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Guida alla composizione

La forma saggistica si usa per


rivolgersi a chi ha un particolare
interesse per la disciplina trattata
………

(artistico-letteraria, socio-
economica, storica, filosofica,
scientifica) e possiede già un
certo
bagaglio di conoscenze.
…………
Nello stendere un saggio
si dovrà dunque ricorrere
ad un registro linguistico
e stilistico più formale ….
…..ed elevato, da vero
“studioso” della materia che si
rivolge ad un pubblico di
“studiosi / appassionati”.
………..
Il saggio , che ci si avvia a
comporre, deve partire
comunque dai documenti che
vengono allegati (o di cui,
comunque, si ha conoscenza)
Dopo avere esposto i contenuti
dei documenti ci si avvierà alla
fase argomentativa vera e
propria.
Per comporre il saggio si deve
dunque:
- analizzare attentamente e
schedare i contenuti dei
documenti che vengono
proposti;

- esporre in maniera chiara e


ben strutturata i dati che
emergono dai documenti
allegati / dalle informazioni di
cui si è in possesso;

- presentare la propria tesi


riguardo all'argomento,
facendo emergere con
argomentazioni
chiare il proprio punto di vista;
- sostenere la propria
argomentazione con esempi e
citazioni, riportate sia dai
documenti allegati sia dal
proprio bagaglio di
conoscenze.

Occorre inoltre tenere presenti:

l'importanza di stendere
all'inizio una scaletta in cui
strutturare gli argomenti da
esporre…….
….che faccia da guida nel
seguire il filo del discorso
senza inutili dispersioni;

- l'importanza/opportunità di
suddividere in paragrafi le
argomentazioni, in modo da
rendere più
ordinata l'intera esposizione.

A livello stilistico, come si è


già detto, si dovrà ricorrere a
un lessico piuttosto elevato e
tecnico…..
….ad un andamento sintattico
sostenuto, con frasi
subordinate, a figure retoriche
che rendano più espressivo e
accattivante il discorso.

Coerenza e coesione
Importante all'interno di ogni paragrafo e del
testo in generale è rispettare i criteri di
coerenza e di coesione.

La coesione di un testo è
determinata da corretti usi
linguistici, e in particolare:

- la concordanza, che riguarda il


genere e il numero di nomi,
aggettivi, pronomi, articoli
ecc.; concerne l'accordo tra
soggetto e predicato, oltre che la
scelta di modi e tempi;

- l'uso di sinonimi o pronomi o


perifrasi per evitare la
ripetizione di termini o
sintagmi;

- il corretto utilizzo di connettivi,


cioè degli elementi che collegano
tra loro le varie parti del discorso,
in particolare le congiunzioni
(infatti, poiché, perciò, ma,
mentre…),
gli avverbi e le locuzioni
avverbiali (prima, dopo, in un
primo momento…);

- l'uso di parole precise non


generiche, l'eliminazione di
parole e concetti superflui.

Importante è trattare l'argomento,


pensando di spiegare qualcosa
ad un ipotetico lettore a
cui bisogna chiarire ed esplicare i
nostri pensieri, le nostre opinioni.

La coerenza di un testo consiste


nell'esposizione degli argomenti
in modo logico e consequenziale:
….i paragrafi devono seguire un
ordine che può essere di causa-
effetto o cronologico: la scaletta
è quindi fondamentale.

….

I contenuti
Teresa Serafini, autrice de
Come si fa un tema in classe

. La scuola italiana ha una scarsa tradizione di


didattica della composizione; un buono scritto è
considerato solo come il frutto di doti innate e
ispirazione. Questo libro, rivolto agli insegnanti e
agli studenti, vuole invece mostrare che uno
scritto è anche il risultato di alcune operazioni
elementari che possono essere apprese.
La prima parte del libro, dalla parte dello
studente, segue un tema attraverso tutte
le fasi di realizzazione: pianificazione,
raccolta delle idee, organizzazione delle
idee, stesura della scaletta, stesura del
testo, revisione e redazione.

La seconda parte del libro, dalla parte


dell'insegnante, mostra come assegnare,
correggere e valutare un tema. La terza parte
del libro è per gli interessati a una teoria
della didattica della composizione.

………………………..

COME SI SCRIVE UN TEMA.


I consigli degli esperti

La riuscita nel tema è una prerogativa


importante per il successo
scolastico, anche se molta
confusione regna su come scrivere
bene un tema.

La pensa così Maria Teresa


Serafini, autrice de Come si fa un
tema in classe, in cui propone un
metodo per migliorare la propria
abilità nello scrivere.

Non è facile scrivere un tema, fa


notare l'autrice, anzi "la
produzione di uno scritto riuscito è
il risultato di un lungo e difficile
lavoro, che richiede molta fatica",
anche agli scrittori professionisti.

Il metodo proposto dalla Serafini comprende


le seguenti regole di scrittura:
avere un piano
ordinare le idee

organizzare il testo

correggere – alla fine

Il piano. Fase che porta via non più di


cinque minuti. Non occorre carta e
penna. Si tratta di soffermarsi a capire
bene l'enunciato del tema e le istruzioni
dell'insegnante, cui si possono
eventualmente chiedere
chiarimenti.
Produzione delle idee. Può
richiedere venti minuti. Include la
raccolta delle informazioni,
l'organizzazione delle idee,
l'individuazione della tesi da
sostenere nello scritto.

Le idee, all'inizio appuntate in modo


disorganizzato, vanno poi raccolte,
collegate, articolate fra di loro. Ci si può
servire, a questo proposito, della tecnica
dei grappoli associativi.
Si costruisce poi una mappa o, meglio
ancora, si appronta la scaletta del tema.

Produzione del testo. Richiede, grosso


modo, un'ora e venti minuti. Si tratta di
mettere sostanza attorno allo scheletro
del tema, costituito dalla scaletta.

In altre parole, ogni idea prodotta nella fase 2


verrà sviluppata in un paragrafo. Non è il
caso di essere troppo rigidi: mentre si stende
il tema, nuove idee affioreranno nella mente
di chi scrive ed è giusto che lo studente le
accolga e le sviluppi.

Per conferire al componimento una forma il più


possibile armoniosa, si devono collegare le frasi e
i paragrafi fra loro utilizzando i cosiddetti
connettivi: un pronome, la ripetizione di una
parola chiave, alcune espressioni come: quindi,
perciò, ne consegue che, per esempio, cioè, ma,
tuttavia, invece, al contrario, non appena, in
seguito, quando, allo stesso modo, poi, inoltre, e,
anche, infine, per riassumere, concludendo ecc.

Ogni tema prevede, inoltre, un'introduzione e una


conclusione, che lo studente costruirà
appropriatamente. Buona norma è, poi, avere un
occhio di riguardo per la punteggiatura.
Revisione. Richiede un'ora o poco più. Prevede la
rilettura dell'elaborato, la correzione, la copiatura e
la rilettura del testo finale.
*****

Secondo Rowntree (Impara a studiare,


Sovera Multimedia editore) Il tema è utile allo
studente in quanto lo obbliga a organizzare il
proprio pensiero al fine di esporre un punto
di vista personale sull'argomento trattato.
Inoltre sono molte le attività di studio che
richiedono una certa abilità nel comporre.

Sono 5 le fasi inerenti la preparazione di un tema:


comprendere il lavoro
raccogliere il materiale
pianificare il tema
stenderlo
trascriverlo

Lo svolgimento di un tema esige la


pianificazione.
Bisogna comprendere bene l'enunciato,
quindi bisogna raccogliere del materiale utile
allo svolgimento, avendo cura naturalmente
di orientare correttamente la propria ricerca,
per non renderla troppo ampia e
inutilizzabile.

Se si dispone di tempo prima di consegnare il


tema, è bene munirsi di un taccuino su cui si
annoteranno le idee che via via maturano in
noi sull'argomento. Fonti preziose di
informazione potranno essere: biografie,
enciclopedie, riviste, periodici specializzati,
rapporti governativi, ritagli di giornale.

Non bisogna tuttavia trascurare fonti meno


formali, prima di tutto la propria personale
esperienza.
Le informazioni raccolte vanno poi
selezionate, scartando quelle non pertinenti.

La fase successiva è la preparazione della


traccia, cui segue la stesura vera e propria
del tema. Magari cominciando dalla fine, dalla
conclusione, che può ben essere un
compendio o riassunto dei concetti esposti.
La prima stesura di un tema non è da considerarsi
quella definitiva: correzioni, nuove idee,
precisazioni possono essere inserite in un
secondo momento.
Se se ne ha l'opportunità, sarà bene lasciare
"decantare" il proprio scritto per qualche giorno,
in modo da poterlo giudicare con più obiettività e
apportare i necessari cambiamenti.

Nello scrivere un tema è preferibile


adottare, secondo Rowntree, uno stile
ispirato alla chiarezza, alla linearità, alla
concisione; le frasi brevi, il linguaggio
quotidiano.

Il tema infine abbisogna di una trascrizione.


L'aspetto esteriore è tutt'altro che
secondario; il lavoro finito dovrà apparire
ordinato e soprattutto la grafia dovrà risultare
comprensibile. Meglio ancora se il tema sarà
stampato dopo essere stato composto al
computer con un programma di
videoscrittura.
In un tema saggio sarà bene fornire la
bibliografia consultata e virgolettare le
opinioni degli autori citati.
*****

Un vero e proprio manuale di scrittura è Guida allo studio. Il


tema. Come ideare, sviluppare, arricchire, rivedere, abbellire il
testo scritto di Mario Polito, dove l'autore sottolinea l'importanza
di usare le cosiddette frasi di collegamento per rendere più fluido
e scorrevole un testo scritto.

Scrivere con chiarezza ed efficacia richiede, per Polito, una


tecnica che può essere appresa. Salvaguardando sempre,
tuttavia, il proprio stile personale, la "propria voce".

Le quattro fasi fondamentali per svolgere un tema sono:

l'ideazione

la disposizione

lo stile

la revisione

L'inizio di un tema serve, in genere, per


interessare il lettore, la parte centrale per
persuaderlo, quella finale per sintetizzare gli
argomenti trattati. Nello svolgimento del tema
sarebbe opportuno produrre un inizio brillante,
capace di attirare l'attenzione e la benevolenza del
lettore ed elaborare una conclusione che non lasci
col fiato sospeso e permetta di prendere congedo
graduale e garbato da chi legge.

Nella stesura del tema, dovrebbero essere evitate le frasi


fatte, i pregiudizi, gli stereotipi. Necessario è interrogare
se stessi per scoprire che cosa pensiamo veramente
sull'argomento da svolgere, quali associazioni mentali ci
suggerisce, quali risonanze emotive e quali riflessioni
stimola. Quando è possibile, sarebbe utile raccogliere
del materiale pertinente all'argomento trattato,
consultando dizionari, enciclopedie, libri, riviste, giornali,
film, raccolte di aforismi.

Chi scrive deve attribuire molta importanza


alla chiarezza dell'esposizione, alla proprietà
lessicale, all'eleganza e alla concisione. Un
tema ben fatto deve contenere il numero
esatto di parole che servono per esprimere il
proprio pensiero, non una di meno, né una di
più.

Evitare possibilmente l'eccessivo uso di


avverbi e aggettivi. Scartare inoltre le
espressioni generiche, come per esempio
quelle attinenti ai verbi dire, dare, fare, più
adatte al linguaggio parlato che non a quello
scritto, sostituendole con espressioni più
calzanti ed efficaci.

Guardarsi infine dalla ripetizione di parole,


cercando invece i sinonimi più adeguati.
Importante è cercare di armonizzare
contenuto e forma.
Nel disporre gli argomenti ci si può servire di
percorsi (del tipo, per esempio: "comincerò
con la definizione. Proseguirò con la
discussione delle caratteristiche. Mi
soffermerò sulle cause. Avviandomi alla
conclusione formulerò delle proposte"),
ovvero di schemi. Per esempio:
lo schema giornalistico ("Chi? Che cosa? Come? Dove?
Perché?")

lo schema dialettico (Tesi, antitesi, sintesi)


lo schema del metodo sperimentale (Situazione di
partenza, ipotesi, controllo dell'ipotesi, verifica,
risultati)
Nell'ultima fase di revisione del testo, chi scrive si trasforma in
lettore critico del proprio testo, pronto ad eliminare le
imperfezioni, attraverso aggiunte, cancellazioni e riscritture, in
un attento "lavoro di limatura".

…………………..> Lettura testi e richiesta di valutazione


(presentazione “griglia”)

…………… ………

………
Letture

Nesso fra religione ed economia (Weber)


Alcune considerazioni in merito alla “ricchezza lecita”

Nel suo saggio Weber cerca di spiegare quale sia il nesso fra lo sviluppo del
capitalismo e l’etica protestante. Introduce come premessa il dato che rende maggiore
il risultato di partecipazione all’attività capitalistica dei protestanti rispetto ai cattolici.
Egli sostiene che la partecipazione a quelle funzioni economiche presuppone un
possesso di denaro e un’educazione costosa, ed è quindi legata al possesso di una
certa eredità o comunque ad uno stato di benessere economico. La partecipazione
maggiore dei protestanti alla proprietà capitalistica è legata anche alla scelta della
scuola: la maggior parte dei protestanti scelgono infatti istituti tecnici atti alla
preparazione per gli studi industriali, mentre i cattolici preferiscono perseguire studi
culturali come i licei classici.

Per spiegare la maggiore propensione dei protestanti al possesso di capitali Weber fa


un altro esempio: dice infatti che gli artigiani cattolici tendono a rimanere tali,
diventando padroni della propria bottega, mentre i garzoni protestanti confluiscono in
misura maggiore verso le fabbriche per occuparvi posizioni superiori.

Egli parla poi di Benjamin Franklin, citandone dei passi per spiegare quale sia l’etica
del capitalismo. Il concetto di fondo è che il denaro genera denaro: non bisogna quindi
accontentarsi di aver ‘’accumulato’’ somme ingenti, ma bisogna nuovamente investirle
per mettere a frutto le proprie potenzialità. Idea costitutiva dello spirito capitalistico è
l’idea di un dovere che l’individuo deve sentire nei confronti della sua attività
professionale. Viene anche evidenziato però il concetto di utilitarismo, infatti Franklin
afferma che l’onestà è utile, poiché procura credito, e lo stesso vale per la puntualità e
la diligenza che diventano in questo modo delle virtù, nonostante esse lo siano solo
nella misura in cui diventano concretamente utili e quindi sfruttabili. Da qui si evince
come il profitto, anziché essere semplice mezzo di sussistenza, diventi quasi lo scopo
della vita dell’uomo, che esiste proprio in funzione delle attività lucrative.

Viene quindi introdotto il concetto di Beruf, che contiene già un’etimologia religiosa in
quanto vuol dire “vocazione”: il Beruf, che ha doppio significato, anche di professione,
spiega quindi come l’unico modo di essere graditi a Dio sia l’adempiere ai propri
doveri, ossia alla sua professione, che diventa perciò appunto la sua vocazione. Il
Beruf è ciò a cui l’uomo si deve adattare in quanto esprime la volontà divina. Il lavoro
professionale diventa quindi un compito affidato proprio da Dio. Ed è qui che Weber
stringe il nesso fra protestantesimo e capitalismo: con la dottrina della predestinazione
in cui credevano i seguaci di Calvino si introduce il successo come segno
dell’appartenenza al gruppo di eletti scelti da Dio per la salvezza.

La predestinazione riguarda il fatto che Dio abbia scelto dall’eternità un numero


predefinito di persone per destinarle alla vita eterna dando loro la grazia, mentre abbia
determinato che il resto dell’umanità segua la via del peccato e quindi sia destinato
alla dannazione eterna.

Per Calvino non è Dio a essere in funzione dell’uomo, ma è l’uomo a essere in


funzione di Dio.

La teoria della predestinazione viene spiegata con un ragionamento molto semplice:


se il merito o la colpa degli uomini potessero decretare il loro destino, significherebbe
ritenere che le decisioni di Dio, assolutamente libere, possano essere cambiate dalla
volontà umana: cosa assolutamente impensabile. Poiché quindi ciò che Dio stabilisce
è immutabile, la sua grazia non può essere perduta da chi l’ha ricevuta, e non può
essere acquistata da colui al quale è stata negata.

Si afferma così che l’attività economica è anche un fatto spirituale che trova la sua
origine nella religione calvinista. Ma La dottrina della predestinazione generava
nell’uomo il bisogno di conquistare la certezza della propria elezione: due erano le vie
consigliate, innanzi tutto non bisognava dubitare dell’essere eletti, in secondo luogo
veniva raccomandato il lavoro professionale, in quanto considerato il mezzo più
eminente per raggiungere la sicurezza di sé. Solo questo dissipava il dubbio e
conferiva la certezza dello stato di grazia. La riluttanza verso il lavoro diventa sintomo
della mancanza di grazia.

……………….

IL TEMPO (la percezione e la consistenza del tempo) – esempio di testo

Il tempo è l’intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i


singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro (scorrere del
tempo) o come scansione ciclica e periodica dell’eternità. Il vocabolario della
lingua italiana riporta come definizione di tempo la seguente: “successione
illimitata di istanti in cui si svolgono gli eventi e le variazioni delle cose; il
succedersi dei diversi stati del nostro spirito”. Il concetto di tempo costituisce
uno dei problemi costanti anche dal punto di vista della riflessione filosofica.
Nella storia della filosofia ci sono state le due concezioni secondo le quali il
tempo è o circolare ed ha come simbolo la ruota della vita (ad oriente) oppure
lineare (occidente). Ormai si tende però a considerare come troppo schematica
questa contrapposizione ed a ritenere presenti nel pensiero antico greco sia una
concezione ciclica sia una nozione del tempo storico. il concetto di tempo nella
filosofia antica si riassume nella definizione di “un ordine oggettivo misurabile
nel movimento” cioè come misura del perdurare delle cose o come ritmica
successione delle fasi della natura. Il concetto di tempo si presenta influenzato
dalla cosmogonia che riteneva Crono, il tempo appunto, padre di tutte le cose.

Nella filosofia pitagorica il tempo è concepito come ordine e ritmo del


movimento cosmico.

Con Parmenide il tempo comincia ad assumere un senso problematico che lo


caratterizzerà come questione filosofica poiché viene contrapposto
all’immutabilità e all’eternità dell’essere. Egli infatti negando il movimento
negava anche il tempo sostenendo che l’essere è “sempre, ora , tutto insieme” e
“la dike non gli ha concesso né di nascere né di perire”.

Il primo testo in cui compare il problema del tempo è il “Timeo” di Platone in cui
quest’ultimo definisce il tempo come “immagine mobile dell’eternità” che
“procede secondo il numero” ed è gerarchicamente inferiore proprio all’eternità.
Nella dottrina platonica il tempo è infatti misura del movimento ma solo del
mondo materiale sottoposto alla Doxa in cui hanno senso i concetti di passato,
presente e futuro rispetto all’eternità e all’immutabilità dell’iperuranio: il mondo
delle idee. Immagine del tempo per Platone è il cielo che con i suoi astri fornisce
la misura dell’avvenire temporale che è composto dall’ “era” il “sarà” e l’ “è”.

In seguito Aristotele definisce il tempo come “misura del movimento rispetto al


prima e al dopo”. Egli da una parte attribuisce un movimento circolare e quindi
perfetto ai cieli e accetta come punto di riferimento oggettivo per la misura del
tempo il principio dell’ordine cosmico Pitagorico, dall’altra distinguendo il
mondo, eterno poiché abbraccia l’intera misura del tempo, dal primo motore
immobile che è fuori dal tempo, riproduce lo schema gerarchico di Platone.

In Plotino e Sant’ Agostino compaiono l’interiorizzazione e la riduzione del


tempo a dimensione della coscienza e il concetto di tempo non è più collegato al
moto del mondo fisico ma all’anima e alla sua “vita interna”; nella concezione di
questi due filosofi permane comunque la distinzione fra il tempo e l’eternità.
Plotino sostiene che il tempo è successione di stati all’interno dell”anima del
mondo”ed il tempo è il movimento mediante il quale l’anima passa da uno stato
all’altro della sua vita.

Sant’ Agostino nelle “Confessiones”e nel “De civitate dei” esprime la relazione
del tempo con il pensiero e la sua interiorizzazione e riduzione a “distensio
animi”:estensione dell’anima. Per Agostino il passato ed il futuro,che pur fan
parte integrante della concezione comune del tempo, non esistono se non in
quanto presente che è fluire, passaggio e , pertanto , non misurabile. La
concezione del tempo cambia più in generale con il pensiero cristiano ed
abbandona la ciclicità pagana per assumere una direzione lineare progressiva. Il
tempo è la condizione della storia mondana che dalla caduta di Adamo procede
verso la redenzione e il ritorno a Dio per approdare all’eternità spirituale. Il
pensiero cristiano perciò precisò meglio, sulla linea del “Timeo“ platonico
l’origine ( creazione) e la fine e il compimento (giudizio universale) del tempo.

A questa concezione filosofica si può affiancare anche quella scientifica basata


sulla meccanica galileiana che concepisce il tempo come una serie di istanti
omogenei idealmente reversibili.

……………………………..

BERGSON: IL TEMPO OMOGENEO E LA DURATA REALE (esempio di testo)

Da questa analisi risulta che solo lo spazio è omogeneo, che le cose situate in
esso costituiscono una molteplicità indistinta, e che tutte le molteplicità distinte
sono ottenute grazie a un dispiegamento nello spazio. Risulta pure che nello
spazio non ci sono né durata né successione, nel senso in cui la coscienza
intende questi termini: ognuno dei cosiddetti stati successivi del mondo esterno
esiste da solo, e la loro molteplicità ha realtà solo per una coscienza in grado
prima di conservarli, e poi di giustapporli esteriorizzandoli gli uni rispetto agli
altri. Se essa li conserva, ciò avviene perché questi diversi stati del mondo
esterno danno luogo a dei fatti di coscienza che si compenetrano si organizzano
insensibilmente insieme e, per l’effetto di questa stessa solidarietà, legano il
passato al presente. E se li esteriorizza gli uni rispetto agli altri, è perché,
pensando poi alla loro distinzione radicale (poiché uno cessa di essere quando
l'altro appare), li pensa nella forma di una molteplicità distinta: il che significa
ritornare ad allinearli insieme nello spazio in cui ciascuno di essi esisteva
separatamente. Lo spazio di cui ci si serve per far ciò è proprio ciò che viene
definito tempo omogeneo. [...]

In breve, si dovrebbero riconoscere due specie di molteplicità, due possibili


significati del termine distinguere, due concezioni, l'una qualitativa e l’altra
quantitativa, della differenza tra il medesimo e l’altro. Purtroppo, siamo talmente
abituati a spiegare l’uno con l’altro questi due significati dello stesso termine, e
addirittura a scorgerli l’uno nell'altro, che ci risulta molto difficile distinguerli, o
per lo meno esprimere questa distinzione attraverso il linguaggio. Dicevamo
dunque che parecchi stati di coscienza si organizzano fra loro, si compenetrano,
si arricchiscono sempre più, e che, a un io che ignorasse lo spazio, essi
potrebbero fornire così il sentimento della durata pura: ma già per impiegare il
termine "parecchi" avevamo isolato questi stati gli uni dagli altri, li avevamo
esteriorizzati, gli uni rispetto agli altri, li avevamo insomma giustapposti, e così,
la stessa espressione cui abbiamo dovuto far ricorso, tradiva la nostra abitudine
radicata di dispiegare il tempo nello spazio.

Diviene allora evidente che, al di fuori di ogni rappresentazione simbolica, il


tempo non assumerà mai per la nostra coscienza l’aspetto di un mezzo
omogeneo, in cui i termini di una successione si esteriorizzano gli uni rispetto
agli altri. Ma a questa rappresentazione simbolica perveniamo naturalmente, per
il solo fatto che, in una serie di termini identici, ogni termine assume per la
nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché
pensiamo all'identità dell’oggetto esterno, l'altro specifico, perché l’addizione di
questo termine dà luogo a una nuova organizzazione dell'insieme. Di qui, la
possibilità di dispiegare nello spazio, nella forma di molteplicità numerica, ciò
che abbiamo chiamato una molteplicità qualitativa, e di considerare l'una come
l'equivalente dell'altra. Ora, da nessuna parte questo doppio processo si compie
così facilmente come nella percezione di quel fenomeno esterno, inconoscibile
in sé, che assume per noi la forma di un movimento. In questo caso abbiamo
proprio una serie di termini identici tra loro, poiché si tratta sempre dello stesso
mobile; ma d'altra parte, la sintesi operata dalla nostra coscienza tra la
posizione attuale e ciò che la nostra memoria chiama la posizione anteriore, fa sì
che queste immagini si compenetrino, si completino e che in qualche modo si
prolunghino le une nelle altre. Quindi, è soprattutto attraverso l’intermediario del
movimento che la durata assume la forma di un mezzo omogeneo, e che il
tempo si proietta nello spazio. Ma, se non ci fosse stato il movimento, ogni
ripetizione di un fenomeno esterno ben determinato avrebbe suggerito alla
coscienza lo stesso modo di rappresentazione. Così quando sentiamo una serie
di colpi di martello, i suoni, in quanto sensazioni pure, formano una melodia
indivisibile, dando ancora luogo a ciò che abbiamo chiamato un progresso
dinamico: ma, sapendo che agisce la stessa causa oggettiva, dividiamo questo
progresso in fasi che da questo momento consideriamo identiche; e poiché
questa molteplicità di termini identici non può più essere concepita se non in
base a un dispiegamento nello spazio, perveniamo di nuovo e necessariamente
all'idea di un tempo omogeneo, immagine simbolica della durata reale.
Insomma, con la sua superficie, il nostro io tocca il mondo esterno: e, sebbene
si fondino le une nelle altre, le nostre sensazioni successive mantengono
qualcosa dell’esteriorità reciproca che caratterizza oggettivamente le loro cause;
ed è per questo che la nostra vita psicologica superficiale si svolge in un mezzo
omogeneo senza che questa modalità di rappresentazione ci costi un grande
sforzo. Ma il carattere simbolico di questa rappresentazione diviene sempre più
evidente via via che penetriamo nelle profondità della coscienza: l'io interiore,
quello che sente e si appassiona, che delibera e decide, è una forza i cui stati e
modificazioni si compenetrano intimamente, subendo una profonda alterazione
allorchè li si separa per dispiegarli nello spazio. Ma siccome questo io più
profondo forma una stessa e unica persona con l'io superflciale, sembra che
essi durino nello stesso modo. E siccome la rappresentazione costante di un
fenomeno oggettivo identico che si ripete seziona la nostra vita psichica
superficiale in parti esterne le une alle altre, a loro volta, i momenti così ottenuti
determinano dei segmenti distinti nel progresso dinamico e indiviso dei nostri
stati di coscienza più personali. Così, questa esteriorità reciproca che la loro
giustapposizione nello spazio omogeneo assicura agli oggetti materiali si
ripercuote e si propaga sino alle profondità della coscienza: a poco a poco, le
nostre sensazioni si staccano le une dalle altre come le cause esterne che le
fecero nascere, e questo accade anche per i sentimenti o per le idee, similmente
alle sensazioni di cui sono contemporanei. Che la nostra concezione abituale
della durata derivi da una graduata invasione dello spazio nel campo della
coscienza pura, lo prova molto bene il fatto che per togliere all’io la facoltà di
percepire un tempo omogeneo basta staccare da lui quello strato più
superficiale di fatti psichici che egli utilizza come regolatori. Il sogno ci pone
proprio questa condizione, poiché il sonno, allentando il gioco delle funzioni
organiche, modifica soprattutto la superficie di comunicazione tra l’io e le cose
esterne. Allora non misuriamo più la durata, la sentiamo; da quantità, ritorna allo
stato di qualità non c’è più valutazione matematica del tempo trascorso, essa ha
lasciato il posto a un istinto confuso che, come tutti gli istinti, può commettere
degli errori grossolani ma talvolta anche procedere con una straordinaria
sicurezza. Anche allo stato di veglia, l'esperienza quotidiana dovrebbe
insegnarci a cogliere la differenza tra durata-qualità quella che la coscienza
afferra immediatamente, e che probabilmente l'animale percepisce, e il tempo
per così dire materializzato, il tempo divenuto quantità a causa di un
dispiegamento nello spazio.

Quindi, per concludere, distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni


molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente. Al di sotto della
durata omogenea, simbolo estensivo della vera durata, una psicologia attenta
riesce a districare una durata i cui momenti eterogenei si compenetrano al di
sotto della molteplicità numerica degli stati di coscienza, una molteplicità
qualitativa; al di sotto di un io dagli stati ben definiti, un io in cui la successione
implica fusione e organizzazione. Ma la maggior parte delle volte noi ci limitiamo
al primo di essi, e cioè all'ombra dell’io proiettata nello spazio omogeneo. La
coscienza, tormentata da un insaziabile desiderio di distinguere sostituisce il
simbolo alla realtà oppure scorge quest'ultima solo attraverso il primo. E
siccome l’io così rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente
meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare,
essa lo preferisce, e perde di vista a poco a poco l'io fondamentale.

Per ritrovare questo io fondamentale, così come verrebbe percepito da una


coscienza inalterata, è necessario un vigoroso sforzo d’analisi, attraverso il
quale i fatti psicologici interni e vivi verranno isolati dalle loro immagini
dapprima rifratte, e poi solidificate nello spazio omogeneo. In altri termini le
nostre percezioni, sensazioni, emozioni e idee si presentano sotto un duplice
aspetto: l'uno netto, preciso, ma impersonale; l'altro confuso, infinitamente
mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza
fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo
cadere nel dominio comune.

Da H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cap. 2. in H. Bergson,


Opere 1889-1896, a cura di F. Sossi e Rovatti, A. Mondadori, Milano 1986.

…………………

IL CORPO, LA MEMORIA E L’INTERAZIONE CON LA REALTA’ CIRCOSTANTE

Il nostro corpo non è altro che la parte della nostra rappresentazione che
rinasce invariabilmente, la parte sempre presente, o piuttosto quella che, in ogni
momento, è appena passata. Immagine esso stesso, questo corpo non può
immagazzinare le immagini, perché fa parte di esse; ecco perché pretendere di
localizzare le percezioni passate, o anche presenti, nel cervello, è del tutto
chimerico: le percezioni non si situano nel cervello; è il cervello che è in esse.
Ma, in ogni istante, quest’immagine tutta particolare, che persiste in mezzo alle
altre e che chiamo il mio corpo, costituisce, come dicevamo, un taglio
trasversale nel divenire universale. E quindi il luogo di passaggio dei movimenti
ricevuti e rinviati, il "trait d'union" tra le cose che agiscono su di me e le cose
sulle quali io agisco, la sede, in una parola, dei fenomeni sensorio-motori. Se
rappresento con un cono S-A-B la totalità dei ricordi accumulati nella mia
memoria, la base AB, situata nel passato, rimane immobile, mentre il vertice S,
che raffigura in ogni momento il mio presente, avanza senza posa, e, sempre
senza posa, tocca il piano mobile P della mia rappresentazione attuale
dell’universo. L’immagine del corpo si concentra in S; e, poiché fa parte del
piano P, tale immagine si limita a ricevere e a restituire le azioni che emanano da
tutte le immagini che compongono il piano.

La memoria del corpo, costituita dall'insieme dei sistemi sensorio-motori che


l’abitudine ha organizzato, è, dunque, una memoria quasi istantanea a cui la vera
memoria del passato serve da base. Poiché esse non costituiscono due cose
separate, poiché la prima è, come dicevamo, solo la punta mobile che la
seconda inserisce nel piano mobile dell’esperienza è naturale che queste due
funzioni si prestino un mutuo appoggio. Da un lato, infatti, la memoria del
passato presenta ai meccanismi sensorio-motori tutti i ricordi in grado di
guidarli nel loro compito e di dirigere la reazione motrice nel senso suggerito
dagli insegnamenti dell’esperienza: le associazioni per contiguità e per
somiglianza consistono proprio in ciò. Ma, dall’altro, gli apparati sensorio-motori
forniscono ai ricordi impotenti cioè inconsci, il modo di prendere corpo, di
materializzarsi insomma di divenire presenti. Un ricordo, infatti, per riapparire
alla coscienza deve scendere dalle altezze della memoria pura fino al punto
preciso in cui si compie l’azione. In altri termini, l’appello a cui il ricordo
risponde parte dal presente, e il calore che dà vita viene preso a prestito dal
ricordo dagli elementi sensorio-motori dall'azione presente.

Da un esempio di testo tratto dal lbro di R Bellier “L’attimo che fugge” – ed.
SEUIL

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La Felicità

(esempio di testo)

Il raggiungimento della felicità individuale è probabilmente l'obiettivo principale


dell'uomo, all'interno della società occidentale. Saggi e filosofi si interrogano da
secoli sui modi in cui la felicità possa essere raggiunta. E un importante Paese,
come gli Stati Uniti d'America, ha inserito il diritto di perseguire la felicità
individuale addirittura nella propria Costituzione, già due secoli fa.

Il denaro, il sesso, il potere, il successo vengono considerati oggigiorno, dalla


maggioranza delle persone, obiettivi desiderabili, stazioni intermedie da
raggiungere ad ogni costo nel cammino che porta alla felicità definitiva e
duratura. Per raggiungere tali obiettivi siamo disposti a impiegare energie
sovrumane, a ingaggiare lotte spietate, a patire affanni prolungati,
sottoponendoci quasi sempre a stress, angosce, invidie e gelosie, che finiscono
per minare la serenità personale e dei rapporti sociali.
Inoltre, proprio perché perseguiti in pratica da tutti, gli obiettivi sopraccitati sono
spesso difficili da raggiungere e la loro mancata realizzazione ci rende vittime
quasi sempre di frustrazioni, depressioni, senso di vuoto e assenza di
significato. Senza contare che spesso si tratta di obiettivi vani: le cronache ci
presentano di frequente l'apparente paradosso di individui ricchi, famosi, gonfi
di soddisfazioni materiali e però infelici.

D'altronde, recita un detto popolare, "nella vita c'è più da piangere che da
ridere".
E una religione piena di saggezza come il buddhismo, ci ricorda che nessun
uomo, neppure il più ricco e potente, può scampare ad esperienze per certi
aspetti sconvolgenti come la vecchiaia, la malattia e la morte. Che quello che
oggi ci dà piacere, domani ci inchioderà al dolore.

Eppure, esiste ormai, nella nostra società, un radicato obbligo sociale alla
felicità. I media e le agenzie educative ci vogliono felici, ci prescrivono la felicità,
ce la ordinano. E la felicità, inseguita ovunque, sempre più ci sfugge, come un
amore troppo desiderato.

Allora sorge il dubbio che questa lotta senza quartiere per il raggiungimento
della felicità perfetta sia diventata assurda, che il prezzo da pagare di tanto
tribolare e angustiarsi sia proprio l'assenza di felicità. E questo, nonostante la
vita, in più occasioni, ci insegni che si raggiunge soltanto ciò che si chiede con
indifferenza.

Ecco, personalmente ritengo che danaro e successo siano obiettivi desiderabili,


ma che il loro raggiungimento non deve finire con l'imporci rinunce e sacrifici
troppo grandi. Credo che l'uomo saggio debba distogliersi, almeno in parte,
dalle felicità e dai piaceri troppo forti e concentrarsi, invece, sui piccoli piaceri,
quelle piccole gioie che, oggi negligentemente trascurate, riempiono però
l'animo di serenità e di soddisfazione.

Godere di un pomeriggio libero da impegni, passeggiare lentamente per le


strade della città, guardandola con occhi nuovi, assaporare una giornata di sole,
apprezzare la bellezza della natura, parlare a un amico, ammirare il sorriso di
una ragazza o di un bambino, degustare un cibo o un vino preparati con cura,
imparare cose nuove, leggere le pagine di un libro o ascoltare della musica con
cui ci troviamo in sintonia, assecondare il nostro ritmo vitale costituiscono, a
mio avviso, piaceri degni di riconciliarci con l'esistenza.
Nella folle corsa al denaro e al successo, concedersi pause di questo tipo
significa vivere una vita autenticamente umana.

Vivendo in tal modo, forse, la felicità ci sorprenderà frequentemente, magari


dove meno ce la aspettiamo. Durerà giorni, o un attimo; talvolta se ne andrà, per
poi ritornare inaspettata e gradita, come una ragazza capricciosa, ma amata.

In fondo, non importa veramente quanto denaro guadagneremo o quale


posizione sociale riusciremo a raggiungere. Quello che importa è che ciascuno
di noi realizzi se stesso, coltivi le proprie passioni, individui progressivamente
quelle predisposizioni e quei talenti che lo rendono un individuo unico e
irripetibile. E il compito di una società giusta, da edificare con scelte politiche
appropriate, è quello di creare le condizioni affinché ogni individuo abbia
l'opportunità di conoscere e diventare se stesso.

Da “Il foglio” 22 genn 2010 – Marcello Veneziani (esempio di testo)

……………………..

La bontà

La bontà sembra un valore assai trascurato nei rapporti che


viviamo quotidianamente. Tutta la vita economica e i rapporti
personali che ne sono sovente il riflesso, sono improntati alla
competizione, all'aggressività, al superare gli antagonisti.
Le altre persone con cui intratteniamo scambi giornalieri,
finiamo col percepirli talvolta come avversari da distruggere.

Si tratta del "Mors tua, vita mea" dei latini, della darwiniana
lotta per la sopravvivenza. Di qui alla legge della giungla, si
sa, il passo è breve.
In Italia si è persino creato un brutto neologismo,
"buonismo", per screditare coloro che manifestano una
qualche forma di solidarietà verso i più deboli e viceversa per
giustificare ogni sorta di nefandezze perpetrate dai più forti.

Vediamo i nostri simili sempre più impegnati a desiderare con


voracità il potere, la ricchezza, il successo, da ottenere in
qualsiasi modo; il fine, si dice, giustifica i mezzi.

I dirigenti delle grandi aziende, ma qualche volta anche i


quadri intermedi, vengono scelti per la loro capacità di
comandare, che troppo spesso non è altro che un agire senza
soverchi scrupoli, spremere i sottoposti, prevaricare in nome
del profitto. E' spesso considerato come "bravo manager"
colui che valorizza la propria azienda licenziando i dipendenti;
a questo processo viene dato il nome di ristrutturazione
aziendale o qualche nome inglese in apparenza neutro,
scientifico, ma le conseguenze umane sono comunque quelle
spiacevoli dell'insicurezza economica e talvolta della povertà.
Eppure all'interno della nostra coscienza avvertiamo che
questo modo di vivere è sbagliato, ci crea disagio e
sofferenza; finiamo così col ribellarci in modo salutare, anche
se soltanto in maniera del tutto interiore, a questo stato di
cose. Sentiamo che, portato alle estreme conseguenze,
questo nostro stile di vita è disumano, inautentico, faticoso.

Una parte di noi, io credo consistente, aspira alla bontà, alla


gentilezza, alla cortesia. Vuole un mondo più amorevole,
vuole più dolcezza, più buon cuore, più generosità, più
giustizia. Poter essere d'aiuto agli altri e poter chiedere aiuto
quando ne ha bisogno. Fare finalmente qualcosa contro il
proprio intessesse immediato.
Per esempio, almeno in un periodo dell'anno, a Natale, ci
proponiamo di essere tutti più buoni. Secondo me non si
tratta soltanto di un rituale ipocrita. Rappresenta il
riconoscimento, certo parziale e contraddittorio, che la bontà
è una nostra esigenza, che è forse iscritta nei nostri geni.

Vediamo allora persone, solitamente avare di sé e del proprio


denaro, non accontentarsi di celebrare un Natale
consumistico, ma fare beneficenza, aiutare i bisognosi,
dedicare un po' del proprio tempo libero al benessere degli
altri.
Ma la bontà non può essere un passatempo natalizio.
Ci sono persone che si dedicano con slancio e generosità agli
altri durante tutto l'anno.
Sono coloro che, in silenzio e quasi in punta di piedi, si fanno
carico di assistere volontariamente le persone malate, le
vanno a trovare in ospedale, recano loro conforto, cercano di
rendere la loro sofferenza più dolce e sopportabile. Coloro
che si dedicano con slancio all'aiuto e al recupero di giovani
disadattati, di ragazze fuorviate e sfruttate, di persone in
difficoltà economica, o semplicemente disorientate, in crisi, di
alcolisti o "drogati", di carcerati o disabili.
Un'amica di mia madre, per esempio, ha rinunciato
quest'anno ai regali di Natale, per devolvere il denaro, che
avrebbe speso in articoli del tutto superflui, per aiutare una
conoscente, che la morte del giovane marito ha ridotto in
ristrettezze economiche.
Non solo: ha consegnato all'amica anche i soldi guadagnati
con le proprie ore di lavoro straordinario.

La nostra coscienza si sta talmente raffinando inoltre, che


non tolleriamo, finalmente, nemmeno le sofferenze imposte
ad esseri viventi appartenenti a specie diverse dalla nostra,
agli animali e persino alle piante.
Il cane, il gatto e il canarino di casa, il pesciolino nell'acquario
sono diventati nella vita i nostri inseparabili e familiari
compagni di viaggio, ma anche quegli animali non domestici,
spesso destinati al macello per fini alimentari li percepiamo
come dotati di una qualche forma, spesso complessa, di
intelligenza e sensibilità.
Non tolleriamo che vengano maltrattati, torturati, che vengano
loro inferte sofferenze evitabili. Ci sentiamo solidali con loro.
Ed ecco che ci sono persone che, a proprie spese, curano gli
animali randagi o feriti e dedicano parte del proprio tempo
alle associazioni che li difendono.

C'è pure chi, nel proprio lavoro, qualunque sia, va oltre il


proprio dovere professionale e cerca di aiutare sinceramente
il prossimo negli uffici, nella scuola, negli ospedali. Si tratta di
una forma silenziosa, inapparente, di bontà e proprio per
questo suo anonimato, di una delle forme più preziose.
Insomma, a dispetto delle guerre, degli attentati, degli
assassini, dei crimini, di cui stampa e televisione ci rendono
sconsolati testimoni, la bontà non ha segnato il passo, anzi
sembra conoscere un suo momento di ritrovata popolarità.
Non a caso Norberto Bobbio, un filosofo e un pensatore che
tutta l'Italia ammira, ha dedicato un suo profondo saggio alla
mitezza. E lo scrittore inglese Nick Hornby, molto amato dalle
giovani generazioni, ha intitolato un suo recente romanzo :
"Come diventare buoni".
Siamo giunti finalmente alla consapevolezza che aiutare chi è
rimasto indietro non è un cedere una parte di se stessi, un
impoverirsi, ma un arricchimento necessario.

"Ama il prossimo tuo come te stesso" è il precetto


fondamentale della nostra religione e il fondamento
insuperato della nostra civiltà .
E poi, al di là delle sempre possibili ingratitudini, talvolta
succede il miracolo e chi aiutiamo è in grado di donarci la
parte migliore, più umana, di se stesso.
Riferimenti bibliografici
Bobbio N., Elogio della mitezza e altri scritti morali, Parma,
Pratiche Editrice, 1998
Hornby N., Come diventare buoni, Milano, Tea, 2005
Dalla tesi di Carla Peruzzo “Da E. Fromm al bene e al male di oggi”

……………………….

La solitudine

La stragrande maggioranza degli scienziati sociali considera


la solitudine un tipico inconveniente delle società
contemporanee, una disfunzione da correggere, un morbo da
debellare. La solitudine significa isolamento, mancanza di
affetti e di sostegno concreto e psicologico, disadattamento,
magari insufficiente acquisizione delle abilità sociali. Una
condizione inadatta all'uomo, che, come diceva Aristotele, è
un "animale sociale".

Ci presentano le loro statistiche in cui correlano la solitudine


alla cattiva salute, alla depressione, al suicidio.

A loro modo hanno ragione. Esiste, oggigiorno, una


solitudine subita. E' quella dell'anziano abbandonato, che non
ha le risorse economiche o psicologiche per farcela da solo,
che non ha più progetti, che è d'intralcio all'edonismo e al
produttivismo familiari. E' quella del giovane che non trova
ascolto all'interno della famiglia e che non riesce ad
adeguarsi al conformismo del gruppo dei pari, o che deve
misurarsi con istituzioni obsolete e con prospettive per il
futuro almeno incerte. E' quella della donna, relegata magari
in casa in un ruolo che non riconosce come proprio,
prigioniera di pregiudizi e di consuetudini ormai estranee al
suo modo di sentire.

Può essere quella del lavoratore estromesso precocemente


dal mondo produttivo, governato dalle sue ferree leggi, che
non trova la solidarietà dei coetanei, che non si sente capito o
che magari si colpevolizza ingiustamente.
E' senz'altro quella che riguarda, almeno qualche volta nel
corso dell'esistenza ciascuno di noi: ci capita di ritirarci
sdegnati e confusi nella solitudine perché a disagio in un
mondo che corre velocissimo, incapaci di tener dietro a tutti i
cambiamenti, le scadenze, le ideologie, i valori e le norme che
si accavallano vorticosamente.

Certo le città moderne, concepite ormai soltanto per


incanalare il traffico automobilistico e il convulso stile di vita
contemporaneo non facilitano i contatti sociali. Le comunità,
dove sperimentare la solidarietà sono, purtroppo, soltanto
un'utopia sociologica. Lo sviluppo economico sembra aver
selezionato un tipo d'uomo la cui psicologia ruota attorno alla
propria ristretta cerchia familiare e al proprio tornaconto. La
competitività, che non ammette respiro, non favorisce le
occasioni conviviali di incontro, di dialogo, di festa. In una
società in cui nessuno è veramente arrivato, non c'è tempo da
dedicare all'amicizia e allo stare insieme.

La solitudine è, dunque, sì patologia, ma sarebbe un errore


considerarla soltanto sotto questo aspetto. Esiste anche il
rovescio (in questo caso il dritto!) della medaglia. La
solitudine può essere anche una meravigliosa opportunità di
sviluppo e di benessere interiori. Un'occasione preziosa da
sfruttare. Una condizione cercata anziché subita.

A parte le differenze temperamentali fra gli individui, per cui ci


sarà sempre chi desidera una vita piena di contatti e chi
un'esistenza più raccolta, difficilmente alcune attività umane
potranno svolgersi al meglio e con soddisfazione senza il
verificarsi della solitudine.
Non esiste creatività artistica senza concentrazione e
isolamento. Lo scrittore, il pittore, il pensatore, il compositore
abbisognano nel loro lavoro di grande raccoglimento. Ma
forse tutte le attività umane, che impegnano attivamente le
nostre facoltà, necessitano di solitudine, fossero pure il
giardinaggio o l'alpinismo. Lo studio, la riflessione,
l'introspezione, la lettura vengono meglio se ci isoliamo dalla
"pazza folla".

L'incapacità di stare almeno qualche ora della giornata da


soli, la dipendenza dalla presenza degli altri, può essere,
quella sì, la spia di qualche malessere interiore, di qualche
inadeguatezza personale.
Sono gli stessi psicologi, che sottolineano come
l'acquisizione stessa della maturità psicologica,
l'autorealizzazione personale, l'autenticità ci spingano con
forza , in più di un'occasione nel corso dell'esistenza, a
starcene, almeno per per qualche tempo, da soli.

Da Carla Peruzzo (idem)


………………………..

L'intolleranza

L'esistenza umana, già intrinsecamente fragile, esposta com'è


a pericoli, sventure e malattie, è resa ancor più precaria da un
vizio che attraversa tutte le culture: l'intolleranza.

In nome di dottrine religiose, principi etici, concezioni del


mondo diverse, pregiudizi ingiustificati, gli uomini lottano e si
aggrediscono fra loro, spesso con ferocia, diversamente dalle
specie animali che, se si sbranano, lo fanno quasi
esclusivamente per soddisfare i loro bisogni alimentari.

Studiando la storia e la filosofia, conosciamo le vicende di


Giordano Bruno, messo al rogo per le sue idee troppo
avanzate rispetto ai tempi, di Galileo Galilei e della sua
famosa abiura, conosciamo la turpe e secolare opera
dell'Inquisizione, gli eretici perseguitati e trucidati, la caccia
alle streghe, le teste mozzate durante la Rivoluzione francese,
i campi di sterminio nazisti, i gulag sovietici. Una lunga serie
di orrori e di violenze che ha costellato il cammino della
storia.

Altre volte una razza si ritiene superiore biologicamente, e in


modo infondato su di un'altra, e si genera il razzismo. Oppure
è un genere a ritenersi superiore all'altro: storicamente
l'oppressione secolare del genere femminile nasce dal
discutibile convincimento che l'uomo sia superiore alla
donna.

Esistono poi anche forme di intolleranza meno vistose, quelle


che nascono da pregiudizi di casta, di classe sociale, di
corporazione, ma forse è più giusto parlare di
discriminazione. Esiste l'intolleranza economica, laddove
all'individuo è preclusa la libera iniziativa economica, perché
una burocrazia pseudo-onnisciente, che governa e pianifica,
determina dall'alto ogni attività. Siffatti sistemi economici,
presto o tardi giungono alla rovina, quasi per implosione; si
veda il recente crollo dell'impero sovietico.

Eppure un'illustre tradizione del pensiero occidentale, da


Ockham a Boccaccio, da Erasmo a Montaigne, da Locke a
Voltaire, ha predicato i valori della pacifica convivenza tra gli
uomini e della tolleranza.

Il problema è che nel corso della storia, alcune elite culturali


presumono di possedere la verità e per il bene del mondo, per
redimerlo e migliorarlo, cercano di imporre il proprio sistema
di valori e credenze agli altri, ritenendo legittimo anche il
ricorso alla forza e alla violenza. Per il bene di tutto il genere
umano.

Nelle sue forme estreme, l'intolleranza si intreccia al


fanatismo. Le buone intenzioni si trasformano
nell'edificazione di spaventosi inferni. Illuminante è a questo
proposito un libretto uscito di recente nella traduzione
italiana, dello scrittore israeliano Amos Oz: Contro il
fanatismo ne è il titolo.

Quello che i riformatori violenti non capiscono è che se da


una parte la scienza è in grado di formulare teorie verificabili
(e comunque smentibili) sulla base di una metodologia
rigorosa, il mondo delle idee è molto più aleatorio. L'uomo è
fallibile, dotato di una razionalità limitata e quindi soggetto a
errori anche grossolani.

Consapevole dei propri limiti gnoseologici, l'uomo dovrebbe


perciò vivere secondo le proprie idee, avere la libertà di
manifestarle e praticarle nel rispetto della libertà e della vita
altrui, senza volerle imporre con la forza agli altri.

Le società più evolute e aperte vivono di questo fecondo


dialogo culturale, di questo rispetto reciproco, dove lo
scontro fra concezioni diverse avviene in maniera rituale e
pacifica.

Non esistono benessere materiale e psicologico, sviluppo


delle arti e delle scienze, laddove c'è guerra, distruzione, dove
il ciclo della vita quotidiana, la continuità di studi ed affari, è
resa impossibile dalla violenza.

L'intolleranza, dunque, sia nelle forme vistose della guerra di


religione, sia nelle più sottili e subdole forme di
discriminazione fra esseri umani, è un male. Coltiviamo allora
il suo naturale antidoto: la tolleranza. Ma cos'è la tolleranza?
Ci risponde Voltaire, nel suo Dizionario filosofico del 1763:
"Che cosa è la tolleranza? È l'appannaggio dell'umanità. Noi
siamo tutti impastati di debolezza e di errori: perdoniamoci
reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di
natura".

Da Carla Peruzzo (idem)


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La qualita’ della vita – la legalità

Parcheggiamo in seconda fila, usiamo il cellulare quando siamo al volante, non


rispettiamo le precedenze quando stiamo in fila ad uno sportello, imbrattiamo
l'ambiente, ci assentiamo dal lavoro anche se non siamo realmente ammalati,
evadiamo le tasse, sofistichiamo gli alimenti, ci facciamo raccomandare,
chiediamo e concediamo favori calpestando con noncuranza i diritti altrui.

Noi italiani siamo un po' fatti così. Il nostro carattere nazionale, ammesso che
sia così facile identificarlo, e sempre con la cautela cui ci devono indurre le
generalizzazioni, si è forgiato in secoli di dominazioni straniere, di sfiducia e
nello stesso tempo di qualunquistica acquiescenza verso il potente di turno, di
insufficiente senso di appartenenza alla comunità nazionale.

Siamo il paese di Machiavelli e Guicciardini, le cui filosofie superficialmente


assimilate ci inducono all'esaltazione dell'astuzia e alla cura del nostro interesse
particolare. Siamo individualisti, anarchici, capaci di grandi ed isolati gesti
eroici, ma più spesso di comportamenti meschini e immorali.

In una congiuntura economica particolarmente difficile come quella attuale, che


vede il nostro Paese arrancare nella competizione globalizzata dei mercati ed
incapace di sviluppare quella coesione e unità di intenti, necessarie a risollevare
le sorti nazionali, la questione della legalità acquisisce un'inevitabile centralità
nel dibattito politico e culturale.

Non passa giorno senza che i media segnalino scandali e storture. Le librerie
pullulano di saggi di denuncia del malcostume e della corruzione, che
caratterizzano la vita nazionale quasi in ogni ambito. Si descrive ormai l'Italia,
con credibili argomentazioni, come un Paese ingessato in caste arroccate nella
difesa dei propri privilegi e sorde alle istanze dettate dall'interesse generale, col
sistema economico e sociale nazionale ormai al collasso.
Un'ipotetica, ma credibile classifica della legalità, stilata nel 2007 da
Transparency International, collocava l'Italia al 41° posto, non soltanto dietro le
grandi democrazie occidentali, ma anche dietro Ungheria, Cile e Slovenia.

Intanto, la povertà che si va estendendo nella popolazione, intaccando persino


quel ceto medio che soltanto qualche decennio fa godeva di un certo benessere,
reclama un cambiamento, soprattutto culturale e comportamentale, netto e
rapido.
Siamo inoltre maturati come cittadini e diventiamo giustamente sempre più
insofferenti verso l'ingiustizia diffusa.

Una cultura della legalità si sviluppa anzitutto, attraverso l'educazione. Un ruolo


di primo piano spetta alla scuola. Già oberata da tanti compiti, la scuola deve
assumersi il compito prioritario di formare cittadini consapevoli, sviluppando il
senso civico dei giovani, e facendo loro comprendere come solo il rispetto delle
regole permette di esercitare la libertà individuale e che soltanto il rispetto della
cosa pubblica e dell'interesse generale possono garantirci un'elevata qualità di
vita.
Quello di organizzare degli incontri nelle scuole sulla legalità è una tradizione
che si sta consolidando e che darà senz'altro i suoi frutti nell'immediato futuro.
Già Falcone, Borsellino, il generale Dalla Chiesa, eroi della nostra storia
contemporanea, incontravano spesso gli studenti. Oggi, per esempio, un insigne
magistrato come Gherardo Colombo ha lasciato il suo incarico istituzionale per
dedicarsi all'educazione e sensibilizzazione dei giovani sul tema della legalità,
ritenendolo un modo efficace per combattere il crimine e contribuire al
progresso della nazione.

"L'Italia, - diceva ironicamente lo scrittore Ennio Flaiano -, è la patria del diritto e


del rovescio". Come le grida manzoniane, le leggi sono tanto numerose quanto
inefficaci. Il loro numero esorbitante va perciò sfoltito, in maniera da ridurre
equivoci e contraddizioni che danno adito a pericolose discrezionalità
nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme. I potenti e i "furbi"
approfittano della nebulosità dei regolamenti per avvantaggiarsene e farla
franca. Va ripristinata, invece, la chiarezza delle regole e la certezza della pena.
Sociologismi e psicologismi deteriori hanno diffuso in Italia un
giustificazionismo morale onnicomprensivo che nega la responsabilità
individuale. Chi infrange le regole va ritenuto invece sempre responsabile delle
proprie azioni e, una volta condannato, deve espiare le proprie colpe, fermo
restando il serio tentativo di recuperare il reo alla società.

Va poi sviluppato anche da noi, come nelle nazioni più evolute, quello spirito di
servizio che sempre deve accompagnare l'operato di dipendenti e funzionari
della pubblica amministrazione. Chi esercita una funzione pubblica, a qualsiasi
livello, deve recuperare l'orgoglio e il prestigio del proprio lavoro e usare il
potere grande o piccolo, che gli è conferito, per risolvere con giustizia e
imparzialità i problemi del cittadino, non per vessare, ricattare o estorcere
denaro. E' l'etica del cosiddetto Civil Servant, il "servitore dello stato", che va
promossa e premiata.

Occorre più trasparenza; non si dovrebbe più permettere che controllati e


controllori siano spesso, come succede oggi, lo stesso soggetto e i dati relativi
ai bilanci e all'attività della pubblica amministrazione dovrebbero essere, come
succede nelle democrazie più mature della nostra, a disposizione di tutti, in
maniera che ogni cittadino possa vigilare sul buon andamento dei pubblici uffici
e possa esercitare quel controllo capillare che solo può impedire corruzioni e
abusi. I controlli devono diventare più frequenti e rigorosi anche per le aziende
private, che spesso aggirano con disinvoltura norme importanti, relative ad
appalti, attività finanziarie e sicurezza sul lavoro.

La meritocrazia è in Italia un criterio poco praticato. Si fa carriera più per


parentele, conoscenze, raccomandazioni, appoggi politici, scambi di favori che
per criteri oggettivi di eccellenza. La mortificazione del merito costituisce
un'ingiustizia sociale, danneggia il cittadino impedendo il raggiungimento nei
vari ambiti della vita economica pubblica e privata dell'efficacia e dell'efficienza
necessarie per realizzare importanti obiettivi e rende impossibile quella mobilità
che vivifica la società e rende fluida la circolazione delle elite, il ricambio
efficiente, necessario e continuo della classe dirigente.

In questo senso, licenziare i cosiddetti "fannulloni" dalla pubblica


amministrazione serve a poco, se non si accompagna la bonifica con la
selezione meritocratica di una classe dirigente con idee moderne, capace di dare
l'esempio, organizzare, stare al passo con i tempi, introdurre miglioramenti nelle
procedure, centrare gli obiettivi più vantaggiosi per la collettività.

Infine c'è il compito immane di sconfiggere la criminalità organizzata. Intere


regioni del Meridione sono sfuggite da tempo al controllo dello Stato e sono in
mano di mafie potenti, che ne ritardano lo sviluppo economico e civile,
intimidendo e vessando i cittadini di buona volontà, mantenendo un sistema
sociale di tipo feudale e promuovendo parassitismi e attività criminali,
incompatibili con la convivenza civile e con lo sviluppo di una società moderna,
complessa e rispettosa dei diritti umani.

Il perseguimento di una maggiore legalità e di un maggiore rispetto delle regole


è un compito arduo che richiede nel nostro Paese una mutazione culturale, direi
quasi antropologica, di decenni. Per far sì che si progredisca occorre intanto
che ogni singolo cittadino partecipi alla vita pubblica con maggiore impegno,
che reclami i propri diritti e che assolva, in prima persona, ai propri doveri. Lo
sviluppo di una cittadinanza più matura, consapevole e partecipativa, magari
utilizzando la potenza dei nuovi mezzi di comunicazione che la contemporaneità
ci mette a disposizione, come ad esempio la Rete, forse può ancora salvarci.

Riferimenti bibliografici
Abravanel, R., Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e
rendere il nostro paese più ricco e più giusto, Milano, Garzanti, 2008
Colombo, G., Il vizio della memoria, Milano, Feltrinelli, 1998
Colombo, G., Sulle regole, Milano, Feltrinelli, 2008
Floris, G., Mal di merito. L'epidemia di raccomandazioni che paralizza l'Italia,
Milano, Rizzoli, 2007
Rizzo, S., Stella, G.A., La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili,
Milano, Rizzoli, 2007
Rizzo, S., Stella, G.A., La deriva. Perché l'Italia rischia il naufragio, Milano,
Rizzoli, 2008

Da Carlo Piccini “Presentazione dell’attività di LIBERA Alessandria”

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