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a) gli studi sulla globalizzazione economica, sulle nuove reti plane-
tarie che riguardano il piano della produzione, quello del consumo e
quello degli scambi finanziari;
b) gli studi sulla globalizzazione politica, ad esempio sulla nascita o
lo sviluppo di istituzioni internazionali e di forme di governance e
di autorità giuridica che vanno al di là del potere sovrano degli Stati
nazione;
c) gli studi sui nuovi flussi migratori, che pongono l’accento non solo
sulle dimensioni dei movimenti demografici ma anche e soprattutto
sulle loro nuove caratteristiche, come l’emergere di comunità transna-
zionali e diasporiche;
d) gli studi sulla globalizzazione della cultura e dei flussi comunica-
tivi, consentita dai rapidi sviluppi delle tecnologie mediali e informati-
che e dall’ampliamento dei mercati dell’industria culturale;
e) gli studi sulle nuove gerarchie sociali e sui rapporti di potere e
di disuguaglianza che si formano in un contesto di interdipendenza
mondiale.
Le più note teorie generali sulla globalizzazione sono probabilmente quelle che
privilegiano la dimensione economica. Prima ancora che si parlasse di globa-
lizzazione, il sociologo ed economista Immanuel Wallerstein aveva coniato il
concetto di sistema-mondo per indicare la scala planetaria dei rapporti e delle
interconnessioni che caratterizza l’intero sviluppo dell’economia capitalistica,
dal 1500 ad oggi. L’idea di Wallerstein [1974] è che il capitalismo non può
essere studiato a partire da unità di analisi ristrette (nazionali o regionali, ad
esempio), perché i rapporti di potere che esso definisce sono sempre di scala
mondiale. Il capitalismo si sviluppa fin dall’inizio come un sistema unitario
(una sorta di unica grande impresa planetaria). Le divisioni e i conflitti tra Stati
non indeboliscono questa unità, ne sono anzi una componente strutturale: così
come strutturale è la suddivisione del mondo in tre grandi aree, un centro,
una periferia e una semi-periferia, nelle quali la ricchezza e il potere sono
distribuite in modo disuguale. Wallerstein non crede che la globalizzazione
contemporanea rappresenti un fenomeno nuovo di radicale discontinuità: la
vede però come sintomo di una crisi irreversibile che potrebbe far implodere
l’intero sistema attorno alla metà del XXI secolo.
Altri economisti, pur partendo da analoghe basi, ritengono invece che il ca-
pitalismo globale rappresenti qualcosa di molto diverso da quello mondiale.
Non si tratta più di economie nazionali che si connettono attraverso flussi
Culture globali e locali 223
che hanno infatti riscosso notevole successo all’interno dei movimenti no-
global. Altri contributi di carattere economico pongono l’accento sugli svi-
luppi tecnologici come motore (più che conseguenza) della globalizzazione.
Particolarmente noto è il lavoro di Manuel Castells [1996; 1998] e la sua
nozione di età dell’informazione. Secondo questo sociologo è la tecnologia
informatica a creare un nuovo modello di sviluppo, basato sulla produzione
e lo scambio di beni sempre più «immateriali». La nuova economia che ne
risulta è basata sull’informazione, sui saperi e sull’innovazione più che sul
possesso di capitali fissi; alla rigidità delle grandi imprese nazionali o mul-
tinazionali, che caratterizza il capitalismo classico, sostituisce una struttura
reticolare caratterizzata da estrema flessibilità e dalla tendenza a ignorare
i confini geografici e politici. Internet diviene il modello più preciso della
nuova morfologia sociale ed economica, oltre che un nuovo cruciale ambiente
comunicativo, che trasforma il virtuale in una realtà. Qui sono i segni a diven-
tare merce. E in relazione ai segni, ciò che conta non è la loro proprietà ma
la possibilità di avere accesso al loro contenuto informativo. Ci troveremmo
dunque – come si è espresso un altro studioso, Jeremy Rifkin [2000] – in una
«età dell’accesso»: la proprietà di strutture materiali solide e rigide, base del
potere economico nel capitalismo classico, appare oggi più come un intralcio,
che ostacola la flessibilità e le possibilità di seguire un mercato in continua
evoluzione. Come accade appunto ai beni scambiati in Internet, ciò che viene
venduto e comprato (oppure «donato») non è la proprietà ma l’accessibilità
a «intangibili» sistemi di segni. Tutto ciò muta la natura stessa delle relazioni
sociali e del divario tra classi. La sperequazione cruciale diventa quella tra i
gruppi che riescono a connettersi ai rapidi e costanti mutamenti tecnologici
e quelli che ne restano esclusi.
2. TRANSNAZIONALISMO
Oltre che da flussi economici e finanziari, la globalizzazione è costituita da
flussi di persone, merci e comunicazioni. Consideriamo adesso brevemente
la dimensione demografica, il cui aspetto più spettacolare consiste nei
grandi movimenti migratori tra le aree più povere del mondo verso quelle
che presentano maggiori opportunità di lavoro e un più alto tenore di vita.
Ora, questo tipo di migrazioni non rappresenta certo in sé una novità: anzi,
la storia moderna e contemporanea è segnata da spostamenti di massa della
forza-lavoro attraverso i confini degli Stati-nazione, in relazione alle esigenze
dello sviluppo industriale nelle sue varie fasi. Basti pensare alle grandi migra-
zioni verso l’America e, specie nel Novecento, dal Sud al Nord dell’Europa.
Tuttavia, nella fase della globalizzazione i flussi demografici acquistano ca-
ratteristiche nuove, in quantità e soprattutto in qualità. Si è soliti riferirci a
queste caratteristiche in termini di passaggio da un modello internazionale a
uno transnazionale di migrazione.
Culture globali e locali 225
3. POST-MODERNITÀ
Nello spazio-tempo contratto del «villaggio globale» i beni e le persone circolano
dunque più rapidamente e fluiscono in modo più libero. Ma sono soprattutto i
segni e le comunicazioni a non trovare più limiti e a diffondersi in tempo reale.
Interi campi della cultura – quelli costituiti da suoni, immagini, parole, idee
– abbandonano progressivamente i loro supporti materiali (i pesanti volumi,
i polverosi archivi, gli ingombranti dischi in vinile, e così via) per farsi puri
flussi intangibili; flussi che le due grandi istituzioni della modernità, lo Stato e
il mercato, hanno sempre più difficoltà a controllare e regolamentare – ancor
più di quanto accada per le merci materiali e per le persone.
Sono numerose le teorie che cercano di dar conto di come i flussi globali di
risorse culturali mutino l’esperienza quotidiana e le più profonde strutture
antropologiche – i modi di vivere il tempo, lo spazio, le relazioni sociali e i
rapporti di potere. Il discorso sulla globalizzazione si trova qui in parte a
coincidere con quello sulla post-modernità. Coniato dal filosofo Jean-François
Lyotard [1979], il termine «post-moderno» si riferisce principalmente a cam-
biamenti nei modi di intendere la storia e il progresso. La modernità classica,
almeno dall’illuminismo in poi, si è nutrita di «grandi narrazioni», come le
chiama Lyotard: vale a dire di grandi schemi di filosofia della storia che pre-
tendevano di conferire un senso unitario e compatto alla realtà e di indicare
una strada obbligata per il futuro. Quello post-moderno è invece un pensiero
che non pretende più di scoprire fondamenti unitari e totalizzanti della storia
e accetta la frammentazione e l’irriducibile molteplicità dell’esperienza: il che
implica fra l’altro l’abbandono delle ideologie e, in campo artistico, delle
aspirazioni di avanguardia. La fortuna del termine «post-moderno» ha però
spinto a usarlo anche come un modello sociologico, in grado di esprimere la
discontinuità tra il presente globalizzato e la modernità classica.
228 Capitolo 12
Come già abbiamo visto per la dimensione economica, alcune teorie intendono
la globalizzazione come una radicalizzazione di elementi già presenti nella
modernità, come l’individualismo e l’indebolimento dei legami comunitari
locali e particolaristici. È il caso ad esempio dei lavori di Anthony Giddens
[1990], che associa la globalizzazione a una nozione di «tarda modernità».
Altre teorie evidenziano invece un pressoché totale rovesciamento delle
caratteristiche che i modelli sociologici classici, come quelli di Max Weber e
Talcott Parsons, attribuivano alla modernità. Particolarmente importante è il
fenomeno della de-differenziazione delle sfere dell’agire sociale. Nella visione
weberiana, la modernità produce una sempre più netta differenziazione fra tipi
di attività, istituzioni, tempi e spazi della vita sociale, codici e registri espressivi.
La distinzione tra privato e pubblico, tra lavoro e tempo libero, tra politica e
spettacolo, tra oggetti o pratiche artistiche e di uso comune, tra sacro e profano,
e così via. La vita sociale si svolge all’interno di sfere istituzionali e normative,
ciascuna caratterizzata da propri codici interni, linguaggi specifici, criteri di
riferimento, giudizi di valore. Ora, se la globalizzazione consiste nella «perdita
dei confini», come la definisce il sociologo Ulrich Beck [1997; trad. it. 1999,
39], ciò sembra riguardare anche i confini tra le sfere dell’agire. La fluidità
nella produzione e diffusione di informazioni, ad esempio, rende più difficile
separare il pubblico e il privato. I dettagli della vita privata – i sentimenti, la
sessualità, il corpo – emergono in primo piano nella comunicazione mediale;
la differenza fra stage e backstage viene progressivamente erosa (come sanno
bene gli uomini politici, colti costantemente in «fuori onda» e valutati più
per la loro immagine privata che non per le idee che riescono ad esprimere).
Assai evidente è anche la confusione dei confini tra sfere «alte» e «basse»
della cultura: la grande arte, la scienza, la politica da un lato, dall’altro le
forme commerciali, i generi pop, l’intrattenimento. È stata l’evoluzione dei
palinsesti televisivi a fare da avanguardia: qui le forme «serie» e quelle «leg-
gere» si sono progressivamente fuse, l’informazione si è lasciata assorbire
dallo spettacolo, la pubblicità è penetrata nell’ambito del discorso scientifico.
Le voci e i codici si sono mischiati, e in un talk show televisivo non ci sono
rendite di posizione: l’autorevolezza del più grande scienziato e quella del
meno esperto dei giornalisti è in linea di principio la stessa. Questo carattere
«orizzontale» è ancora più evidente in Internet, un’arena comunicativa in cui
tutto scorre sullo stesso piano, senza soluzione di continuità e senza alcuna
gerarchia istituzionale. Ma dall’ambiente mediatico la de-differenziazione
è passata al mondo reale, anche se in misura meno radicale. Le sfere istitu-
zionali con forti contrassegni normativi resistono, ma si sentono assediate e
rischiano di pagare la loro chiusura con l’isolamento. Un esempio è l’univer-
sità in quanto istituzione del sapere scientifico, «vero» e «serio». La sua crisi
attuale dipende dalla difficoltà a trovare un adeguato equilibrio tra il classico
modello di austera separatezza, che non sembra svolgere più alcuna funzione
sociale, e un rinnovamento o «apertura» che la porterebbe a inglobare stili e
linguaggi avvertiti come estranei. Il ricorso di molti atenei a sponsorizzazioni,
a figure di testimonial dal mondo dello sport e dello spettacolo, l’apertura
Culture globali e locali 229
regole, a imporre non solo prodotti specifici (Coca-Cola e BigMac, soap operas
e film hollywoodiani) ma anche e soprattutto stili di impresa e di mercato. Per
questo tipo di approccio, si noterà, l’analisi etnografica non riveste particolare
importanza: non ci sono più culture locali da cogliere e descrivere, cancellate
dall’avanzata del «nulla». Tutto quello che si può fare è individuare su un piano
centralizzato le macro-strategie dei grandi gruppi economici e denunciare la loro
tendenza a imporre consumi e comportamenti, a colonizzare i contesti locali e
le stesse coscienze degli attori sociali.
Alle teorie dell’omologazione si affiancano o contrappongono quelle che pos-
siamo chiamare dell’eterogeneità o dell’ibridazione [Goodman 2007]. Senza
negare il fatto che il processo di globalizzazione è plasmato da grandi forze
economiche e da modelli culturali egemonici, l’interesse si sposta qui sul modo
in cui essi interagiscono con i contesti locali, modificandoli ma venendone a loro
volta modificati, assumendo una varietà di forme e significati. Il concetto più
usato per indicare questa interazione o fusione tra globale e locale è probabil-
mente quello di «glocale» – proposto dal sociologo Roland Robertson [1995] per
indicare le molteplici possibilità di appropriazione, interpretazione e reazione ai
prodotti globali, anche quelli più standardizzati. Altri studiosi hanno parlato di
un «effetto karaoke», con una base standard dalla quale possono scaturire molte
differenti interpretazioni. È vero che sono soprattutto i prodotti occidentali
(o americani, se vogliamo) a circolare: ma diffondendosi essi vengono «indi-
genizzati» [Goodman 2007, 355], riletti su uno sfondo specifico di significati
culturali. E non è infrequente che i tratti culturali locali, proprio per reazione,
vengano rivalorizzati in un’ottica di «resistenza» o di patrimonializzazione.
Restando sull’esempio del cibo, non è che la diffusione dei McDonald’s in
tutto il mondo abbia cancellato i modi locali di mangiare e cucinare. Spesso è
anzi accaduto che a fronte della «invasione» del fast-food siano stati ripresi e
valorizzati cibi e pratiche culinarie tradizionali; e talvolta queste ultime hanno
avuto tanto successo da entrare a loro volta in circolazione sul piano globale.
Si pensi al modello italiano dello slow-food, che è potuto diventare uno stile e
persino una forma di patrimonializzazione della cucina solo per contrasto con
la diffusione del «fast». Nei paesi più ricchi i flussi di cibi, ricette, ristoranti
etnici, culture del gusto aperti dalla globalizzazione hanno prodotto da un lato
una difesa della tradizione, dall’altro pratiche ibride, combinazioni e mescola-
menti di vario tipo. La maggior parte della gente vive in sfere ibride di questo
tipo: né puro BigMac né pura autentica tradizione, ma qualcosa di nuovo e di
estremamente eterogeneo, con la tendenza alla proliferazione di nuovi gusti,
diete, filosofie del cibo.
Se la globalizzazione è percorsa da tendenze omologanti, essa rappresenta an-
che un palcoscenico che rende maggiormente visibili le differenze e ne crea di
nuove – certo, non autentiche, ma come abbiamo più volte mostrato in questo
libro l’antropologia ha da tempo smesso di inseguire il mito dell’autenticità.
Come scrive Hannerz, per «cultura mondiale» non si deve intendere «una
replica uniforme di modelli unici, bensì un’organizzazione della diversità, un’in-
terconnessione crescente di culture locali differenti, così come lo sviluppo di
232 Capitolo 12