. Il decisore
ultimo sono i parlamentari, perché l’acquisto di armi è una legge.
Perché questo modello funzioni, è necessario che il parlamentare sia abbastanza libero
dagli ordini del partito. Un’altra condizione è che gli esponenti dei gruppi di interesse siano
monopolisti: chi è al tavolo dei negoziati è rappresentante di tutti i produttori principali,
nessuno escluso.
Issue networks.
Si tratta di reti molto fluide, formate sulla base di una spinta emotiva da attori
estremamente differenziati, uniti da un mutuo interesse per una particolare arena di
policy. Se i diversi attori coinvolti nella rete riescono a trovare rapidamente il consenso
relativamente alla specifica issue portata al centro dell’agenda, possono essere in grado di
esercitare una grande influenza nel processo di formulazione della policy. D’altra parte,
l’assenza di relazioni stabili fra gli attori e l’aumento di complessità della issue possono
incrementare la volatilità e lo sbilanciamento in favore degli esperti di policy che,
soprattutto quando la issue diventa più complessa, possono esercitare un notevole potere.
Ciò che ci interessa delle issue networks, in ogni caso, è che sono presenti attori vari, tra
126
loro diversificati, che hanno un unico punto di comunione: hanno un interesse per la
questione in oggetto. I vari attori non sono in un rapporto gerarchico, semplicemente si
ritrovano per discutere della questione.
Policy community.
E’ una realtà maggiormente stabile rispetto all’issue network. I membri condividono il
medesimo interesse per uno specifico settore di policy e un mutuo riconoscimento; inoltre,
parlano anche lo stesso linguaggio specialistico.
In altre parole, abbiamo un gruppo sempre ristretto di decisori e attori coinvolti, ma
particolarmente stabile. Vi sono alti burocrati, rappresentanti solo dei gruppi di interesse
più importanti. I legami tra attori sono molto chiusi e stabili: ci si trova a decidere su una
politica pubblica, e al tavolo negoziale sono sempre presenti le stesse facce. All’interno di
questa comunità si crea un rapporto di cooperazione più che di conflitto.
127
CAPITOLO 9:
CENNI SULLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
1. INTRODUZIONE
128
Nel manuale si trovano 5 capitoli da studiare, che rispecchiano due problemi:
2. IL REALISMO: INTRODUZIONE
Kissinger è uno storico che ha cercato di leggere la storia europea e, come altri autori, ha cercato
di fornirci una visione ampia di come sia la politica internazionale. Egli è uno dei padri del realismo.
Egli, come altri autori, ha plasmato la disciplina delle relazioni internazionali.
Il realismo politico è debitore rispetto ad alcuni autori antichi. L’origine del realismo può essere
fatta risalire per esempio a Machiavelli. Alla fine degli anni ’40, il realismo dice una cosa che al
tempo non era scontata: la maggioranza degli uomini politici a Washington si chiedeva cosa
farsene dell’arma nucleare e come gestire i rapporti con l’URSS. I realisti dicono che la politica
internazionale ha delle regolarità che si ripetono nella storia: se sai come sono andate le cose una
volta, sai cosa succederà adesso. In base a questa prospettiva, quindi, si possono trattare in
qualche modo le relazioni internazionali e si può studiare la politica internazionale quasi fossero
delle scienze. Il realismo trova una sua dignità anche in accademia: da un lato tranquillizza i
decisori politici pensando di poter fornire una soluzione scientifica ai problemi delle relazioni
internazionali. Sparta e Atene erano alleate contro i Persiani, e allo stesso modo, USA e URSS
erano alleate contro i nazisti. Ma bisogna fare attenzione a che gli USA non finiscano come Atene. I
realisti hanno quindi alto credito presso il decisore politico. Il realismo apprezza l’arte diplomatica,
ma cerca di superare l’improvvisazione del compromesso cercando invece di proporre una verità
scientifica. Il picco positivo del realismo è quello del primo ventennio della guerra fredda. Per
vent’anni il realismo è il paradigma dominante, sembra aver spiegato tutto: spiega perché USA e
URSS non sono alleati, spiega perché l’arma nucleare è utile anche se non utilizzata, spiega la
relazione USA-Europa e così via. Insomma, il realismo spiega dei fenomeni empirici e cerca di
fornire prescrizioni: la dottrina del containment, per esempio. Ma dagli anni ’70 nascono delle
anomalie, come diceva Kuhn: USA e URSS iniziano a concordare su alcune scelte, arrivando
addirittura a firmare documenti per la riduzione degli armamenti. Sono così sorte altre scuole di
129
pensiero: il paradigma liberale inizia ad osservare che esistono relazioni più cooperative rispetto a
quanto detto dai realisti. Negli anni Novanta i realisti ricevono il colpo finale: il paradigma
costruttivista spiega come mai gli USA sono riusciti a vincere la guerra fredda.
130
Il realismo classico si sviluppa soprattutto negli anni ’40 e ’50 in USA. Negli anni ‘6’-’70 si afferma il
realismo eterodosso, che rielabora gli assunti fondamentali del realismo classico. Negli anni ’70 si
afferma il realismo strutturale/neorealismo, che si sviluppa fino agli anni ’80. Più o meno negli
stessi anni vanno anche affermandosi scuole di pensiero alternative.
L’evoluzione della scuola realista risponde all’evoluzione delle relazioni internazionali e i suoi
avvenimenti principali. Se ad esempio il realismo classico si era basato sull’idea che la ricerca o
l’emersione autonoma dell’equilibrio della potenza fosse un principio fondamentale delle relazioni
internazionali, ben presto nell’amministrazione americana subentrano scuole di pensiero secondo
cui le relazioni internazionali si basano sul cosiddetto “effetto domino”. Il realismo si aggiorna alla
luce di questo nuovo fenomeno.
Di seguito un breve elenco degli autori più importanti del realismo:
Gli esponenti maggiori del realismo classico sono Edward Carr, Hans Morgenthau e
Reinhold Niebuhr.
Per il realismo eterodosso vi è Raymond Aron.
Per quello strutturale Kenneth Waltz e Robert Gilpin.
Recentemente il realismo si è sviluppato dando origine al dibattito tra realismo offensivo e
realismo difensivo. E’ anche nato il realismo neoclassico.
2.2.1. CARR
Carr è uno storico britannico al quale viene affidata una cattedra per gli studi della politica
internazionale finanziata da Woodrow Wilson, a sua volta celebre per i suoi famosi 14 punti. Di
questi punti il più famoso è quello che prevedeva la nascita della Società delle Nazioni. Il principio
di base della SDN era che gli Stati si trovavano necessariamente ad avere interessi contrastanti, in
quanto aventi condizioni geografiche, politiche ed economiche diverse. Wilson era perfettamente
consapevole del fatto che gli Stati non sono nati per essere in armonia, ma questa situazione
andava risolta grazie ad un forum internazionale in grado di risolvere le controversie
pacificamente (appunto, la SDN). Carr viene posto su questa cattedra, ma egli si rende conto di
non condividere le idee di Wilson: egli inizia a credere che la politica di Wilson non tenga conto di
come effettivamente funzioni la politica internazionale. Carr risponde all’idea pacifista di Wilson
(che aveva come obiettivo l’espulsione della guerra dalla politica internazionale) dicendo che i
conflitti non possono essere risolti semplicemente con il dialogo: la storia internazionale ha dei
meccanismi che tendono a ripetersi. La storia non è quindi una freccia indirizzata verso il
progresso, bensì si ripete. Per capire quello che succede domani non si può contare sul fatto di
aver imparato dagli errori del passato. Le cose cambiano, la politica cambia, le cose cambiano, ma
la storia si ripete inevitabilmente per alcuni aspetti. Questa idea fondamentale di Carr è alla base
del realismo.
2.2.2. MORGENTHAU
I principi chiave del realismo sono sei e vengono elencati da Morgenthau nella sua opera “Politics
among nations”. Morgenthau è uno scienziato sociale ebreo fuggito dalla Germania negli anni
131
Trenta. Egli viene da una tradizione di studiosi del diritto internazionale tedeschi che introducono
nella tradizione americana, basata sull’isolazionismo, i principi della realpolitik europea. L’idea
della storia che si ripete viene quindi introdotta negli Stati Uniti, i quali si autoconcepivano come
gli Stati “diversi”, in quanto facenti parte del Nuovo Mondo e ripromessisi di non replicare i
conflitti europei.
Il realismo classico, come detto, si sviluppa intorno agli anni ’40-’50, primi anni della guerra fredda.
Questi studiosi portano quindi con sé gli strumenti per interpretare questa nuova esperienza. I
principi del realismo sono:
Diritto internazionale.
Opinione pubblica.
La sollecitazione dell’opinione pubblica del proprio paese o dei paesi terzi può far sì che i
paesi modifichino il proprio corso di politica estera.
Equilibrio di potenza.
Non significa che la potenza è equamente distribuita tra gli attori del sistema
internazionale. E’ ovvio, secondo i realisti, che esistono scarti di potere piuttosto alti. Ma
l’equilibrio di potenza può esistere nonostante queste distanze. Esso può esistere
attraverso diversi meccanismi.
Il più classico è l’external balancing, cioè un sistema di alleanze. Se una grande potenza ne
minaccia una piccola, altre piccole potenze dovranno allearsi con quella più piccola per
bilanciare. Per Morgenthau le alleanze avvengono in base alla fonte della perturbazione del
sistema internazionale, non in base ai principi: le alleanze devono essere flessibili. Il caso
più clamoroso in cui il sistema internazionale si era dimostrato più antifunzionale è stata la
prima guerra mondiale, in cui un sacco di paesi che non c’entravano nulla con il casus belli
sono entrati in guerra solo in virtù del sistema di alleanze.
2.2.3. WALTZ
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La teoria sistemica di Waltz è caratterizzata innanzitutto dalla distinzione tra teorie sistemiche e
riduzioniste. Le teorie riduzioniste non possono applicarsi alla politica internazionale: questa, per
essere compresa, ha bisogno di teorie sistemiche.
Per sistema s’intende un insieme di elementi in interazione reciproca. Il sistema è uguale alla
somma degli elementi più le loro reciproche interazioni. Gli elementi del sistema internazionale
sono gli Stati. Una teoria riduzionista cerca di spiegare il funzionamento del sistema guardando
solamente le caratteristiche dei suoi elementi; una sistema, invece, prescinde dalle caratteristiche
degli elementi e guarda invece alle caratteristiche del sistema di per sé. Quando si studia la politica
internazionale bisogna stabilire il livello d’analisi da adottare. Lo studio delle relazioni
internazionali non coincide con lo studio della politica estera: quest’ultima ha più a che vedere con
le politiche pubbliche. Lo studio delle relazioni internazionali si basa appunto sulle relazioni tra i
paesi, sulle loro interazioni.
La teoria di Waltz guarda appunto ai comportamenti ripetitivi e non intenzionali adottati dagli Stati
a prescindere dalle loro caratteristiche.
Secondo Waltz il sistema è formato dalla struttura e dalle unità interagenti. La struttura è un
insieme di elementi che condizionano l’interazione delle unità.
La struttura è composta da:
Principio ordinatore.
Possibili principi ordinatori sono la gerarchia e l’anarchia. Nella gerarchia c’è una disparità
di rango tra i membri. Nell’anarchia non è che non ci sia un ordine, bensì manca qualcuno
di costituzionalmente superiore agli altri: manca quindi un comando assoluto. Il sistema
internazionale è pertanto basato sull’anarchia.
Differenziazione funzionale.
Significa che mentre in sistemi diversi dal sistema internazionale le diverse unità
interagenti possono ciascuna svolgere una funzione complementare alle altre, con una
conseguente specializzazione delle funzioni, nel sistema internazionale le unità non si
differenziano. Tutte le unità svolgono quindi le stesse funzioni.
Distribuzione delle capacità.
Si tratta dell’unica differenza tra le unità. Andorra, per esempio, ha virtualmente una forza
armata. Ma è chiaro che non sarebbe in grado di difendersi da grandi nemici.
La distribuzione della capacità si può tradurre in sistemi bi/multipolari.
Cambia quindi fondamentalmente il modo in cui Waltz spiega l’equilibrio di potenza. Per Waltz è
un prodotto sistemico: la formazione delle alleanze non deriva dalle competenze dei ministeri
degli esteri, bensì è il sistema che chiama alla formazione di alleanze per mantenere
spontaneamente lo status quo. Morgenthau, invece, si concentrava sui singoli paesi.
L’assenza di cooperazione è spiegata dal fatto che è il sistema che mette in equilibrio i rapporti tra
unità. Questo non vuol dire che non esistono organizzazioni internazionali, ma si tratta di un
epifenomeno: non c’è un ruolo strutturale, ma solo di superficie. Questa teoria venne messa in
crisi alla fine degli anni Ottanta. Il realismo prevedeva che, una volta finita la forma sistemica della
contrapposizione tra USA e URSS, la cooperazione europea sarebbe dovuta saltare proprio in virtù
del fatto che essa nasceva per contrapporsi all’URSS. Sorgono quindi nuove scuole di pensiero.
134
I meccanismi che portano alla dinamica di autoequilibrio del sistema si basano sul fatto che il
sistema è anarchico e che i paesi badano ciascuno per sé al perseguimento dei propri interessi,
primo tra i quali l’autodifesa (famosa la questione del self-help militare durante la guerra fredda).
L’assenza di cooperazione, tra l’altro, è schematizzabile con il dilemma del prigioniero. Un altro
presupposto di base è che gli unici attori che contano sono gli Stati. Gli Stati aspirano, secondo
Waltz, a massimizzare i guadagni relativi e non quelli assoluti: anche se una certa strategia mi fa
guadagnare di meno, alla fine l’importante è che l’avversario ci perda.
2.2.4. GILPIN
Il realismo ha anche una versione in cui il potere non tende a distribuirsi su due o più poli, bensì
tende a concentrarsi, creando una situazione di egemonia. La teoria di Gilpin studia appunto le
leggi che governano l’egemonia nel sistema internazionale. Secondo Gilpin, quindi, il sistema
internazionale molte volte non è in equilibrio: si crea uno Stato egemone. Uno Stato egemone è
quel Paese che non riesce ad essere sconfitto dall’alleanza di tutti gli altri. Si tratta di una
definizione teorica: in realtà gli Stati egemoni possono cadere. Gilpin si sofferma sul cambiamento:
Di sistema.
Può cambiare la natura degli attori che compongono il sistema internazionale. Quando il
sistema internazionale greco basato sulle poleis finì sotto l’impero di Alessandro si ebbe un
cambiamento di sistema.
Sistemico.
E’ un cambiamento nella distribuzione della potenza.
Di interazione.
Un cambiamento di alleanza, per esempio.
Gilpin elabora la teoria del ciclo della transizione di potenza. Si parte da un sistema in cui è
stabilita l’egemonia di un paese. In un sistema stabile, in cui la potenza è concentrata in maniera
sproporzionata, vi è una dinamica differenziata tra i vari attori del sistema internazionale dovuta
alle diversi condizioni (politiche, economiche) che fanno sì che ad esempio l’egemone si trovi a
dover affrontare costi crescenti per mantenere la propria posizione egemonica, mentre invece le
potenze sottoposte possono avere un accrescimento di potenza (militare, demografica, strategica,
economica) facilitata dal fatto che non devono sobbarcarsi i costi che deve affrontare un egemone.
Un egemone, per garantire la stabilità della propria posizione, deve necessariamente produrre
certi beni pubblici, come la stabilità monetaria. C’è quindi un egemone che deve garantirsi che
esista un sistema di pagamento disponibile a tutti.
Ne deriva che l’egemone pur guadagnando dalla propria posizione, deve sostenere dei costi che i
non egemoni non devono affrontare. La difficoltà a mantenere le condizioni che consentano ad un
sistema di essere egemone aumenta proporzionalmente all’estensione dell’egemonia stessa. Nel
momento in cui i membri del sistema internazionale sottoposti si rendono conto che i propri
fattori di potenza sono aumentati e non corrispondono più al loro rango nel sistema
internazionale, chiedono che il sistema cambi in maniera tale da riflettere la nuova situazione. Le
potenze emergenti, in altre parole, si rendono conto di essere trattate come scartine pur essendo
divenute le vere detentrici della potenza. Il sistema entra quindi in crisi perché l’egemone si
oppone alla trasformazione. Ne deriva una guerra di sistema, con cui si sancisce la transizione di
135
potenza. La guerra non deve necessariamente essere combattuta tra vecchio e nuovo egemone:
ne sono un esempio la prima e la seconda guerra mondiale, che sancirono il passaggio del potere
dalla Gran Bretagna agli USA ma che coinvolsero in realtà uno scontro con la Germania
revisionista.
Gilpin, quindi, rispetta il realismo: vi sono stabilità, crescita differenziata, redistribuzione di
potenza, squilibrio, guerra e nuova stabilità. Cambia solo che il potere tende a concentrarsi, non a
distribuirsi.
((TABELLA)) rilevanza della politica estera e della diplomazia in alto; rilevanza della politica
interna e dell’ideologia a sinistra.
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3. IL PARADIGMA LIBERALE: UNA VISIONE D’INSIEME
L’applicazione del principio liberale alla politica internazionale esiste da quando esiste il
liberalismo, quindi sin dal Settecento. Nella sua versione moderna diventa il contraltare all’assunto
realista per motivi ideologici (il rifiuto di alcuni presupposti sulla natura della storia o su quella
umana). Tra i concetti del liberalismo quelli fondamentali sono quello dell’armonia degli interessi e
quello del progresso. Inoltre la storia non è destinata a ripetersi, bensì può progredire. Si può
avere una regressione o un passo falso, ma sul lungo periodo essa progredisce.
Si ha ontologia variegata: lo Stato non ha un primato ontologico, poiché esistono attori
ugualmente importanti quali individui, organizzazioni internazionali e così via.
Regole e istituzioni influenzano significativamente i comportamenti, quindi non contano solo le
spinte sistemiche. Vi è attenzione per le low politics. Si tratta delle politiche che riguardano il
sistema socio-economico interno (politica industriale, educazione, pensioni e così via). La
cooperazione non è un esito scontato, ma è possibile. Anche la guerra è possibile, ma può essere
superata (a differenza di quanto accade nel realismo, in cui la guerra rimane come sfondo anche
quando non la si combatte).
3.1. LE TEORIE
Il liberalismo si esplica in più correnti:
Il liberalismo classico è quello che si fa alle teorie di Kant, Adam Smith e Richard Cobden.
Il liberalismo internazionalista si sviluppa nel primo dopoguerra e trova i propri maggiori
esponenti in Norman Angell e Woodrow Wilson.
Le teorie dell’integrazione principali sono funzionalismo e neo-funzionalismo.
Le teorie dell’interdipendenza trovano i propri maggiori rappresentanti in Burton e il duo
Keohane e Nye.
L’istituzionalismo liberale razionalista è un compromesso tra i principi del realismo e quelli
del liberalismo. Trova i propri rappresentanti in Keohane e Moravcsik
La teoria della pace democratica è basata su Doyle e Owen.
3.1.1. KEOHANE
Egli sviluppa la sua teoria liberale in polemica con Gilpin –poiché la potenza non si concentra
necessariamente, e non serve un egemone per produrre i beni pubblici di cui si parlava nel par.
2.2.4- e Waltz –perché secondo Keohane l’anarchia non esclude la cooperazione a prescindere dai
rapporti di forza, e quindi si tratta di una cooperazione più profonda di un semplice epifenomeno.
A tal fine Keohane elabora la teoria dei regimi come strumento per la cooperazione internazionale.
I regimi internazionali non sono organizzazioni internazionali, ma comprendono anche regole non
scritte, aspettative di vario tipo e così via.
Stando a Keohane, bisogna superare principalmente tre problemi:
1. Costi di transazione.
2. Incertezza su intenzioni.
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3. Incentivi a defezionare.
A questi problemi i regimi trovano altrettante soluzioni:
1. Le istituzioni abbassano questi costi.
2. Le istituzioni forniscono informazioni.
3. Le istituzioni ostacolano la defezione.
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