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VIRTÙ EPISTEMICA
“Lo scopo della scienza è di formulare le più semplice ed
economiche espressioni astratte dei fatti. Quando la mente
umana, con I suoi poteri limitati, cerca di rappresentarsi la
ricca vita del mondo, del quale partecipa solo ad una piccola
parte, e che non potrà mai sperare di esaurire, ha tutte le
ragioni per procedere parsimoniosamente.”
Ernst Mach
INDICE
Introduzione..........................................................................................................................................2
L’Efficacia...........................................................................................................................................20
Semplicità e corrollari.........................................................................................................................43
Conclusione.........................................................................................................................................65
Bibliografia..........................................................................................................................................66
INTRODUZIONE
2
le ipotesi presenti in una teoria, possano essere ridotti ad una serie di algoritmi e quindi siano
calcolabili. Brevemente, si mostreranno le possibili applicazioni in alcune teorie scientifiche.
Infine, si tratterà dell’uso della semplicità in filosofia. Mostrando come,
indipendentemente dalla definizione che si utilizza della semplicità, essa possa essere uno
strumento efficace su vari temi filosofici, come l’esistenza di dio, il realismo morale, e il
libero arbitrio.
Lo scopo centrale della tesi sarà quindi di giustificare la semplicità come strumento
efficace sia in scienza che in filosofia. Uno strumento che permetta di selezionare la teoria
migliore in assenza di altri fattori decisivi. Piuttosto che non avere alcuna linea guida è
sempre auspicabile averne, quant’anche siano fallibili. La scienza, nelle sue ricerche, e la
filosofia, devono avere dei criteri di orientamento, e l’atto di credere ad una teoria, volerla
provare e testare, è di per sé un gesto quasi spontaneo, privo di fondamenta certe, ma può
quantomeno essere ragionevole, se si segue il principio di parsimonia.
3
ANALISI STORICA DEL PRINCIPIO DI
PARSIMONIA
1. Introduzione
Nel corso dei secoli, svariati autori hanno trattato del principio di parsimonia. Per
iniziare la discussione sulla semplicità, oggetto della tesi, è quindi opportuno, brevemente,
che ci si concentri sui pensatori chiave che più hanno influenzato il dibattito.
In questo modo, presa coscienza dei vari filoni di pensiero, si potrà definire con
precisione il concetto di semplicità. Si potrà, inoltre, apprendere gli elementi che lo
caratterizzano e le sue problematiche.
Un approccio comune al principio di parsimonia è quello di reputare scontato il suo
utilizzo nella scienza. Non a caso Einstein parlò per molti suoi colleghi quando disse che: “è
raramente negato che l’obiettivo di tutte le teorie è creare una irriducibile base di elementi
semplici, in numero ridotto, senza perdere la corretta rappresentazione del mondo”1. Però, si
vedrà come il ritenere che il principio di parsimonia, il rasoio di Occam per intendersi,
permetta sia di avvicinarsi alla verità sia di giudicare due teorie apparentemente equivalenti,
porta con sé non poche difficoltà.
Cercando, quindi, di andare più in dettaglio nella questione, ci si renderà conto di
come l’idea alla base del principio di parsimonia sia vaga, a meno di ulteriori specifiche.
Apparirà evidente che gli elementi presenti nella sua formulazione generale non sono ben
definiti. Lo si può ben riconoscere nella seguente definizione:
4
Partendo da questa definizione provvisoria e vaga, vari filosofi hanno tentato
specificarla come meglio credevano. Alcuni provarono a risolvere la questione proponendo
modalità di enumerazione tra le entità presenti in una teoria, altri sostennero metodi per
distinguere una entità dall’altra, altri ancora proposero l’esistenza di elemento fondamentale
di cui sono costituiti tutti gli altri enti. Cercarono, insomma, tramite vie diverse e a volte
compresse, di spiegare cosa significhi per una teoria essere “migliore” di un’altra; posto
sempre che entrambe le teorie comparate siano valide, ossia in linea con il dato empirico.
Nel corso della seguente analisi storica, si potrà notare l’esistenza di due tipi di
approccio differenti e fondamentali, che percorrono l’intero dibattito riguardo lo statuto del
rasoio di Occam. Essi sono:
A) Approccio Operativo
B) Approccio Descrittivo
5
se la loro posizione regga, o se sia troppo ambiziosa. Tra gli autori a favore dell’approccio
descrittivo vi sono certamente: Aristotele, Cartesio e Leibniz.
Prima di iniziare l’analisi storica, si dia ragione del termine “rasoio di Occam”,
impiegato spesso, nel corso della tesi, come sostituto dei termini di “semplicità” e di
“parsimonia”.
Libert Froidmont (1587–1653), nel suo testo del 1649 “Sulla filosofia Cristiana
dell’anima” conia il termine, riportando come, un critico di Occam, Gregorio di Rimini, abbia
fatto uso del “rasoio” contro il suo stesso autore.
Inoltre, il famoso slogan “non bisogna moltiplicare entità oltre necessità” non appare
sotto questa forma negli scritti di Occam, che si esprime in termini diversi ma
concettualmente analoghi: “è futile fare con più ciò che si può fare con meno”2. In realtà,
prima di Occam, già altri filosofi come Tommaso d’Aquino e Duns Scoto si erano espressi in
maniera simile sull’argomento3, e nonostante la trattazione del principio lo preceda, è proprio
Occam che viene riconosciuto come l’autore di riferimento. Ciò è dovuto alla sua insistenza
sul tema e al largo utilizzo nei suoi scritti.
A dispetto dell’intenso lavoro, Occam stesso non specifica in che modo il principio di
parsimonia, ossia il suo rasoio, vada utilizzato. Egli ne lascia l’impiego alla sensibilità dei
filosofi.
Il primo di molti, sensibile sull’argomento, è stato Aristotele, che ha proposto una sua
versione del rasoio secoli prima che Occam lo definisse in termini di risparmio di enti e di
ipotesi.
2. Aristotele
Nel “Sui movimenti degli animali” Aristotele scrive che: “la natura non fa nulla
invano, ma fa sempre ciò che è meglio tra le varie possibilità” (2, 704b11–17). Egli spiega
questa sua visione più in dettaglio in “La Generazione degli Animali” (II 5) quando deve dare
ragione dell’esistenza del sesso maschile. Aristotele non esclude la possibilità che la
riproduzione avvenga tramite un solo genitore, ma citando il suo principio, ne conclude che il
sesso maschile debba giocare un ruolo funzionale alla riproduzione degli individui.
2
Ockham, 1986b, Tractatus de Corpore Christi, cap. 28, pp. 157–158.
3
Due passaggi rilevanti: (1) “Se qualcosa si può fare con uno, è superfluo farlo con molti; perché noi
osserviamo che la natura non usa due strumenti quando ne basta uno” (Aquino 1945, p. 129); (2) “dobbiamo
sempre ipotizzare meno enti quando, così facendo, possiamo salvare le apparenze… perciò nell’ipotizzare
molteplici enti dobbiamo sempre indicare la manifesta necessità che ci ha portato a farlo” (Duns Scotus 1998,
p. 349).
6
Sebbene il filosofo di Stagira non si esprima negli stessi termini di Occam, negando
l’esistenza di elementi superflui in natura, si impegna a sostenere la tesi a favore
dell’uguaglianza tra semplicità e verità.
Una spontanea obiezione alla posizione aristotelica, però, può essere formulata
sostenendo la presenza di strutture biologiche senza alcuno scopo, come il colore degli occhi,
dei capelli, o la presenza di capezzoli nei mammiferi di sesso maschile. Sembra quindi che la
massima di Aristotele confligga con le scoperte di Darwin, che ne “L’Origine delle specie”
scrive di come la natura abbia creato molteplici strutture chiaro esempio di inutilità (Darwin
1859, p. 480).
Aristotele per poter giustificare il suo principio, di fronte all’apparente futilità di
alcune strutture biologiche, è costretto a specificare attentamente la sua posizione. Egli si
difende precisando come il suo principio vada applicato unicamente agli universali. Nel “De
Anima” (III.12.434a31–2) scrive “… tutto ciò che esiste in natura esiste per ragione di
qualcosa o sarà un accidente di quelle cose che accadono per una ragione”. Quindi,
Aristotele, non nega l’esistenza di qualità accidentali, ma sostiene che quelle strutture
apparentemente futili, presenti in natura, esistono in ragione di elementi teleologicamente
giustificati.
Per dare spiegazione a come egli sia giunto a sostenere posizioni teleologiche si
possono leggere alcuni passi nella “Fisica” (II.8). Lì Aristotele scrive che l’alternativa alla
causa finale sia il caso. A suo avviso, però, il caso è incapace di spiegare vari ed evidenti
fenomeni biologici. A sostegno di questa sua posizione porta l’esempio dello svilupparsi
dell’embrione, ritenendo che nessun processo casuale potrebbe portare alla formazione del
nascituro. Si deve, invece, ammettere la presenza di uno sviluppo verso fini ben definiti negli
embrioni animali ed umani.
Egli sostiene, inoltre, che sia possibile ricondurre tutti gli eventi casuali a eventi
giustificabili teleologicamente. Ad esempio, se due persone si incontrano per strada, per caso,
l’accidente dell’incontrarsi è avvenuto in seguito al loro mettersi in moto per raggiungere i
propri obiettivi.
Vi sono, però, molteplici falle nell’argomento di Aristotele, come spiegato da Sober in
“Ockham’s razor”. Ad esempio, anche ammesso che argomenti teleologici siano in grado di
spiegare alcuni fenomeni biologici, ciò non basta a sostenere che la natura non faccia
alcunché invano. In secondo luogo, Aristotele sbaglia credendo che la casualità non possa
creare strutture altamente complesse come organismi; era all’oscuro delle modalità di
selezione naturale descritte dalla teoria di Darwin. Aristotele, osservando la nascita, la crescita
7
e la morte degli individui, ne deduceva necessariamente l’esistenza uno scopo ben definito,
insito in tutte le creature. Egli non credeva fosse possibile spiegare tali eventi tramite processi
casuali; era un problema concettualmente difficile e che richiese circa duemila anni per avere
risposta.
Da quanto detto, si può trarre la conclusone secondo la quale Aristotele fosse un
sostenitore dell’approccio descrittivo. Esistono, però, alcune istanze in cui si espresse sul tema
della parsimonia senza suggerire un’uguaglianza con la natura. Ad esempio, in “Analitici
Posteriori” (1.25.2) scrive: “per farla corta, da meno premesse, si può acquisire meglio
nuove conoscenze, e ciò è preferibile”. Nel passaggio, appunto, egli sembra suggerire che la
parsimonia non riveli le verità del mondo, ma solamente che disponga l’uomo nella
condizione ottimale per acquisirle. Una precisazione va fatta però, tra i due approcci, quello
su cui Aristotele insiste più volte è proprio quello descrittivo; come s’è già detto. Per il
filosofo, la natura non fa nulla invano, perché la natura è semplice.
Dopo Aristotele, altri autori hanno trattato del tema ma nessuno uscì dal solco da lui
tracciato fino ad Occam, che esporrà il principio nel suo nucleo fondamentale.
3. Occam
Occam è considerato il padre del principio di parsimonia, e non a torto. La sua
massima: non bisogna moltiplicare gli enti oltre necessità, è il fondamento di quello che verrà
chiamato “rasoio di Occam”. Tale rasoio può essere interpretato, come si è visto, tramite due
approcci diversi, quello operativo e quello descrittivo. Ma le distinzioni riguardo il rasoio non
terminano lì, poiché esso sembra possedere anche una doppia modalità di impiego, come
notato da Sober (2009b). Egli, infatti, sostiene l’esistenza di due metodi di applicazione della
parsimonia, già presenti negli scritti di Occam. Essi sono:
La differenza tra i due metodi può essere ritenuta analoga alla differenza che intercorre
tra agnosticismo e ateismo.
Il rasoio del silenzio impone di non ipotizzare altri enti quando si ha già una teoria in
grado di spiegare un fenomeno. Il rasoio dell’eliminazione, invece, viene impiegato per
scartare le teorie complesse e selezionare quelle semplici.
8
Si noti come entrambi i metodi vengano utilizzati da Occam. Egli, infatti, usa il rasoio
del silenzio quando deve giustificare, nella “Summa Logicae” (I, c.56. OPh I, pp. 182-183), il
cambiamento causato dal moto di un oggetto. Non vi è motivo di credere, spiega, che con il
movimento, ad esempio lo svolgersi di una corda, si crei un altro ente, la corda svolta, e si
perda l’ente precedente, la corda avvolta.
Occam utilizza, invece, il rasoio dell’eliminazione quando tratta di argomenti
astronomici. Marilyn McCord Adams (1987, pp. 160–161) fa notare come, trattando della
materia celeste, domandandosi se la stessa debba essere considerata alla stregua della materia
terrestre, Occam sostenga la posizione a favore dell’omogeneità della materia.
Questo appare a me… che la materia nei cieli sia dello stesso tipo della materia qui in
basso. Questo perché le pluralità non devono essere mai ipotizzate senza necessità, come si è
detto spesso. Ora, comunque, appare che non vi sia necessità di ipotizzare materia di diverso
tipo qui e lì.4
4. Astronomia
4
Passaggio da Reportatio II, q. 18 (OTh V, 404).
9
Nel 1543, Copernico pubblicò il “De rivolutionibus orbium coelestium” in cui propose
la sua teoria eliocentrica come scorciatoia matematica per risolvere le complessità della allora
vigente teoria tolemaica, di tipo geocentrico. Ai suoi tempi, Copernico non poteva avanzare
alcuna osservazione che refutasse la teoria geocentrica, ma propose ugualmente il suo
modello poiché lo riteneva più semplice; permetteva di calcolare velocemente le posizioni e le
traiettorie degli astri. Le prime prove a favore dell’eliocentrismo sarebbero arrivate solo dal
1610 con Galileo, quando lo scienziato osservò le fasi di Venere e ne dedusse il suo moto
attorno al sole.
Per difendere la sua teoria, nel capitolo 10 del “De rivolutionibus”, Copernico riprende
la massima aristotelica scrivendo: “noi seguiamo la Natura, che produce niente di invano o
superfluo, e spesso preferisce creare una causa con molti effetti”. Una simile affermazione
rivela non solo l’utilizzo della semplicità dello scienziato ma anche quale tipo di approccio
sosteneva: quello descrittivo. In altre occasioni, però, pressato dalle accuse mosse da religiosi
ed accademici, ritratterà la sua posizione sostenendo che il sistema eliocentrico non
rappresenti la realtà, ma sia unicamente un utile strumento di calcolo.
Negli stessi anni di Copernico, un suo allievo, Georg Joachim Rheticus, seguendo il
solco del maestro, cercò di dare forza alla teoria eliocentrica aggiungendovi una
giustificazione teologica. In “Lettere sul moto terrestre” scrive:
Così saggio è il nostro creatore che ognuno dei suoi lavori non ha un solo scopo, ma
due, tre e spesso anche più…
10
Poche pagine più in là, lo scienziato pisano ricorre al principio di Aristotele per
supportare una posizione opposta a quella sostenuta dal filosofo greco: l’eliocentrismo.
Sebbene, ad oggi la questione non è più oggetto di dispute, si possono ben
comprendere i pensieri che nei secoli passati hanno portato i più illustri intellettuali a
sostenere una visione geocentrica. Essa era sostenuta in tempi in cui le osservazioni dei cieli
erano imprecise e le apparenze suggerivano l’effettiva rotazione degli astri attorno alla terra.
Poi, con la successiva presa visione di fenomeni irregolari, come l’apparente moto retrogrado
dei pianeti, si ebbe la necessità di costruzioni ad hoc per mantenere il geocentrismo coerente
con le osservazioni. Vennero così ideati gli epicicli e gli eccentrici. Così, si riuscì a spiegare
gli apparenti moti retrogradi dei pianeti, ma si dovette complicare la teoria a tal punto che
perse il suo carattere intuitivo. L’eliocentrismo di Copernico, di contro, possedeva lo stesso
grado di accuratezza predittiva delle teorie presenti nell’“Almagesto” di Tolomeo, ma si
presentava come più semplice nei calcoli e nelle traiettorie.
Successivamente, le teorie eliocentriche acquisirono forza su quelle geocentriche, con
la pubblicazione delle opere di Keplero. L’eliocentrismo divenne allora la teoria più accurata,
scalzando una volta per tutte il sistema aristotelico-tolemaico da qualunque dibattito
scientifico.
Keplero nei suoi lavori, da studioso di Pitagora, era alla ricerca di rapporti semplici
che descrivessero il moto dei pianeti. Correttamente ipotizzò l’eccentricità delle orbite,
passando dalle orbite circolari, ipotizzate da Copernico, ad orbite ellittiche. Una tale
intuizione fu possibile, grazie ad un certo impiego della parsimonia. Passare dal sistema
tolomaico a quello di Keplero, senza i lavori di Copernico, sarebbe stato arduo per lo
scienziato. Modellare un cerchio per farlo diventare un’ellisse, invece, risultò più semplice. Si
noti come, i lavori di Copernico e Keplero, risultati di uno studio scaturito da un forte
desiderio di semplicità, non erano privi di ragioni né non sono stati privi di risvolti positivi.
Infine, si noti l’esistenza di una sostanziale sfumatura tra le impostazioni dei sistemi
tolemaico e copernicano. L’uno predice le regolarità dell’universo, mentre l’altro, è costretto
ad accomodare vecchie teorie per farle aderire ai fenomeni. Tolomeo, di fatto, creò una teoria
ad hoc. Qualcosa di cui fu accusata anche la teoria dell’etere di Lorenz, che, non a caso, fu
abbandonata di fronte alla più semplice teoria della relatività speciale di Einstein.
Certo, come suggerito da Popper5, non si deve supporre l’esistenza di una implicazione
necessaria tra ipotesi ausiliarie e falsità. Popper spiega chiaramente come non tutte le teorie
ausiliarie siano errate, anzi molte sono state utili nel corso della storia della scienza. Si pensi
5
K. R. Popper, La logica della scoperta scientifica
11
alla teoria dell’esistenza dell’ottavo pianeta, Nettuno, inosservato per molto tempo, ipotizzato
per far tornare le osservazioni con i calcoli suggeriti dalla teoria newtoniana e poi finalmente
scoperto.
Per Popper però, una teoria ausiliaria diviene superflua quando non aggiunge nulla al
contenuto empirico della teoria di base, secondo la seguente formula:
F (t)=F (t+ t a )
Per la quale, si ha una teoria ad hoc quando i falsificatori potenziali della teoria
originaria, F(t), sono uguali ai falsificatori della teoria con l’aggiunta della teoria ausiliaria, ta.
Si noti come Tolomeo aveva, in realtà, aggiunto contenuti empirici al modello aristotelico,
avendo risolto il problema dei moti retrogradi tramite epicicli ed eccentrici. Il sistema
tolemaico non era senza meriti, solo non era sufficientemente semplice.
Per finire, partendo da quanto detto, si può brevemente formulare la seguente
affermazione: un modello complesso non solo è difficile da applicare, ma risulta poco
persuasivo.
Una tale sfiducia è spiegabile in maniera intuitiva seppur un po’ grossolana:
l’imperfezione umana è evidente, e più si aggiungono elementi da maneggiare più si rischia di
commettere errori. Inoltre, le apparenti regolarità del mondo sembrano suggerire l’esistenza di
rapporti intellegibili in grado di spiegare la moltitudine dei fenomeni; il poco, le leggi, che
spiegano il molto.
5. Cartesio e Leibniz
Nel corso del Seicento, tra i molti, due autori spiccarono per il loro contributo al
concetto di parsimonia. Essi sono: Cartesio e Leibniz. In modalità diverse, partendo
dall’esistenza di dio, tentarono di giustificare l’impiego del rasoio di Occam nella costruzione
di modelli scientifici.
Cartesio sostenne l’esistenza di un dio immutabile e buono, e ne concluse che, di
certo, il mondo, creato da un tale ente, sarà stato organizzato alla perfezione. Una volta
stabilite le leggi universali, la divinità cartesiana lascia l’universo a sé stesso, osservando lo
svolgersi dei fenomeni. Il dio di Cartesio non interagisce con il mondo, giacché ogni
12
interazione presupporrebbe una falla nella creazione originaria; sarebbe un ritocco di
un’artista maldestro. Invece, come un orologiaio, assembla i pezzi, li mette in relazione, dà la
prima spinta e guarda svolgersi il prodotto del suo lavoro.
Leibniz, invece, ha una concezione diversa di dio. Per lui, le leggi fisiche sono
espressione dalla volontà di dio di massimizzare la diversità della creazione. Voltaire (1694–
1778) prende di mira Leibniz nella sua novella “Il Candido”. Ridicolizza la soluzione
leibniziana al problema del male, secondo il quale dio, presunto essere benigno, onnisciente e
onnipotente, permetta l’esistenza del male in un mondo che dovrebbe essere il migliore dei
mondi possibili. Voltaire si stava riferendo, inequivocabilmente, alle tesi leibniziane.
Esplicativa del pensiero di Leibniz è la frase, nella Sezione 6 del “Discorso sulla metafisica”:
“Dio ha scelto il miglio mondo possibile, che equivale a dire, l’unico che era il più semplice
in ipotesi e il più ricco in fenomeni”. Si può concludere che, secondo Leibniz, a dio bastino
semplici leggi per massimizzare le diversità di fenomeni, e che questa massimizzazione tra
semplicità ed enti fosse possibile. (Leibniz 1969, p. 648; Blumenfeld 1995).6
Per Leibniz la semplicità, deriva dall’onnipotenza di dio, il quale crea strutture
diverse, complesse e grandiose da semplici elementi base. Creare leggi universali complicate,
sostiene, sarebbe stato controproducente, perché laddove poteva mettervi molteplici enti in
rapporti semplici, ne potrà mettere molti di meno. Si tratta di uno spreco che dio non può
permettere, né è capace di farlo, premessa la sua perfezione, sarebbe, come ci dice, come
costruire una casa con pietre sferiche:
ciò che lo obbliga a cercare semplici leggi è la necessità di trovare spazio per
metterci il maggior numero di cose che possono esistere; se avesse fatto altre leggi, sarebbe
come provare a costruire con pietre sferiche… (Leibniz, 1969, p. 211)
Dio sceglie leggi semplici perché più i processi sono intricati e più prendono spazio,
posto e tempo che può essere impiegato in altro modo.
6
Rescher (1982, p. 11) è in disaccordo con questa visione; egli sostiene che Leibniz veda un conflitto
tra la semplicità delle leggi e la diversità di fenomeni, conflitto che viene risolto da Dio, il quale ha come scopo
trovare un equilibrio tra i due elementi.
13
Il dio leibniziano in quanto perfetto è spinto a massimizzare l’efficienza della sua
creazione, laddove il suo scopo è dispiegare la sua stessa perfezione e capacità creativa. Si
può notare come in Leibniz, vi sia implicita l’assunzione dell’esistenza di un piano oggettivo
della semplicità. Il suo dio è vincolato a lavorare all’interno di questo piano, esprimendo il
massimo grado di parsimonia durante l’atto creativo. Egli non crea secondo una sua ragione
imperscrutabile, ma crea sottomesso alle leggi della semplicità, sottomesso al suo scopo di
massimizzare la diversità degli enti.
Leibniz critica Cartesio sostenendo che le sue spiegazioni siano “estremamente forzate
e non intellegibili a sufficienza”. Ritiene infatti che l’approccio meccanicista di Cartesio sia
carente in due aspetti: non spiega perché le leggi della meccanica siano quelle che sono, e,
come seconda ragione, sono una povera guida per la scoperta di nuove leggi. Di contro, a suo
avviso, entrambe queste mancanze possono essere sopperite se si abbraccia l’idea leibniziana
della teodicea.
Si può notare però un filo comune che lega il pensiero dei due filosofi, Leibniz e
Cartesio. Per entrambi la semplicità è fondata sull’esistenza di un ente benigno, garante di
leggi universali. Sostennero entrambi che le regolarità del mondo potessero essere trascritte
come leggi semplici, ma non riuscirono a giustificare la semplicità di tali rapporti senza
l’aiuto dell’idea di dio. Serviva loro un collante che unisse il concetto di parsimonia con la
verità, qualcosa che spiegasse perché i fenomeni apparivano accadere secondo leggi semplici.
Si può concludere che entrambi sostennero la visione descrittiva della semplicità, poiché, ai
loro occhi, l’interpretazione operativa non riusciva a dare ragione dell’apparente parsimonia
presente in natura. Una ragione che nascerà all’interno del discorso sulla semplicità solo con
Darwin, il quale, tramite le sue scoperte, permetterà di collegare l’aspetto mentale e
soggettivo dell’individuo con una realtà al quale il suo corpo si è adattato 7; ridando forza
all’interpretazione operativa.
6. Newton
7
Per approfondimenti, Thomas Nagel “What is like to be a bat?” Il cui libro risponde alla domanda su
come sarebbe la vita psichica se si possedesse un cervello animale, come quello di un pipistrello, le cui
sensazioni e percezioni sono radicalmente diverse da quelle umane. Si può in tal caso ipotizzare che la razza dei
pipistrelli, dovesse diventare sensiente, svilupperebbe più naturalmente e prima le matematiche dei cerchi, coni,
onde, che matematiche delle rette, e chiamerebbero più semplice ed intuitivo una funzione sinusoidale che una
lineare, così come chiamerebbero più semplici teorie di campi gravitazionali, rispetto a teorie di stampo
newtoniano di semplice attrazione tra corpi.
14
Nella seconda edizione (1713) dei “Principia”, Newton ci presenta tre regole per il
ragionamento filosofico. Esse, esprimono tutta l’importanza che il più famoso scienziato del
Settecento dava al principio di parsimonia
Esse sono:
A) Non aggiungere cause ad eventi naturali di quelle vere e sufficienti per spiegare i
fenomeni.
B) Le cause assegnate a fenomeni naturali dello stesso tipo, devono essere, per
quanto possibile, le stesse. Ossia simili effetti hanno simili cause.
C) Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate o diminuite e che
appartengono a tutti i corpi su cui si possono operare esperimenti vanno intesi
come qualità universali.
8
Laddove le differenze siano impercepibili ma successivamente evidenti, si veda il caso dei moti
caotici, ad esempio le evoluzioni del doppio pendolo, si dovrà ritenere le condizioni iniziali non simili, quindi
non induttivamente utili.
15
Di certo, Newton non riteneva la semplicità essere l’unico criterio di valutazione di
una teoria scientifica, che, in primo luogo, doveva rispondere ad esigenze empiriche: doveva
essere conforme alle osservazioni. Era l’atto stesso di teorizzare, di creare un modello che
doveva, il più possibile, racchiudere il maggior numero di fenomeni con il minor numero di
cause. Il che sembra suggerire l’esistenza di un piano di efficacia nelle formulazioni teoriche.
Newton non sembra mai esporsi fino a sostenere l’approccio descrittivo della verità. Piuttosto
suggerisce i metodi migliori nelle costruzioni di teorie scientifiche.
In questo piano d’efficacia, che sembra suggerire Newton, vengono ordinati e
misurati, in base alla loro semplicità, i vari modelli scientifici. L’esistenza di una simile
griglia, inoltre, può portare a ritenere che lo scienziato avesse una visione rappresentativa dei
modelli scientifici, qualcosa di analogo al concetto di verosimiglianza discusso da Popper, per
la qual non si è mai in grado di descrivere in completezza la realtà, ma solo di rappresentarne
più o meno bene alcuni aspetti. Le teorie scientifiche dovranno allora racchiudere,
approssimare e semplificare la realtà per produrre una previsione del futuro su alcune qualità
rilevanti; qualcosa di analogo a quello che accade in cartografia. La mappa non coincide con
il territorio, ma ne semplifica forma, dimensioni e punti di interesse. In questo modo permette
al lettore di orientarsi e prevedere ciò che lo aspetta9.
7. Hume
Nel corso della storia, molti filosofi si sono affaticati nel tentativo di giustificare l’uso
della parsimonia. David Hume, invece, prese la strada opposta: quella dell’ingiustificabilità.
Per Hume il principio di parsimonia non era sostenibile da alcuna ragione fondativa.
Semplicemente l’uomo ne fa uso perché è tra gli elementi necessari alla costituzione di una
visione coerente del mondo.
Il punto di partenza del pensiero humiano sulla parsimonia è il principio che chiama di
uniformità della natura, secondo il quale si sostiene che il futuro rimarrà simile al passato.
Una tale credenza sottintende, inevitabilmente, un certo grado di semplicità nel ripetersi dei
fenomeni all’interno dell’universo; seguendo il ragionamento fatto poc’anzi sulla
somiglianza. Dato che trovare ragione di un’ipotesi equivale a trovarne le premesse, o le
cause, seguendo l’argomentazione di Hume, si cadrebbe in una petitio principii se solo si
provasse a giustificare l’assunto base di ogni giustificazione. Così scrive Hume nel 1748:
9
Ciò suggerisce un’analogia degna di riflessione: esiste una profonda unione tra scienza e geografia,
secondo la quale l’una prevede elementi futuri, dunque lungo l’asse del tempo, l’altra prevede elementi distanti,
lungo l’asse spaziale.
16
Se ci fosse qualunque sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il
passato possa non assomigliare al futuro, tutte le esperienze diverrebbero inutili e non
potremmo attuare alcuna inferenza o conclusione. È impossibile per ogni argomento derivato
dall’esperienza giustificare che il passato assomiglierà al futuro, dato che ogni argomento
del genere è fondato sull’ipotizzare tale somiglianza (Hume 1748, p. 37)
Se ne conclude che sarà l’abitudine dell’uomo a dare forza alle credenze sulla
quotidiana semplicità della natura. Quindi, se ne conclude che l’apparente semplicità di alcuni
fenomeni regolari del mondo sia ingiustificabile, e che l’affidarsi agli stessi e al loro ripetersi
sia un gesto irrazionale, efficace, e semplice.
Allargando il ragionamento: se nella ripetizione vi è la semplicità della somiglianza, e
la ricerca dello scienziato è volta alla scoperta di leggi naturali, che altro non sono che
relazioni emergenti dalle ripetizioni, egli non potrà fare a meno di cercare ciò che nel mondo
si rivela come semplice, ossia qualcosa che abbia una ripetizione.
Risulta chiaro che più i fenomeni si complicano e più si rischia di andare fuoristrada.
Accade qualcosa d’analogo quando si tenta di trovare una formula matematica ad una serie di
numeri apparentemente caotica. Quando la formula coincide con la serie si ha fallito l’impresa
di formalizzare la serie, e, in tal caso, si sarà incapaci di prevedere quale numero verrà dopo
l’ultimo numero analizzato. Si ragioni, ultimo appunto, su come l’atto stesso di trovare una
formula matematica, sia l’analogo dell’ideare una teoria a dei fenomeni fisici. Entrambi sono
una riduzione degli oggetti in esame a relazioni essenziali, compresse e fondamentalmente
semplici. Si noti, da quanto trattato, dell’esistenza implicita di un legame, che verrà discusso
più avanti, tra semplicità della formulazione e compressione dell’informazione.
8. Morgan
Nel corso della storia della scienza si è applicato il principio di parsimonia non solo
alla fisica, ma anche alla biologia. Tra i promotori del suo utilizzo vi è C. Lloyd Morgan
(1852–1936). Egli era un darwiniano scontento dell’approccio antropomorfizzante dei suoi
maestri Darwin e George Romaes (1848–1894). La continuità tra gli animali e l’essere
umano, sia a livello morfologico, che a livello cognitivo, veniva sostenuta, ad avviso di
Morgan, senza tener conto del salto concettuale che si stava operando.
17
Nel suo libro “La discesa dell’uomo” Darwin, sostiene che gli animali possiedano
qualcosa di assimilabile al linguaggio, all’autocoscienza, all’idea di Dio e, che possiedano
anche valori estetici.
Darwin scrive:
In nessun caso dobbiamo interpretare una azione come il risultato di una più alta
facoltà psichica, se può essere interpretata come il risultato di facoltà che stanno più in
basso nella scala psicologica (Morgan 1894, p. 53)
Nella seconda edizione del libro, del 1903, Morgan chiarifica come questo suo
approccio parsimonioso non sia sempre valido, ma ritiene possa essere il corretto punto di
partenza:
Per questo, dovrebbe essere aggiunto, affinché il principio non sia frainteso, che in
nessun modo esclude l’interpretazione di una particolare attività in termini di processi
cognitivi alti, se abbiamo prove dell’attività di questi processi alti (Morgan 1894, p. 59)
18
preferibile spiegare il comportamento degli animali senza l’uso di capacità cognitive alte, sarà
ancor più semplice utilizzare il solo comportamento.
9. Prime conclusioni
Nel corso di questa prima parte, si ha brevemente analizzato l’uso del rasoio di Occam
da parte dei più influenti autori della storia della filosofia della scienza, fino alle soglie del
Novecento. Tramite questo esame storico si possono già ricavare le problematiche principali
relative alla semplicità come criterio di scelta, sia in termini di convenienza pratica, sia in
termini di avvicinamento alla verità.
Tre sono le domande di maggiore rilevanza:
Rispondere a queste domande equivale a rispondere alla domanda sulla rilevanza della
parsimonia in scienza e filosofia. Non solo, ma qualora ogni tentativo di dimostrare l’efficacia
della semplicità fallisse, si potrebbe giustificare l’impiego del rasoio di Occam nei termini
della scommessa pascaliana. Per Pascal, anche se non vi fosse una prova dell’esistenza di Dio,
sarebbe prudente credervi, analogamente si potrebbe considerare prudente seguire il principio
di parsimonia nella scelta di una teoria10?
10
Per approfondimenti, si veda Mougin e Sober (1994).
19
L’EFFICACIA
1. Efficacia
Si tratti ora dell’efficacia della semplicità, domandandosi se essa sia stata, o lo sia
tutt’ora, utile alla formulazione e scoperta di teorie scientifiche. Non solo, si cercherà di dare
spiegazione della sua utilità.
In “Simplicity, Truth, and the unending game of science” K. T. Kelly apre scrivendo:
In scienza, ci si trova spesso ad affrontare una situazione in cui più di una teoria (o
infinite teorie) sono compatibili con l’esperienza11
Per risolvere un simile dilemma, egli propone di usare il rasoio di Occam, e quindi la
semplicità, in quanto essa “… aiuta a trovare la verità senza indicarla direttamente”12,
citando il titolo di un altro suo scritto dallo stesso tema.
Kelly è critico dell’approccio che i bayesiani sostengono riguardo l’utilità della
semplicità. Secondo i bayesiani, il teorema di Bayes permetterebbe di correlare i pregiudizi
pregressi alla luce delle nuove scoperte, producendo così un giudizio, in base alle
osservazioni, sulla probabilità di varie ipotesi. Stabilita una probabilità a priori dell’ipotesi H,
il teorema di Bayes, la mette in relazione con la nuova evidenza E, in modo da produrre un
valore aggiornato sulla probabilità dell’ipotesi.
P(H ) P ( E|H )
P ( H| E )=
P ( E)
11
K. T. Kelly, Simplicity, Truth, and the unending game of science, Carnegie Mellon University, 2005,
pp 1.
12
K. T. Kelly, How Simplicity Helps You Find the Truth without Pointing at it in Induction, Algorithmic
Learning Theory, and Philosophy, Editori Michèle FriendNorma B. GoetheValentina S. Harizanov, Spinger
editori, 2007
20
La critica che avanza Kelly dell’uso del teorema di Bayes, è che si sta presupponendo
ciò che vuole dimostrare, in quanto non si ha modo di definire oggettivamente la probabilità a
priori dell’ipotesi e dell’evento.
Kelly, invece, argomenta la sua posizione sull’utilità della semplicità tramite un
esempio, mostrando come l’efficacia della parsimonia risieda nell’evitare sforzi inutili.
2. Le svolte ad U
L’esempio usato da Kelly13 è quello dell’autista perso sulla via del ritorno da un lungo
viaggio. Nell’esempio lo scienziato sarà proprio l’autista e l’eremita che incontrerà lungo la
strada rappresenta la semplicità.
Secondo l’esempio, l’autista perso dopo una lunga traversata, si ritrova su una strada
di campagna, lì incontra un eremita al quale chiede indicazioni per tornare a casa. L’eremita,
prima che l’autista gli riveli dove si trovi la propria dimora, gli indica la via dell’autostrada,
alle spalle dell’autista. Secondo l’eremita infatti, l’autostrada è il modo più veloce di andare
ovunque, perciò non ha motivo di ascoltare la destinazione dell’autista, il quale se andasse
testardo lungo la via dissestata si troverebbe, dopo varie ore, con molta probabilità, a capire di
aver sbagliato strada.
In tale circostanza, il disperso è posto di fronte ad un bivio, può continuare sulla strada
di campagna, sperando che porti alla sua città o tornare indietro e prendere l’autostrada. In
questo caso, dovrà quindi effettuare un’inversione di marcia e tornare indietro. Nel frattempo,
però, avrà perso tempo a perseguire la via più ardua e meno consigliabile.
Prendere l’autostrada, sostiene Kelly, non assicura che più avanti non vi siano svolte o
altri cambi di direzioni, ma di certo è la scelta più ragionevole. Quanto appena espresso,
ritiene Kelly, si può traslare per la semplicità, la quale è efficace, in quanto mette il
ricercatore, con ragionevole probabilità, sulla via più agevole per raggiungere i proprio
obiettivi di ricerca.
3. Efficacia nella storia della scienza
Si noti ora come la semplicità sia stata felicemente impiegata, spesso per ragioni di
calcolo o di economia nelle ipotesi, nel corso della storia della scienza. Si è usato il principio
13
Presente in K. T. Kelly, Simplicity, Truth, and the unending game of science, Carnegie Mellon
University, 2005, pp 9-11 e in K. T. Kelly, How Simplicity Helps You Find the Truth without Pointing at it in
Induction, Algorithmic Learning Theory, and Philosophy, Editori Michèle Friend, B. Norma, Goethe Valentina,
S. Harizanov, Spinger editori, 2007, pp 114-115
21
di parsimonia quando si è preferita la relatività speciale alla formulazione di Fitzgerald-
Lorentz, che ammetteva l’esistenza di un etere impossibile da rilevare.
Si applica il principio di parsimonia quando per descrivere stati di meccanica
quantistica si usa la funzione d’onda di Schördinger invece che la quantistica a matrici di
Heisenberg, la quale è equivalente ma più complessa a livello di calcolo.
Come si è già visto, Copernico era spinto da un desiderio di semplicità quando ha
proposto il suo modello eliocentrico, in contrasto con le complessità degli epicicli e degli
eccentrici dell’”Almagesto” di Tolomeo.
Keplero14, dopo Copernico, alla ricerca di rapporti ben definiti e semplici, scoprì le sue
tre leggi. Particolarmente illuminante è la terza legge, per la quale i quadrati dei tempi che i
pianeti impiegano a percorrere le loro orbite sono proporzionali al cubo delle loro distanze
medie dal sole, secondo seguente formula:
2 a3
T =
k
Dove a è il semiasse maggiore dell’orbita, T il periodo di rivoluzione e K una costante.
Evidente è la ricerca e lo sforzo da parte di Keplero di trovare rapporti semplici nella natura; il
quadro proporzionale al cubo.
Le prime formulazioni in chimica e termodinamica sono caratterizzate da leggi
semplici i cui rapporti erano ben definiti. Volume, temperatura e pressione furono legati da un
rapporto semplice. Certamente i primi chimici cercarono di vedere oltre l’errore del dato
osservativo e andarono a selezionare tendenze rilevabili e ben definite, trascurando variazioni
di sorta. Quindi, si deve ammettere che vi era una sorta di inclinazione nel cercare teorie
semplici; anzi, si preferiva la teoria massimamente semplice dato l’intorno di accettabilità
della previsione.
Ancora un altro utilizzo della parsimonia avvenne quando si applicarono le leggi
newtoniane agli astri. Andando così ad unificare materia celeste con la materia terrestre.
Maxwell, con le sue quattro leggi, unificò i campi dei fenomeni elettrici e magnetici.
Operò quindi un gesto di semplificazione concettuale, eliminando la distinzione tra i due
campi.
Le teorie anti-creazioniste di Darwin sono semplificazioni teoriche che non richiedono
la presenza di Dio per spiegare la generazione di specie degli animali.
14
Le prime due leggi di Keplero compaiono in Astronomia nova, Heidelberg, 1609, la terza invece
appare per la prima volta in Harmonices Mundi, Francoforte, 1619
22
Fu per parsimonia che si preferì la relatività speciale di Einstein, all’ipotesi
dell’esistenza di un etere inosservabile, responsabile della contrazione dello spazio, supposto
dalla teoria di Fitzgerald e Lorenz15 sul moto della luce.
Le sopra citate sono solo alcuni dei più famosi esempi dell’uso della semplicità in
scienza. Certamente, altre volte la teoria più semplice si è rivelata inadeguata, ma a parità di
spiegazione vi è sempre stata una preferenza verso la parsimonia.
La teoria più semplice, che descrive egualmente bene il fenomeno rispetto una teoria
più complessa, sarà quantomeno preferibile, sia a livello di calcolo, sia perché sarà più facile
da insegnare. Dal punto di vista dell’efficacia, la semplicità non indica la presenza di qualche
verità, ma di certo permette meno sforzi nella formulazione di teorie e riconoscimento degli
errori.
4. Pascal
Infine, si può formulare un argomento simile alla scommessa pascaliana a favore della
semplicità. La scommessa pascaliana è una scommessa nella quale si può ottenere un
vantaggio indipendentemente dall’esito degli eventi. Nella versione di Pascal 16, egli sosteneva
che tra il credere e il non credere in dio, convenga sempre credere in base alla seguente
formulazione:
Nel caso storico, Pascal sorvolò sull’impegno di credere in dio, il quale avrebbe
prodotto una variazione significativa sulla tabella.
15
H. A. Lorentz. The theory of electrons, and its applications to the phenomena of light and radiant
heat, New York, Columbia University Press, 1909
16
Blaise Pascal, Les Pensées (I Pensieri), 1670. Traduzione e ristampa, Pensieri, Milano, Arnoldo
Mondadori Editore, 1994. La scommessa pascaliana viene sviluppata nel paragrafo 233.
23
Si passa le ore della propria vita a lodare
Credo in Dio un Dio inesistente, sprecando l’unica vita a
disposizione, per qualcosa di futile.
Quindi non è conveniente.
Non accade nulla ma non si perdono le ore
Non Credo in Dio della propria vita tra i riti, né ci si astiene
da certi comportamenti, privandosi di
alcune scelte e gioie, le quali, altrimenti,
vietate da dio, non si avrebbe mai esperito.
Non si spreca l’unica vita a disposizione,
quindi è conveniente
Alla luce della nuova formulazione si può notare come in realtà la scommessa
pascaliana non porti alcuna preferenza verso la fede. Eppure, la struttura dell’argomentazione
ha una sua fondatezza e può essere utilizzata per giustificare l’efficacia la parsimonia. Si
prenda visione della seguente tabella.
Si può notare come la discriminante tra teoria semplice e teoria complessa sarà la
velocità di cambio. Come già espresso prima, nell’esempio del viaggiatore disperso, la teoria
semplice permette subito il riconoscimento dell’errore, e suggerisce immediatamente di
passare ad altro. Infatti, una teoria complessa per essere tale deve avere un numero di sotto
parti maggiori rispetto a quella semplice. Perciò tramite la teoria più semplice si rileva subito
l’errore e si può più facilmente scartare ipotesi non funzionali alla descrizione del fenomeno
che si sta studiando. La teoria complessa, essendo formata da molteplici sotto parti,
24
TC=TC1+TC2+TC3… non consente l’individuazione dell’errore velocemente quanto la teoria
semplice.
25
LE INTERPRETAZIONI DELLA
SEMPLICITÀ
1. Le due visioni
Si è visto come la semplicità sia utile nella costruzione di varie teorie scientifiche. Si
dovrà allora specificare, le ragioni della sua efficacia, chiarendo se la stessa vada intesa in
maniera operativa oppure descrittiva.
Si risponderà alla domanda se la natura sia effettivamente semplice, e se vi sia un
legame tra la semplicità e la verità. L’aristotelica proposizione: “la natura non fa nulla
invano” che sottintende una necessaria parsimonia nelle leggi fisiche e biologiche,
chiaramente va a sostegno della visione descrittiva. Però, si vedrà, contrariamente a quanto
aveva sostenuto Aristotele, che è impossibile applicare uno scopo alla natura e di conseguenza
distinguere ciò che è superfluo da ciò che è necessario. Inoltre, apparirà evidente l’errore di
proporre l’uguaglianza tra categorie mentali, come la semplicità, a fenomeni naturali esterni.
2. La conoscenza
Come primo passo, si parta, domandandosi come avvenga l’acquisizione di
conoscenza. Definito il modo di ottenere conoscenza e definita la conoscenza stessa, si potrà
quindi cercare l’esistenza di un legame tra la stessa e la semplicità.
Una prima, evidente, caratteristica della conoscenza è la temporalità. Infatti, ognuno
può affermare di conoscere eventi che sono accaduti, che accadono, o che si prevede che
accadano.
In tal senso si possono distinguere tre tipi di conoscenza:
A) Del presente.
B) Del passato.
C) Del futuro.
Già a primo impatto si può riconoscere come la conoscenza del presente sia di tipo
percettivo, così come lo è anche la conoscenza del passato; la quale può essere descritta come
26
conoscenza che è stata di un presente che ora non è più. Entrambe possono essere definite
come conoscenze percettive, poiché vengono acquisite tramite le immediate percezioni che si
hanno dell’oggetto stesso.
Di diverso tipo è invece la conoscenza del futuro. Essa si basa sulla previsione e per
essere generata ha bisogno che vengano soddisfatte alcune condizioni. Si deve per prima cosa
osservare fenomeni simili a quello che si desidera prevedere, e poi per induzione ideare una
previsione in accordo con quanto osservato.
Quest’ultimo tipo di conoscenza, fa anch’essa uso della percezione, del passato e del
presente, ma, essendo declinata al futuro garantisce all’uomo l’acquisizione di mappe per la
vita pratica.
È proprio la conoscenza riferita al futuro che è oggetto di studio sia della filosofia
della scienza, e la sua utilità predittiva fa sì che venga elevata a conoscenza vera e propria;
dopotutto l’utilità della conoscenza, sta nella possibilità di prevedere il futuro, anzi si può
sostenere che conoscere equivalga a prevedere.
Infatti, si ha ragione di credere di conoscere la balistica, quando si riesce a prevedere
la traiettoria di un corpo lanciato in aria, o la chimica quando si prevede una reazione tra due
composti. La definizione di conoscenza come previsione, inoltre, può essere estesa anche ad
ambiti extra-scientifici. Ad esempio, si può credere correttamente di conoscere una persona
quando si riesce a prevederne i comportamenti. Oppure si può ritenere di conoscere uno sport
meglio di un’altra persona se guardando una partita si riesce a pronosticarne il risultato, e così
via.
In tal senso si può intendere la conoscenza del presente, come mera percezione, e
quella del passato come memoria. Quella del futuro come previsione.
Non a torto Hawking, assieme a Penrose, in “The nature of space and time”, scrive
che:
Tutto quello che ci si può chiedere di una teoria è che le sue previsioni siano in
accordo con le osservazioni.17
Da quanto argomentato, si può concludere che l’unico criterio che porta alla
conoscenza e alla verità sia la veridicità della previsione. In tale conclusione non è presente,
però, la semplicità.
17
S.W. Hawking, The nature of space and time, 1994, pp 1.
27
Contrariamente a quanto sostengono i difensori dell’approccio descrittivo, sembra non
esserci alcuna relazione tra verità e semplicità. A riprova di quando appena dimostrato, si
pensi a tutte quelle volte in cui la natura si è rivelata ben più complessa di quanto ci si
aspettasse. Ciò è accaduto, spesso in ambiti lontani dalla vita quotidiana, come ad esempio in
fisica quantistica, laddove l’umano cervello non si è sviluppato per percepire, intuire, le
logiche interne al microcosmo.
Si pensi non solo all’effetto della sovrapposizione, l’effetto tunnel, e ai fenomeni di
entanglement, ma anche alla presenza nel formalismo quantistico di numeri immaginari, enti
matematici di minor intuitività rispetto ai numeri naturali18.
Eppure, si è già trattato di come la semplicità possa essere efficace nella ricerca
scientifica. Di conseguenza si dovrà abbracciare la visione operativa della parsimonia. Se ne
conclude che la semplicità di una teoria non sia una qualità che indichi una corretta
descrizione del mondo.
La semplicità, allora, andrà impiegata quando si avranno due teorie equipollenti a
livello descrittivo, e si vorrà trovare una qualche ragione per preferirne una all’altra. Tale
preferenza non deve essere scontata, giacché la sua importanza è evidente anche solo
nell’ambito della ricerca scientifica.
Il ricercatore e l’università, dovendo impiegare l’uno tempo di studio e l’altro una
considerevole somma in ricerca, dovrebbero avere ben chiaro i criteri di preferenza per
scegliere una via di ricerca rispetto ad un'altra. Dovendo scegliere quale teoria studiare,
indagare ed espandere, nel tentativo di risolvere gli enigmi della natura, e non avendo, per
ovvie ragioni, fino ad allora, previsioni in grado di indicare la più corretta delle due ipotetiche
teorie equipollenti, il ricercatore potrà seguire il criterio di parsimonia come mezzo per
orientarsi.
18
Per una buona lettura introduttiva alla fisica quantistica: G. C. Ghirardi, Un’occhiata alle carte di dio,
Il Saggiatore, 2009
28
proprio dalle osservazioni passate che hanno prodotto la predizione. Inoltre, la predizione
permette la conferma futura, perciò permette di liberarsi dei problemi concettuali che seguono
l’idea di giustificazione. In tal senso, si potrà asserire unicamente di aver conosciuto bene, o
di non aver conosciuto, l’evidenza della correttezza o della scorrettezza della previsione.
Per quanto riguarda la parte della verità, il discorso si complica, giacché molti
scienziati ed influenti filosofi della scienza come Karl Popper, sostenevano l’impossibilità di
raggiungere una verità assoluta, ma che l’uomo si dovesse accontentare di conoscenza
verosimile. È proprio da questo punto che si può proporre un’ulteriore critica alla visione
descrittiva della semplicità.
4. Verosimiglianza
Se come sosteneva Popper19, la verità non è raggiungibile con i mezzi della scienza,
ossia tramite ipotesi ed esperimenti, come può la sola semplicità essere rivelatrice di verità?
Ogni teoria per Popper è valida in quanto non ancora falsificata, e tramite le opere di
Hume20 si apprende che non vi può essere certezza assoluta nelle conoscenze acquisite,
giacché nulla esclude che il futuro sarà come il passato. L’induzione, unico strumento per
l’acquisizione di conoscenza, ha questo limite: non è assoluto.
Alla luce di ciò, si può concludere che sia impossibile sostenere che la semplicità
riveli verità naturali, giacché nulla le rivela. Si potrebbe tentare di difendere la tesi descrittiva,
sostenendo che la semplicità quantomeno sia indice di una certa verosimiglianza con la realtà,
insomma che la natura sia semplice. Ma ciò non è per nulla evidente date le teorie che hanno
avuto successo nel corso della storia, molte erano semplici ma altrettante erano quelle
complesse. Anzi, più si va avanti con la ricerca, più sembra che la semplicità non indichi la
probabilità di successo tra varie teorie.
5. Per assurdo
Nel corso della tesi, si è discusso vari professori di fisica sul tema della parsimonia, tra
i quali Vittorio Lubicz, e Roberto Raimondi dell’università di Roma Tre, Carlo Cosmelli e
Sergio Caprara dell’università la Sapienza. Si ha avuto una risposta univoca sulla fallibilità
della semplicità:
19
Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, (1938) Traduzione M. Trinchero, Einaudi editore
(2010)
20
Principalmente il Trattato sulla natura umana, D. Hume, Traduzione P. Guglielmoni, Bompiani
(2001)
29
“La semplicità non assicura verità fisica”
Fu ciò che espressamente rispose Lubicz, in linea con altri professori. Però, furono
unanimi nel rispondere anche ad un'altra questione. Precisamente, quando venne chiesto loro
se fosse ragionevole seguire la teoria meno semplice.
“No, certo che no! Di teorie inutilmente complesse se ne possono creare infinite”
7. Mach
30
Infine, il sostanzioso impiego della semplicità in scienza viene spiegato
eloquentemente da Enrst Mach. Egli riteneva che lo scopo della scienza sia fare economia del
dato sensibile, perciò rendere il comprensibile, semplificando fenomeni complessi. Scrive21:
The goal which it (physical science) has set itself is the simplest and most economical
abstract expression of facts. When the human mind, with its limited powers, attempts to
mirror in itself the rich life of the world, of which it itself is only a small part, and which it
can never hope to exhaust, it has every reason for proceeding economically. In reality, the
law always contains less than the fact itself, because it does not reproduce the fact as a whole
but only in that aspect of it which is important for us, the rest being intentionally or from
necessity omitted.
Tradotto:
Lo scopo che si è prefissata (la fisica) è stato di produrre l’espressione astratta più
semplice ed economica dei fatti. Quando la mente umana, con i suoi poteri limitati, cerca di
rappresentare la ricca vita del mondo, del quale egli conosce solo una piccola porzione, e
che non può sperare di esaurire mai, ha tutte le ragioni per procedere economicamente. In
realtà, la legge contiene essa stessa meno del fatto, perché non riproduce il fatto nella sua
totalità ma solo gli aspetti che sono rimportanti a noi, il resto è intenzionalmente o per
necessità omesso.
Mach sottolinea una intrinseca presenza della semplicità nel processo di ricerca. Egli
sfrutta anche l’argomento per sovrabbondanza di informazioni, il quale suppone la continua e
incommensurabile interazione tra gli elementi naturali. Si pensi agli effetti gravitazionali,
seguendo le leggi della fisica, si dovrebbe supporre che l’attrazione di un grave lasciato
cadere verso terra da un palazzo, sia influenzato di un quoziente incalcolabile e piccolissimo
dai pianeti del sistema solare, dalle stelle lontane, ma anche da un uccellino che, al momento
della caduta, passava per caso accanto al grave. Questo perché ogni corpo massivo esercita
attrazione gravitazionale. In tale caso, appunto, lo scienziato per parsimonia elimina tutti
quegli elementi irrilevabili e che non producono una differenza non apprezzabile nel risultato
osservato.
21
In E. Mach, The Economical Nature of Physical Inquiry, in Popular Scientific Lectures pp 186
31
L’idea di Mach è corretta, sebbene manchi la giusta enfasi sulla previsione, che risulta
essere lo scopo e il momento di verifica, di quel processo di semplificazione che egli stesso
aveva intuito.
La posizione machiana, parte dall’assunzione della limitatezza umana e della
inconoscibilità della natura nella sua totalità. Questa posizione umile, può essere tradotta per
entrare in una meglio definita concezione della scienza, come previsione. Per la quale,
accettata la generale difficoltà di comprendere il mondo, sebbene in linea teorica si potrebbe
pensare di arrivare, un giorno, a comprenderne la maggior parte dei fenomeni, se non tutti,
agire economicamente, permette un più agile raggiungimento dello scopo della scienza: la
previsione. Perciò la scienza usa in due modi la semplicità, per creare le proprie leggi,
riducendo il dato empirico, trascurando elementi ininfluenti, e per agevolare la previsione.
8. Epistemico e pratico
Si finisca la sezione con una breve specifica. Si è quindi argomentato a favore della
posizione operativa della semplicità, eppure il titolo della tesi fa riferimento alla semplicità
come virtù epistemica. Generalmente ciò che attiene all’epistemologia ha a che fare con la
conoscenza e quindi una descrizione della realtà, il che viene contrapposto alle costruzioni
utili e pratiche ma di nessun valore conoscitivo. Portando avanti la posizione operativa,
sembra si voglia intendere la parsimonia sotto l’aspetto pratico e non quello descrittivo.
Ci si potrebbe chiedere allora il senso del titolo della tesi. La risposta risiede nel
termine di virtù. Una virtù epistemica si riferisce all’individuo, proprio come una virtù etica, e
serve a ben predisporlo per l’acquisizione di conoscenza, ma, di fatto, non aggiunge né rivela
alcunché del mondo.
Nel caso della tesi, si propone una correzione alla definizione, per la quale una virtù
epistemica sia oggettivabile, e possa essere intesa come proprietà della teoria stessa, slegando
così ogni legame con il singolo individuo. In tal senso una virtù epistemica può essere
contrapposta ad un criterio di verifica epistemico, il quale rivela la correttezza della teoria. La
virtù epistemica22 allora la si potrà definire come il grado di qualità apprezzabili in un modello
teorico.
22
Alcuni testi introduttivi sulle virtù epistemiche. Kuhn T. Essential tension, University of Chicago
Press, 1977; Zagzebski L. e Fairweather A., Virtue Epistemology: Essays on, Epistemic Virtue and
Responsibility. Oxford: Oxford University Press, 2001; Zagzebski L. e DePaul M. Intellectual Virtue:
Perspectives from Ethics and Epistemology. Oxford: Clarendon Press, 2003.
32
SEMPLICITÀ, KUHN E LE VIRTÙ
EPISTEMICHE
1. Le due definizioni
Si ha visto come la semplicità non sia un criterio descrittivo, ma può aiutare a definire
la teoria migliore, tra teorie descrittivamente equipollenti. La teoria così trovata non sarà
migliore a livello di rappresentazione della natura, ma sotto un altro aspetto. Principalmente,
la teoria più semplice, sarà ritenuta come superiore alle altre, in quanto più facile da insegnare
e da utilizzare. Mostrerà prima errori e contraddizioni, qualora la si usasse in modalità errate,
e faciliterà il lavoro del ricercatore che potrà impiegare la teoria per ulteriori studi, giacché il
suo formalismo e bagaglio concettuale non risulta complesso.
Presa coscienza, quindi, del ruolo della semplicità non resta altro che definirla in
maniera dettagliata, così da poter applicare il principio di parsimonia in tutte le occasioni
necessarie.
Sulla semplicità si possono dare due definizioni:
A) Semplicità intuitiva
B) Semplicità come velocità di calcolo
33
Questo tipo di semplicità, però, sembra applicabile solo alla scienza, se non alla sola
fisica. Inoltre, la diretta conclusione che se ne ottiene risulta essere piuttosto debole, poiché
richiede, come si vedrà, che vengano soddisfatti molteplici requisiti per poter
ragionevolmente utilizzare la velocità di calcolo come discrimine tra teorie.
C1) Debole: aventi due teorie equipollenti sul piano descrittivo, e poste come
indifferenti tutte le altre virtù epistemiche e criteri extra-descrittivi, la velocità di calcolo può
essere usata come discrimine per definire la migliore tra le due.
Due sono i problemi che insorgono con questa prima conclusione. La prima è che si
deve ammettere che le altre virtù epistemiche siano misurabili come la velocità di calcolo,
poiché se non sono misurabili non si avrà modo di giudicare come indifferenti, tra le due
teorie comparate. Insomma, se esistono altri criteri, e si desidera metterli da parte a favore
della velocità di calcolo, vi deve essere la possibilità di misurazione. Cosicché quando queste
altre virtù epistemiche saranno scoperte come uguali, per determinate teorie, si potrà passare
ad impiegare la velocità di calcolo, in quanto unico discrimine.
Il secondo problema riguarda la comparazione tra due teorie, l’una con un quoziente di
velocità maggiore all’altra, e ammesso la misurabilità delle altre virtù epistemiche, l’altra con
un quoziente maggiore in un'altra virtù. In tal caso, insorgerebbe il problema di dover
comparare le due teorie sotto due aspetti diversi. Si rischierebbe così di bloccarsi, indecisi su
quale criterio extra-descrittivo preferire e perciò non si opterebbe per nessuna scelta.
3. La semplicità intuitiva
Una soluzione al problema, sarebbe cedere sulla semplicità come velocità di calcolo, e
tornare ad una visione della semplicità come parsimonia di enti e relazioni. Questo esporrebbe
alle questioni su come sia possibile enumerare gli enti fondamentali di una teoria, come
riconoscerli e in che modo vadano raggruppati. Ma una volta accettato questo forte e rischioso
salto, si potrà ottenere una conclusione ben più soddisfacente. Una conclusione che potrà
essere applicata non solo a teorie scientifiche, ma anche a teorie filosofiche.
C2) Forte: Le altre virtù epistemiche possono essere ridotte alla semplicità. Perciò
aventi due teorie equipollenti sul piano descrittivo, si può trovare intuitivamente la più
semplice, che definirà la migliore tra le due.
34
Si vedrà nei prossimi paragrafi come sia possibile ridurre le altre virtù epistemiche alla
semplicità. Ora ci si concentri sulla possibilità di una terza strada che permetta di unire le due
definizioni. Si può, infatti, operare un salto ancora più ampio e sostenere che vi sia una
equivalenza tra pensiero e calcolo.
Il ragionamento è il seguente: se si presuppone ragionevolezza e pensiero laddove si
ha un comportamento, o delle risposte, che sembrano provenire da una mente, allora si deve
concedere l’esistenza della mente stessa. Si tratta dello stesso ragionamento che guida il test
della macchina di Turing, per la quale se non si è in grado di riconoscere se sia un uomo o un
computer a rispondere a determinati input, allora si deve concedere alla macchina di aver
superato il test. La macchina ottiene così lo stato di ente pensante.
Certamente non vi è modo assoluto di dimostrare che la macchina effettivamente
pensi, come in realtà, non vi è modo di dimostrare che nessun altro al di fuori di sé pensi. Si
concede però il pensiero, qualora degli enti esterni alla propria persona dimostrino capacità
che sembrano indicarne la presenza. Seguendo quanto scrive Turing nell’articolo “Computing
machinery and intelligence”:
Secondo la forma più estrema di questa opinione, il solo modo per cui si potrebbe
essere sicuri che una macchina pensa è quello di essere la macchina stessa e sentire se si
stesse pensando… Allo stesso modo la sola via per sapere che un uomo pensa è quella di
essere quell’uomo in particolare… Invece di discutere in continuazione su questo punto, è
normale attenersi alla educata convenzione che ognuno pensi.
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Di quest’ultima opzione, se ne parlerà più avanti. Ora si passi a mostrare come sia
possibile ridurre le altre virtù epistemiche alla semplicità intuitiva.
4. Le virtù epistemiche
- Accuratezza
- Fertilità
- Ampiezza
- Consistenza
- Semplicità
5. Accuratezza
Trattando dell’accuratezza, si può riconoscere come Kuhn l’abbia erroneamente
confusa per virtù epistemica, quando la stessa è, in realtà, un criterio descrittivo.
L’accuratezza, infatti, stabilisce senza ambiguità la teoria più aderente al fenomeno.
Si immagini, ad esempio, di comparare due teorie quando una delle due è chiaramente
più accurata dell’altra. In tal caso, non si potranno considerare le due teorie come equivalenti.
Si pensi, ad esempio, alla differenza che intercorre tra la fisica classica e quella relativistica.
Se una teoria è più accurata di un’altra, sarà sicuramente una teoria migliore in quanto
offre una migliore descrizione del mondo. Si può quindi concludere che l’accuratezza non sia
una vera virtù epistemica, ma piuttosto un criterio descrittivo.
6. Fertilità
Kuhn poi avanza l’ipotesi della fertilità come virtù epistemica. Eppure, risulta facile
notare come la fertilità sia impossibile da prevedere. Certo, si potrà pensare di poter annotare
e raccogliere dati statistici sulle varie discipline per farne una media così da trovare un
prospetto sulle teorie che negli ultimi hanno portato a più scoperte.
Una tale analisi si scontrerà purtroppo con due impossibilità pratiche: cosa si considera
come una scoperta e come si associa inequivocabilmente una scoperta ad una sola teoria.
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Qualora, però si ritenesse la categoria della fertilità accettabile, sarà facile notare il
legame che essa ha con la semplicità, per il quale è ragionevole credere che laddove la teoria
proposta sia parsimoniosa sarà anche la più facile da impiegare e quindi genererà più scoperte.
Si è quindi finiti per definire la fertilità come uno dei molteplici aspetti della
semplicità.
7. Estensione
Si passi ora a trattare dell’estensione. Avendo due teorie differenti da comparare ci si
può domandare quanti fenomeni riescano a descrivere. Si deve però operare a monte una
distinzione, dato che quantificare le capacità descrittive di una teoria non è una attività facile.
Si possono ordinare due o più teorie in base al:
Nel primo caso è facile notare come ogni teoria scientifica possa descrivere,
all’interno di condizioni iniziali sufficientemente simili, infiniti fenomeni. La gravità
newtoniana, ad esempio, può descrivere la caduta di tutti i gravi che esistono. Perciò questo
primo tipo di raggruppamento può essere scartato come ininfluente, giacché tutte le teorie
corrette possono descrivere, in linea di principio, infiniti fenomeni.
Nel secondo caso, invece, laddove vi fosse una teoria che descriva più gruppi di
fenomeni, e, si specifichi, il raggruppare i fenomeni avvenga tramite la categoria di
somiglianza, ossia empiricamente e per approssimazione, si potrà, di certo, giudicare una
teoria come più generale dell’altra. Se, però una teoria si rivela più generale dell’altra, stesso
argomento operato per l’accuratezza, sarà preferibile a livello descrittivo. L’estensione risulta
essere un criterio descrittivo, la quale non si può applicare a due teorie equivalenti, giacché se
vi fosse una distinzione nell’estensione dei fenomeni descritti, allora le teorie non sarebbero
più equivalenti.
Si noti come, qui non si ha, come per la fertilità, tentato di ricondurre l’estensione alla
semplicità, ma si ha negato il suo essere una virtù epistemica.
8. Coerenza
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La coerenza con le altre conoscenze è la quarta virtù presentata da Kuhn. Per
procedere con la trattazione, però, si deve però operare quantomeno una distinzione,
riconoscendo due tipi di coerenza:
A) Coerenza interna
B) Coerenza esterna
La prima coerenza risulta applicabile alla logica usata all’interno della teoria stessa.
Non è una virtù epistemica, e neanche un criterio descrittivo, bensì è un criterio formale.
Ossia si chiede che una teoria non abbia errori formali al suo interno e che tutte le conclusioni
seguano dalle premesse. Il risvolto pratico di una tale coerenza sarà la possibilità di utilizzare
la teoria per produrre previsioni affidabili. Qualora mancasse la coerenza interna, la
correttezza della previsione sarebbe unicamente un caso e non un prodotto della teoria.
Risulta chiaro, allora, che la non consequenzialità delle premesse con le conclusioni rende
puramente casuale la teoria, facendole perdere qualsiasi pretesa di previsione e, di
conseguenza, anche il titolo stesso di teoria.
Qualora, invece, da un apparente incoerenza si avesse, per qualche ragione, previsioni
sempre corrette, ciò sarà a testamento del fatto che si ha dato la giusta risposta per una ragione
ignota. Il che dovrebbe portare a riconsiderare se effettivamente vi siano errori nel
formalismo, oppure sé tali errori logici non siano essi stessi eccezioni da assumere come
assiomi.
Da qui si può concludere che una teoria incoerente non resta teoria a lungo, o non resta
incoerente al lungo. In nessun caso però, la coerenza può essere intesa come virtù epistemica,
giacché essa non è un elemento che si preferisce nelle teorie, ma è un elemento necessario.
Per quanto riguarda il secondo tipo di coerenza, quello esterno, è chiaro che se si
comparino due teorie equivalenti, l’una coerente con le vecchie credenze e l’altra no, sarà da
preferire quella coerente. Ma, si noti, la ragione di questa preferenza è dovuta alla semplicità.
Difatti, la coerenza con vecchie teorie, è sinonimo di spiegazione e unificazione semplice.
La coerenza esterna riguarda il rapporto che una teoria scientifica ha con tutto il resto
delle conoscenze già acquisite. Qualora si ipotizzi di trovarsi a comparare due teorie
equipollenti in base alla loro coerenza esterna, non si farà altro che cercare la più
intuitivamente semplice alla luce di quanto già è noto.
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9. Bellezza.
Si ha fin ora, scartato tutte le prime quattro categorie kuhniane, ma prima di tornare
sulla semplicità vi è anche un quinto criterio che spesso viene portato avanti come essenziale
nelle scelte intraprese dagli scienziati: tale criterio è la bellezza.
Per semplificare il discorso e analizzarlo sotto tutti i suoi aspetti, si divida il
sentimento di bellezza che si genera di fronte ad una teoria, dalle cause e ragioni con cui
generalmente si risponde quando si viene interrogati sulle motivazioni della scelta estetica:
Nel primo caso, il sentimento di bellezza viene prodotto dalla semplicità e dall’ordine
di una teoria. È chiarissimo che di conseguenza, si possa ridurre questo caso della bellezza ad
un aspetto della semplicità.
Nei successivi due casi, invece, si tenta di giustificare il proprio sentimento di bellezza
tramite motivazioni personali, vincolate alle proprie capacità. Il problema con queste due
visioni della bellezza è che giudizi formulati in base a ciò che viene percepito come
entusiasmante sono extra-razionali. Si può quindi credere che teorie più difficili abbiano un
fascino maggiore, una bellezza ostile, in quanto siano territori da esplorare, ma razionalmente
sostenere che la teoria da preferire possa essere la più difficile va contro l’obiettivo della
scienza, che è quello di massimizzare la conoscenza del mondo.
Giustificazioni esplorative ed emotive, sono valide a livello valoriale lì dove non vi
può essere dibattito oggettivo, ma quando si ritorna a discutere di criteri razionali, è
inammissibile sostenere che tra due teorie equivalenti sia preferibile quella più difficile, lo
scopo della scienza è scoprire, non mettersi i bastoni tra le ruote. Questo ragionamento vale
sia per la bellezza intesa come sfida massima, sia come equilibrio tra sfida e semplicità,
giacchè una teoria semplice sarà sempre preferibile rispetto ad una anche di poco più difficile.
Infine, vi è da trattare la bellezza generata da motivazioni politico-etiche. Qui si può
replicare il ragionamento sopra espresso. Motivazioni del genere sono extra-razionali, sono di
tipo valoriale ed appartengono ad un ambito di inaccessibile soggettività, perciò qualunque
scelta operata in base a tali motivazioni sarà irrazionale, in quanto sarà impossibile,
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presentando ragioni soggettive, convincere un altro individuo dal differente pensiero. Una
preferenza generata in tal modo, non essendo più oggettiva, perde della sua forza ed utilità.
Equivale ad operare una scelta, non su ragioni, ma su pregiudizi. Se lo sforzo della semplicità
è quello di mettere il ricercatore sulla strada più efficiente possibile, ammettere giudizi
soggettivi come validi all’interno del discorso di valutazione di teorie scientifiche, equivale a
sottrarsi dalla ricerca della migliore strada. Se ne conclude, che la bellezza intesa nelle
maniere soggettive, non sia una vera virtù epistemica, in quanto non è un criterio razionale.
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spingersi oltre il mare del conosciuto, dovrà usare mappe meno sicure della scienza stessa, ma
quantomeno ragionevoli, come la semplicità e la parsimonia.
12. La prudenza
La parsimonia, inoltre, permette di giustificare posizioni prudenti rispetto a posizioni
audaci. Questo è dovuto all’evidenza sugli infiniti modi di fallire una attività, comparati con
le poche modalità di successo.
Vi sono, ad esempio, solo un numero finito di modi per costruire una casa, una nave,
ed anche a livello di selezione naturale si può notare come siano pochissime le specie che
sono sopravvissute poiché più efficaci rispetto a quelle estinte; e sono ancor di meno rispetto a
tutte le specie che avrebbero potuto esistere. Usando le parole dello scienziato Richard
Dawkins:
“Noi moriremo… e questo fa di noi “quelli fortunati”. Molte persone non moriranno
mai, perché mai verranno alla luce. Gli individui che avrebbero potuto essere qui al mio
posto, ma che non vedranno mai la luce del giorno, superano di gran numero i granelli di
sabbia del Sahara. Certamente tra questi fantasmi non nati ci sono poeti più grandi di Keats,
scienziati più grandi di Newton. Sappia questo, perché le possibili combinazioni permesse dal
nostro DNA eccedono incomparabilmente col numero di persone che effettivamente
esistono.”
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O ancora usando l’adagio di Edison sui suoi tentativi di inventare la lampadina,
all’ennesimo fallimento la storia riporta che disse: “Adesso conosco 10000 modi per non fare
una lampadina”
Ora, come conseguenza, giacché vi sono così tanti modi di sbagliare, conviene che ci
si mantenga prudenti, sia nelle azioni che nei pensieri. Infine, si può notare il legame che
intercorre tra prudenza e parsimonia, giacché una teoria che ipotizza di meno dovrà
dimostrare di meno, e rischia di meno. Anche in questo caso si è ridotto il concetto in esame
ad un aspetto della semplicità.
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Per scoprire fenomeni di tipo diverso, dovrebbe imparare da solo nuove matematiche.
Data una sufficiente complessità della macchina si potrebbe sostenere ammissibile che essa
ottenga la capacità di scoprire sia leggi fisiche, che formule matematiche.
Dopotutto, ammessa l’eguaglianza tra pensiero e computazione, si può, in linea di
principio, pensare ad un computer con le esatte sofisticatezze mentali di uno scienziato.
Perciò, similmente, si potrà pensare ad un computer con sofisticatezze mentali ben superiori a
quello di uno scienziato.
I moderni avanzamenti nell’I. A. learning, altrimenti detto, machine learning,
sembrano suggerire le conclusioni appena tratte, ossia che sia realizzabile una macchina in
grado di affiancare, se non sostituire, l’uomo nella ricerca scientifica. La macchina procederà
per induzioni, creerà la sua ipotesi, deriverà le conclusioni, avanzerà esperimenti, e trovandosi
di fronte a dei bivi sceglierà in base al criterio secondario della semplicità, ossia della
velocità, cosicché da rendersi subito contro, qualora fosse il caso, di aver sbagliato strada.
Se si pensi al fatto che i computer, oggi, si affiancano all’uomo nelle creazioni
artistiche, producendo immagini e musiche gradevoli, difficilmente distinguibili da quelle
prodotte dall’uomo, non sembra impossibile ritenere che le macchine da strumenti di calcolo,
diverranno artisti e scienziati.
La terza conclusione espressa all’inizio del capito, per quanto sia la più audace,
sostenuta dai recenti sviluppi del I. A. learning, e dall’argomento del test di Turing, sembra
meno impossibile di prima.
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della meccanica quantistica, e la funzione d’onda di Schrödinger, per apprendere quale delle
due sia la teoria più veloce.
Per quanto riguarda invece le descrizioni del moto della luce, se si compara la
relatività eisteniana con la formulazione di Lorentz e Fitzgerald, si noterà come la matematica
di fondo sia la stessa, in quanto entrambe si basano sulle trasformate di Lorentz, perciò non è
auspicabile pensare di rilevare una differenza nella velocità di calcolo tra i due formalismi.
Quello che si può fare, però, è notare il numero di elementi necessari all’interno della teoria, e
misurare la velocità di elaborazione di tali enti, enumerando quelli fondamentali e le loro
relazioni. In tal senso si può ipotizzare che la teoria eistaniana venga valutata più semplice di
un quoziente X.
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B) Inoltre, è solo l’aspetto dell’efficacia comunicativa tra esseri umani che richiede la
presenza di ridondanza. Il pensiero, come lo si ha in mente, non ha bisogno di
ripetizioni, perciò il concetto che si vuole veicolare è ideato come uno, e
rappresentabile nella sua essenza senza necessità di ripetizioni. Dopotutto gli
assiomi di Euclide, le leggi di Keplero, si esprimono senza ridondanze. Lo stesso
vale per le discussioni, il cui punto centrale può essere formalizzato, sotto forma di
un’unica frase senza necessità di ripetizioni. Uno dei punti centrali della presente
tesi, infatti, può essere ridotto a: la semplicità è un criterio extra-descrittivo
impiegabile nella scelta tra due teorie equivalenti. Così si può procedere per
qualunque altro pensiero.
C) L’obiezione di Lewis ha senso se non si avesse premesso che la semplicità, entri in
gioco solo a parità di capacità descrittiva. Perciò, lo scienziato, massimizzata, nella
sua teoria, la possibilità di predire il fenomeno sotto più aspetti possibili, tenterà
poi di massimizzare la semplicità della teoria trovata, o tra due equivalenti
preferirà quella più semplice. In ogni caso, si può notare come lo scienziato non
cerchi un equilibrio tra informatività e semplicità, ma in primo luogo cerchi di
massimizzare l’informatività della predizione e solo successivamente, tra le
opzioni emerse di massimizzare la semplicità. Non c’è una ricerca d’equilibrio,
che tra l’altro sarebbe difficile da misurare, ma c’è sempre una tensione verso la
massimizzazione dell’efficacia sotto certi riguardi. La massimizzazione, inoltre, ha
un grande pregio: rende possibile la misurazione dei vari caratteri. Per la
informatività, basterà comparare due teorie e vedere chi prevede di più e con più
accuratezza, poi chi supera il test verrà comparata con una altra teoria e così via,
fino ad avere la teoria migliore. Per la semplicità, può avvenire lo stesso processo
se si ammette la definizione della parsimonia come velocità di calcolo. Il
problema, della misurazione dell’equilibrio è, invece, che risulta arbitrario, e per
renderlo oggettivo bisognerebbe trovare una proporzione oggettiva e accettabile tra
semplicità e informatività. Non si è a conoscenza di un argomento soddisfacente in
tal senso, inoltre, sembra esservi proprio una barriera concettuale che impedisca di
unire i due aspetti.
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vari esempi storici, quindi argomentato per efficacia storica. Si è proceduto in questo modo,
poiché si ritiene che le due strade siano intrinsecamente legate. Le ragioni teoriche a sostegno
della semplicità hanno portato molti scienziati sulla via del successo e quel successo poi è
andato a corroborare la posizione teorica.
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SEMPLICITÀ E CORROLLARI
Stabilita l’efficacia del principio di parsimonia, si può pensare di applicarlo, non solo
alle teorie scientifiche, ma anche ad argomenti filosofici. Si vedrà come la semplicità funga da
chiave di volta per risolvere problemi puramente speculativi, come l’esistenza di dio, o lo
statuto della morale. Tali temi vastissimi saranno dovutamente stringati per inquadrare i punti
in cui la semplicità può divenire fattore di svolta; con questa specifica si prende coscienza
dell’ampiezza degli argomenti trattati. Non si pretende di portare avanti dimostrazioni
definitive, ma vuole far luce sull’uso della parsimonia e sulle conclusioni a cui porta.
Certo è che tra le due definizioni di semplicità appare difficoltoso poter applicare la
definizione di velocità di calcolo ad argomenti filosofici, a meno di non abbracciare la tesi per
cui ogni pensiero possa essere ridotto a una stringa di algoritmo. Nonostante questo, anche
applicando la definizione intuitiva di semplicità si potrà portare avanti le seguenti
argomentazioni, giacché saranno tutti attacchi a teorie palesemente non semplici.
Laddove T1 descrive un fenomeno con x elementi e T2 descrive lo stesso fenomeno con
x+1 elementi, sarà allora palese la semplicità della prima teoria. In questo senso si ritiene
giustificato l’applicazione della semplicità, anche nella sola sua definizione intuitiva. Si
andrà, infatti, usando il rasoio occamiano, a sfoltire tutte quelle ipotesi superflue che per loro
stessa natura si appoggiano a teorie efficaci e capaci di descrivere il fenomeno senza
l’aggiunta delle suddette ipotesi.
1. Ateismo
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I sostenitori dell’ateismo hanno impiegato, ed impiegano tutt’ora, il rasoio di Occam
per dare forza alla tesi sull’inesistenza di dio. I principali argomenti usati per criticare la
visione teista sono l’argomento dell’esistenza del male, e l’argomento sulla creazione
dell’universo.
Trattando il primo tema si è visto, nella prima parte della tesi, come già Leibniz
venisse criticato per aver ipotizzato un dio onnipotente, onnisciente e buono, creatore del
mondo migliore possibile, ma apparentemente pieno di eventi catastrofici e dolorosi.
Immediatamente, però, il teista potrebbe difendersi, invalidando l’obiezione, asserendo
che il male apparente, avvenga in realtà per una ragione sconosciuta agli uomini. Sostenendo,
quindi, la tesi secondo la quale il bene di dio non coincida con il bene degli uomini; e l’evento
che appare maligno in realtà porti ad un bene sconosciuto.
Rowe nel 1979, propose un’obiezione ateista più modesta. Per Rowe sarebbe più
corretto rinunciare a negare l’esistenza di dio, la cui dimostrabilità è impossibile da ottenere.
Più sostenibile sarebbe, secondo Rowe, difendere la tesi secondo la quale le evidenze
empiriche portino a credere alla sua inesistenza, senza negarla del tutto. L’argomento di Rowe
può essere formulato sotto forma di diseguaglianze tra probabilità, come scrive Sober in
“Ockham’s razor”: dati gli orrori del mondo è più probabile che dio non esista.
Se un dio onnipotente, onnisciente e buono ha una ragione per creare tanto male, gli
uomini ne sarebbero venuti certamente a conoscenza.
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Howard-Snyder (1996) fornisce una buona antologia sul problema del male. Draper (1989) riformula
il problema in termini probabilistici. Tooley (2013) dà una buona introduzione.
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Quando i promotori della posizione atea portano avanti un esempio di evento E
terribile e doloroso, i teisti scettici possono ribattere che, in realtà, E può avere proprietà
positive di cui non si è a conoscenza.
A quanto suggerito da Wykstra, vi è però una contro obiezione che può essere
formulata: nonostante non si possa escludere l’esistenza di proprietà positive in un gesto
apparentemente negativo, è pur vero che a livello morale la decisione tra una buona o cattiva
condotta, tra un evento positivo o negativo, non viene giudicato da risvolti sconosciuti, ma
dagli effetti infausti o felici che si sono generati, e che sono osservati da tutti. Alla base di
questa obiezione vi è l’idea che lo scetticismo teista implichi uno scetticismo di tipo morale,
come scritto da Almeida e Oppie (2003) e da Jordan (2006). L’impossibilità di conoscere il
bene reale, introdotto da dio, che dà ragione di un evento negativo, porta a svalutare qualsiasi
opinione etica, in quanto sarebbe impossibile valutarla come corretta o scorretta sul piano
inconoscibile e fondamentale dell’etica di dio.
Sober ripropone l’obiezione atea, tramite l’uso della parsimonia e della probabilità,
nella seguente maniera: si analizzi le tre proposizioni A, B e C.
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Sarà allora più probabile che un evento apparentemente negativo, sia il risultato
dell’assenza di dio.
Si conclude che la proposizione A porti una preferenza per B, e B porti una preferenza
verso C. In tal modo si riconosce come A porti una preferenza verso C, la non esistenza di
dio.
L’utilizzo del principio di parsimonia fatto da Sober sta sostenere la proposizione A.
Considerare negativo un evento apparentemente negativo, qualora non si vedano, sebbene non
si possano escludere, risvolti positivi, risulta ragionevole in base al principio della parsimonia.
Si potrà pensare di criticare l’uso di Sober della probabilità applicata ad eventi
irripetibili come l’esistenza di dio, seguendo l’interpretazione frequentista di Von Mises,
secondo la quale la probabilità non è altro che la frequenza di eventi simili, e per ricavare tale
frequenza si ha bisogno di un ampio numero di osservazioni. Sober, nel suo scritto, si
giustifica unendo la semplicità alla probabilità, ma qualora non si fosse persuasi dalle sue
argomentazioni si può formulare lo stesso ragionamento, in maniera meno formale, usando
solo la categoria della parsimonia, sostituendo alla formula la P di probabilità con la P di
parsimonia.
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onnipotente, dovrà, secondo l’argomento sopra formulato, ritenere che la bontà divina sia
inconoscibile, quindi sarà inutile ad ogni fine pratico, e diverrà allora superflua, e per
semplicità sarà costretto a scartare quest’ipotesi superflua. Il principio di parsimonia, se non
riesce a dimostrare l’inesistenza di dio, riesce quantomeno a minare la sua credibilità,
indebolendo le posizioni teiste, inserendosi con efficacia nella discussione sull’esistenza del
male.
Si faccia però una specifica, le seguenti argomentazioni fanno uso della semplicità e
come specificato essa è uno strumento pratico, che non definisce il vero, ma il ragionevole. In
filosofia, però, ciò che è vero non è così chiaramente definito come in scienza, e anche lì si
può dibattere se si possa raggiungere la verità. In tal senso, si può definire la filosofia come le
produzioni di teorie ragionevoli, e come un ambito dove non vi può essere processo di
verifica, altrimenti sarebbe scienza. Per tale ragioni, l’uso della semplicità, in filosofia non
solo risulta utile e giustificato, ma che sia l’equivalente di un criterio sufficiente di
persuasione. Perciò le seguenti conclusioni, trovate tramite l’applicazione della parsimonia,
appartenendo all’ambito della filosofia, non vogliono rivelare il vero, ma ciò che sembra
convenire credere, o ciò che, seguendo ragionevolezza, le evidenze sembrano suggerire.
2. La creazione dell’universo
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La difesa del teista, ammessa l’esistenza di dio, sembra coerente e permette di
resistere a tutti gli attacchi portati dallo scienziato che si basano sul puntare a vari fenomeni
incongruenti con le sacre scritture. Di conseguenza, il geologo sembra destinato a fallire nel
tentativo convincere il teista e la discussione appare ferma in uno stallo. È proprio, tramite il
principio di parsimonia, che lo scienziato può tornare sull’argomento e rilanciare, indicando al
credente la posizione più ragionevole da sostenere.
Seguendo il rasoio di Occam, infatti, credere che dio abbia creato il mondo come fosse
già vecchio risulta superfluo; conviene invece eliminare l’ipotesi di dio e supporre l’effettiva
anzianità del pianeta.
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Insomma, sembra esserci un punto non dimostrabile in ogni credenza; nondimeno un
tale punto fondamentale può essere più o meno ragionevole e sensato, la cui sensatezza e
ragionevolezza è data dall’efficacia nel mettere in pratica le naturali conclusioni che possono
derivare dalla credenza stessa.
Da quanto detto, le due posizioni, dell’ateo e del credente, possono essere riassunte nel
seguente modo:
Risulta chiaro che tra le due opzioni, la prima sia la più semplice.
Inoltre, se anche fosse accettabile supporre un dio creatore, la parsimonia vorrebbe che
non si aggiungano altre qualità a dio. Le divinità religiose, e non puramente filosofiche come
il dio orologiaio supposto da Cartesio, sono state rivestite di numerose proprietà, caratteri
antropomorfi, comportamenti irrazionali e a volte contraddittorie. Questo è avvenuto perché
un ente teorico come dio, allora come adesso, era superfluo e sarebbe stato eliminato se non
avesse avuto anche qualche risvolto pratico.
La posizione atea, anche qui fa uso della parsimonia. Essa ribatte ai sostenitori di
divinità dalle specifiche proprietà che, appena entra nel mondo, dio diviene contraddittorio.
Cercando nell’esperienza, all’ateo sembrerà che ammessa l’esistenza di dio, come la divinità
di Cartesio, egli desideri che il mondo sia esattamente come appari.
La posizione atea punta a tutta la gamma di eventi contrastanti che il presunto dio ha
permesso avvengano nel mondo. Dio, qualunque dio si prenda in riferimento, nel corso della
storia, ha salvato santi e brave persone, ma altre volte ha dato loro la morte, in un rapporto che
non ha un apprezzabile preferenza verso uno dei due avvenimenti. L’esempio del santo
salvato od ucciso, appena fatto, in realtà può essere allargato a tutti gli eventi della natura, i
quali, rivestiti di uno scopo, ad indicare le volontà di dio, sono opposti ad altrettanti eventi
che sembrano in chiaro contrasto.
Nel corso della storia sono accaduti eventi incredibilmente fortunati, come eventi
incredibilmente terribili, per mano umana o per cause naturali. Specie viventi sono
sopravvissute al gioco dell’evoluzione, mentre moltissime altre si sono estinte. La ricchezza
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d’acqua della terra sembra non essersi replicata sugli altri pianeti che sono siti in posizioni
inospitali per la vita; laddove sarebbe stato più ragionevole per il creatore aver massimizzato i
luoghi dove i fedeli potevano lodarlo e pregarlo.
Non ultimi, vi sono poi gli argomenti sul male, già trattati, che tendono a favore della
tesi atea.
Per evitare le contraddizioni, il credente sarà costretto a tornare all’idea del dio
orologiaio che però, per il principio di parsimonia, può essere eliminato. Come si è analizzato
precedentemente, un dio buono la cui bontà non è mai presente né percepibile all’uomo è un
dio eticamente inutile, così come un creatore che non interviene nel mondo ne specifica lo
scopo della creazione, risulta essere un’ipotesi superflua. Sostenere che dio voglia che le cose
siano esattamente come sono, equivale a togliervi qualsiasi peso o valore pratico, anzi, una
tale credenza potrebbe sfociare in un sentimento antiprogressista.
Perciò, si chiede l’ateo: se dio vuole ciò che è, e in natura è presente sia la stasi che il
cambiamento, allora cosa se ne dovrà dedurre? Che qualunque cosa che accade in natura è
giusto perché accade, il che equivale a dire che non c’è dettame divino e quindi non si può
trarre una qualche utilità pratica, o una guida comportamentale, da dio.
Concedendo, infine, ancora di più al teista, ammettendo che il dio orologiaio esista,
sarebbe, anche in tale circostanza, sostiene l’ateo, poco conveniente credervi. Se il fine di dio
è quello di creare le cose come sono, egli andrà allora inteso come un dio vuoto, privo di
valori pratici. E laddove una teoria non ha risvolti pratici diviene superflua, fosse anche vera,
se non altro poiché occupa invano spazio mentale; e per il rasoio di Occam andrà eliminata.
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Si può notare come il ragionamento di Leibniz nel trovare il suo principio sia stato guidato dalla
parsimonia, dopotutto il filosofo non fa altro di ammettere unicamente l’esistenza di qualità, tacendo invece
sull’esistenza di enti fondamentali e metafisici, di cui non ha riscontro, i quali sono a suo avviso superflui ed
eliminabili.
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una proprietà, quella d’aver creato l’universo, ma non dispiegando altre proprietà se ne
deduce che non le possieda. In questo modo si può eliminare dal concetto di dio proprietà
volitive, dettami religiosi, ma anche altre qualità come l’onniscienza, l’onnipotenza.
Tutto ciò è conseguenza del fatto che la semplicità intrinseca al concetto di dio sarà
sempre inferiore alla semplicità di ipotizzare le cose come sono senza un creatore esterno
all’universo.
3. La scommessa di Pascal
Ciò però non regge alla luce delle obiezioni atee, che fanno uso del principio di
parsimonia.
A meno di un dio orologiaio, che per semplicità si può eliminare, credere in dio
richiede che si impieghi tempo e risorse, in termini di sacrifici, preghiere, opere e riti. Perciò
non dovesse dio esistere, o dovesse esistere il dio di un’altra religione, si è condannati in un
caso, a sprecare le poche ore concesse in quest’unico piano di esistenza, nell’altro, si andrebbe
semplicemente negli inferi del dio di un'altra religione. Anche nel caso si venisse eletti al
cielo del dio dell’altra religione per buona condotta, non sarebbe conveniente credere a dio,
giacché ognuno crede al proprio dio, sostengono gli atei, e l’operare secondo le norme di
un’altra religione, che per puro caso si riveli la religione corretta, è un accidente, un evento
casuale, un colpo di fortuna.
Messo sotto quest’aspetto la scommessa pascaliana perde forza, e perde ancor più
forza se, impiegando la parsimonia, si pensa a tutte le divinità mai ideate o che siano ideabili.
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La probabilità di trovarsi a credere alla religione giusta sarebbe così bassa che non
converrebbe affatto scommettere. Certo, il credente può ribattere, sostenendo che la religione
con più fedeli è di certo la più corretta giacché dio ha fatto in modo che la stessa abbia
successo. Una simile difesa però si scontra con la forte obiezione dell’ateo che può far notare
come non vi è stata neanche una religione che non sia stata preceduta da un’altra, perciò un
romano pagano, negli anni di Giulio Cesare poteva, seguendo il ragionamento del credente,
ritenere di credere nei veri dei.
5. Fine tuning
Si proceda ora, con l’ultimo impiego della semplicità, da parte dell’ateo contro il
credente.
Una delle più influenti tesi a difesa del teismo è quella del perfetto equilibrio, in
inglese “fine tuning”, secondo la quale si suppone l’esistenza di un’intenzionalità intrinseca ed
evidente nell’universo. La presenza di questa intenzionalità è sostenuta dalla stessa esistenza
di strutture complesse e coscienti come l’uomo e gli animali. Tali strutture non sarebbero
venute a generarsi se solo uno dei parametri delle costanti universali fosse stato diverso. In
tali circostanze l’universo sarebbe, o collassato, o si sarebbe espanso fuorimisura, o
56
semplicemente non avrebbe mai sviluppato vita sensiente. L’improbabilità di aggiustamenti
così precisi suggerisce al teista una intenzionalità evidente nel creato.
Varie sono le obiezioni presentate dai più famosi promotori delle posizioni atee come
il biologo Dawkin. Se ne analizzino le cinque principali:
57
Ma per parsimonia si può ritenere che laddove non sembra esserci struttura
sensiente non vi sia effettivamente; sarebbe assurdo credere che rocce e atomi
possano pensare. Dunque, seguendo questa quarta obiezione, il fine tuning,
potrebbe dar ragione ad un dio creatore, ma perderebbe la sua onnipotenza. Si noti,
inoltre, come un dio creatore del genere è subordinato ad alcuni limiti, il che
implica l’esistenza stessa di questi limiti divini. I quali sono ingiustificati e
ingiustificabili, ipotesi superflue di un’ipotesi superflua.
E) Si può criticare la tesi del fine tuning in quanto implica un ragionamento sulla
apparente improbabilità di un evento irripetibile come la creazione del mondo.
Seguendo l’interpretazione frequentista della probabilità, una simile posizione è
insostenibile. Per il frequentista non si può calcolare la probabilità di eventi
irripetibili, perciò non si potrà speculare sull’improbabilità dell’assestarsi dei
parametri dell’universo su alcuni determinati valori. Argomenti del genere sono
fuori da ciò che viene concesso di conoscere o discutere, perciò seguendo il rasoio
del silenzio si deve tacere a riguardo.
L’argomento del fine tuning viene così fortemente indebolito, se non completamente
invalidato. Vi sono poi altre obiezioni dirette alla tesi del disegno intelligente, che altro non è
che una posizione più estrema del fine tuning. La tesi del disegno intelligente sostiene, in
chiave teologica, quello che già Aristotele proponeva; nulla è stato creato invano. Oltre alle
obiezioni già riportate alla visione aristotelica e all’approccio descrittivo della semplicità, se
ne possono portare avanti delle altre. In primo luogo, essendo una sorta di generalizzazione
del fine tuning, tutte le obiezioni soprastanti rimangono valide. Secondo, le teorie darwiniane
specificano chiaramente l’esistenza di strutture inutili nella natura. L’esempio più evidente è
in biologia.
Si prenda ad esame il nervo laringeo ricorrente. Esso è un nervo estremamente corto
nei pesci che passa sotto il dotto arterioso vicino il cuore. Tale nervo però segue la stessa
strada anche in molti animali dotati di collo come, caso estremo, la giraffa, in cui il nervo
scende per circa due metri fino al dotto e per poi risalire.
Dato che il disegno intelligente presuppone un architetto divino, si potrebbe pensare
che dio avrebbe benissimo potuto ideare gli animali, come la giraffa, con un nervo laringeo
che non scenda inutilmente verso il cuore per poi salire, ma non l’ha fatto.
Le evidenze, invece, sembrano suggerire le verità della evoluzione; gli animali
terrestri si sono evoluti da quelli acquatici e per questa ragione in nervo passa sotto il dotto
58
arterioso come nei pesci; giacché la pigra natura procede per piccoli passi, preferisce mutare
che costruire dal nulla.
L’esempio fatto è solo una della miriade di strutture inutili che si dispiegano in natura.
Qui, il teista, di contro, potrebbe sostenere che la presenza di strutture apparentemente inutili
non implichi l’inesistenza di un creatore intelligente, dopotutto dio potrebbe avere una sua
ragione per creare elementi che appaiono superflui, ma a tale difesa si obietti usando la stessa
argomentazione presente nel paragrafo sull’esistenza del male.
Concludendo si può riassumere l’apporto della parsimonia alle posizioni atee. Essa
risulta essere un valido strumento di critica contro divinità volitive, promotori di dettami etici
e con fini precisi per il mondo da loro creato. Si ha visto come il principio di parsimonia:
Di contro, se, a forza, si vuole far sopravvivere dio alla lama del rasoio, il teista sarà
costretto a sacrificare molte caratteristiche che sono tradizionalmente associate al concetto di
divinità, fin quasi a svuotarlo di significato. Egli è portato a credere, dalla semplicità che dio:
A) O non esiste
B) O se esiste è inutile, crea e non agisce più, come il dio orologiaio.
59
C) Oppure esiste ma impotente, crea un mondo difettoso ed è incapace di
massimizzare i suoi scopi, ossia evitare il male, e non riesce neanche e
massimizzare il numero di coscienze presenti.
Delle tre la prima è ancora una volta la soluzione più semplice, e quella che pone fine
all’agonia del dio ferito dal rasoio di un frate25.
Non a caso, quando Napoleone chiese a Laplace, se fosse vero che non avesse
menzionato dio nel suo lavoro sulle proprietà del sistema solare, egli rispose:
Poi, quando Lagrange replicò a Laplace della capacità esplicativa dell’ipotesi divina,
Laplace difese la sua posizione:
Questa ipotesi (quella di dio) spiega tutto in realtà, ma non permette di predire nulla.
Come scienziato, io devo provvedere con lavori che permettano predizioni.
In tale senso si muovono anche Hawking and Mlodinow in “The Grand Design”,
quando difendendo le tesi atee, sostengono appunto l’incapacità predittiva dell’ipotesi divina
e quindi la sua inutilità.
Inutile a livello descrittivo scientifico, e superflua per parsimonia in ambito filosofico,
la posizione teista non può che uscirne profondamente indebolita.
6. Realismo Morale
25
Ancora una volta si ripeta che il dibattito è ben più vasto di quanto trattato. Si ha voluto però
sottolineare gli abiti dove la semplicità può giocare un ruolo fondamentale, segnalando anche quali conclusioni
sembra supportare.
60
I sostenitori del realismo morale affermano l’esistenza di norme di condotta
indipendenti dal soggetto agente. Una simile posizione è in evidente contrasto con: etiche
religiose, morali relativiste, e alcune forme di esistenzialismo. Secondo il realismo morale, la
buona condotta non viene trovata tramite precetti dottrinali, dettami sociali o personali, ma si
estrae da un piano etico oggettivo; quindi comune e raggiungibile a tutti.
Sarà Harman, nel 1977, ad utilizzare il principio di parsimonia contro la visione
realista. Egli sostiene che non vi sia ragione di suppore l’esistenza di un’etica indipendente
per spiegare il comportamento umano. A suo avviso, l’educazione e l’ambiente bastano per
dar ragione delle azioni di un individuo.
Anche Ruse e Wilson (1986) avanzano una simile argomento, sostenendo che la teoria
darwinana dell’evoluzione sia sufficiente a spiegare il comportamento e la nascita della
morale. Darwin stesso, nel suo “libro rosso”, il taccuino di riflessioni filosofiche, avanza
l’ipotesi che la morale non sia altro che un istino, un riflesso, nato spontaneamente tra gli
animali sociali; ossia tra quegli animali che per sopravvivere collaborano tra conspecifici.
Perciò, il senso di giusto e sbagliato, il senso di colpa che spesso, fa l’esempio Darwin, si può
riscontrare nei cani rimproverati dai padroni ed in altre bestie, non è riscontrabile in animali
solitari, ma è invece presente in animali sociali. Per Ruse e Wilson, basta una simile visione
per spiegarsi la nascita dei costumi umani e il loro trasformarsi.
Sober, invece, nel “Rasoio di Occam”, sostiene che vi sia ancora spazio per il realismo
morale anche accettando la visione di darwiniana. La soluzione di Sober sta nel differenziare
l’ambito psicologico dall’ambito etico. In questo modo, sostiene, si può slacciare la
spiegazione scientifica-psicologica con i pensieri filosofico-etici che procederebbero a sé
stante. Riassumendo la sua posizione: lo spiegare come mai le cose si dispieghino in un certo
modo non aggiunge nulla a come si dovrebbero dispiegare, ed è proprio quello l’abito della
morale.
Sober, però, fallisce nel riconoscere la svolta permessa dalla parsimonia. La questione
si può restringere a due opzioni. La morale si basa:
A) su criteri arbitrari
B) su osservazioni naturali
Insomma, o si deriva la morale dalla natura, oppure la si inventa, e tra le due opzioni la
prima è la più parsimoniosa. Può, però, sembrare che neanche la natura suggerisca alcun tipo
di condotta, dato che a volte giustificherà atti violenti per salvare la propria vita e altre volte
61
giustificherà atti di sacrificio. In realtà, la visione darwiniana non elimina la discussione
morale, ma ne definisce gli scopi, sotto termini di sopravvivenza e prosperità di sé stessi e del
proprio gruppo; laddove è proprio il lavoro della morale bilanciare le istanze personalistiche
con quelle collettive.
Si precisi che si sostiene che le altre morali si basino su criteri arbitrari poiché,
quantomeno storicamente, non si è trovata una ragione definitiva che premiasse in maniera
oggettiva i seguaci di alcuna morale.
Anzi, spesso è proprio impossibile misurare l’efficacia di una condotta se non in
termini di beni e relazioni che accrescono le probabilità di sopravvivenza. La grande
differenza tra morali legate alla visione darwiniana e morali oggettive, sta nella falsificabilità
delle prime. Giacché è facile comprendere quando una azione ha recato danno alla propria
sopravvivenza oppure no.
Allora, il lavoro della morale sarà, come già detto, bilanciare le istanze personali con
quelle sociali, e trovare un modo per valutare, comparare e prevedere gli esiti delle azioni.
Qui, risiede l’ambito e l’arduo sforzo della morale. È noto che non sia neanche così facile
valutare gli oggetti materiali26, si immagini dare un valore ai gesti e ai rapporti sociali.
Nonostante le ragioni a suo sfavore, non è impensabile concedere una certa utilità a
verità normative, ma le stesse, contrariamente all’idea di Sober, andranno intese come
approssimazione della spiegazione biologica; analogamente a quanto viene fatto con la fisica
newtoniana rispetto a quella einsteiniana.
Un pensiero analogo è presente anche nella visione fisicalista del libero arbitrio: per il
fisicalista il libero arbitrio è una sovrastruttura illusoria ma con uno scopo: permettere di
individuare i conspecifici meglio educati e dare una giustificazione per indebolire, quindi
punire, chi va contro le norme di condotta. Nella visione fisicalista, il libero arbitrio è una
approssimazione utile ma inefficace a descrivere, a livello fondamentale, l’agire umano.
Seguendo il ragionamento, si può quindi ritenere il realismo morale come ritenuto una
visione approssimativamente accurata adatta ad alcuni temi specifici, poiché, come per il
libero arbitrio, una illusione può forzare un corretto comportamento, laddove la ragione è
incapace di metterlo pratica senza ulteriori sovrastrutture. Ma per il rasoio di Occam, il
realismo morale risulta essere una sovrastruttura superflua su cui sorvolare quando si parla dei
fondamenti dell’etica.
26
I prezzi degli oggetti variano, cambiano da regione a regione, salgono e scendono con la domanda.
Insomma, quando si va a pagare un’oggetto, si sa con certezza che la cifra pagata non è precisamente il vero
valore della merce. Anche perché gran parte del prezzo è dato da istanze soggettive sulla necessità effettiva o
non di un dato prodotto.
62
Infine, si ragioni sull’efficacia della visione realista. Qualora, ad esempio, si volesse
correggere un criminale, il realista morale dovrebbe, in qualche modalità poco precisata fargli
raggiungere l’illuminazione trovando queste verità che crede esistano nella realtà. Più efficace
invece sarebbe provocare un cambiamento sul criminale tramite interazioni con un ambiente
positivo, tramite stimoli a favore di una certa condotta, o il miglioramento della condizione
sociale e famigliare. Insomma, sfruttando tutto ciò che ha a che fare con la biologia e la
psicologia dell’individuo, quindi anche cibo, droghe, attività fisica, letture, sonno, discussioni.
Una visione ambientale del comportamento garantisce un chiaro sentiero operativo per il
miglioramento.
Ovviamente abbandonando il realismo morale, ed entrando in una visione situazionale
e biologica della morale, ci si troverà a dover risolvere tutti quei problemi presenti nelle
morali relativiste, di cui la visione proposta fa parte.
Usando il principio humiano, tramite le esperienze passate si può mappare stimoli e
risposte per trovare e adeguare i propri schemi mentali di tipo etico. In questo modo, in
maniera sempre più definita, sebbene mai perfetta, data l’impossibilità di scomporre e
valutare ogni aspetto di ogni situazione in cui l’individuo si troverà ad agire, si potrà indicare
strada del progresso per l’individuo lacunoso. La via non sarà perfetta, per le ragioni sopra
espresse, ma appare essere la migliore a disposizione.
7. Libero arbitrio
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dedusse che l’attività celebrale precede la coscienza. Libet concluse che i gesti volontari non
si spigionino dalla coscienza, ma dalle strutture fisiche del cervello, da qui, l’inesistenza del
libero arbitrio.
Ovviamente, volendo difendere a tutti i costi il libero arbitrio si potrebbe sostenere che
lo stesso non risieda nella parte conscia della mente. In tal caso basterà usare il rasoio di
Occam invalidare questa difesa. Credere che vi sia un libero arbitrio, indipendente da sé
perché spigionato dall’inconscio, risulta superfluo. Analogamente a quanto discusso con
l’argomento sull’esistenza di dio, per salvare il libero arbitrio si è costretti a svuotarlo;
esponendolo così alla lama del rasoio.
Qualche obiettore temerà che l’abbandono del libero arbitrio porti alla perdita di
concetti come responsabilità, colpevolezza e innocenza. Però, una soluzione all’obiezione, si
trova ammettendo che l’essere umano possa essere assimilato ad una macchina estremamente
complessa. Dunque, seguendo l’argomento, il criminale dovrà essere ritenuto come un
computer difettoso, che necessita di essere ristrutturato, e, laddove sia impossibile, da tenere
lontano dal resto della società.
Come espresso da Sam Harris in “Free Will”, un gesto criminale non solo reca danno
alle vittime, ma è anche un indicatore del possibile comportamento futuro. Per questo motivo
punire e recludere il colpevole risulta una risposta valida e giustificata. Dunque, suggerisce
Harris, se da un lato non si perde l’intera struttura di leggi e punizioni delle moderne società,
dall’altro, rendersi conto dell’assenza di libero arbitrio può liberare dal desiderio di vendetta.
Egli ritiene che una cultura cosciente dell’illusorietà del libero arbitrio sarà meno
prona al desiderio di accanirsi contro i criminali. Non che la vendetta non abbia avuto le sue
ragioni d’esistere nel corso della storia: la rabbia, la giustizia personale, i duelli civili, la
giustizia amministrata dai re e poi dagli stati democratici sono stati tutti mezzi per regolare il
comportamento tra gli individui. Alcune delle soluzioni sopracitate erano le uniche a
disposizione per coloro che vivevano in tempi più duri. Inoltre, trovando spiegazione della
persistenza di questa illusione, ci si renda conto che l’essere umano ha sviluppato una società
sofisticata ben più rapidamente di quanto riesca ad adattare i suoi istinti; questo perché i
cambiamenti biologici sono ben più lenti di cambiamenti sociali. Ciò spiegherebbe il
sentimento d’odio verso il criminale.
64
Qualora servissero ulteriori prove che permettano d’assimilare l’uomo ad una
macchina, si pensi a tutti i casi in cui lo stato psichico cambia all’alterarsi dello stato del
cerebrale. Tramite psicofarmaci si è in grado di attivare o disattivare varie regioni del cervello
e così facendo si riesce, ad esempio, a ridurre ansia e depressione. La stanchezza muscolare
porta ad una diminuzione delle energie mentali, un pasto gradevole mette, generalmente, di
buon umore e così via… gli accadimenti sopra citati ed altri ancora, alterano la struttura
chimica del cervello e con esso si alterano le sensazioni. Per semplicità si può ritenere
superflua la credenza che gli stati psichici esistano su un piano a sé stante, piuttosto sarà
ragionevole seguire la posizione fisicalista27, per la quale gli unici enti che esistono sono enti
fisici, e le qualità di alcune strutture fisiche particolari si possono tradurre sotto forma di stato
mentale.
9. Formulazione minimalista
Il principio di parsimonia poi è anche alla base delle formulazioni minimaliste. Si
prenda ad esempio quello che scrive Jackson (1994) in “Armchair metaphysics”:
Metaphysics, we said, is about what there is and what it is like. But of course, it is concerned
not with any old shopping list of what there is and what it is like. Metaphysicians seek a
comprehensive account of some subject matter – the mind, the semantic, or, most ambitiously,
everything – in terms of a limited number of more or less basic notions. In doing this they are
following the good example of physicists. The methodology is not that of letting a thousand
flowers bloom but rather that of making do with as meagre a diet as possible.
Tradotto:
La metafisica, come diciamo, riguarda ciò che esiste e le sue proprietà. Ma di certo, non è
assimilabile ad una vecchia lista della spesa di ciò che esiste e le sue proprietà. I Metafisici
cercano una descrizione comprensiva di un determinato argomento – la mente, la semantica,
o, del mondo intero se vogliono essere più ambiziosi – in base ad un limitato numero di
nozioni fondamentali. Facendo così, loro seguono il buon esempio dei fisici. La metodologia
27
Si può utilizzare la parsimonia per difendere la posizione fisicalista, in questo modo: se si conosce la
fisica e le scienze, e le si conosce perché conoscere è efficacia e previsione, allora si conosce solo enti fisici.
Esistono altri fenomeni ancora non spiegati dalla scienza, ma per parsimonia, non volendo ipotizzare oltre
necessità, si dovrà sostenere l’esistenza di una spiegazione tramite enti fisici.
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della metafisica, non procede permettendo a mille fiori di fiorire, ma preferisce impiegare la
dieta più magra possibile
1) Ogni posizione ontologia richiede una ragione, e la sufficienza minimale per una
ontologia del mondo naturale è una buona ragione. Inoltre, una ontologia di
relazioni di distanza e cambiamento di relazione rientra nella categoria di
ontologia minimale.
2) Una tale ontologia può coprire l’intera fisica conosciuta, basta che si dia un set di
entità sufficienti per far aderire l’ontologia proposta alle teorie fisiche
3) Arricchire la ontologia non porta a nessun aumento in capacità descrittiva, anzi
crea solo svantaggi dati dalle sovrastrutture che si è costretti a sostenere.
Come si può notare l’intero discorso di Esfeld e Deckert, si basa sul principio di
parsimonia, in quanto, dovendo creare una ontologia preferiscono “impiegare la dieta più
magra possibile”, sostenendo anche che aggiungere nuovi elementi a tale ontologia porti solo
a complicarla.
In “The virtues of minimalism in ontology and epistemology” Esfeld e Decket
rispondono alle varie obiezioni che possono essere mosse alle loro teorie. Tale riguardano, la
possibilità di creare una ontologia ancora più minimale e semplice, e l’opposto, ovvero se le
loro proposte siano effettivamente efficaci a spiegare i fenomeni fisici.
66
Al di là del dibattito, e quindi dell’effettiva efficacia delle posizioni di Esfeld e
Decket, si può notare come essi si siano correttamente indirizzati ad una ricerca metafisica
basata sulla semplicità, che come ci testimonia Jackson è tra le modalità preferite in scienza:
“seguendo il buon esempio dei fisici”.
L’utilità della parsimonia in filosofia, appare quindi indubbia.
Appare subito evidente come la prima versione sia eccessivamente forte. Non è
credibile che il futuro sia completamente uguale al passato, e, come se ciò non bastasse, la
stessa definizione è in sé contraddittoria, in quanto o si è uguali o si è simili, e l’uguaglianza
riguarda tutti gli aspetti, mentre la somiglianza implica qualche elemento non congruente; che
il passato e il futuro differiscano sotto almeno alcuni aspetti è evidente ed è in contraddizione
con la posizione forte sopra espressa.
La seconda visione, invece può essere abbracciata con minori difficoltà, sebbene si
possa formulare una argomentazione per la quale la somiglianza sotto alcuni aspetti non sia
sufficientemente forte per giustificare il processo induttivo. (Salmon 1967, pp. 42–43, p. 52).
Tramite il rasoio di Occam si può pensare di risolvere il dilemma soprastante.
Già intuitivamente, pensare che eventi simili avvenuti un numero altissimo di volte
non debbano riaccadere appare poco parsimonioso, e richiederebbe molti sforzi per essere
giustificato.
Per facilitare la comprensione dell’argomento si immagini che la semplicità sia la
misurazione della lunghezza del salto che si deve compiere tra due eventi, l’uno precedente
67
all’altro. Se i due eventi saranno per prossimità spaziale, o temporale vicini, il salto sarà
breve, e si potrà chiamare i due eventi, l’uno causa, e l’altro l’effetto.
Lo scopo delle teorie scientifiche può essere riassunto nella creazione di modelli
predittivi che descrivono relazioni tra proprietà del mondo, come scrive Hawking e Penrose in
“Nature of Space and Time”. Le stesse relazioni possono essere più o meno complesse, ma
l’atto di rivelarle sembra seguire un processo di giustificazione ben definito e prudente.
Si torni all’esempio del sorgere del sole, supporre che sorgerà domani è uno sforzo
inferiore a supporre che non sorgerà, dato che le prove, forti del principio di uniformità
dell’universo, sono preponderanti in un unico senso.
Come se non bastasse, si può portare avanti l’argomento per efficacia della semplicità
e dell’induzione. Basterà pensare a tutte le volte che l’induzione dà i risultati sperati. Un
funzionamento, quello del pensiero induttivo, che è implicito in quasi, se non tutte, le azioni
umane. Quando si parla, si cammina, si agisce in qualunque modo, lo si fa sulla base che le
osservazioni del passato, in maniera implicita o non, siano simili a quelle del futuro, se non
tutte, quantomeno la maggior parte. Infatti, l’uomo non si preoccupa di trovarsi in aria nel bel
mezzo di una passeggiata, dovesse la gravità, per qualche strana ragione, smettere di
esercitare la sua forza attrattiva. Tutte le leggi fisiche si basano sul principio di uniformità, è
proprio questo principio a dare forza al sistema sperimentale, altrimenti ciò che si misura oggi
potrebbe non essere valido domani.
Il famoso tacchino induttivista di Russell che ritiene essere amato dai padroni dato
l’abbondante quantità di mangime che gli offrono, quando in realtà lo vogliono solo far
ingrassare per mangiarselo, compie 364 predizioni corrette, ammesso che sia stato acquistato
il giorno dopo il giorno del ringraziamento dell’anno precedente, e solo una scorretta, all’alba
del giorno del ringraziamento dell’anno corrente. Certo, ci rimette la testa, ma fino al giorno
fatidico ci aveva visto giusto; tutte le evidenze gli suggerivano di star tranquillo. Perciò la
fallibilità dell’induzione non sia ragione per screditarne l’efficacia.
Infine, si può portare una ulteriore obiezione al processo induttivo, essa riguarda
l’impossibilità di definire correttamente la somiglianza tra due eventi.
Si prenda ad esame un esempio semplice ma intuitivo, analogo all’esempio humiano:
la mela che cade il giorno prima non è la stessa che cade il giorno dopo, e non sarebbe
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neanche la stessa mela se fosse lasciata cadere un secondo dopo giacché sarà ammaccata dalla
prima caduta, e così via. Dopotutto la mela può essersi alterata, e spesso è così, un’ora dopo o
un secondo dopo la sua prima caduta. Può essere stata mangiata, o consumata dal tempo,
oppure gli può essere accaduto qualcosa di cui si ignora l’entità ma che potrebbe influire sulla
sua velocità e traiettoria. Si riprenda qui l’adagio di Eraclito,
Tornassi alla Contea non sarebbe più lo stesso posto per me, quantomeno perché io
non sono più lo stesso.
Di fatto, proprio per le impossibilità sopra espresse risulta impossibile conoscere tutte
le informazioni e le proprietà di un sistema, quindi rimane senza risposta definitiva la
domanda su come si possano definire simili due eventi.
Ci si sta domandando in base a quale criterio si approssima e si sceglie. Per risolvere
l’enigma sarà sufficiente farsi guidare dall’esperienza. Si procede per tentativi, esperimenti e
osservazioni, seguendo ciò che la prudenza e la parsimonia indicano come la strada del minor
sforzo, del minor salto mentale per mappare e predire il mondo attorno.
Per semplicità quando due fenomeni, hanno valori non troppo discostanti nelle
condizioni iniziali e nelle stesse proprietà alla fine dell’esperimento, allora vengono definiti
simili; il tutto senza dover ipotizzare una terza causa che ha creato la coincidenza dei valori.
Certo, va concesso che l’approssimazione tra due eventi non deve avvenire a caso,
quantomeno le qualità registrate devono essere le stesse. Ha senso, ad esempio, ritenere simili
eventi quali il lancio di una freccia come la caduta di una mela, si sta infatti in entrambi i casi
esaminando posizioni, masse e velocità.
Naturalmente, procedere per tentativi, per esperienza, non garantisce nessun accesso
ad una verità assoluta, giacché come si esprimeva Hume, il passato suggerisce accadimenti
che potrebbero essere osservati ancora nel futuro, ma nulla garantisce che sia effettivamente
così. Si è quindi costretti ad abbandonare la strada della verità assoluta, e ad accettare la
strada provvisoria della verosimiglianza, della ragionevolezza.
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Se ne concludere che l’induzione non raggiunge mai una verità fondamentale, ma
proceda con modelli sempre più dettagliati, di una realtà fisica verosimile, che nonostante non
sia mai vera in senso assoluto, è l’unica a cui l’uomo può accedere.
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CONCLUSIONE
71
perciò all’aumentare delle ipotesi e degli enti si aumenta la probabilità di errore all’interno
della teoria.
Certo, la formulazione precisa del valore di probabilità dell’errore non è facile,
sebbene possa, in linea di principio, essere fatta: basterebbe porre a denominatore le volte in
cui si è ipotizzato qualcosa e a numeratore le volte in cui l’ipotesi si è rivelata errata. La
difficoltà di una tale formulazione verrebbe dalla difficoltà di definire fallimento e successo,
ma soprattutto di enumerare le ipotesi e le esperienze fatte. Nonostante ciò, un simile calcolo
è in linea di principio operabile, e ammesso che vi sia anche una percentuale piccolissima di
errare, quindi che essenzialmente il mondo sia quasi perfetto e si dispieghi in completa
aderenza con la mente umana, aggiungere più ipotesi equivale ad aumentare la probabilità
dell’errore. Giacché si può sbagliare nell’utilizzo della prima ipotesi, come nella seconda, e
nella terza. Perciò la prudenza consiglia di preferire teorie con meno enti ed ipotesi.
Si è inoltre delimitata la parsimonia come criterio extra-descrittivo, allontanandola da
qualsiasi pretesa di verità. La semplicità, può al massimo, servire a descrivere verità utili alla
primitiva sopravvivenza dell’uomo, ma per altri e diversi fenomeni sarà inefficace.
Ora, come si è detto, si può anche ipotizzare l’esistenza di una macchina in grado di
preferire teorie e svilupparle a sua volta, ma giacché si ha mostrato come la preferenza per
semplicità sia legata all’ambito di sviluppo dell’essere umano, si potrebbe pensare che possa
esistere un tipo di semplicità superiore. Anche da questo lato, entra in gioco la velocità di
calcolo, che sarà per il computer scienziato il criterio extra-descrittivo di preferenza. Come
effettivamente lo è anche per l’uomo, la cui unica differenza sta nel non essere cosciente dei
calcoli operati dal proprio cervello, mentre in linea teorica l’uomo può essere cosciente dei
passaggi eseguiti dall’algoritmo nel computer.
Qui nasce poi una discussione, ampia, e ben fuori il tracciato della tesi che tratta della
possibilità di creare due macchine diverse a livello di abilità di calcolo. Ossia, di cui l’una è
più abile nello sviluppare alcune funzioni e l’altra più veloce in altre operazioni. Anche in tal
caso, però, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un computer in grado di dare la propria
preferenza sulla base delle esperienze passate riguardo l’ambito in cui lavorano le teorie
comparate, e poi, mandare la sua scelta alla macchina più opportuna per trovare la teoria
preferibile.
Infine, si ha visto come la semplicità possa essere impiegata in filosofia, anche non
ammettendo la definizione algoritmica della stessa. In molti ambiti filosofici, infatti, si sono
ipotizzate teorie che un tempo erano ragionevoli, in quanto anch’esse semplici e sostenute
dall’apparenza dei fenomeni; si prenda ad esempio il libero arbitrio e l’esistenza di dio.
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Successivamente, sempre per la parsimonia che ha sostenuto tali idee, le si possono rigettare,
alla luce delle nuove scoperte, le quali fanno pendere la bilancia della semplicità in altre
direzioni.
La tesi ha tentato di rispondere all’interrogativo sulla scelta. Posti di fonte a due
strade, le teorie equivalenti, che portano entrambe nello stesso posto, vi sono altri criteri,
oggettivi e accettabili da tutti, per preferire una via all’altra? Si ritiene, dopo la lunga
discussione, che la semplicità possa essere, quant’anche non sia l’unico, quel criterio di scelta
necessario per orientarsi e trovare la via migliore.
Le aspettative, le ambizioni di conoscenza e quindi progresso, sono state per la
maggior parte dei casi tradite quando non si è proceduto per piccoli e prudenti passi.
Dopotutto cosa poteva saperne l’uomo del mondo al di fuori della sua capanna e delle foreste
dove cacciava? Ha appreso verità sconvolgenti, nel corso dei secoli, con lentezza e fatica,
rischiando la vita in imprese importanti e ardimentose, come i primi viaggi oceanici, o nei
cieli, o anche nello spazio. La parsimonia allora sarà la corretta risposta agli interrogativi sulla
scelta e sul corretto criterio di muoversi nel mondo. Esso è in fondo un richiamo all’umiltà, un
desiderio di controllo, un progetto di conquista della natura, che richiede l’abbandono di ogni
desiderio di comprensione immediata, ma che rimanda a piccoli passi l’inevitabile marcia
della scienza.
In quest’ottica, di lavoro prudente e continuo, appartenente non al singolo scienziato
ma all’intera specie umana, nel 1676, in una lettera a Robert Hooke, Newton scriveva:
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