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GALAXY SUPREMACY

di
Gianluca Grillo
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 2

Capitolo Uno

Il sole mattutino del Nevada che, con ferreo vigore, si riverberava nel Joint Light
Tactical Vehicle, al contatto con le quattro stelle dorate sull’uniforme dell’ammiraglio John
Barrett, infastidiva il generale Alex Pillon, ancora contrariato per la convocazione d’urgenza
ricevuta in piena notte. Avevano viaggiato senza dirsi nulla di rilevante. Entrambi riluttanti ai
convenevoli, avevano preferito godersi il desolante spettacolo offerto dalle Jumbled Hills e
dalla Tikaboo Valley in completo silenzio. La State Route 375 sembrava essere stata asfaltata
con il preciso scopo di scoraggiare chiunque a percorrerla. Malgrado non fosse la prima volta
che l’attraversassero, la sensazione non cambiava. L’assenza di una vera recinzione ampliava
psicologicamente a dismisura lo spazio limitato della base che si celava alla vista di qualsiasi
visitatore, facendola apparire quasi come una leggenda metropolitana. Gli avamposti di
sicurezza, perfettamente integrati nella pianura d’argilla compatta, monitoravano il suolo
pubblico attraverso sensori magnetici attivati al passaggio di ogni mezzo. Giunti nei pressi di
una cassetta della posta, collocata sul ciglio della strada, le prime forme di vita si palesarono:
un manipolo di turisti, avventuratisi fin lì solo per imbucare una lettera al “STEVE MEDLIN,
HC 61, BOX 80” e scattare qualche foto ricordo. «Davvero sperano che qualcuno gli
risponda?», sogghignò fra sé e sé Barrett. «Potrebbe anche succedere. Ormai lo sanno tutti
che gli alieni esistono, ammiraglio», rispose il generale, non scomponendo la sua espressione
severa neanche quando il veicolo deviò verso la strada sterrata che separava la Extraterrestrial
Highway dall’Area 51. «Intendevo dire che nessuno di loro si sognerebbe mai di diventare un
nostro amico di penna, signore», replicò con un pizzico di vergogna l’ammiraglio, reggendosi
alla maniglia poggia-mano, «Purtroppo, sono consapevole che la popolazione ne è al
corrente. Sono solo preoccupato per ciò che non sanno. A volte, è meglio non sapere». Il
generale Pillon tirò un seccato sospiro e volse lo sguardo alla sponda est del Groom Lake. A
vederlo, nessuno avrebbe mai detto che quelle acque avessero assistito a settecentotrentanove
test nucleari. Era immobile, imperturbabile. Se ne fregava, si prendeva gioco di loro, rideva
delle loro preoccupazioni e, probabilmente, l’aveva fatto fin dalla Guerra fredda. Brillava
come l’anello commemorativo dei New England Patriots del Super Bowl XXXVIII che il
generale portava all’indice della mano sinistra. Era un dono di Cynthia, sua moglie, per il suo
quarantesimo compleanno; un regalo particolare, considerando che lui era da sempre un
tifoso dei Carolina Panthers. «È perfetto», le disse quel giorno lontano, «Mi ricorderà che
nella vita si può perdere, anche se per soli tre punti». Non versò una lacrima quando morì.
Non perché non l’amasse, ma perché Pàvius Brennon, Presidente della colonia marziana, non
gli concesse di perdersi nel dolore. Gli ordinò di presenziare quel giorno stesso all’Army
Staff per avanzare la sua richiesta di budget per l’incombente missione spaziale. Gliene fu
grato, in qualche modo. Lo aiutò a dimenticare. Un problema, spesso, si supera sostituendolo
con uno più grande e quello riguardava l’intera umanità.
I cancelli della scatola si aprirono, scoprendo i 440 mi² della base segreta della CIA. A
vederla non sembrava che una patetica pista di atterraggio. Decine di hangar, casupole in
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muratura, dormitori e qualche roulotte: un grigio villaggio guardato a vista da una dozzina di
Boeing AH-64 Apache. Il pilota del JLTV che, dalle occhiaie scavate, sembrava aver perso la
capacità di dormire, parcheggiò accanto ad altri mezzi simili e si mobilitò per aprire il pesante
sportello posteriore del mezzo. L’ammiraglio Barrett fu il primo a scendere. Si sistemò il
cappello, diede una leggera spolverata con due dita al fregio della U.S. Space Navy e, senza
attendere Pillon, si diresse verso l’ufficio amministrativo presidiato dal maggior numero di
militari.
Il Capo dello stato maggiore congiunto, l’ex generale dei Marines Allan T. Foster, su
richiesta del Presidente degli Stati Uniti Terrestri Corbin Cooper, aveva radunato in quella
sede i vertici delle quattro forze armate principali statunitensi. Agiatamente seduto su una
poltrona in pelle scura sistemata al posto d’onore di una scrivania, sfogliava il Washington
Post, mentre il generale dell’Air Force e della forza armata terrestre leggevano
rispettivamente l’Economist e lo USA Today. Gli ultimi due invitati fecero il loro ingresso,
annunciati da una guardia armata, proprio mentre un tecnico consegnava tra le mani di Foster
il telecomando di una televisione che, su una cassettiera su ruote, era stata avvicinata al
tavolo per essere visibile a tutti. Dopo i rispettosi saluti di rito, i due si accomodarono.
Mentre i periodici vennero riposti al centro del tavolo, un assistente di Foster depositò sul
sottomano di ognuno un fascicolo che riportava la dicitura Ἄρης Project. La sala fu
sgomberata e, rimasti soli, la riunione d’emergenza ebbe inizio. «Buongiorno a tutti. Mi
scuso per il poco preavviso con cui siete stati convocati qui, oggi. Come forse già avrete
intuito dalla lettura dei dossier che sono stati recapitati nei vostri uffici, ci troviamo a
navigare in un mare di merda. Mi dispiace dirvelo, signori, ma questa volta non ce la
caveremo come nel 1947. L’incidente di Roswell è stato qualcosa di occultabile, questo no.
Abbiamo perduto, ormai da qualche settimana, i contatti con Marte. Nessun segnale. Le
antenne dei radiotelescopi del SETI non captano nulla, anche i laser del progetto ottico non
rispondono. E sapete perché? Non di certo perché le nostre apparecchiature non funzionino.
La verità è che non è possibile rispondere. Siamo rientrati nello loro black list e, se tutto
questo non dovesse convincervi, guardate questo». Foster, non spostandosi dalla propria
seduta, fece partire con il telecomando un filmato. Non lo guardava, l’aveva già fatto decine
di volte in precedenza. Preferiva seguire le reazioni del Joint Chiefs of Staff. In basso a destra
dello schermo vi era riportata la data di due settimane prima e la dicitura “Marsgrad”. «Fate
evacuare i passeggeri!», gridava un ufficiale, dando le spalle alla telecamera che, traballante,
inquadrava una disperata folla in fuga verso le navicelle di emergenza. Il coraggioso
cameraman, sfidando l’onda umana, si avventurava nel tentativo di riprendere il maggior
numero di dettagli. «Non possiamo contenerli tutti, tenente!», strepitava un soldato, mentre
sparava alla rinfusa nel tentativo di colpire degli umanoidi dalla cadaverica pigmentazione,
privi di pupille e di una mimica facciale che facesse intuire il loro stato d’animo. Emettendo
suoni simili al canto delle balene, gli extraterrestri, riunitisi in una formazione serrata,
rapivano più uomini possibili per portarli nelle retrovie. L’audacia dell’operatore di ripresa
terminò quando fu portato via insieme agli altri. La telecamera cadde al suolo con l’obiettivo
rivolto verso un cielo rosso e la rifulgenza di una gigantesca astronave dalla forma cubica
che, atterrando sul pianeta, la schiacciò, facendo terminare la comunicazione. Foster premette
il tasto stop, facendo calare un raggelante silenzio che sembrava non essere interrotto
nemmeno da un respiro. Barrett, scartabellando il fascicolo che aveva davanti, aggrottò la
fronte e si lasciò andare in un anelito di sconforto. Pillon giocherellava con il suo anello e
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teneva lo sguardo fisso sulla schermo nero della tv. Il generale dell’Air Force si alzò in piedi,
si diresse verso l’unica finestra presente nell’ufficio e, con un gesto automatico, guardò il
cielo. Il comandante dell’esercito si versò dell’acqua da una brocca, ma non riuscì a berla. La
possente voce del Capo dello Stato maggiore congiunto lo interruppe: «Qualche idea?».

*
Caserma di Fort Bliss, contea di El Paso, Texas, USA

La base di addestramento per unità corazzate di Fort Bliss era la seconda più grande per
estensione dopo la White Sands Missile Range. 1737 mi² di polvere scarlatta che si attaccava
agli stivali e alle uniformi dei soldati della brigata Patriot. Nata con lo scopo di proteggere gli
insediamenti e i coloni in transito dagli indiani, la sua funzione non era cambiata poi così
tanto. Giovani reclute venivano addestrate a difendere e difendersi non più dagli archi e le
frecce delle tribù Sumas, ma da minacce aliene su altri pianeti. Qualcuno la chiamava ancora
Camp Concordia, in memoria del nome che le fu dato provvisoriamente in seguito ai danni
riportati dall’esondazione del Rio Grande nel 1868. Agli ufficiali non piaceva. Notavano una
nota sarcastica nel modo di pronunciarlo dei coscritti, quasi come se immaginassero di
trovarsi in un campeggio per vacanze estive per bambini. Era meglio far capire fin dai primi
giorni dove e chi stessero servendo. E poi quella parola, concordia, era solo una grande
bugia. Reciproca conformità d'intenti fra i membri di una comunità? Una gran bella stronzata,
roba da hippie.

A rotazione, i militari assumevano per una settimana le vesti di aiuto-cuochi. Pochi, a dir
la verità, avevano nozioni di nouvelle cuisine e il risultato erano sempre razioni dal gusto
mediocre. Che si servisse purè di patate con salsiccia o pasta al formaggio, il gusto delle
pietanze restava invariato: puzzava di piedi sudati e aveva lo stesso sapore del polistirolo.
Quel giorno, dietro i fornelli c’erano, tra i tanti, la recluta Henry Mitchell, Easton Prince.
Modellavano con le mani polpette di carne che gettavano in un cestello ribollente di olio
caldo, esultando a ogni sfrigolante centro, come se fossero giocatori dell’NBA. Conrado
Martinez, un ventenne dai lineamenti tipicamente ispanici, se ne stava imbambolato davanti
al lavello a fissare una piccola fotografia da taschino. Henry, cogliendo l’occasione di
mettersi in mostra con l’amico, annunciò a bassa voce l’arrivo di un tiro da tre. Appallottolò
il composto di carne e spezie, prese la mira e lanciò, centrando in pieno la nuca di Conrado
che, destatosi dal torpore, guardò il compagno in cagnesco senza dire una parola. Contenendo
le risate per non farsi scoprire dai superiori, i due gli si avvicinarono. «Veniamo in pace,
Messico», disse Henry, mentre gli strappava di mano la fotografia di quella che doveva essere
la sua ragazza, «Carino il tuo fidanzato, bei baffi». Conrado non ci rifletté molto su prima di
rispondere alla provocazione, sferrandogli un montante che, però, fu prontamente parato da
una shinken shobu waza da judoka provetto che lo mise in pochi secondi al tappeto. Una
decina di militari, unti da fumi d’olio fritto, abbandonarono i fornelli e accorsero in sua
difesa, ma non fu necessario. Henry, sorridendo, mollò la presa, lasciandolo libero di
respirare. «Grazie, bello. Niente di personale. È solo un modo per prendermela con qualcuno
della mia taglia», disse a Martinez che, sorridendo, rispose: «Lo so, è un anno che va avanti
questa sceneggiata». Prince se la rideva mentre, preparandosi allo spettacolo, ingurgitava
polpette bollenti come fossero Skittles. «Lascialo o ti mando in congedo a calci nel culo!», gli
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intimò O’Reilly, il più nerboruto della compagine, un Ronnie Coleman dall’accento


irlandese. Henry non aspettava altro. Si mise in piedi e, dopo essersi fatto scricchiolare il
collo, lo invitò a colpire, muovendo il dito medio verso di sé. Il soldato gli saltò addosso,
intento a stritolarlo in una morsa scimmiesca a cui Henry controbatté con una sukui nage che
fece sbalzare il marcantonio sul piano cottura. «Che noia mortale. Qualcun altro?», domandò
e, in un battere di ciglia, tutta la cucina gli si scagliò contro. Una mitragliata di cazzotti gli
arrivò da tutte le direzioni e, pur sorbendone i colpi, non cadde mai. «È fatto di gomma»,
starnazzò Prince, «La madre l’ha concepito con punchin-ball». «Sempre meglio che con un
alcolizzato come è capitato a te, Easton», rispose Henry, mentre si divincolava da una coltre
di calci. «Touché!», sogghignò, compiaciuto, Prince. La mischia, intanto, si faceva sempre
più violenta. Henry non si vedeva neanche più, sommerso da quella che sembrava essere la
prima linea dei Pittsburgh Steelers del 2009. La baraonda aveva richiamato molti curiosi che
inneggiavano al massacro di quello che tutta la caserma considerava il piantagrane. Fu un
attimo, un lampo seguito da una calma innaturale e tutto si ribaltò. Colpendoli con una forza
ultraterrena, a uno a uno, come petali di margherita strappati e gettati via, Henry se li scrollò
di dosso e lasciò cadere al suolo, pronti per l’infermeria. Un taciturno sbigottimento si levò
nella stanza, rotto dal secco rumore dell’high five che i due complici amici si scambiarono e
dall’ironico applauso del sergente Melissa Gilbert che, appropinquandosi nella loro direzione,
ordinò: «Recluta Mitchell, recluta Prince, vi voglio nell’hangar ASB tra cinque minuti!».
Henry, contorcendosi in un’espressione pietosa, le chiese un insincero perdono per
l’inconveniente. «Le scuse devono farsi con gli stessi mezzi coi quali è stata arrecata
l'offesa», rispose il sergente, «Articolo 45 del Codice Cavalleresco. Tra quattro minuti
nell’hangar ASB. Portate un secchio e uno straccio». Tre minuti dopo, ai due soldati fu
imposto di lavare a mano un incrostato RTCH, un Caterpillar utilizzato per lo spostamento di
container.

Il sergente Gilbert era una donna sulla cinquantina forgiata dalla Tornado Alley, nel sud-
ovest del Nebraska. La nave spaziale Arcturus era la sua seconda casa, quella che preferiva:
uno spazio-plano sub-orbitale dotato del miglior motore a razzo mai progettato a propellenti
ibridi. Riusciva ad avere i piedi ben saldi a terra anche a trenta milioni di miglia di distanza
da North Platte. Era questo il motivo della stima che l’ammiraglio John Barrett riponeva in
lei. Gli anni in Accademia l’avevano resa più simile a un androide, ma la sua bellezza,
quando non dettava ordini, si poteva ancora intravedere. A questo pensava Henry mentre,
guardandola, strofinava il panno ben insaponato sulla carrozzeria dell’automezzo. «È la
quinta volta questo mese. La vostra recidività mi costringe a darvi un ultimatum: o da questo
momento troverò i vostri nomi sempre al primo posto nell’elenco dei bravi bambini oppure vi
spedisco in Congo a sparare ai ribelli. Vi assicuro che quella non è gente tranquilla. Conosco
molti soldati che tornerebbero molto volentieri in America per un cheeseburger e qualche
pallottola in meno». Prince abbassò il capo e lo stesso fece Henry. «Tornerò qui tra un’ora e
voglio che sia tutto pulito», concluse e andò via.
Sgobbarono per una mezz’ora. Sudavano come ghiaccioli al sole e, pur chiedendosi che
senso avesse tirare a lucido un mezzo che il giorno dopo si sarebbe insozzato nuovamente di
sabbia del deserto di Chihuahua, non si dissero nulla. Quando poi la canicola fece schioccare
i suoi raggi più potenti, Prince si sfilò dalla tasca due sigarette. Ne porse una ad Henry che,
senza ringraziare, la strinse tra i denti in attesa che le dessero fuoco. Si sedettero sul
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pavimento, utilizzando uno pneumatico come schienale, e trovarono quella tranquillità che
assaporavano solo durante la libera uscita.
«Questo fine settimana me ne vado a donne. Sono stanco di dormire con uomini pelosi»,
disse, sognante, Henry.
«Ho una proposta migliore», ribatté Easton, attirando l’attenzione dell’amico, «Un paio di
settimane fa, ho incontrato al Rubiks un mio vecchio amico, Finch. È un tipo strano, un
mezzo schizzato. Lavora per la colonia, nel settore informatico, o almeno questo mi ha detto.
Non è che parli molto. Credo che sia la vita su Marte. C’è troppa anidride carbonica là su, ti
dà alla testa. Comunque, mi ha proposto un affare. Dice di avere un bel mucchio di denaro
falso e sta cercando di rivenderlo. Ci fa un buon prezzo, meno della metà di quello che
possiede. Dobbiamo solo portargli la somma ed è fatta. Che ne pensi?».
Henry spense la sigaretta sulla suola dello stivale e gettò il mozzicone, poi guardò Prince
e, machiavellico, annuì.

**
Area 51, Contea di Lincoln, Nevada, USA

Nel pomeriggio del 12 Luglio 2060, siamo stati improvvisamente e


intenzionalmente attaccati dall’esercito marziano. L’attacco alla nostra colonia
ha arrecato un gravissimo danno alla struttura, alle forze militari e, soprattutto,
ai civili umani residenti nell’insediamento. Il numero delle vittime è alto e la
minaccia di ulteriori aggressioni non è da escludersi. Come Presidente della
Colonia marziana, chiedo agli Stati Uniti d’America e agli Alleati che vengano
adottate tutte le misure per la nostra difesa.

Furono queste le parole che il presidente Pàvius Brennon fece recapitare in un


comunicato qualche giorno dopo l’attacco alieno. Recapitato con un ritardo notevole, era da
considerarsi l’ultima comunicazione utile.
«Per quanto ne possiamo sapere, potrebbero essere tutti morti. Non è pensabile mobilitare il
mondo intero per un’operazione al buio. È troppo rischioso», asseriva il generale Pillon,
scontrandosi con l’attrito delle opinioni della tavola. «Partire in solitaria potrebbe essere un
suicidio, generale. Per quanto il nostro esercito sia preparato, non è paragonabile al loro. Se
vogliamo avere qualche speranza, dobbiamo chiedere aiuto a tutti, compresi i russi. In fondo,
tutto questo potrebbe trasformarsi nella prima guerra del sistema solare e dentro ci siamo
tutti», disse il Capo dello Stato maggiore congiunto Allan T. Foster, «Generale, sappiamo che
tra lei e il presidente Brennon non scorre buon sangue, ma su quel pianeta ci sono migliaia di
persone che hanno rinunciato a una vita quaggiù per portarci dove non si era spinto neanche
Dio. Non vorremo essere ricordati come coloro che hanno lasciato crepare Adamo ed Eva?».
«No, signore», rispose Pillon, tirando su con il naso.
«Molto bene. Allora credo che siamo tutti d’accordo. Avvisate il Presidente».

***
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Il Rubiks Arcade Bar di El Paso, un luminoso cubo a pochi passi dal Las Palmas
Rehabilitation Hospital, era frequentato da videogiocatori nostalgici di un’epoca che non
avevano vissuto. Una fila di chiassosi flipper riempiva un’intera parete, mentre cabinati
upright commercializzati tra gli anni ’80 e ’90 donavano all’ambiente un’atmosfera simile a
quella di un museo. Curiosi e appassionati della generazione dei loro nonni affollavano la
sala. Dietro un grande bancone quadrato, posto al centro della sala, graziose signorine texane
spillavano Shiner Bock e Lone Star agli assetati estimatori di Double Dragon e Defender. Tra
questi, Easton e Henry spiccavano per inadeguatezza. Sedevano su trespoli dell’Hard Rock
Cafe di San Antonio, fissando le accattivanti curve di una barista che non lesinava occhiatine
dal retrogusto mellifluo. «Aspettate qualcuno?», domandò, attraversando l’elettricità dei loro
sguardi.
«Forse, e tu dopo il lavoro aspetterai qualcuno?», rispose Henry.
«Forse», concluse lei, allontanandosi per servire degli studenti della Southwest, che
sfoggiavano orgogliosamente le loro t-shirt blu da quattro soldi con il logo dell’università.
«Che ci troveranno i giovani nei libri?», chiese tra sé e sé Prince.
«Lo studio è per i ricchi. Lo è sempre stato e sempre lo sarà. Noi non possiamo capire»,
rispose Henry, dando un’occhiata alla porta d’ingresso, «Puntuale il tuo amico, vedo». La
mezzanotte era scoccata da una ventina di minuti, ma la temperatura era ancora parecchio
alta. Sarà stato per quel motivo o per ciò che stavano per fare, ma ad Henry sudavano le mani
alla vista dello zaino che il compagno portava in spalla. Era stato riempito qualche ora prima
con diciottomila dollari, l’equivalente di un anno di stipendio da recluta, tutto ciò di cui
disponevano. Da piano, Finch sarebbe entrato nel locale, avrebbe fatto una partita a Pac-Man
e sarebbe uscito, fingendo di dover rispondere a una telefonata. A quel punto, avrebbero
dovuto seguirlo fino al luogo dello scambio, mantenendosi a una distanza tale da non
insinuare a nessuno il dubbio che si conoscessero. Una volta giunti a destinazione, avrebbero
scambiato il loro zaino con un altro con quaranta mila dollari falsi, e poi ognuno per la sua
strada. Niente di più semplice! L’appuntamento era stato fissato per le undici e trenta, ma di
lui neanche l’ombra. I vecchi dischi degli AC/DC e Spandau Ballet, che risuonavano in
filodiffusione per regalare un’esperienza da viaggio nel tempo, iniziavano ad affaticare le
orecchie di Henry, abituate a tutt’altra musica. «Io aspetto altri cinque minuti, poi vado via.
Non posso sprecare la mia libera uscita in questo modo», disse, stizzito, a Prince, ma non fece
in tempo ad aggiungere altro che Finch fece il suo ingresso nel locale. Li guardò
distrattamente, facendo scorgere una certa dote attoriale, ordinò un bicchiere di Whitherspoon
Bonfire e un paio di gettoni. Henry lo immaginava diverso. Ingobbito, probabilmente a causa
del suo lavoro d’ufficio sulla colonia, avvolto in una maglia non ufficiale dei Los Angeles
Dodgers e leggermente in sovrappeso. Non era certo il tipo che attirava l’attenzione delle
cameriere. Si diresse verso il cabinato di Pac-Man. Era occupato da un cinquantenne in
giacca e cravatta con un alone di sudore che gli scendeva lungo tutta la schiena. Finch si
voltò, incrociando lo sguardo di Easton, e si sedette sulla scomoda poltrona plastificata di un
simulatore di guida. «Siamo certi che il tuo amico sia affidabile? A me sembra un imbranato,
e poi tifa per i grooms!», disse Henry.
«Penseresti mai che abbia sabotato i server di mezzo mondo?», domandò Prince, «È un
genio. Ha solo avuto una vita difficile. Possiamo fidarci». Attesero che terminasse una
partita, sedicesimo posto, game over, rispose al telefono, «Pronto, sì. Scusami, non ti sento
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bene. Resta in linea», e si diresse all’uscita. Era il segnale. Pagarono la barista, lasciandole di
mancia un occhiolino e cinque dollari a testa, e, parlottando con finto trasporto del miglior
chili della città, lo seguirono. Attraversarono buona parte della N Mesa St., una lunga e
trafficata strada con l’asfalto increspato per il caldo torrido. Superarono lo Psychic, un
negozietto gestito da una vecchia strega che millantava di poter prevedere il futuro con la
lettura della mano o delle carte, un motel, un Jack in the box e svoltarono nel parcheggio
deserto del The Cataract & Glaucoma Center. Finch si avvicinò a un cassonetto, lo aprì e ne
estrasse uno zaino che poggiò a terra. Prince si sfilò il suo dalle spalle e lo abbandonò sotto
un lampione. Poi, con nonchalance, si appressarono ognuno verso l’obiettivo. Una Ford Gt, in
quel momento, entrò a gran velocità nel parcheggio. Finch raccolse la sacca di Prince, entrò
in macchina e, lasciando dietro di sé, una nuvola di polvere, svanì nel nero della notte. «Se
n’è andato senza neanche salutare», disse Henry, aprendo lo zaino e scoprendo una serie di
fogli di giornale appallottolati, «Lui sarà anche un genio, Easton, ma tu sei un idiota!».

****

Fort McNair, Washington D.C., USA

In videoconferenza, ai presidenti delle maggiori potenze mondiali e ai loro generali fu


mostrato il filmato dell’assedio marziano nella colonia e fatto leggere il comunicato del
Presidente Brennon. Ci fu poco da commentare. Le immagini parlavano da sole e la
disperazione della richiesta d’aiuto arrivò diritta alle orecchie di tutti. «Crediamo che la scelta
più saggia sia quella di intervenire tutti. Se finanziassimo un’operazione simile da soli,
porteremmo gli Stati Uniti al collasso e non avremmo la sicurezza di riuscire. Solo con il
vostro supporto aumenteremo le nostre possibilità di vittoria. Naturalmente, ad ognuno di voi
garantiremo vantaggi futuri per dimostrare la nostra gratitudine», disse il Presidente Cooper.
Ōuyáng, il Capo dello Stato cinese, scollegò l’audio per consultarsi con i suoi assistenti, e lo
stesso fece il russo Kuznetsov e il francese Dumont. Il primo ministro del Regno Unito, Jason
Cook, il Presidente italiano, Nicola Saldutti, e quello tedesco, Balder Körtig, invece non
ebbero perplessità nel garantire il loro sostegno nella causa. Allan T. Foster li ringraziò e,
mentre restava in attesa di una risposta dagli ultimi tre, ne approfittò per mostrare delle
fotografie scattate da alcuni supervisori delle miniere di ematite e goethite presenti sul
pianeta rosso. «Abbiamo ancora tutti negli occhi impresse le scene dello sbarco su Marte del
2024. A quei tempi, eravamo tutti bambini o poco più. Il presidente Trump volle che
sventolasse la bandiera americana, così come accadde nel 1969 sulla Luna, e così fu fatto.
Ciò che non poteva sapere era che sotto quello strato superficiale vi era una civiltà. Abbiamo
scavato nelle profondità e recuperato artefatti alieni, frutto di millenni di cultura di cui siamo
rimasti all’oscuro per secoli». Ōuyáng, Kuznetsov e Dumont riattivarono la comunicazione.
«Così come non possiamo ancora comprendere le ragioni dell’attacco. Per secoli abbiamo
creduto nella nostra onnipotenza. Abbiamo raggiunto vette insperate, volato oltre la nostra
immaginazione e consacrato i nostri successi con la presunzione che ci appartenessero.
Abbiamo sbagliato, ma non potevamo saperlo. Dobbiamo andare avanti, se non vogliamo che
tutto finisca. Il Sistema Unito Terrestre può fare in modo che i sogni dei nostri avi non
diventino solo un ricordo lontano e, se Dio lo vorrà, ce la faremo». Un intenso minuto di
riflessione donò ai dubbiosi il coraggio di accogliere la richiesta di Foster. L’ammiraglio
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Barrett ingoiò un sorso di saliva e, autoritario, prese la parola: «Signori, l’equipaggio


dell’Arcturus è già stato messo al corrente della spedizione. Entro due settimane sarà tutto
pronto per la partenza. Fort Bliss, White Sands Missile Range e tutte le maggiori caserme
americane da domani faranno partire un programma d’addestramento speciale per la
preparazione delle reclute. Nessun soldato è stato ancora informato della partenza, ma non
potranno tirarsi indietro. Serviranno il pianeta Terra costi quel che costi. Il punto di raduno
sarà all’Arizona Challenger Space Center tra due settimane esatte. Attendiamo i vostri
migliori uomini. Non abbiamo molto tempo, e siamo già in ritardo».
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Sabato 10 Luglio 2060, 8:00 p.m.

FLASH BREAKING NEWS

Nel deserto di Sonora iniziano i preparativi per un’azione di controllo su Marte.


La navicella spaziale Arcturus e un centinaio di navicelle di supporto provenienti
da tutto il mondo, a ondate, prenderanno il volo per raggiungere la nostra
colonia sul pianeta rosso. Non sono ancora chiare le motivazioni di questa
operazione. Il generale Allan T. Foster invita tutti a mantenere la calma.
«Dobbiamo solo accertarci che i nostri conplanetari si stiano godendo la
permanenza», ha dichiarato prima alle nostre telecamere prima di partire per
Phoenix.
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Capitolo Due

In caserma la sveglia coincise con la campana del riposo. I bagagli di ogni recluta si
riducevano a uno zaino affardellato in cui riposero vestiti di ricambio, biancheria, una stuoia,
munizioni, filo di ferro dolce, medicinali, viveri, una borraccia e poco altro. I soldati furono
smistati, seguendo un ordine alfabetico, in una manciata di Charter bus a guida autonoma con
i finestrini oscurati. Incurante del sonno, Henry ascoltava con le sue cuffie wireless una
vecchia canzone metal che, ossessivamente, ripeteva “Lascia che i corpi battano sul
pavimento”, fino a quando, giunti nei pressi di Las Cruces, il suo vicino di viaggio non gli
chiese di abbassare il volume. «Come fai ad ascoltare questa roba?», disse.
«Mi aiuta a pensare meno», rispose, «Non sappiamo neanche cosa ci attende. Secondo te?».
In risposta ricevette solo un balbettio che preannunciò il suo russare, mentre una notte opaca
calava sulla I-10 West e sui pensieri di Henry, che non riuscì a chiudere occhio. Vide, senza
capire dove si trovasse, in trecentosettanta miglia di asfalto rettilineo, la Luna County e il
Rockhound State Park, la Conorado National Forest e le luci di Tucson. Intorno alle cinque
del mattino, i primi saguari, come spaventapasseri, spuntarono dalle sabbie del deserto e i più
mattinieri spalancarono le palpebre su quel panorama che Henry aveva visto cambiare e
raccontargli millenarie storie di desolazione. Il sergente Melissa Gilbert, in diretta
ologrammatica,, accese un microfono e diede il buongiorno a tutti i soldati. «Oggi saluteremo
il Pianeta Terra. Chiamate le vostre mamme, nonne e fidanzate perché su Marte il cellulare
non prende. Giunti a Phoenix avrete due ore libere prima dell’imbarco. Sfruttatele per
prendere coscienza con voi stessi e con ciò che state per fare. Molti di voi non hanno mai
percorso la Pacific Coast Highway e penso che qualcuno non sappia neanche andare in
bicicletta, ma da oggi potrete dire di aver percorso buona parte della Via Lattea a bordo
dell’astronave più grande che sia mai stata progettata. Ciò che ci aspetta lassù lo sa Dio e il
Presidente Cooper. Arriveremo a destinazione tra dieci giorni. Sì, se ve lo state chiedendo, a
bordo c’è anche una televisione e una vasta selezione di film d’autore. Non vi annoierete».
Un preoccupato vociare si levò tra le reclute. Qualcuno pregava, ad altri mancavano le parole.
Henry, infischiandosene della debolezza che stava per dimostrare al resto della compagnia,
alzò la mano, attirando l’attenzione del sergente e domandò: «Torneremo?».
«Hai un appuntamento dal dentista, Mitchell?», sogghignò istericamente, prima che il
tremore negli occhi dei soldati non le fece rettificare, con un tono più serio: «Me lo auguro.
Partire è un dovere, tornare è un privilegio. Lo è sempre stato e sempre così sarà. Trovate
dentro di voi un motivo per resistere. È normale avere paura, abbracciatela adesso così da
anticipare le sue mosse».

Il convoglio svoltò nel complesso di lancio dell’Arizona Air Force Station, una rampa di
lancio orbitale inaugurata nel 2047, situata nella parte meridionale di Phoenix. I pullman si
allinearono l’uno di fianco all’altro e, in contemporanea, spensero i motori e si aprirono le
portiere rototraslanti, lasciando i soldati liberi di sgranchirsi e respirare l’aria calda di un’alba
che non avrebbero visto per un po’. Seguendo il consiglio del sergente, molti telefonarono ai
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 12

loro cari per rincuorarli. Henry, raccolto il suo zaino, trovò riparo all’ombra di una larrea
tridentata. Osservava i suoi commilitoni muoversi come dannati in tutte le direzioni, parlando
a bassa voce per tutelare la loro fierezza. Pensò di non avere nessun numero in rubrica che
avrebbe voluto chiamare, nessuna persona a cui dedicare quel viaggio di probabile solo
andata. Scavò nei ricordi alla ricerca di qualcuno, ma nessun volto spiccava fra i tanti. Erano
tutti offuscati e con lo sguardo altrove. Li chiamo uno ad uno, ma nessuno rispose. Aveva
perso i contatti con i suoi genitori quando, una notte di novembre, a sedici anni, andò via per
cercare la fortuna che in quella casa non era mai entrata; Ronnie, suo fratello, era morto di
overdose da fentalyn, un antidolorifico a buon mercato più potente della morfina; Vivian,
l’unica ragazza con cui riuscì a frequentare per più di una settimana, gli fece promettere di
non pensarla più: mentì, ma non lei non lo seppe mai; i suoi amici d’infanzia erano degli
sconosciuti, di molti non ricordava neanche il nome; lui stesso si considerava un conoscente.
Eppure quel malinconico mormorio di uomini in divisa lo pugnalava al petto. In un istintivo
scatto di abbattimento, ordinò al suo Virtual Reality Pod di rintracciare il numero di telefono
della barista del Rubiks Arcade Bar. In pochi istanti, il dispositivo lo trovò e fece partire la
chiamata. «Pronto?», fece una sottile voce assonnata, «Chi è?». Henry ansimò dei pensieri
che non si trasformarono in parole e riattaccò, crollando in una solitudine che l’arrivo di
Prince non maturò in serenità.
«Che viaggio, eh?», domandò, tentando maldestramente di riottenere la sua fiducia, «Senti,
so che sei arrabbiato per quella storia dei soldi, ma ti prometto che li recupereremo…».
«Non me ne frega un cazzo dei soldi, Easton! Lasciami in pace».
Sinceramente rattristato, si allontanò di qualche metro e, puntando il dito verso le torri di
lancio su cui si elevavano dei moduli spaziali alti come la Woolworth Building, disse: «Tra
poco ci spareranno in aria. Ci caricheranno là sopra un po’ alla volta come sacchi di letame,
attraccheremo alla stazione spaziale e si parte. Me l’ha detto il sergente. Ci vorrà tutto il
giorno, credo. Dobbiamo attendere i rinforzi da Kourou, Cape Canaveral, Plesetsk, Xichang,
Vostočnyj. Quanti dei giovani che saliranno su quelle astronavi vogliono decollare
davvero?». Henry guardò verso il punto indicato, senza aprire bocca. «Questa non è la vita
che avrei voluto, Henry, ma non ho scelta. Non ce l’hai nemmeno tu. Ci vediamo nello
spazio».

Lunga cinquecento metri e larga trenta, l’Arcturus era soprannominata l’arca di Noè.
Gestito come progetto congiunto da otto diverse agenzie spaziali, ci vollero quasi
quarant’anni per completarla. Il progetto partì dopo le scoperte ottenute con la Mars Orbiter
Mission II, la seconda missione spaziale indiana interplanetaria per Marte. Il risultato fu un
gigantesco disco, fluttuante nell’orbita terrestre bassa, pronto a schizzare in qualsiasi
momento alla sorprendente velocità di 700.000 mi/h e ospitare circa cinquecento persone. Era
facile dimenticarsi della sua esistenza. Sostava a un’altitudine di trecentottanta miglia dal
livello del mare ed era stata impiegata per missioni segretate del Dipartimento della Difesa
Mondiale. Per la maggior parte della popolazione terrestre non era che una nave da crociera
volante, uno spreco miliardario di soldi pubblici, parto della mania di grandezza dei capi di
stato e della loro volontà di controllo dello spazio. Anche la costruzione della colonia su
Marte non era stata accettata come un’occasione. In molti paesi si soffriva ancora la fame,
guerre laceravano intere aree e costringevano molti a scappare. Seppure si aprirono gli
scenari per una nuova era, questi investimenti produssero un divario ancora più grande tra chi
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 13

poteva e chi non poteva viverla. Henry, che aveva vissuto di accattonaggio per buona parte
della sua vita e un futuro sereno non riusciva neanche a immaginarselo, non la pensava
diversamente. Non cambiò idea nemmeno quando chiuse gli occhi per riaprirli nell’exosfera.
Harlock, il suo modulo, fu il primo ad essere spedito in orbita. Un centinaio di soldati, bardati
di LCVG e TMG, si allacciarono le cinture negli scompartimenti, posti su vari livelli, e
spediti in cielo. In pochi secondi, si ritrovarono a galleggiare nel gas isotropo con una vista
spettacolare. La Terra, pigra, si lasciava corteggiare dai raggi del Sole in un giorno eterno.
«Wow!», fu tutto ciò che Henry riuscì a dire ma, alle orecchie dei suoi compagni, sembrò
eccessivamente poetico. Decise, quindi, di chiudersi in un pensoso silenzio e, con il cuore in
gola, seguì la manovra di rendezvous. Il docking dell’Harlock all’Arcturus fu perfetto. Il
chaser e il target si incastrarono millimetricamente, le cinture di sicurezza si sganciarono,
liberando i soldati che tirarono un sospiro di sollievo, un tunnel di collegamento si aprì e una
voce campionata accolse i giovani militari: «Benvenuti a bordo dell’Arcturus. Prego,
proseguite in questa direzione per raggiungere il punto di raccolta. Vi auguro una buona
permanenza».

Ci vollero dodici ore prima che la navicella ospitasse tutti i soldati. L’ammiraglio Barrett
e il sergente Gilbert, prima azionare i motori e dare il via alla traversata del sistema
planetario, concessero una visita guidata del veicolo. Un’intera ala era dedicata agli alloggi
per la notte: un albergo capsulare con blocchi modulari in plastica e fibra di vetro di circa due
metri di lunghezza per uno di larghezza, corredati da uno schermo televisivo a comando
vocale sulla parete superiore. La sala comune, la Panorama Room, adibita a sala mensa,
offriva il grande spettacolo del vuoto dalle grandi vetrate, poste lungo il perimetro della
stanza. C’erano poi un deposito di armi, spogliatoi, una palestra, servizi igienici, una miriade
di uffici, cabine di controllo, un bunker d’emergenza e svariate casematte, offensive e
difensive, installate per qualsiasi evenienza. Henry, così come molti altri militari, terminò il
tour al dormitorio. Si infilò nella cuccetta che gli era stata destinata per testare la comodità
del letto e, senza neanche rendersene conto, si addormentò. Non si accorse neanche
dell’accensione dei propulsori e dei motori a reazione che fecero salpare l’Arcturus a una
rapidità impressionante. D’altra parte, all’interno della navicella, si aveva l’impressione di
restare fermi e che tutto ciò che ci fosse all’esterno si muovesse in fast forward.

Si svegliò a ora di cena. Percorse il corridoio, attratto da un festoso vociare e da un


profumo di crocchette di patate. Ancora frastornato, attraversò la sala, soverchiato da canti di
giubilo e fragorose risate, e si diresse alla vetrata. Guardò alla sua destra, la Terra era grande
come un bottone. «Dove siamo?», domandò.
«E chi lo sa! Non ci sono cartelli stradali in zona», rispose, palesemente alticcio, Conrado,
sgusciando dietro un groviglio di divise, «Siamo partiti cinque ore fa, circa. Bevi qualcosa,
festeggiamo!». Henry trattenne un sorrisetto critico e chiese cosa si stesse celebrando. «Ma
che ne so! Andiamo su Marte, spariamo agli alieni, torniamo a casa da eroi, e poi soldi, donne
e bella vita!», urlò Conrado.
«Per fortuna la tua ragazza non ti può sentire, Martinez», disse Henry, colpendogli
amichevolmente la spalla, «Continua pure, divertiti anche per me».
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 14

Il generale Pillon sedeva al tavolo con gli ufficiali, comprensibilmente infastidito dal baccano
che non gli permetteva di riflettere sul da farsi. Sorseggiava con estrema lentezza un
bicchiere di Mountain Dew Soda, mentre tentava di ascoltare i discorsi di Barrett che,
dell’Arcturus, era l’indiscusso padrone di casa. Illustrava, aiutandosi con delle mappe astrali
che comparivano sul tavolo touch-screen, il percorso che la navicella stava intraprendendo,
avanzando ipotesi sul modo migliore per raggiungere Marte nel minor tempo possibile. I
commensali annuivano senza capire, ma non ce n’era bisogno. Si fidavano tutti della sua
esperienza e qualsiasi scelta avesse fatto, sarebbe stata sicuramente quella giusta. Conclusosi
il fallimentare addottrinamento, Barrett brindò alla vittoria degli Stati Uniti Terrestri con una
Dr. Pepper e lanciò uno sguardo alla ciurma. Erano tutti giovani, di ambo i sessi, di età
compresa tra i ventuno e i trent’anni. Si divertivano come se stessero al Webster Hall.
L’incoscienza giovanile era entrata in circolo per superare la paura dell’ignoto. Da una parte
ne era felice, dall’altra quell’atmosfera lo turbava. Un paterno senso di colpa lo pervase.
Quella festa era stata organizzata per creare gruppo e concedere un po’ di svago prima dello
sbarco. Vederli ridere e rilassarsi gli fece ricordare che erano ragazzi come tutti gli altri, con
gli stessi sogni e preoccupazioni. «Nascondere le proprie sensazioni dietro un sorriso o un
fucile non fa differenza», disse, ma nessuno riuscì ad ascoltarlo.

Riempito un vassoio di vivande, Henry trovò posto a un tavolo in disparte. Consumò la sua
cena da solo, non alzando mai lo sguardo dai piatti. Quando rialzò gli occhi, davanti a sé era
seduta una giovane donna senza uniforme. Indossava un tailleur con lo stemma dell’Arcturus.
«Se vuoi, possiamo farlo qui», disse, avvolgendosi in un risolino. Guardandola con
un’espressione interrogativa, Henry domandò, balbettando, cosa intendesse. «Il colloquio.
Domani mattina avete tutti appuntamento da me. Considerando che ti sei isolato dal resto
della comitiva, però, la tua visita possiamo farla adesso. Sono la psichiatra di bordo, la
dott.ssa Elizabeth Williams. Molto piacere». Gli tese la mano e, ricompostosi, gliela strinse,
abbandonandosi in un ghigno divertito.
«Ho poco da dire, dottoressa».
«Quel poco può bastare, recluta?».
«Mitchell, Henry Mitchell».
«Bene, Henry. L’appetito non ti manca, vedo. È un buon segno. Hai brutti pensieri,
ultimamente?».
«Non più del solito».
«Perché non li condividi con qualcuno? Non so, un amico».
«Sono poco abituato a parlare di ciò che mi passa per la testa, preferisco concentrarmi su ciò
che mi viene detto di fare».
«E adesso che non sai ciò che ti aspetta?».
«Adesso servirebbe un amico, dottoressa».

**

Il mattino seguente e tutti quelli che seguirono i soldati si svegliarono con un video, proiettato
in contemporanea su tutti gli schermi in dotazione nelle capsule, in cui il Presidente Cooper,
seduto comodamente dietro la sua scrivania, teneva un discorso sulle civiltà extraterrestri.
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«Se non esistesse vita nello spazio esterno, avremo tutte le ragioni di inventarla. È normale
lasciarsi influenzare da immagini impreviste che, come un'eco visiva, rimbalzano dagli
specchi circostanti. In questo modo, si plasma il suo personaggio reagente, riflesso del dio,
proiettato nello specchio sociale. Quasi allo stesso modo, intere civiltà del mondo
contemporaneo, così denso di intercomunicazioni, vengono stimolate dai riflessi che
producono su altre culture reali o immaginarie. Per dirla in altri termini: quello che pensiamo,
immaginiamo o sogniamo delle civiltà oltre la Terra non riflette soltanto le nostre paure
nascoste o desideri inconsci, ma li altera. Per più di un secolo gli antropologi, studiosi delle
civiltà primitive, hanno costruito uno specchio capace di riflettere presupposti sottintesi delle
società industriali. Possiamo certamente riconoscere in questi specchi il nostro etnocentrismo,
i nostri valori fortemente materialisti, le nostre speculazioni poderose, ma sostanzialmente
limitate sul tempo, sullo spazio, sulla logica e sulla casualità. Questo specchio, però, non ha
saputo diffondere altri aspetti della nostra civiltà. La luce che si riflette ricade su di noi, lascia
larghe chiazze d'ombra ed è un ombra molto densa. L'oscurità di tali chiazze si fa più fitta
per il fatto che le altre civiltà sono sempre state umane come la nostra; voglio dire che, in
comune, non solo abbiamo forme e apparato sensoriale, ma anche la necessità di cibarci, la
capacità di esprimerci verbalmente, un analogo sistema riproduttivo, componenti che
contribuiscono a strutturare sapientemente i presupposti della nostra realtà. Confrontandoci
con altri esseri raggiungiamo un limite, ed è questo. Qui entra in gioco l'antropologia
extraterrestre, che chiarisce e illumina, in modo risolutivo, alcune caratteristiche meno
appariscenti della nostra civiltà. L’idea stessa di civiltà fondate su una singola epistemologia
viene messa in discussione. Ci si domanda se presupposti del calcolo delle probabilità si
possano applicare universalmente. Nell'ambito di questa problematica, incomincia ad
assumere precisi significati intellettuali tutta la questione dell'esplorazione spaziale e del suo
rapporto con il mondo. Si esaminano le ragioni e le motivazioni della colonizzazione
spaziale, i molteplici mezzi con cui potremmo stabilire un contatto con forme di vita
extraterrestre, le diverse forme di contatto, le possibili reazioni, gli ostacoli culturali agli
scambi alle comunicazioni, la natura delle specializzazioni umane necessarie per stabilire basi
e colonie nello spazio, oltre a una molteplicità di altri problemi altrettanto insoliti e
affascinanti. La nostra cultura è talmente radicata che noi stessi restiamo invischiati nei suoi
schemi di pensiero. In diversi casi, si parte dal presupposto che le colonie spaziali dovranno
essere tecnocratiche, con strutture di tipo militare per l'asprezza dell'ambiente circostante,
come se un governo efficiente debba essere per forza di cose totalitario. La colonia di Marte
attuale è stata costituita in questo modo. Non abbiamo aspettato un cataclisma per tentare di
colonizzare lo spazio. In un periodo storico, si profila il compito di progettare una civiltà
nuova, dobbiamo osservarci con un'ottica nuova, facendo riflettere nuovi specchi. In questo
momento, si potrebbe dire, stiamo lanciando un segnale nelle profondità dello spazio esterno
che, a sua volta, rimbalza verso di noi e ci riempie di intuizioni. Fa di noi fortunati destinatari
di quella che si potrebbe chiamare era eco-cosmica. Concludo con una riflessione. Gli occhi
umani forniscono immagini leggermente diverse dello stesso soggetto. Poteste chiedervi
quale delle due sia quella giusta e quale quella sbagliata; la differenza tra le due non
costituisce un problema: al contrario, è utile. Ogni immagine ha infatti due dimensioni. Ma
gli elementi di differenza che ci sono tra le due immagini permettono al cervello di calcolare
la terza dimensione che è l'invisibile. L'esigenza psicologica di cercare di dipendere da una
sola verità sembra doversi attribuire alla struttura del nucleo familiare della sua nostra società
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 16

costituita in genere da un solo padre, una sola madre e dai loro figli. In questo sistema il
bambino si trova quasi sempre in rapporto con la sola coppia di adulti, impara un solo modo
di pensare di agire. In altre culture i bambini sono in contatto con più adulti che possono
anche non essere parenti e non avere rapporti di consanguineità. A sorgenti emozionali
diversificate corrispondono diversi punti di vista e modi di agire. In queste culture c'è una
tendenza minore a credere a una sola verità. Le generazioni degli uomini futuri,
probabilmente non avranno il nostro sistema familiare e forse saranno meno etnocentriche.
So che probabilmente, queste parole provocheranno uno shock culturale dal momento che ho
preferito seguire una direzione ideologica, anziché fornire risposte specifiche».

Il messaggio, letto nel tentativo di indottrinare gli ascoltatori e probabilmente anche lo


stesso presidente, divenne un’ossessione per la truppa che, dopo i primi sette giorni di
traversata, iniziarono a citarne alcuni estratti a memoria. Se anche solo uno di loro, compreso
il Presidente, ne avesse capito il senso, non fu dato sapere. Avevano trascorso quella notte,
lunga duecentoquaranta ore terrestri, in un alienante turbinio di emozioni contrastanti che li
ridusse a ombre taciturne. Avrebbero pagato oro per una passeggiata sulla Santa Monica State
Beach o per un raggio di sole sulla Siesta Key. Quello di cui si dovettero accontentare,
invece, furono delle corse sui tapis roulant e il chiarore freddo dell’impianto di illuminazione
che risplendeva nelle corsie e nei loro sogni, che diventarono sempre più raccapriccianti.

«La luce che si riflette ricade su di noi, lascia larghe chiazze d'ombra ed è un ombra
molto densa», cantilenava Prince per stemperare la tensione durante le manovre di atterraggio
della navicella su Marte. Quel giorno non si parlò molto. Le uniche voci che si udirono
furono quelle autoritarie di Barrett e Pillon che, dopo lunghe ore di confronti, suddivisero il
giovane esercito in sezioni che, per nessun motivo, avrebbero potuto dividersi. Henry e
Easton capitarono nella stessa, la Vulture One. A tutti fu fornita una tuta spaziale, la BioSuit,
dotata di un take me home button, una sorta di gps per la localizzazione in caso di perdita
dell’orientamento, che guidava in maniera autonoma, grazie a sensori e sistemi di
navigazione, il visitatore alla base. Rispetto alle ingombranti Z2 o Pxs, questo modello era
molto aderente, una seconda pelle bianca che faceva somigliare i soldati a delle mummie.
Avviluppati in bobine di SMA, attivate termicamente, ogni movimento risultava essere
naturale e per nulla faticoso. Un grande vantaggio, considerando il carico che i soldati
avevano sulle spalle e nella testa. Tra le mani stringevano delle Heckler & Koch MP5K, negli
occhi la mappa del percorso per raggiungere la colonia, nelle orecchie il countdown
all’apertura del portellone dell’Arcturus.
«Buona fortuna, Henry», bisbigliò Prince, guardandolo con una faccia da funerale, «Sai, ho
sentito che, se siamo qui, è solo per salvaguardare le miniere. Volendo, potremmo portarci a
casa dei souvenir. Un po’ della roba che c’è là sotto ripagherebbe abbondantemente un anno
di stipendio».
«Non cambi mai, eh?», rispose Henry, sorridendogli. I motori si spensero. L’atterraggio era
stato da manuale: neanche un sussulto.
«Dieci, nove, otto», contava la stessa voce che gli aveva dato il benvenuto all’arrivo nella
navicella. «Sette, sei, cinque». I due, contratti nel timore dell’ignoto non dissimile da quello
di tutto il plotone, si scambiarono un occhiolino come segno di tregua. «Quattro, tre, due».
Una sirena barrì, risuonando nei loro caschi. «Uno». Il tempo si dilatò quel tanto che bastò
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per fare in modo che chiunque sperasse che, oltre la rampa, ci fosse il pianeta Terra, che fosse
tutto uno scherzo, una costosa trovata televisiva. «Zero». Il portellone si aprì e fu subito
chiaro a tutti che casa non era mai stata così lontana.
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Capitolo Tre

L’atmosfera rarefatta, ricca di polveri fini e particolato sospeso offrì ai soldati uno
spettrale spettacolo di disarmante bellezza. Sbarcarono in un avvallamento di origine
vulcanica. All’orizzonte non vi era che polvere rossa, nessuna luce, nessun movimento,
nessuna astronave nemica.
«Che ora è qui? Siamo al tramonto?», domandò, spaesato, Henry, guardando un cielo
albicocca.
«Qui il giorno e la notte si alternano in maniera opposta alla nostra. Di notte l’azzurro, di
giorno l’arancione», rispose il tenente Vaughn.
Atterrarono nella zona montuosa di Tharsis, nell’emisfero nord. Flussi di lava solidificata,
canyon e scarpate si alternavano allo sguardo stupefatto dei cadetti che, pronti allo scontro a
fuoco, si guardarono attorno alla ricerca di alieni da abbattere. Tutto era fermo, forse troppo.
Il generale Pillon diede l’ordine al battaglione di fare quadrato e tenere alta la concentrazione.
In pochi istanti, si disposero in formazione. Ad ogni minimo rumore, le centinaia di uomini si
voltavano all’unisono, puntando le armi, ma nessuna forma vivente si palesò. Miglia e miglia
di ossido di ferro e silicati che, ai più esperti, ricordò il deserto cileno di Atacama si
stendevano dinanzi ai loro occhi e ai loro fucili. «Qualcuno mi ricorda il motivo per cui
abbiamo colonizzato questo pianeta?», disse maliziosamente Prince, «E soprattutto perché
siamo qui? A me sembra tutto in ordine». «Cos’è?», chiese Conrado, puntando il dito verso
un’ombra che, dal confine fra cielo e terra, si avvicinava a una discreta velocità. «È la dott.ssa
Hawkins», disse Barrett, «Abbassate le armi!». Un cingolato, un Martian Bandvagn 206 con
cannone Bofors, prima come un miraggio lontano poi come una realtà sempre più prossima,
raggiunse l’esercito. All’interno del veicolo da una ventina di posti circa, una donna, con i
capelli biondi raccolti in uno chignon, si lasciava trasportare dal pilota automatico verso lo
smarrimento da mal di fuso dei presenti che, senza fare domande, risposero alla disposizione
del generale di mettersi sull’attenti in segno di rispetto. Protetta da una tuta da
contropressione meccanica simile a quella in dotazione ai militari, la dottoressa scese dal
mezzo e rispose al saluto. «Ben arrivati, spero che il viaggio sia stato piacevole. Da
calendario dariano, oggi è il primo lunedì del mese di Kumbha. La temperatura è di 10°C.
Siete fortunati a non essere arrivati qui durante l’inverno polare. Abbiamo raggiunto i -140°C
l’ultima volta. Non temete, la colonia terrestre è rivestita da aerogel di silice: tiene caldi e
ripara dalle radiazioni infrarosse. Se ve lo state chiedendo, la città è situata nell’Amazonis
Planitia. Basterà procedere a sud-est per una ventina di miglia. Sono certa che vi troverete
molto bene. Ora, se gli ufficiali gradiscono un passaggio, ho qui qualche posto libero. Al
resto della truppa, consiglio di mettersi in cammino subito. Purtroppo, non disponiamo
momentaneamente di molti mezzi di trasporto. Le indicazioni per raggiungere gli alloggi
sono state inviate al vostro sistema di posizionamento. Non sarà difficile distinguere la città.
Se ne vedete una, vuol dire che siete arrivati. Non ne esiste un’altra». L’ammiraglio si
consultò con Gilbert, mentre Pillon e gli altri ufficiali presenti sull’Arcturus non se lo fecero
ripetere una seconda volta e si accomodarono nel M-Bv 206. Barrett ordinò all’equipe di
scienziati di bordo, capeggiata dal prof. Ergon, e ai tecnici, di restare nella navicella per
vigilare su di essa e procedere con le ricerche nei laboratori; affidò dunque la truppa al
sergente che, malgrado fosse stanca così come chiunque altro, accettò senza battere ciglio.
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Lei era, insieme a lui stesso, la guida migliore. Non era la prima volta che calpestava quella
superficie. Buona parte del suo addestramento per la U.S. Navy Seal lo svolse lì,
sull’Olympus Mons, a sedici miglia di altezza dalla base, tra nevicate di anidride carbonica
ghiacciata e la paura di morire. Il cuore, probabilmente, le si era congelato su quella
montagna due volte più alta dell’Everest. Non aveva figli o un marito ad attenderla sulla
Terra, solo una vecchia Ford Del Rio e un appartamento a Sunland Park. Qualcuno in
caserma ipotizzava che tra lei e l’ammiraglio ci fosse qualcosa in più rispetto a un rapporto
lavorativo, ma mai nessuno li vide in atteggiamenti che potessero evidenziare un briciolo di
affetto. L’austerità di entrambi era così caratterizzante da trasformarli in personaggi
grotteschi su cui i soldati ricamavano esilaranti parodie e gag della buona notte.

L’ammiraglio Barrett, dopo mesi e mesi di riflessione, riesce a invitare a cena il sergente.
L’appuntamento si svolge in imbarazzante silenzio, fino a quando lui non decide di rompere
il ghiaccio: «Signorina Gilbert, lei sa volare?», domanda, in un goffo tentativo di essere
romantico. «Perché, le astronavi sono fuori uso?», risponde lei.

Era la barzelletta preferita da Prince che, guardandoli salutarsi e darsi appuntamento di lì a sei
ore alla colonia, non poté fare a meno di ridere. Henry gli diede di gomito per placare
quell’immaturo sberleffo che avrebbe messo tutti nei guai, ma anche lui non resistette alla
tentazione di sganasciarsi. Fortuna volle che la visiera trasparente dei caschi che indossavano,
per via di un fascio di luce che colpì il plotone in quel momento, si polarizzasse, nascondendo
le loro espressioni bardasse, e salvaguardasse l’esercito da una punizione ben più dura della
marcia che li attendeva.

Deimos e Fobos, i due satelliti naturali che penzolavano sulle loro teste, gli fecero compagnia
durante l’intero percorso. L’accelerazione di gravità, pari a 0,376 volte quella terrestre, aiutò
tutti a ridurre di poco più della metà il proprio peso e quello dei carichi che portavano
addosso. Lo sforzo fisico si limitò, ma non i dubbi su quella missione. Pur non parlando, i
soldati concordavano sulla stranezza di ciò che stavano facendo. Chiunque si sarebbe
aspettato, una volta usciti dal portellone dell’Arcturus, di imbattersi in uno scontro a fuoco
con degli alieni o, perlomeno, di ritrovarsi catapultati in uno scenario apocalittico. Quello che
vedevano, invece, era solo Marte. La loro insofferenza non nasceva tanto dal fatto di non
avere sparato ancora un colpo, ma di non capire il perché non fosse ancora successo. Nessuno
ebbe il fegato di chiederlo al sergente. Del resto, non era difficile capire che le loro
perplessità fossero anche le sue. Sfilarono per ore attraverso una tempesta di sabbia non
troppo forte da rallentare significativamente la marcia, ma abbastanza da tingere le tute di un
rosso creta e farli somigliare ai guerrieri di terracotta dell’imperatore Qin Shi Huang. Giunti
al diciassettesimo miglio di cammino, anche loro espressioni non erano troppo dissimili da
quelle delle statue cinesi. Paralizzati in una straziante maschera di stanchezza, proseguivano
per inerzia, non avvertendo più i loro piedi.
«Se qualcuno ci avvertisse adesso, non avrei nemmeno la forza di rispondere», disse
Conrado.
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«Non succederà, Messico», rispose, affannato, Henry «Si sta più tranquilli qui che a
Louisville». Ronda Shirov, una silenziosa soldatessa che camminava accanto a loro, sorrise.
«Pensavo avessi le labbra incollate. Mi consola vederti ridere. Hai anche una voce?», le
domandò Henry.
«Vengo dal Colorado. La tua battuta mi ha riportato per un attimo lì, tutto qui. Non sentirti
autorizzato a indagare ulteriormente sulla mia vita. Il fiato mi serve per raggiungere
l’obiettivo», disse Ronda, stroncando l’entusiasmo di una nuova conoscenza che Henry
pregustava.
«D’accordo. “Arruolati nell’esercito”, mi dissero, “Ci si diverte”, dicevano. Sì, forse nella
Prima guerra mondiale! Questa mi sembra una colonia di suore», sussurrò tra sé e sé, e poi
nulla più fino alle vista delle luci di Marsgrad.

L’azzurro del crepuscolo marziano illuminava la Valles Marineris, facendo splendere


l’enorme cupola trasparente rivestita di nano-schiuma, frutto del folle ingegno umano. Vista
in televisione sembrava molto più piccola. Si estendeva per circa 15 mi² e conteneva 70.000
terrestri. La maggior parte di loro lavorava nella zona industriale: minatori molto ben pagati
che non vedevano l’ora di rimpatriare per godere dei propri sforzi. I restanti erano militari,
tecnici della manutenzione della struttura, giornalisti, diplomatici, cariche istituzionali, ricchi
insoddisfatti della solita vita, artisti, gestori e dipendenti di attività di ristorazione e
intrattenimento. Nei decenni che ci vollero per costruirla persero la vita centinaia di operai: i
loro nomi erano stati impressi sulle tre facciate di una piramide di pietra, collocata in Piazza
Gerardus ‘T Hooft, il centro nevralgico della città. Dall’alto di un cratere il plotone si fermò a
contemplarla, poi un po’ alla volta si incamminarono verso l’ultimo miglio che li separava
dalle sue porte pressurizzate.

Il comitato di accoglienza non si disturbò molto. Furono distribuite delle bottigliette d’acqua
e delle barrette energetiche da alcuni volontari, ma il vero sollievo fu tornare a respirare senza
elmetto in policarbonato. Henry, stremato dalle ore di avanzata militare, ne bevve un litro,
prima di accorgersi dello strano sapore del liquido. Veniva prodotta in situ, estratta dal
ghiaccio presente sotto la superficie e purificata per eliminare perclorati nocivi. Era diversa
da quella a cui era abituato, ma sempre meglio di una disidratazione letale. Ne prese una
scorta e, liberatosi momentaneamente dello zaino, si guardò attorno. La struttura era in
perfette condizioni, nessun segno dell’assedio alieno né in città né sui volti, pochi a dir la
verità, delle persone che incontrarono. Marsgrad aveva tutta l’aria di essere un set
cinematografico, un paradiso per facoltosi che, a quanto, pare preferivano chiudersi in casa.
Sintetizzava, strada dopo strada, l’architettura partorita dalle nazioni che avevano collaborato
alla sua costruzione, dall’antichità al razionalismo. Peccato che fosse tutto posticcio, una
scenografia per pubblicizzare la superiorità terrestre e impressionare qualche eventuale ospite
alieno.
Il sergente Gilbert, accertatasi della presenza di tutti i soldati, comunicò via auricolare
all’ammiraglio dell’arrivo a destinazione. Resto in attesa di direttive, poi sgranò gli occhi e,
dissimulando il proprio disappunto, diede conferma dell’avvenuta ricezione. «Prenderemo la
metropolitana», comunicò alla truppa, «Raggiungeremo gli alloggi e questa giornata potrà
dirsi conclusa. Un po’ di riposo ve lo siete meritato, direi». Un gorgoglio di insoddisfazione
si levò tra la truppa, ma la donna non se la sentì di placarlo. Fece strada fino alla fermata più
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vicina del Mars One Underground, uno dei pochi sistemi di trasporto presenti nella colonia.
Non fu necessario comprare un biglietto. Totalmente gratuito ed efficiente, viaggiava a gran
velocità, collegando perfettamente l’intera area. La loro destinazione era la stazione Carlo
Rovelli, un quartiere residenziale a pochi passi dal palazzo presidenziale. Occuparono tutti i
vagoni, impensierendo i rari residenti in viaggio. Molti preferirono scendere e aspettare il
successivo, altri li osservarono come se fossero degli invasori provenienti da altre galassie.
«Tutto questo mi mette decisamente in imbarazzo», disse Easton.
«Spero almeno che il letto sia comodo e ci facciano mangiare qualcosa di buono stasera»,
rispose Henry, prima di interessarsi a una bambina che, incuriosita, lo fissava, malgrado la
madre tentasse di dissuaderla: «Ciao, piccola. Come ti chiami?».
«Skye», sussurrò, «Da dove vieni? Non ti ho mai visto».
«Dalla Terra».
«Anche mamma viene da lì. Io non ci sono mai stata».

**

Tramite un processo di fertilizzazione, su Marte era possibile la produzione di cibo per una
dieta esclusivamente vegetariana. «Si chiama coltivazione idroponica. Il suolo qui possiede
tutti i nutrienti di cui necessitano le piante, ma non nelle giuste quantità. Abbiamo creato
degli speciali orti in cui tutto questo è possibile. Il risultato è quello che avete davanti. Vi
auguro buon appetito», disse la dott.ssa Hawkins agli ufficiali dell’Arcturus. Erano stati
invitati a cena nel miglior ristorante di Marsgrad, il Buzz. Alok Malhotra, un pluripremiato
chef del Rajasthan, esperto di cucina gujarati, servì dei piatti a base di lattuga, spinaci,
pomodori, peperoni, cavoli e cipollotti, che supplirono egregiamente alla mancanza di carne.
I giovani soldati non furono altrettanto fortunati. Si dovettero accontentare della mensa, non
certo a cinque stelle, dell’albergo che li ospitava.
«Dottoressa, potrebbe spiegarci cosa sta succedendo?», domandò il generale Pillon, stizzito
dall’apparente calma che aleggiava a tavola.
«Non credo di poter parlare di certe questioni».
«E allora contatti Brennon! Lo faccia venire subito qui! Questa traversata è costata milioni di
dollari e non credo che al Presidente Cooper faccia piacere sapere che era solo un falso
allarme, uno scherzo di cattivo gusto!».
«L’appuntamento è fissato per domani mattina, generale. Sarò io stessa a portarvi al suo
ufficio. Se desidera conoscere il motivo di questa assenza, le consiglio di chiedere
direttamente a lui. Io non sono stata informata. Oltretutto, come saprà, io lavoro nel reparto
scientifico della colonia e non in quello amministrativo».
«La dottoressa non ha colpe», intervenne il tenente Vaughn, «Ciò che ci conviene fare è
ragionare sull’approccio da avere. È possibile che Brennon abbia peccato d’enfasi nella sua
comunicazione, ma che il problema non sia poi così grave. Direi, se vogliamo capire perché
siamo arrivati fin qui, di non aggredirlo. Chiederemo chiarimenti e non torneremo a casa fino
a quando non avremo avuto delle risposte chiare».
«Meriterebbe di essere portato davanti al Congresso. Voglio proprio vedere se anche in quel
caso si rifugerebbe nel silenzio», sbuffò il generale, guardando Barrett che, a sua volta,
osservava il sergente Gilbert che, dalla spossatezza, quasi lasciava cadere la testa nel piatto.
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«Credo sia il caso di congedarci. Il viaggio è stato lungo e, per alcuni, lo è stato ancora di
più», consigliò Barrett, abbandonando la forchetta nell’ultimo boccone di Puran Poli.
«Lo credo anche io», disse la Hawkins, «Ho solo una richiesta. Gradirei, domani, prima di
accompagnarvi dal Presidente, incontrare il professor Ergon. È un autorità nel nostro settore.
Sono una sua grande estimatrice e sarei felice di fare la sua conoscenza. Pensate che sia
possibile?».

***

I laboratori di bordo dell’Arcturus erano il fiore all’occhiello della navicella. Un


immenso locale attrezzato che forniva condizioni controllate nelle quali era possibile eseguire
esperimenti scientifici, ricerche e misure sullo studio delle comunità aliene. Al suo interno si
svolgeva una serrata attività di analisi relativa alle biochimica, microbiologia, parassitologia,
virologia e immunologia extraterrestre. Il prof. Ergon, ex docente al Dipartimento di biologia
molecolare all’Università di Harvard, ne era a capo. Il suo trattato sulla leucemia mieloide
acuta e, soprattutto, sui principi di funzionamento del genoma delle antiche comunità
xeniane, gli avevano aperto le porte dello spazio. Instancabile, non scendeva dall’Arcturus da
nove anni. Aveva quasi abbandonato l’uso della parola. Gli stessi collaboratori avevano una
grande difficoltà nel comunicare con lui. L’unico linguaggio consentito in sua presenza erano
formule e teorie. Fu per questa ragione che molti giovani scienziati si licenziarono. Ergon era
sempre felice quando accadeva. ¨Invito il Presidente Cooper a scrutinare giovani scienziati
consapevoli che nei nostri laboratori non abbiamo tempo per i dubbi¨, scriveva ogni volta che
accadeva, mentre dentro di sé si concedeva una risata.

La dott.ssa Hawkins era perfettamente consapevole di cosa stava andando incontro


quella mattina. Ripetette, durante tutto il tragitto, il discorso che gli avrebbe fatto. Si sarebbe
presentata, avrebbe parlato del suo percorso accademico, della partenza per Marte, dei primi
fallimenti, delle scoperte e, infine, gli avrebbe consegnato un fascicolo in cui custodiva il
frutto delle sue ricerche. Poteva funzionare, non avrebbe avuto altre occasioni. Giunse alla
navicella con un’ora di anticipo rispetto all’appuntamento. I portelloni erano chiusi e non
sembrava esserci forma di vita all’interno: una fortezza abbandonata al vento marziano.
Provò a urlare di aprire, ma nessuno si palesò. Vi girò attorno alla ricerca di un varco per
circa cinquanta minuti, vanificando l’anticipo con cui si era presentata, poi l’accesso
principale si aprì. Un tecnico, nelle vesti di addetto alla sicurezza, la perquisì con un metal
detector, le diede un pass e la accompagnò fino alla porta dell’ufficio del prof. Ergon. Selena
tirò un sospiro per scacciare la tensione e chiese il permesso di entrare. La porta pressurizzata
si spalancò, per poi richiudersi velocemente, su uno studio spoglio e su un anziano ricurvo su
alcune analisi di una spettroscopia di risonanza magnetica nucleare.
«Professor Ergon, molto piacere. Io sono la…».
«Lo so, arrivi al sodo», rispose senza guardarla nemmeno.
«Certo, ho studiato con lei ad Harvard nel lontano…».
«Senta, se è alla ricerca di un posto di lavoro nel mio laboratorio, ha sbagliato momento. Le
chiedo di partecipare alle selezioni come tutti gli altri», disse, seccato, concedendole un
pietoso sguardo.
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«No, professore. Volevo rubarle un po’ del suo prezioso tempo per mostrarle una mia ricerca.
L’ho condotta in tutti questi anni e credo le possa interessare», singhiozzò, mostrando la
mano tremolante che stringeva il fascicolo.
«Dice bene, dottoressa Hawkins. Sta rubando il mio tempo».
«La prego, è importante», borbottò, in preda alla tensione.
«Questo non sta a lei deciderlo», rispose, irridente, poi, smarritosi in una lacrima che le
scendeva sul volto, aggiunse, «E va bene, mi faccia leggere».

Studio antropologico e dettato comunità extraterrestri


Dott.ssa Selena Hawkins

Invece di esistere nello spazio e/o nel tempo nel senso convenzionale del termine, può darsi
che il nostro pianeta esista in un iperspazio o per meglio dire in Exo-spazio, dove con Exo-
spazio si intende uno spazio quadri-pluridimensionale e con l'exo-tempo si intende un tempo
in cui determinate avvenimenti determinati processi si svolgono secondo modalità diverse
dall'attuale irreversibilità lineare e unidirezionale?
In questa sfera exo-storica o, se si vuole, in questa exo-sfera storica, tutti gli esseri
soprannaturali e tutti gli avvenimenti prodigiosi conosciuti attraverso la religione o folklore si
potrebbero interpretare come interferenze proveniente dalla sfera di una Terra più grande e
reale in quella di una Terra più piccola che ci influenza. Poiché questo sistema di concepire la
fenomenologia è quasi del tutto sconosciuto nel senso comune e alle scienze sociali, può
rivelarsi utile un'altra similitudine per chiarire il concetto. Proviamo a immaginarci con una
serie di individui che percorrono una strada, che si potrebbe definire in modo abbastanza
attendibile "il sentiero dell'umanità". Tutti ci muoviamo esattamente con lo stesso ritmo, il
che spiega perché quelli che avevano 10 anni più di noi quando eravamo ragazzi continuano
ad essere più vecchi di 10 anni quando raggiungiamo l'età adulta. Tutti abbiamo dei
paraocchi, che ci impediscono di vedere qualcosa di diverso dalla strada o un tempo diverso
da quello che ritma il nostro viaggio o uno spazio che non ci compete. E, fatto ancor più
importante e interessante, tutti camminiamo all'indietro, con una visione abbastanza nitida
della strada percorsa ma assolutamente incapaci di vedere la strada da percorrere, il che
spiega la ragione in cui possiamo ricordare il passato ma non il futuro. Sotto questo punto di
vista, l'antropologia extraterrestre assume non solo il significato di antropologia
interplanetaria, ma anche di studio antropologico del nostro pianeta che, con l'aggiunta di
dimensioni spaziali e temporali supplementari, si potrebbe definire antropologia
interplanetaria. Nell'ambito di questo tipo di antropologia, le materie portanti non sarebbero
più l'astronomia e l'astronautica, per quanto concerne il suo aspetto storico, la mitologia e il
folklore per quanto concerne il suo il sospetto sincronistico, ma un nuovo settore di ricerca
che mi piace chiamare anomalistica che comporterebbe lo studio sistematico delle anomalie.
Un'altra disciplina ausiliare che, secondo un'ottica strettamente psicologica, ha molti punti di
contatto con la mitologia è l'onirologia, lo studio dei sogni. L'onirologia, che nell'antichità era
molto legata e vincolata entro i confini della predizione oracolare o della profezia, nel 19º
secolo assunse la funzione secondaria e servile nei confronti della psicoanalisi e, dopo la
conclusione della seconda guerra mondiale, rientra nel campo della neurofisiologia. Per gli
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 24

antropologi culturali, uno degli aspetti più interessanti del sogno in una qualsiasi cultura è che
la vita onirica di un individuo ha più probabilità di differenziarsi durante la veglia che nella
vita cosciente di altre culture note, prescindendo dal livello di esoticità/estraneità.
Per l'antropologia biologica, d'altra parte, il fatto più notevole riguardo i sogni è che non sono
un'esclusiva dell'uomo. Inoltre, il fatto che stupisce maggiormente in relazione agli uccelli e
mammiferi rispetto agli altri animali e che sembrerebbero essere gli organismi più adattabili
tra tutti gli organismi complessi e i più indicati per adeguarsi nel modo più opportuno
condizioni di rapido mutamento. Se ne può dedurre che il sogno è uno strumento di
preadattamento che permette ai vertebrati più evoluti di accoppiarsi anche dalle condizioni
meno favorevoli e meno note. Tutte le arti e le scienze dell'uomo si possono considerare
elaborazioni del comportamento onirico di base dei mammiferi. Tutte queste elaborazioni
stimolano l'immaginazione dell'uomo e gli permettono di controllare un ventaglio di
esperienze sempre più esteso. Nell'ambito dell'elaborazione oniriche rientra quella forma di
espressione letteraria che chiamiamo narrativa. Tra tutti i generi di narrativa, quello che più
stimola i futurologi, soprattutto se interessati a problemi culturali extraterrestri, è la
fantascienza. Uno dei dati messi in luce dei futurologi e che, soprattutto nelle opere popolari,
gli scrittori tendono a convergere con una progressione veramente impressionante. In questa
considerazione si sottintende che gli scritti più ricchi d'immaginazione dei nostri pensatori
più acuti e perspicaci sono quelli che hanno le maggiori probabilità di aiutarci, addestrandoci
a vivere in un futuro ancora ignoto. Nell'universo exo-dimensionale che riusciamo solo
intuire nell'universo dimensionale noto possiamo dire questo: prima della fine di questo
secolo l'uomo dovrebbe, al mio modo di vedere, riuscire a insediarsi su corpi celesti diversi
dalla Terra. Marte è stato solo il primo passo. Ecco un possibile ordine di stanziamento
dell'uomo su tali corpi:

Marte;
La fascia crepuscolare di Mercurio;
Uno degli asteroidi più grandi, Cerere;
Uno dei satelliti Galliani di Giove, Ganimede;
Titano, il maggiore satellite di Saturno, ed Encelado;
Urano;
Tritone, il maggior satellite di Nettuno.

Oltre alla curiosità intellettuale o alla speranza di proficue speculazioni minerarie, un’altra
valida ragione per dare il via a una nuova fase di colonizzazione potrebbe essere l'innato
impulso di autoconservazione. Infatti se la Terra dovesse essere colpita da un corpo celeste di
notevoli dimensioni, l'umanità, in mancanza di sbocchi coloniali extraterrestri, verrebbe
distrutta in modo irrimediabile dalla catastrofe. Al contrario, nelle comunità insediate su
Marte o su una luna di Giove, non solo si potrebbe dare un seguito alla storia dell'uomo, ma
l'evoluzione umana potrebbe continuare anche dopo la scomparsa e la distruzione del pianeta
che ha dato origine alla specie.
Accanto a queste comunità stazionarie o permanenti, che non si allontanerebbero dalle orbite
fisse dei corpi celesti a cui sono tenacemente attaccate, si potrebbero sviluppare, delle
comunità migratorie di dimensioni notevolmente più consistenti di quelle che potrebbero
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 25

avere le astronavi costruite dall'uomo, occupando alcuni asteroidi più piccoli, scavando cavità
nel cui interno si potrebbero impiantare una o più città modello. Se poi riuscissimo a
equipaggiare e attrezzare gli habitat così opportunatamente trasformati con sistemi di
propulsione, si unirebbero i vantaggi dello spazio abitabile di un planetoide alla
manovrabilità di un veicolo spaziale in modo da permettere agli astratto astro-abitanti,
almeno entro i confini del sistema solare, di scegliere l'ambiente celeste più adatto e di
cambiarlo secondo la propria volontà.

Anomalistica: lineamenti di una nuova era di ricerca.

L'anomalistica si può definire lo studio serio e sistematico di fenomeni di tutti i generi che
non si possono inquadrare entro i limiti della realtà costruita dal buonsenso e delle scienze
dominanti. Per l'anomalista, le ricerche condotte dalle istituzioni accademiche, industriali e
governative, pur essendo indispensabili e fondamentali, sono sempre secondarie rispetto alle
scoperte, lo sforzo iniziale che porta a scoprire nuovi dati o elaborare ipotesi di ricerca.
Questo desiderio di scoperte anomale è il prodotto dell'immaginazione scettica e viene
guidato dallo scetticismo più immaginoso.
Anche l'anomalistica, come qualsiasi altra impresa rischiosa e controversa, ha i suoi martiri.
Due casi emblematici sono quelli di Wilhem Reich, il medico austro-americano che morì in
una prigione federale dopo che i suoi libri furono bruciati ed Immanuel Velikovski, lo
psicanalista russo-americano i cui studi sulle catastrofi planetarie della preistoria lo
emarginarono per venticinque anni dalla vita culturale.
Nella misura in cui si può considerare l'anomalistica una disciplina, si può affermare che
contenga un certo numero di sotto discipline: ad esempio, la parapsicologia, lo studio delle
cosiddette percezioni extrasensoriali e dei fenomeni collaterali; la noetica o studio della
coscienza e l'esobiologia o studio delle forme viventi che dovrebbero esistere su altri pianeti.
A queste vorrei aggiungere la cronontologia, o studio anomalo della natura del tempo, in
opposizione alla cronologia, o successione sistematica di una serie di avvenimenti, e la
cronometrica, che studia i metodi e gli strumenti per il cronometraggio inteso come
misurazione del tempo anomalo.
Forse la differenza più notevole tra gli anomalisti e chi pratica le discipline ufficiali è questa:
gli anomalisti mettono sempre in discussione il modello, uniformemente progressivo,
dell'evoluzione umana proposto dalla maggior parte degli uomini di cultura. Gli anomalisti
richiamano l'attenzione su fatti indubbiamente sconcertanti come l'accurata descrizione delle
lune di Marte effettuate da alcuni scrittori del primo settecento, centocinquanta anni prima
che si costruissero telescopi abbastanza potenti per individuarle. Inoltre registrano eventuali
anacronismi tecnologici, come potrebbero essere le rappresentazioni o i resti di generatori
elettrici, computer, piste di lancio per razzi nell'antico Egitto, in Grecia, a Roma e in
Colombia. In termini più generali, si può dire che gli anomalisti considerano con la massima
serietà concezioni, dicerie più o meno attendibili e pratiche che la scienza quasi sempre
trascura, ritenendole pura superstizione.
Tra i fenomeni più appariscenti studiati dagli anomalisti si possono ricordare gli animali
estinti o immaginari, come gli uomini-scimmia o i serpenti di mare, le luci misteriose in cielo,
fenomeno antichissimo che già i Romani avevano indicato col nome di "scudi volanti". Ma le
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anomalie forse più esasperate sono alcuni oggetti trovati incastrati in rocce che i geologi di
indubbia competenza hanno riconosciuto vecchi di milioni di anni: si tratta di catene di ferro
o di rame vivo. In questa sfida dichiarata alla cultura tradizionale gli unici oggetti che si
contrappongono alle anomalie appena citate sono quelli caduti da un cielo perfettamente
sereno, come piccole meduse o molluschi, giganteschi blocchi di ghiaccio.
Un sistema più regolare per classificare l'anomalia può essere quello di farle rientrare
nell'ambito delle discipline accademiche più specificatamente competenti. Ecco alcuni
esempi:

Astronomia: Quasars e Pulsars;


Geologia: tectiti;
Oceanografia: il cosiddetto triangolo delle Bermude sulla Terra;
Cartografia: la mappa di Piri Reis;
Archeologia: strutture megalitiche;
Antropologia: la non presenza di fossili negroidi nel paleolitico;
Fisiologia: la capacità di camminare nel fuoco da parte di individui appositamente addestrati
nelle regioni non occidentali;
Etnologia: la presenza di tutte le mitologie di racconti che descrivono esplosioni e notazioni
diluviali in tutto il mondo;
Psicologia: criptestesia.

Conclusioni

Il contatto diretto quindi non è un problema statico monodirezionale. Può realizzarsi sulla
Terra, nello spazio su un altro pianeta. Gli aspetti più programmatici dell'antropologia quindi
si possono applicare a entità che assomigliano ai primati e vivere in ambienti terrestroidi. Ma,
in una dimensione più ampia, non sarebbe più l'antropologia che conosciamo. Tutti gli aspetti
delle scienze sociali reciterebbero un ruolo di primo piano nell'eventualità di un contatto tra
uomini ed extraterrestri. Nessun ramo del sapere ha la possibilità di studiare un'intera civiltà;
l'astronomia, la biologia, lo studio della Terra sono importanti, ma anche altre scienze
influenzano e non poco l'evoluzione della vita e delle civiltà. Si dovrebbe arrivare a una
sintesi delle cosiddette scienze sociali e delle scienze fisiche che formerebbero una scienza
nuova: la xenologia.

Il prof. Ergon, calcificato in un’espressione inquieta, ripose lentamente il fascicolo sulla


scrivania e guardò la dottoressa Hawkins. Restarono in silenzio per eterni minuti. Assorbì
mentalmente ciò che aveva letto e, deglutito il boccone, disse: «È assunta».

****

Il palazzo presidenziale, edificato su progetto dell’architetto olandese Vincent van


Laurensz, era una costruzione degna di un mattoide. Trenta volte più grande dell’intero
complesso della Casa Bianca, era circondata da duecento ettari di giardini moghul, ampi
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spazi aperti, alloggi del personale, scuderie, uffici secondari e altri edifici compresi nelle
mura perimetrali. Al suo interno, in cinquecento stanze, ospitava appartamenti presidenziali,
saloni, camere degli ospiti e uffici. L’architettura ricordava molto quella del Rashtrapati
Bhavan di Nuova Delhi, con un gusto leggermente più occidentale. Sui bordi del tetto, vi
erano molti padiglioni a forma di cupola, su cui erano state installate le bandiere di tutti i
paesi che avevano partecipato alla sua costruzione. Sulla cupola centrale, invece, vi era la
bandiera della colonia marziana: un cerchio su sfondo bianco in cui erano raffigurate la Terra
e Marte fuse insieme in due perfette metà.
L’ammiraglio Barrett, il generale Pillon e il tenente Vaughn, all’ombra del colonnato,
attendevano l’arrivo della dott.ssa Hawkins che, al rintoccare delle nove, si palesò, celata da
una maschera di preoccupazione che svestì non appena incontrò gli ufficiali. Fece strada
attraverso lunghi corridoi tappezzati di arazzi e dipinti, salirono quattro marmoree rampe di
scale e accedettero all’ultimo piano. Se non fosse stato per le guardie presidenziali, si sarebbe
potuto sospettare che l’edificio fosse disabitato. Il problema a cui rivolgere la propria
attenzione, però, in quel momento, era dietro la porta a cui la dottoressa bussò senza ricevere
una risposta. Lo fece nuovamente. Silenzio. A uno sguardo di perplessità seguì subito, quasi
in contemporanea, uno di risoluta determinazione e, incuranti del mancato permesso,
entrarono. L’ufficio era vuoto, le finestre aperte, tutto era in ordine. Il generale Pillon
controllò l’ora e si lasciò andare in un sospiro di impazienza che non ebbe il tempo di
completare per via dell’ingresso del Presidente Brennon. «Ben arrivati, vedo che nessuno vi
ha avvisati del mio ritardo. Beh, meglio così. Eviteremo i convenevoli. Sedetevi pure», disse,
sorridendo.
«Presidente, siamo partiti il prima possibile. L’ammiraglio Barrett ha spinto i motori
dell’Arcturus oltre i suoi limiti per risparmiare qualche giorno di viaggio. Ora siamo qui.
Abbiamo necessità di capire cosa stia succedendo», disse, visibilmente infastidito, il generale.
«Cosa volete che vi dica? Avete visionato il filmato, avete letto il mio comunicato, no?»,
rispose, versandosi un bicchiere d’acqua.
«Vogliamo sapere, prima di tutto, il motivo del ritardo delle trasmissioni, poi necessitiamo di
sapere chi siano questi visitatori e cosa vogliono dalla nostra gente», disse, con un tono più
pacato, l’ammiraglio.
«I disagi su questa colonia si sono accumulati negli ultimi mesi. Il sistema di comunicazione
si è danneggiato e non ha permesso l’invio del materiale sul pianeta Terra. I nostri tecnici
hanno lavorato giorno e notte, ma il problema è stato risolto solo due settimane dopo l’attacco
dei pirati», rispose, serafico.
«Pirati?», domandò il tenente Vaughn.
«È così che li chiamiamo qui. Non sappiamo molto sul loro conto, ma posso dirle che sono
diventate presenze abituali. Abbiamo tentato di arginarli, di trattare con loro, ma non è stato
possibile».
«La sua serenità mi stupisce, ma immagino che questa calma le sia d’aiuto per evitare che la
popolazione si abbandoni al panico», disse, il generale.
«Ha centrato il punto. La popolazione è spaventata da queste presenze, ma si fida delle mie
parole più che di ciò che vede. Sanno che tutto si risolverà e, ora che siete qui, ne sono certo
anche io». Calò una tetra quiete, che si interruppe solo quando il presidente, riposta una
pesante cartella sulla scrivania, riprese la parola: «Avete il mio permesso ad accedere ai
laboratori di ricerca e a tutti gli archivi presenti su Marsgrad. Inoltre, se vi può essere d’aiuto,
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vi lascio questo faldone. Al suo interno troverete tutte le informazioni relative ai coloni. Mi
fido di voi».
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Capitolo Quattro

«Sergente Gilbert, mi riceve?».


«Forte e chiaro, ammiraglio».
«Stiamo monitorando i vostri spostamenti dalla torre di controllo. La prego, una volta giunti a
destinazione, di attivare la hidden-camera per avere un rapporto più chiaro della situazione».
«Ricevuto, la aziono subito».

La zona industriale di Marsgrad offriva uno spettacolo spettrale. Un edificio di mattoni rossi,
che architettonicamente esasperava il concetto di pura visibilità di Konrad Fiedler, su cui si
stagliava, fiero, lo stemma dell’azienda di estrazione mineraria BHP Billiton, sbocciava dalla
sabbia come un campanile di una chiesa devota al denaro. Era l’unica struttura visibile, il
resto era sottoterra. Una miniera di deriva, attiva da anni e non ancora terminata, che
accoglieva centinaia di operai impegnati nell’estrazione di modeste quantità di goethite,
com’era possibile notare dai materiali che salivano in superficie tramite i nastri convogliatori.
“Se siamo giunti fin qui, lo dobbiamo tutto a un po’ di idrossido di ferro e manganese. Sui
monti Appalachi ce ne è di più e di qualità superiore”, pensò il sergente Gilbert a cui, quella
mattina, fu ordinato di condurre la missione di osservazione insieme a una ventina di soldati e
al giovane tenente Van Bolen. Atteggiandosi a veterano, tentava di sommergere tutte le
insicurezze di quella che, in realtà, era la sua prima missione spaziale. Figlio di un noto
ufficiale, era conosciuto come “il figlioccio di Pillon”, per via della sua attitudine al comando
e l’adulatore affiatamento con il generale e le sue scelte gestionali.

Armati e con lo sguardo molto più vigile rispetto ai giorni precedenti, prima di salutare il
cielo marziano, attesero dinanzi a una porta automatica, l’arrivo dell’ingegnere capo Alonso.
Ne approfittarono per visionare il sito e tentare di risucchiare i motivi dell’apprensione di
alcuni minatori in pausa che, vedendoli, confabularono tra loro qualcosa che, a giudicare
dalle loro espressioni, doveva risuonare come una speranza. Henry, avvicinandosi a uno di
loro, domandò come fosse calarsi nelle profondità di un pianeta. «Non ci si abitua mai»,
rispose un attimo prima del suono della sirena che gli impose di tornare alle sue mansioni.
Con dolorosa debolezza, indossò la maschera protettiva e l’elmetto di sicurezza, e si avviò
all’ascensore che l’avrebbe ricongiunto con il suo dovere. Henry lo guardò entrare e, mentre
scompariva, ascoltò una richiesta, pronunciata a mezza bocca, che gli fece gelare il sangue:
«Aiutaci».

A bordo di un Gravity Dumper 795F AC a telaio rigido, il capo ingegnere Alonso fece il suo
ingresso sul sito. Alto come un fantino e corpulento come un cavallo, innescò subito un forte
senso di ilarità nei soldati, in particolare in Prince che, fino a quel momento, aveva tentato di
lanciare languide occhiatine alla soldatessa Shirov che, però, si difendeva egregiamente
dall’invasione della sua zona intima. «Se non sbaglio, anche i sette nani erano minatori»,
disse, sperando di scardinare una risata dal suo viso. Non ci riuscì. Ottenne in cambio un
commiserevole sbuffo e il suo allontanamento. «Biancaneve, dove vai?», le domandò in un
ultimo disperato tentativo di agguantare la sua attenzione. Raccolse solo quella di Henry che,
con un tono molto serio, disse: «Questa faccenda non mi convince».
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«Lei fa la difficile, ma sono sicuro che, sotto sotto, abbia un cuore», rispose Prince,
travisando il motivo della preoccupazione dell’amico.
«Ma di che stai parlando? Senti, tieni gli occhi aperti laggiù!», concluse e si avvicinò
all’ingresso della miniera dove venivano distribuite delle Elipse Integra con un’ampia valvola
di non ritorno centrale, munite di filtri per la protezione contro gas e vapori organici. Alonso
si assicurò che tutti ne avessero una e che l’avessero allacciata correttamente, si fece un
timido segno della croce e li invitò a seguirlo. Superarono una garitta di vedetta custodita da
un paio di sentinelle armate che, al passaggio dell’ingegnere, diedero il loro lasciapassare
muovendo il capo. Un tecnico, bardato da una giacca di panno nero chiusa sul davanti da otto
bottoni che riportavano il logo dell’azienda, prenotò l’ascensore. Non impiegò molto per
arrivare, giusto il tempo di una scorsa al deprimente paesaggio circostante. Compattandosi,
riuscirono a entrare tutti nella cabina dalla capienza di venticinque persone e dalla portata
massima di duemila chili che, ironicamente, proponeva una selezione di musica easy listening
della Muzak. «Spero che nessuno di voi abbia paura del buio», disse Alonso, rompendo un
silenzio che condensava una carrellata di pensieri indecifrabili. La battuta non riscosse un
grosso successo. Prince canticchiava il motivetto che veniva trasmesso dall’impianto, Henry
ne approfittò per studiare il compagno che gli stava accanto. L’aveva intravisto sull’Arcturus,
ma non gli era rimasto particolarmente impresso. Un volto anonimo, da bravo ragazzo di Des
Moines o qualcosa di simile, un fisico da lanciatore e un’espressione perennemente
impaurita. Non era certo quel tipo di soldato a cui avrebbe affidato il culo. La targhetta cucita
sulla sua divisa riportava il nome “Edward J. Kellerman”. Respirava a fatica, guardava in alto
e deglutiva in continuazione. «Ehi, Eddy!», sussurrò Henry mentre lo urtava leggermente con
il gomito, «Mi sembri un tipo in gamba. Fammi un piacere, stammi vicino». Kellerman,
rincuoratosi di non essere l’unico ad avere paura, annuì, rimorchiò un sospiro dalle narici e
distese la tensione serrando le palpebre fino all’apertura delle porte. Lo scenario che si parò
davanti alla truppa riuscì a cancellare il sorrisetto stampato sul viso di Prince e ammutolì il
suo canticchiare. Come condannati, i minatori, aiutandosi con datate lampade ad acetilene,
vagavano nella lunga galleria. Rumore di picconate e bestemmie echeggiavano senza sosta.
Alonso, seguito dal sergente Gilbert, raccomandò di fare attenzione e di non allontanarsi
senza il proprio permesso. Accese la luce sull’elmetto e, improvvisandosi guida turistica, si
fece largo in quell’inferno di polvere e fatica.
«Per anni, la BHP Billiton e il presidente Brennon garantirono che la fase di prospezione
della miniera fosse stata condotta regolarmente. Localizzarono questo giacimento, eseguendo
con dei robot delle misurazioni sulla superficie del suolo e del sottosuolo. Io fui contattato
solo successivamente. I dati mi sembravano ottimi. Determinammo le caratteristiche, le
dimensioni e le proprietà dei minerali contenuti comodamente dai nostri laboratori sulla
Terra. Scegliemmo il metodo di coltivazione e demmo, a distanza, il via ai lavori. Sarei
voluto essere presente, ma viaggiare su questo pianeta non è come volare con l’Airtran
Airways. Monitorai la sistemazione delle vie d’accesso: il pozzo principale di estrazione, le
gallerie di carriaggio, di direzione, di servizio e di ventilazione. Tutto procedeva secondo i
piani, nessun intoppo. Organizzammo i cantieri, le installazioni per l’energia elettrica e per la
distribuzione dell’aria compressa. Ero molto soddisfatto, e anche la BHP lo era. Qualcosa
però cambiò. Brennon, azionista di maggioranza, divenne impaziente. Diceva che, per dare
lustro alla colonia, era necessario che avesse una sua economia. In altre parole, si doveva
iniziare a guadagnare da questo investimento», Alonso prese fiato, si grattò un’escoriazione
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 31

che aveva sul dorso della mano e continuò, «Malgrado la miniera non fosse stata ancora
completata, gli operai iniziarono a lavorarci. Partii anche io e la vidi. Non era come mi era
stata descritta. I rischi di crollo erano alti e non fu una sorpresa quando accadde. Nulla di
grave: i primi minatori erano detenuti a cui era stata data la possibilità di ridurre la propria
condanna, lavorando qui per qualche anno. Non li pianse nessuno, purtroppo. Da quello che
so, la notizia non arrivò nemmeno alle testate giornalistiche. Ancora oggi ce ne arrivano di
reietti, sono i migliori. Vi sembrerà strano, ma sono queste persone a fare in modo che il
progetto Marsgrad non sia un completo fallimento. A distanza di vent’anni, i fondi dei
conquistatori, cari amici, sono terminati. Probabilmente si aspettavano di più da questo
giacimento. Scaviamo senza sosta, ma non possiamo pretendere più di quello che abbiamo
già estorto a questa terra. Siamo costretti a lavorare apparentemente senza un motivo valido
tra problemi di ogni tipo. Il grisù che si produce durante l’estrazione non viene più espulso
regolarmente dal condotto di areazione, l’impianto di illuminazione fa i capricci e,
soprattutto, sono presenti molte aree non protette. Soltanto nell’ultimo anno, abbiamo perso
trentadue elementi e, come potete immaginare, sul nostro pianeta non c’è certo la fila per
venire a lavorare quassù». Sostarono dinanzi a un camino a tiraggio forzato. In molti
sperarono che la scampagnata fosse finita, che si potesse tornare in superficie, ma il sergente
ancora no: «Sa dirmi quali sono state le cause delle morti dei suoi uomini?».
«Beh, come sto cercando di spiegare, questo non è un posto sicuro e, nell’ultimo periodo, la
situazione si è aggravata», disse, cercando di reggere un tono che non lasciasse trasparire la
paura che i suoi occhi raccontavano senza vergogna, «Vi mostro una cosa».

In un angusto cunicolo di cui non era possibile vedere la fine, buona parte di una parete era
occupata da un’iscrizione con caratteri cuneiformi. «Questo è solo uno dei reperti xeniani che
sono stati ritrovati. La dottoressa Hawkins ha elaborato delle teorie in merito alla traduzione
di questi scritti. Non possiamo essere certi del loro significato, ma possiamo esserlo del fatto
che gli ultimi arrivati, su questo pianeta, siamo noi». Van Bolen, contrariato dalla prolissità
del discorso dell’ingegnere, chiese alla truppa di rimboccarsi le maniche e scortare dei tecnici
e lo stesso Alonso, per comprendere l’entità del problema, nelle cabine elettriche e nei
condotti di ventilazione. Lui, dal canto suo, sarebbe rimasto in collegamento audio per
eventuali ordini d’emergenza. Kellerman si guardò attorno, tentando di capire dove fosse
collocata la sala che avrebbero dovuto visionare, ma non vide altro che roccia. Alzò dunque
timidamente la mano e, ottenuto il permesso di parlare, domandò dove si sarebbero dovuti
avventurare. «Nei bassifondi», rispose Alonso, «Il nucleo energetico è collocato a cinque
chilometri di profondità». Comprese, in quel momento, il motivo delle tante imprecazioni
pronunciate dai minatori e, facendo attenzione a non farsi sentire dai superiori, ne scaricò una
che fu fortemente condivisa dai suoi compagni e risuonò nelle loro teste mentre, chiusi
nell’ascensore, atterravano lì dove pochi avevano il coraggio di spingersi. Le tempie, per via
della pressione, gli scoppiavano, le orecchie si tapparono e la vista si annebbiò, sudavano
copiosamente. Nessuno parlò, nessuno ne ebbe la forza neanche quando gli sportelli si
aprirono su un muro di oscurità che, facendosi carico delle proprie responsabilità,
attraversarono. I pochi minatori che lavoravano a quelle profondità erano gufi della Virginia,
robusti e con mani grandi, di un colorito nascosto sotto strati di fuliggine scura e con occhi
gialli adatti alla visione notturna. Anche il loro bisbigliare si avvicinava molto al bubolare dei
grandi rapaci. Vedendo giungere la milizia, interruppero il lavoro per non fare accrescere la
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 32

nube di polvere che già si stendeva come una nebbia immobile. Henry, scuotendo
leggermente il capo, li onorò di un saluto che fu ricambiato da sputi e colpi di tosse. Il
trapestio dei passi dei soldati si fece parola che tutti ascoltarono. Blocchi di parete, corrosa
dalle picconate, si sgretolava al loro passaggio e una strana vibrazione faceva tremare le
balaustre di sicurezza. «Cos’è?», domandò Ronda tra sé e sé.
«Immagino siano i carrelli dei piani superiori», rispose Henry, avvertendo la preoccupazione
dei lavoratori che, pian piano, si radunarono tutti nei pressi dell’ascensore.
«A me sembra che provenga dalle pareti. Sembrano delle scosse di terremoto», disse il
sergente Gilbert.
«Inizio a rimpiangere il Congo», aggiunse Prince, ma in pochi compresero a cosa si stesse
riferendo.

Fiaccole nel buio, come il cielo stellato di una notte particolarmente tetra che, più che
rincuorare l’animo, lo incupiscono, segnalavano l’ingresso dell’angusta sala reattori. Prince
girava in tondo dietro Ronda. Non era chiaro se cercasse da lei una sorta di protezione o se
tentasse di farsi notare. La seconda opzione risultava, però, essere difficoltosa, considerando
che la soldatessa sembrava avere attivato i propri sensi felini. Visionava i generatori e
contemporaneamente lanciava occhiate alle pareti tremolanti, quasi come se li stesse
perforando con una vista a raggi X.
«Non sembra anche a lei un sabotaggio?», domandò un tecnico ad Alonso, aprendo lo
sportello in cui era custodito il contatore elettrico, «Si era parlato di cortocircuito, ma qui
sembra che sia stato indotto». Dei cavi che fuoriuscivano dal vano erano stati infatti
brutalmente strappati, altri erano stati tagliati di netto forse con un coltello. «Ammiraglio
Barrett, mi riceve? Sono entrato in modalità video infrarossa. Le mostro ciò che abbiamo
rilevato. La centralina è fuori uso. Purtroppo, più che constatare l’entità del danno non
possiamo fare. Siamo costretti a ritirarci e disporre una equipe preparata a questo tipo di
interventi. Noi, in questo momento, non disponiamo di un’attrezzatura adeguata per poter
risolvere questo problema», disse, senza ricevere comandi, se non incomprensibili mugugni.
Tutto ciò che era possibile ascoltare era un raggelante disturbo elettrico e la voce
dell’ammiraglio che tentava un collegamento: «Usc… imm…». «Ripetere, passo», disse il
tecnico, preoccupato. «Usc… imm…», continuava a ripetere con un tono burrascoso. «Non la
riceviamo bene, ammiraglio!», disse il sergente, utilizzando il microfono integrato nel casco.
Seguì una pausa di silenzio, squarciata dalla voce nitida di Barrett che, disperato, urlò:
«Uscite immediatamente!». Un’improvvisa scossa tellurica si propagò con una potenza
inaudita nella miniera. «Eccoli…», bisbigliò l’ingegnere, sgranando gli occhi. Alcune pareti
crollarono, alzando un polverone che avrebbe impedito a chiunque di vedere oltre il proprio
naso. Ciondolando in direzione dell’ascensore, unica via di fuga, il frastuono della
distruzione si mescolò alla disperazione dei presenti. Henry si copriva la testa, Prince sciorinò
una lunga lista di parolacce, il sergente Gilbert strillava comandi che nessuno, compreso lei,
ascoltò. Raggiunsero, pestandosi gli stivali a vicenda, quasi la metà della galleria quando, di
colpo, tutto si placò. Il respiro affannato dei soldati rimbalzava sui muri franati e tornava
indietro come un boomerang per via della riflessione del suono che sembrava prendersi gioco
di loro. Era come camminare nei propri sogni, in una Mad House da festa del quattro luglio.
Ognuno era rivolto, per via dell’oscurità, verso un punto differente. Ogni qualvolta che si
urtavano sobbalzavano in preda al timore che qualcosa potesse spuntare per colpirli a
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tradimento. «State tutti bene?», domandò il sergente. Nessuno rispose, o meglio nessuno ebbe
il coraggio di mentire. «Lo prendo come un sì. Procediamo lentamente, chi può accenda la
luce sull’elmetto per indicarci la via», disse un attimo prima che un liquido viscoso le colasse
sulla maschera protettiva e spegnesse quella tranquillità in bilico su un filo di una menzogna,
«Che diavolo è?». Ronda attivò l’head-light e illuminò una porzione di soffitto da cui
scendeva un muco rossastro molto denso: «È rivoltante», si lasciò scappare, ma non ebbe il
tempo di perdersi nella sua analisi che un grugnito, simile a quello di un cinghiale ferito, si
levò, perforandole i timpani. Si percepì un velocissimo spostamento d’aria, una violenta
folata di vento che attraversò la compagine orizzontalmente e si scontrò con tutta la sua
potenza su Kellerman. Venne naturale rivolgere lo sguardo al ragazzo che, contratto in
un’espressione all’apparenza quasi divertita, emetteva piccoli vagiti di dolore paragonabili a
quelli provocati da un pugno allo stomaco. Rivoli di sangue gli uscivano dalla bocca e dal
naso per versarsi su tutto il corpo. Seguendone il tragitto, fu individuata la causa della sua
sofferenza: una lunga striscia di carne squamata, dotata di un affilato pungiglione, gli aveva
trafitto l’addome. «Facciamo tesoro delle nostre libertà e manterremo i nostri diritti1», furono
le parole che pronunciò mentre la mostruosa appendice, serpeggiando, si ritirò, lasciandolo
cadere senza vita. «Fuoco!», ordinò il sergente, dando il via a uno spettacolo pirotecnico di
colpi alla cieca che non raggiunsero alcun bersaglio. Henry, troppo vicino ai propri
compagni, non sparò per evitare di ferire qualcuno. Vegliava su Kellerman con una
sussultante pietà che gli costò un rimprovero di Prince: «Vuoi fare la sua stessa fine?». Dal
tunnel, rischiarato dalle detonazioni, non proveniva nessun fremito, nessun movimento.
L’appendice che aveva forato l’esistenza di Edward si era ritirata a gran velocità per svanire
chissà dove. Il sergente Gilbert ordinò il cessate il fuoco.
«Tenente Van Bolen, mi riceve? Siamo sotto attacco!».
«La ricevo. La scossa ha momentaneamente messo fuori uso l’ascensore. Siete bloccati. Qui
si sta lavorando per rimetterlo in funzione. Ci vorrà qualche minuto», rispose il tenente.
«Signore, stiamo giocando a mosca cieca con delle entità aliene. Chiedo un parere su come
muovere e distribuire gli uomini in queste gallerie».
«Pregate, più di questo non posso consigliare».
La comunicazione si interruppe. L’angoscia e l’incertezza di un evento inaspettato ancora no:
giocarono un no limit Texas hold ’em per la salvaguardia della loro vita. Ognuno, dentro di
sé, cercò un appiglio, una fune che li conducesse fuori da quell’inferno, via da Marsgrad e li
riportasse tra i propri scorci, le proprie città, le proprie famiglie. Qualsiasi difficoltà vissuta
sulla Terra gli appariva ora come un amichevole fantasma con il quale avrebbero volentieri
colloquiato pur di non trascorrere lì dentro neanche un minuto di più. Il terreno scricchiolava,
quel fluido continuava a versarsi su di loro come la bava di una gigantesca lumaca, nuvole di
pulviscolo si muovevano creando l’illusione che qualcosa si stesse avvicinando. Invece nulla
si mosse. A protezione dei pochi minatori rimasti e delle porte dell’ascensore, furono disposti
una decina di soldati con i MP5K spianati. I restanti si collocarono all’ingresso dei due tunnel
laterali. In questo modo, chiunque avesse voluto attaccarli avrebbe avuto difficoltà a coglierli
di sorpresa. Fu richiesto il massimo silenzio. Henry, che non aveva sparato ancora un colpo,
posto a difesa degli operai, guardava il cadavere di Kellerman, abbandonato su un mucchio di
pietre con gli occhi ancora aperti. Tornò, senza rendersene conto, indietro negli anni:

1
Our liberties we prize, and our rights we will maintain, motto dello Stato dell’Iowa.
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¨Nonna Genette amava terrorizzarmi. Credo non lo facesse apposta. Era malata. Passava tutto
il giorno su una sedia a guardare la porta. Per me era un incubo quando mi lasciavano da lei.
Capitava spesso, a volte anche per settimane intere. In casa non c’erano giocattoli o
distrazioni di alcun genere. Ero piccolo. Mi chiudevo in me stesso e speravo che il tempo
volasse via insieme ai brutti pensieri che il suo continuo respiro lamentoso mi insinuavano
nella mente. Parlava poco. Forse non si rendeva nemmeno conto della mia presenza. Un
giorno, senza un preavviso, si voltò verso di me e mi disse che se uno muore con gli occhi
aperti, qualcun altro della sua famiglia morirà di lì a poco. Non capì cosa volesse dirmi.
Sentii soltanto un fremito che mi si arrampicò lungo la colonna vertebrale e una grande
voglia di scappare da quella stanza. Restai fermo, sperando che non aprisse più bocca. Il
desiderio si avverò. Qualche giorno dopo le organizzammo un funerale. Niente di vistoso. Per
me fu una liberazione. Quando la riposero nella bara, mia madre mi prese in braccio per darle
un ultimo bacio. Aveva gli occhi spalancati. Li ricordo ancora. Mi fissava come fissava
quella porta. Io chiusi i miei e le sfiorai la fronte con le labbra. C’era anche Ronnie, mio
fratello. Aveva sedici anni e si drogava già da due. Mi era sempre apparso come un gigante,
un uomo venuto da un altro mondo con cui era impossibile comunicare. Beh, non ho mai
avuto la possibilità di cambiare idea sul suo conto. Fu per un overdose che raggiunse nonna
Genette un mese dopo la sua dipartita. Aveva gli occhi chiusi quando lo salutai per l’ultima
volta¨, pensò e, badando bene a non farsi sentire da nessuno disse: «Spero che la madre di
Edward non muoia di crepacuore».

Fu allora che la galleria sussultò. Passi pesanti a cui seguirono mostruosi rigurgiti. Ombre,
nient’altro che ombre che sgusciavano alla vista dei soldati. Sparavano tutti senza mirare.
«Crepate, bastardi!», urlava Prince con gli occhi lucidi. Gocce di sudore gli entravano in
bocca. Un odore nauseabondo, simile a quello di migliaia di scatolette di surströmming,
avvolse l’area, puzzo di carne andata a male. Il sergente Gilbert lacrimava, mentre ricaricava
il fucile nel desiderio che fosse un incubo. Così non fu. Viscidi esseri colore delle tenebre,
con tentacoli da polpo e ventose argentate, si arrampicavano sulle pareti delle gallerie,
riuscendo a restare ben saldi al soffitto e a muoversi a testa in giù. Erano grandi come
Alaskan Malamute e, a giudicare dai versi che emettevano, non doveva essere semplice
addomesticarli. Da quel poco che si riusciva a vedere, srotolavano un oblungo spuntone da
quello che doveva essere la cavità orale per colpire le prede. Andarono a segno per ben tre
volte. Due marines e l’ingegnere Alonso furono presi alle caviglie e risucchiati verso il fondo
del tunnel. Le loro grida furono coperte da quelle dei soldati intenti a lottare per la
sopravvivenza. La morte perse di valore. «Semper Fidelis!», strillava qualcuno, facendosi
coraggio. Prince si voltò verso l’ascensore, sperando che si fosse azionato. Ancora nulla.
Quella distrazione gli costò caro. Un mutante lo arpionò a un braccio. Strinse così tanto che
lo disarmò. Ronda se ne accorse. Seguì la direzione della lingua e urlò: «Adesso basta!».
Caricò il suo lanciagranate a una velocità impressionante e scaricò gli ordigni. «Smettila!
Così farai crollare tutto!», intimò il sergente, ma lei obbedì al comando solo quando il mostro
mollò la presa. I grugniti dei polpi si allontanarono, lasciando presagire l’arrivo di qualcosa di
ancora più funesto. Prince, con un braccio fuori uso, stramazzò ai piedi di Henry che,
abbassata l’arma, si lasciò andare a un «Siamo morti». Le vicine pareti della miniera
crepitavano, mentre dal fondo delle gallerie macerie si accartocciavano con un effetto
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domino. «Tenente! Tenente! Abbiamo bisogno dell’ascensore!», disse il sergente Gilbert,


«Risponda, tenente!». Il cedimento della miniera era inesorabile. All’odore di putrefazione si
sostituì uno di zolfo e gas, ma nessuno ci fece caso. I tecnici piangevano come bambini, gli
operai chiusero i pugni, maledicendo il pianeta Terra e «quel maiale di Brennon». Henry
pensò che, se proprio doveva morire, l’avrebbe fatto immaginando qualcosa di piacevole. Si
sforzò di cercare qualcosa, un’immagine, un fotogramma. Spuntò nella sua testa la barista del
Rubiks, le sorrise, le disse: «Sono quel tizio che ti ha chiamato qualche settimana fa. Non so
se ti ricordi. Perdonami, era mattina, forse ti ho svegliata. Non ti ho detto nulla, ho solo
balbettato e riattaccato. Forse perché non avevo nulla da dirti, ma… Sì, magari un giorno ti
offrirò una birra. Che ne pensi?». “To bing” della Muzak Orchestra fece da colonna sonora al
suo pensiero. Dapprima non ne capì il motivo, poi realizzò che le porte dell’ascensore si
stessero aprendo e, con esse, il miraggio della salvezza. Senza perdere tempo, si infilarono
nella cabina e prenotarono la risalita, abbandonando i corpi delle vittime a un’indegna, eterna
sepoltura tra i detriti un pianeta che gli si sgretolava davanti.

Riemergere dalle profondità del sottosuolo fu come resuscitare. L’adrenalina, rilasciata negli
ultimi minuti, si esaurì e, al suo posto, ci fu soltanto la stanchezza che costrinse tutti a
riversarsi al suolo. Van Bolen, allarmato, corse dal sergente Gilbert che, nel togliersi la Elipse
Integra, svelò un’espressione devastata dall’apprensione. «Si può sapere perché avete
utilizzato delle granate?», domandò, mimando un autoritario tono da comandante che fece
rinvigorire la sua interlocutrice al punto da farla scattare in piedi e rispondere con rabbia: «Si
rende conto che se fosse stato per lei, a quest’ora saremmo solo un ricordo? Se siamo qui, lo
dobbiamo solo e soltanto al coraggio di questi uomini e, in particolare, all’eroismo della
soldatessa Shirov che ci ha dato la possibilità di non essere mangiati da quei cosi che abitano
là sotto!».

«Mi ricevete? Stiamo inviando soccorsi», comunicò via radio il generale Pillon, «Fate
sgomberare l’intera area. Ripeto, allontanatevi dal perimetro della miniera».
«Ci sarebbe ancora in sospeso la questione del malfunzionamento delle antenne radio»,
rispose Van Bolen, «Potremmo inviare dei tecnici per verificare l’entità del..».
«Lei non ha il permesso di parlare, tenente! La sollevo con effetto immediato dai suoi
incarichi. Da questo momento in poi, seguirà gli ordini del sergente Gilbert e del capo-reparto
Shirov».
«Ma…».
«Non le è consentito obiettare! Dopo la cattiva gestione dell’operazione non possiamo
fidarci. Siamo in guerra, Van Bolen, lo capisce? L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono i
codardi!».
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Capitolo Quinto

«Che significa partito?», strillò il generale Pillon a un emaciato portavoce del Presidente
Brennon nell’androne del palazzo presidenziale: una vena sulla fronte gli pulsava a un ritmo
preoccupante; i battiti cardiaci sembravano diretti da John Philip Sousa, The March King,
erano bastonate nel petto con una rapida cadenza regolare che lo costrinse a sedersi; le urla,
giunte fino in Piazza Gerardus ‘T Hooft, sovrastarono il frastuono dei mezzi di soccorso che
sfrecciavano in direzione della miniera. «Pretendo che adesso mi dica dove si è diretto!
Siamo su Marte. Oltre questa città, ci sono solo chilometri di deserto. Non mi vorrà certo dire
che il vostro presidente ha deciso di andare in vacanza proprio oggi?», domandò, cercando di
contenere la rabbia. «Le ripeto che non ha comunicato la sua posizione. Ci ha riferito
soltanto, tramite un messaggio, del suo momentaneo allontanamento dagli uffici. Più di
questo non so dirle, generale», balbettò l’imbarazzato incaricato. L’ammiraglio Barrett, che
aveva goduto della scena come se stesse assistendo a uno spettacolo teatrale non di suo
gradimento, prese la parola: «Ho letto romanzi di fantascienza meno intricati, giovanotto.
Brennon ci ha mandati a chiamare perché aveva bisogno del nostro supporto e, adesso, al
primo ostacolo, scappa via, lasciandoci alla mercé della sua cattiva gestione?». Il generale si
tirò su, guardò il suo anello dei New England Patriots e, stringendo i pugni, disse: «Abbiamo
bisogno di riparare le antenne radio. Il Capo dello stato maggiore deve essere messo al
corrente di quello che sta accadendo qui. Non possiamo permetterci che la nostra missiva gli
giunga con settimane di ritardo. È necessario che sulla Terra sappiano che siamo stati
abbandonati al nostro destino».

Fu organizzata velocemente una spedizione. Il sito in cui era stata edificata la centrale distava
circa cinque miglia da Marsgrad, sul Pavonis Mons, un vulcano a scudo di nove miglia di
altezza che si ergeva in una depressione di dodici miglia di diametro. L’ammiraglio, per
evitare di gravare eccessivamente sullo spirito del sergente Gilbert, si propose di guidare,
insieme al generale, un drappello di uomini. Buona parte dei soldati furono selezionati tra
quelli presenti alla miniera, in quanto più prossimi all’area. Tra questi vi erano anche Prince
ed Henry. Quando gli fu comunicato, non fecero salti di gioia. Obbedirono al comando,
augurandosi un aumento sullo stipendio.
«Io non ci sto capendo niente», ripeteva Prince, «Ne ho viste di cose strane in tutti questi
anni, ma dei polpi che tentano di ammazzarti sottoterra le batte tutte. Se non mi fossi
arruolato, a quest’ora starei sul divano a guardare porno in realtà aumentata. Invece, mi tocca
sparare per non finire come quel tizio!».
«Edward», disse Henry, originando una nota di perplessità sul viso del compagno, «Edward
Kellerman. Si chiamava così».
«Non me ne frega un cazzo di come si chiamava! Laggiù, a quest’ora, poteva esserci
chiunque o, peggio, potevo starci io! E adesso? Hanno anche il fegato di spedirci su una
montagna?».
«Avrà molto tempo per esporre le tue lamentele, quando tornerà a casa. Magari potrà
intervenire in un talk-show e raccontare la sua esperienza, oppure potrà scrivere una bella
autobiografia da un centinaio di copie vendute, ma fino a quel momento lei deve obbedire ai
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comandi senza fiatare», sentenziò Van Bolen che, nonostante fosse stato destituito dal suo
incarico, non aveva perso il suo estro da comandante.
«Pensa di potermi parlare in questo modo e non subirne le conseguenze? Lo sappiamo che
non ricopre più la carica di tenente, Tenente. È un nostro pari grado ora, uno qualunque. Le
assicuro che non è una bella vita», rispose Prince, avvicinandosi minacciosamente, pronto a
sferrargli un pugno.
«Che vuoi fare, colpirmi?», sghignazzò Van Bolen, attirando l’attenzione del sergente
Gilbert, «Sei solo un poveraccio. Mi fai ridere, così come mi fate ridere tutti». Strabordando
di collera, Prince serrò le labbra e fece scricchiolare le nocche. Caricò un montante e, sotto lo
sguardo incredulo di tutti, lo fece partire a gran velocità. Van Bolen chiuse istintivamente gli
occhi, aspettandosi uno shock letale, ma il dolore non arrivò. Easton si era fermato a un
pollice dal mento. Lo guardava con le pupille iniettate di sangue, poi distese i muscoli e si
aprì in un sorriso da filibustiere: «Cosa c’è, non ridi più, soldatino?». Henry, che già si era
prefigurato Van Bolen steso al suolo, ringraziò il cielo per aver fermato quel pugno e,
accertatosi che anche il sergente sorridesse, lo fece anche lui.

Quattro blindati leggeri color ruggine, General Dynamics Space Eagle 6×6, arrestarono la
loro corsa a pochi metri dall’ingresso della miniera dove, in completo silenzio, gli uomini
scelti attendevano come scolari all’uscita dalle elementari l’arrivo del bus. Presero posto
velocemente nel rimorchio rinforzato e, non potendo seguire il percorso da un finestrino, ne
approfittarono per rilassarsi. «Sei sdraiata su una canoa in un lago calmo e sopra di te solo un
intenso cielo azzurro», sussurrava a sé stessa Ronda, «Sei sdraiata su un’amaca di velluto
nero in una stanza buia», continuò, catturando l’interesse di Henry, «Non pensare, non
pensare, non pensare», ripetette per una decina di secondi, poi si lasciò cadere in un sonno
improvviso che nemmeno le buche dell’Ulysses Tholus poterono interrompere, almeno per
tre minuti abbondanti.
«Il 4-7-8?», le domandò Prince al suo risveglio, «Ne avevo sentito parlare, ma non l’avevo
mai visto utilizzare».
«È tutta questione di respirazione. Ci si addormenta così profondamente che una manciata di
secondi possono sembrare ore», rispose Ronda, con gli occhi lucidi di chi si è appena
svegliata.
«Peccato che queste tecniche siano fuori moda. Ora si ragiona al contrario. Meglio stare
svegli che addormentarsi. Ci imbottiamo di modafinil, anzi forse è meglio se ne prendo una».
Prince agguantò dallo zaino un flacone bianco, che stappò con il pollice, per estrarne una
pillola. La ingioiò e tirò un sospiro di rassegnazione che colpì molto Henry, abituato alla sua
esuberanza. Fece per chiedergli a cosa stesse pensando, quando l’autista sterzò bruscamente.
Il mezzo non si ribaltò per un nonnulla, ma il movimento fu sufficiente a fare ruzzolare molti
soldati nel centro del rimorchio. Il motore si spense. Dall’abitacolo si udirono voci concitate
che si fusero in un frammisto di sgomento e richieste d’aiuto ai marines presenti. Indossarono
i caschi in policarbonato e, temendo che lo Space Eagle potesse diventare il loro carro
funebre, spalancarono gli sportelli e scesero. Henry temeva il ritorno di quei polpi, così non
fu. Sgranò gli occhi e quello che vide lo lasciò senza fiato. La lava basaltica in quella zona
aveva costruito enormi coni a bassa pendenza per molte miglia senza un consistente
raffreddamento. Il vulcano era più alto di qualunque cosa avesse mai visto in vita sua.
Svettava come un titano, oscurando il cielo e l’immaginazione. Proiettava un’ombra talmente
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 38

tanto lunga che risultava difficile, se non impossibile, per una mente semplice come la sua
percepirne la fine. Restò a fissarlo in preda ai sintomi di una sorta di sindrome di Stendhal.
Fu un attimo. Partì tutto con la tachicardia, la salivazione gli si azzerò, non riusciva a
distogliere lo sguardo né il pensiero da quello che vedeva, seguirono le vertigini, capogiri,
confusione, le braccia gli diventarono pesanti così come la testa, tremava come un fuscello,
fu inghiottito da pensieri che non riusciva a controllare apparentemente privi di connessione
logica. Sentì la voce di sua madre. Lo invitava a rientrare a casa, la sentì piangere per la
morte di Ronnie e urlò di andare via. Era lì, sulla cima del Pavonis Mons, ma non riusciva a
vederla. La cercò invano, poi la voce si avvicinò sempre di più, come portata da un vento
fortissimo, e se la ritrovo nelle orecchie. Esplose in un boato che gli perforò i timpani e lo
fece istintivamente crollare sulle ginocchia. Una mano lo raccolse. Si fidò e, senza capire a
chi appartenesse, la strinse e corse via. «Henry! Henry, cos’hai?». Lentamente tutto si fece
reale. C’erano incessanti esplosioni, stridii e, velato da una nube di polvere, il panico
generato da un attacco a sorpresa. «Ti hanno colpito? Stai bene?». Era Prince. Trovarono
riparo in una trincea naturale, una buca di sabbia compatta, che utilizzarono come copertura
dal fuoco della battaglia. «Chi avrebbe dovuto colpirmi?», domandò frastornato Henry, che,
per ottenere una risposta dall’amico, non dovette fare altro che seguire il suo dito che puntava
in direzione di un War-Bip d’assalto: un colossale droide dotato di gambe in dotazione
all’esercito terrestre, conosciuto come Golia. Con cannoni ZKZM-2000 sputava raggi laser,
in preda a impeto omicida. «Ma che sta facendo? È dei nostri, perché ci attacca?», chiese
Henry. «Questi modelli sono a pilotaggio remoto. Probabilmente non risponde più ai
comandi!», suggerì Prince senza nascondere la propria preoccupazione. I fasci di luce mortale
falciarono alcuni soldati che, nel tentativo di abbattere l’implacabile colosso robotico,
spararono, provocando soltanto qualche scalfittura su quel rivestimento metallico pensato per
resistere a colpi ben più incisivi. Li ridusse a brandelli. Dei loro nomi, del loro passato, dei
loro progetti non rimase più nulla. Quel sacrificio fu vano come quella battaglia e,
probabilmente, come quella missione. L’ammiraglio Barrett ordinò ai suoi uomini di
disperdersi, di trovare riparo dietro le camionette o le poche rocce che, grandi come totem,
spuntavano dal terreno, ricreando un’atmosfera cimiteriale. «Quante granate hai?», domandò
Henry. Easton chiuse il pugno e lentamente alzò l’indice, non distogliendo lo sguardo dalla
distruzione che imperversava a pochi metri da loro e quasi gli impediva di ragionare. «Bene,
io ne ho un’altra», disse, indicando una duna che raggiungeva all’incirca l’altezza del mostro
metallico, «Hai mai sentito parlare di Babe Ruth?». Prince guardò Henry con la stessa
apprensione che aveva quando lo aveva raccolto dal suolo pochi minuti prima. «È stato uno
dei migliori giocatori di baseball che si siano mai visti. Palle curve, slider, knuckleball,
forkball. Era un fenomeno. L’ho visto in un documentario. Impugnava quella sfera di gomma
e la scagliava con una potenza inaudita. Mai visto niente di simile», raccontava Henry,
sorridendo. «Dovresti riposare. La pressione atmosferica ti starà creando degli scompensi»,
disse Prince. «Noi adesso andremo su quel monte di lancio e frantumeremo quel rottame
come Babe Ruth fece con i Buffalo Bisons!». L’entusiasmo di Henry non contagiò Prince
come avrebbe voluto, ma la luce riflessa dai raggi cosmici nelle sue pupille lo convinsero ad
accettare: «Mi sembra un suicidio, ma in fondo qui non c’è niente di meglio da fare».

Sgattaiolarono alle spalle del War-Bip, superando i cadaveri dei compagni. Uno di loro aveva
le palpebre spalancate, un rivolo di sangue gli pendeva da una narice come le Ruby Falls
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nella Lookout Mountain. Kevin Parker si chiamava, una giovane recluta di Johnson City che
sull’elmetto, ormai aperto a metà, aveva applicato un adesivo della Blues Hog e uno dell’East
Tennessee State Buccaneers Football. Henry, guardandolo, pensò che fosse davvero una
pessima squadra, ma sempre meglio che tifare per i Dallas Cowboys. Il cigolio delle fredde
giunture di Golia era raccapricciante, come quello di centinaia di gatti sofferenti. Peccato che,
però, quello che avevano davanti più che a un gatto somigliava a uno struzzo munito di due
mortai blaster medi ed uno ionico che, se solo li avesse azionati a una potenza minima,
avrebbero distrutto un’area grande come Mulberry Street. Era proprio alla bocca del cannoni
che Henry aveva intenzione di mirare. «Se non puoi distruggerlo dall’esterno, allora è
necessario farlo dall’interno», e l’unico punto di collegamento era proprio la sua arma
migliore. Era necessaria una precisione chirurgica, potenza di tiro e una buona dose di
fortuna. Prince l’aveva capito subito. Comprendeva perfettamente che l’unico modo per
abbattere il War-Bip era quello, ma non aveva mai confidato troppo nella fortuna. Nella sua
vita non ne aveva mai avuta tanta e, anche quando gliene capitava una, non se ne rendeva
conto. «Ci si abitua a tutto, anche alla sfiga», diceva spesso. In quel momento, non poté non
pensarci. Se lo ripeteva mentre scalavano la duna, aggrappandosi alla sabbia come se fosse
una parete rocciosa. Quelle parole lo rincuoravano. Era convinto che, di lì a cinque minuti,
sarebbero morti. «Sono questi i miei ultimi momenti, lo so. Beh, mi è andata meglio che a
quel tizio spappolato dai raggi laser. Lui non ha avuto nemmeno il tempo di rendersene
conto. Io, invece, ne sono cosciente. Vado incontro alla mia morte. Henry sembra quasi
felice. Chissà cosa gli passa per la testa! È così calmo, credo sia impazzito. Ma poi, chi
diavolo è Babe Ruth?». Mentre scavava nella memoria alla ricerca di una risposta, giunsero
in cima. Da quella posizione, godevano di una visuale privilegiata: alle loro spalle c’era il
vulcano; sulla sinistra una cittadina di torri di controllo, cavi e antenne, la centrale di
comunicazione di Marsgrad; sulla destra il deserto; davanti a loro una macchina da guerra.
«Credo che una granata possa bastare», disse Henry. Prince sorrise e, scettico, gli passò
quella che aveva a disposizione: «Forza, campione. Vediamo che sai fare». La sfida fu
accolta. Studiò i movimenti del War-Bip, sembrava disorientato. Visto così da vicino, era
quasi goffo: un giocattolo di latta con meccanismo meccanico a carica naturale. Non si fece
intenerire in alcun modo. Puntò al cannone blaster. Tirò un sospiro ed urlò: «Il baseball è
stato, è e sarà sempre per me il miglior gioco del mondo!». In un attimo, si ritrovò al Fenway
Park con una folla ammutolita dalla sacralità del momento. Golia si voltò nella sua direzione.
«Adesso o mai più», disse tra i denti, mentre staccava la linguetta di sicurezza dalla granata
che stringeva con un’impugnatura simile alla four-seam fastball. Fece una torsione
all’indietro, spinse con gli addominali in avanti e la scagliò. Durante il volo, il backspin creò
una certa pressione al di sopra e al di sotto della granata, contrastando parzialmente la forza
di gravità marziana. Per via di un effetto ottico, sembrava alzarsi all’improvviso per poi
stabilizzarsi: una rising fastball d’altri tempi. Prince e tutti i tifosi nella Cattedrale trascorsero
il secondo più lungo della loro esistenza. La bomba volò per una ventina di metri, poi
scomparve, inghiottita dal rostro sputa-laser. L’aveva centrato. Come una caramella, Golia
l’aveva buttata giù. Prince si buttò a terra, coprendosi la testa. Henry non fece lo stesso. Restò
in piedi, fermo, fiero, incredulo. Pian piano si stava risvegliando da quello stato di estasi che
lo aveva colto e spinto fin lì. Si guardò attorno, le gambe gli tremavano, bevve la sua saliva.
Il War-Bip era ancora in piedi. Beffardo, lo osservava, poi si mosse, caricò la scarica. Un
suono sinistro di generatori si levò dall’interno della macchina, puntò, ma quello che, a tutti
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 40

gli effetti, riecheggiò come un urlo di dolore, anticipò la sua spettacolare fine. Un colpo
secco, potente, una deflagrazione che lo ridusse a un cumulo di cavicchie: un bel lavoro per i
netturbini marziani. I soldati uscirono dai loro nascondigli. Il generale Pillon strizzò gli occhi
per capire chi fosse quel pazzo sulla duna che, con una granata, aveva creduto possibile
centrare la bocca di un cannone. Lo riconobbe, era Henry, non ebbe il coraggio di provare
altre emozioni se non un forte rispetto. Prince poggiò una mano sulla spalla dell’amico,
rigido, quasi impaurito, e gli disse: «Sei stato grande!».
«E pensare che a me il baseball non è mai piaciuto», rispose, stramazzando al suolo, in preda
a una risata isterica.

Il sergente Gilbert, insieme a una decina di marines, raggiunse il resto della spedizione.
L’ammiraglio Barrett e il generale Pillon l’accolsero con parole dal retrogusto paterno, che il
sottoufficiale reputò poco indicate, considerando la situazione di emergenza.
«Il Presidente Cooper è al corrente della presenza di un War-Bip su Marte?», domandò ai
superiori, osservando da vicino l’enorme mucchio di ferraglia.
«Credo che sia stato lui a donarlo a Brennon. Di sicuro, non ci è arrivato quassù volando
come Ufo Robot», rispose, disgustato, il generale, che non la smetteva di esecrare quello che
già condannava come traditore della razza umana. Non poté finire di esternare le sue ingiurie
che un ululato, simile a quello di certe tribù, risuonò. Un brivido freddo si arpionò sulle loro
schiene affaticate dalla battaglia e dalla tensione che portavano come uno zaino da
arrampicata. Muovendo lievemente il capo, gettarono lo sguardo oltre alcune montagnole che
circondavano la zona. Qualcosa o qualcuno li stava osservando e, a giudicare dai versi che
pian piano si intensificavano, non potevano considerarsi amici. Erano in trappola. Sarebbero
stati un bersaglio facile anche per un esercito poco attrezzato. Richiamarono a raccolta tutti
gli uomini e si disposero in un cerchio formato da una ventina di Heckler & Koch MP5K e
una quarantina di occhi. Chiunque avesse avvistato anche solo un granello di sabbia volare,
aveva l’obbligo di riferirlo immediatamente. Restarono in silenzio, riuscendo a percepire il
suono delle loro preoccupazioni che suonò a cappella, poi qualcosa uscì allo scoperto. Fu
l’ammiraglio a vederlo per primo. Era un umanoide dalla costituzione longilinea che, bardato
di una sorta di armatura grigia come il marmo, impugnava un’arma simile a uno Zkzm-1000.
Uno alla volta, quasi come se sospinti dal vento marziano, spuntarono da tutte le direzioni. Il
generale, comprendendo che non ci fossero più vie di fuga, chiese ai soldati di prepararsi a
sparare, ognuno in un punto differente, e dividersi. Una metà avrebbe utilizzato il cadavere
meccanico di Golia come scudo; un’altra, tra cui Henry e i tecnici, guidata da lui stesso e
nessun altro, avrebbe raggiunto le antenne di comunicazione poco distanti.
«Signore, mi sembra un’idea folle. Forse sarebbe meglio estinguere questo problema insieme
e poi dedicarci alla riparazione», disse l’ammiraglio.
«Non possiamo più essere certi del nostro futuro. Dobbiamo lasciare un messaggio. Potranno
anche sterminarci, ma la nostra voce deve restare. Ci copra le spalle». Non attese un cenno di
assenso, scattò a una velocità degna di un centometrista. Malgrado la sua età, conservava una
forza e una tenacia a cui gli stessi soldati faticavano a stare dietro. Il primo colpo degli
umanoidi appollaiati tra le dune partì e, per una questione di centimetri, non colpì un tecnico
che seguiva Pillon. Fu allora che Barrett diede ordini ai suoi di sparare. Conrado, folgorato
dall’eroismo del generale, ricordò i motivi che lo avevano spinto ad arruolarsi, imbracciò il
suo M24 con mirino telescopico e scrutò l’orizzonte. Li vide. Indossavano dei caschi integrali
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che seguivano perfettamente la forma ovoidale dei loro crani. Non avevano parti scoperte, o
almeno così gli sembrava di capire. «Individuato il bersaglio», bisbigliò, «¡Que viva
Mexico!», aggiunse e sparò, facendogli schizzare la testa come un palloncino pieno d’acqua.
«¡Ay, caramba! Quei tizi sono nudi, non hanno alcuna protezione!». La notizia confortò i
soldati che, scrollatisi di dosso la paura che quel deserto potesse diventare una necropoli,
compresero di avere una possibilità.
«Hanno la stessa consistenza dei pudding», starnazzò Prince, colpendone uno al petto. La
battaglia prese le sembianze di una gara al tiro al bersaglio. Conrado cantava, posseduto da
furia omicida, una Cielito Lindo che fece da colonna sonora a quello sterminio. L’attacco
alieno si ridusse a una difesa. Ne caddero dieci, cinquanta, cento, e ancora e ancora. Di
sangue verdognolo si tinse il deserto.

Il generale Pillon e il suo manipolo di uomini raggiunse l’accesso alla torre di


comunicazione. «Ottima copertura, ammiraglio», comunicò via radio, «Tenete duro, faremo
il prima possibile». Poggiò una mano sulla spalla di Henry e, quasi come se il suo braccio
fosse una spada, lo investì del comando dell’operazione: “In nome di Dio, di San Michele, di
San Giorgio, ti faccio cavaliere. Guida questi uomini fino alla cima della torre di
comunicazione, proteggi loro e te stesso, fa che i tecnici riparino l’apparecchiatura e rendano
possibile lo scambio d’informazioni con il nostro Pianeta”. Henry, consapevole della
responsabilità che gli era appena stata tacitamente affidata, si propose come capofila. Lui
sarebbe rimasto a guardia dell’ingresso, fino al ripristino dell’apparecchiatura che gli avrebbe
consentito di inviare quel telegramma informativo che, da ore, si ripeteva in testa: «Vi parla il
generale Pillon. L’esercito terrestre è minacciato da forze aliene ed ex-terrestri. Il nostro
conplanetario, il presidente Brennon, si rifiuta di collaborare nella campagna marziana.
L’assenza di informazioni e di un piano d’azione ci rende vittime sacrificali di un gioco che
stentiamo a comprendere. Richiedo rinforzi». Così avrebbe detto e, mentre ci pensava, si
guardava attorno. Gli spari, in lontananza, si ridussero sempre di più, fino a scomparire.
Avevano vinto. Lo scontro stava terminando. Sentì qualcuno cantare, ma non capì chi fosse.
Sorrise lievemente, approfittando del fatto di non essere visto. Guardò il suo anello. «Si può
perdere anche per soli tre punti», disse tra sé e sé, pensando a sua moglie, «ma oggi no». Ci
fu un attimo di quiete, attorno e dentro di lui. Si sentì forte, vivo. Fissò Fobos, alto in cielo, e
pensò che Cynthia fosse lì, che stesse vegliando su di lui da quella grande pietra fluttuante.
Alzò la mano destra per salutarla, ma un lamento, proveniente da una casupola poco distante,
lo fece tornare al presente. Era la stazione metereologica, una struttura, tecnicamente non
presidiata, costruita con mattoni di roccia basaltica. Gli ricordava certe costruzioni della città
fantasma di Terlingua Abaja che, anni addietro, aveva visitato, approfittando della Chili
Cook-off. Credendo che un alieno ferito si stesse nascondendo lì dentro e volendo mettere
fine alla sua sofferenza, si avvicinò alla costruzione. L’assenza di finestre gli impedì di essere
certo di ciò che stava per incontrare, ma a un uomo come lui un fucile bastava a non avere
timore di nulla, e il suo era carico e senza sicura. Tirò un calcio alla porta che, come se fosse
di marzapane, si divelse per poi crollare sul pavimento polveroso. Irruppe all’interno, con gli
occhi spalancati e un’adrenalina che non provava dai tempi della Guerra in Ambazonia. Tra
dispositivi di controllo per la misura dell’intensità della radiazione solare entrante, della
pressione dell’aria, della temperatura, dell’umidità atmosferica e dei raggi ultravioletti vi
erano delle gabbie chiuse da sbarre elettrificate. Zombie, uomini ridotti alla fame, incapaci di
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parlare, rispondevano alle domande di Pillon con gemiti di una sofferenza illogica. Ce
n’erano almeno una decina, di tutte le età, vivi e morti. Imploravano una libertà che il
generale non sapeva come donare. Domandò disperatamente chi li avesse resi prigionieri e
perché. Non ottenne risposte. Cercò il generatore per bloccare lo scorrere della corrente
elettrica, ma on trovò altro che paura: «Qualcuno mi risponda! Sono qui per aiutarvi! Chi è
stato a ridurvi in questo stato?», urlò. «Non temere, moriranno per una causa nobile», rispose
una voce serena alle sue spalle. Il generale Pillon si voltò istintivamente. Lo vide, ma non
fece in tempo a sparare. Un proiettile gli traforò il torace e il cuore, lasciandogli pochi
secondi di vita, ma tanto gli bastò per pronunciare il nome del suo assassino: «Brennon».
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Capitolo Sesto

Torniamo indietro.

Il generale Pillon e il suo manipolo di uomini raggiunse l’accesso alla torre di


comunicazione. «Ottima copertura, ammiraglio», comunicò via radio, «Tenete duro, faremo
il prima possibile». Poggiò una mano sulla spalla di Henry e, quasi come se il suo braccio
fosse una spada, lo investì del comando dell’operazione: “In nome di Dio, di San Michele, di
San Giorgio, ti faccio cavaliere. Guida questi uomini fino alla cima della torre di
comunicazione, proteggi loro e te stesso, fa che i tecnici riparino l’apparecchiatura e rendano
possibile lo scambio d’informazioni con il nostro Pianeta”. Henry, consapevole della
responsabilità che gli era appena stata tacitamente affidata, si propose come capofila. Il
generale, sorridendo come un padre che lascia per la prima volta il proprio figlio tra le mani
del maestro delle scuole elementari, attese che la truppa entrasse e si mise a guardia
dell’ingresso. Quello in cui i soldati fecero irruzione ricordava un faro di Cape Cod, non a
caso la struttura era chiamata “Race Point Radio”. Al suo interno non vi era nulla, solo una
lunghissima scala a chiocciola che conduceva a una piattaforma circolare in cui erano stati
installati i migliori sistemi di radiocomunicazione interplanetaria. Centinaia di modem
ronzanti e luccicanti, internet, nient’altro che una rete, disconnessa da quella terrestre e basata
sul principio dell’immaganizza e rinvia, con frequenza sconosciuta, la cui struttura di base si
fondava su tecnologie wireless, avente un medio indice di errori e di ritardi variabili da
qualche minuto a poco più. La stesura dei nuovi protocolli di comunicazione per consentire la
creazione di questa nuova tecnologia fu completata nel 2035 e installata su Marte prima della
fondazione della colonia. Una targhetta di ottone che, nella sala comandi, celebrava i suoi
ideatori, Vinton Cerf e Andrian Hooke, fu amabilmente superato dalla noncuranza del
drappello di uomini, non era quello il momento di acculturarsi. Era necessario sbrigarsi,
tentare di capire da cosa dipendesse il problema di trasmissione e risolverlo il prima
possibile. Fu proprio quello che ordinò Henry ai tecnici, mentre lui e gli altri marines si
disposero a protezione della porta. Una parete vetrata restituì, alla loro vista, un panorama
raccapricciante. I compagni sparavano colpi che, per via dell’insonorizzazione della struttura,
sembravano essere soltanto il frutto di una rappresentazione cinematografica. Ad Henry
venne in mente un film datato, Come vinsi la guerra gli sembrava che si chiamasse, una
pellicola muta con Buster Keaton che interpretava il ruolo di un ferroviere durante la guerra
di secessione americana. Negli ultimi minuti, ricordava, dopo il crollo di un ponte su cui
transitava una locomotiva, i nordisti attaccarono, facendo partire una battaglia che la sua
mente abituata alle tecniche CinemaScope 360° non poteva comprendere fino in fondo.
“Come poteva la gente divertirsi senza audio, senza colori? Come poteva sentirsi parte della
trama senza esserne lei stessa parte integrante?”, pensava senza cercare davvero una risposta.
Gli ultimi umanoidi ancora in piedi, una dozzina o poco più, tentarono un attacco frontale. Li
vide radunarsi e partire, incuranti della morte che li attendeva. Corsero verso la salma del
WarBip, quasi come se fossero privi di coscienza. Vennero fucilati senza problemi, ma a loro
non sembrò interessare. “Una strana razza aliena”, ponderò Henry. Abbassò poi lo sguardo e
vide il generale rivolgere il muso verso il cielo, in contemplazione di uno dei satelliti naturali
marziani. Era una bella scena vista dall’alto. Il soldato ne assorbì l’emozione, pur senza
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capire con chi o cosa Pillon si stesse riconciliando, e decise di assecondarlo. Fissò Fobos, alto
in cielo, e pensò che la barista del Rubiks Arcade Bar fosse lì, che stesse facendo sgorgare
schiuma bionda e, contemporaneamente, vegliasse su di lui da quella cazzo di pietra
fluttuante. Tirò un divertito sospiro e diresse nuovamente la sua attenzione verso il basso,
verso il generale che, però, non c’era più. “Si sarà allontanato, forse ha raggiunto
l’ammiraglio o magari starà raggiungendo noi. La situazione sembra tranquilla, non credo ci
sia motivo di allarmarsi”, pensò e, aggrottando la fronte, disse, senza distogliere lo sguardo
dal belvedere: «I nostri compagni hanno vinto, ora tocca a noi».
L’ingegnere Texler, un quarantenne corpulento dai modi gentili e impacciati, coordinava
l’operazione di ripristino del collegamento. La sua mimica facciale palesò le sue perplessità
senza avere bisogno di esprimerle a voce. La rete di comunicazione era stata quasi del tutto
interrotta a causa di una riduzione manuale della velocità di trasferimento dei dati. Henry,
notando la sua difficoltà nell’operare, gli chiese di cosa si trattasse. Con l’aria di chi sa che
non verrà compreso, gentilmente, rispose: «La Delay Tolerant Network sfrutta un
trasferimento di tipo store and forward message switching. Con questo meccanismo, ogni
snodo memorizza in modo persistente l’intero contenuto informativo, o una sua
segmentazione grossolana, e la trasferisce in blocco al nodo successivo, a sua volta dotato
della stessa capacità. È, in pratica, uno scambio di informazioni che può continuare senza
richiedere necessariamente un messaggio di conferma da parte del nodo ricevente. Mi sono
spiegato fin qui?».
«In verità, ho compreso solo la sua domanda», rispose Henry, stuzzicando il riso
dell’ingegnere che, scuotendo il capo, chiosò: «Allora, mettiamola così, qualcuno ha premuto
questi pulsanti e resettato qualcosa qui dentro per evitare che questa scatola di lamiera
potesse inviare informazioni, quasi alla velocità della luce, verso casa. È più chiaro adesso?».
Henry rise, facendo cenno di sì con il capo, poi domandò: «E adesso?».
«Adesso mi lasci lavorare. Quello che quasi nessuno sa è che in questi aggeggi è custodita
una scatola nera. Ora la preleviamo e la analizziamo nei laboratori dell’Arcturus, ma prima è
necessario interrompere l’afflusso di corrente. Consiglio di spostarvi, potrebbe aprirsi un
campo vettoriale solenoidale generato dal moto di una carica elettrica». Texler, notando sul
volto di Henry un’espressione interrogativa che non gli permetteva di muovere un passo,
aggiunse: «Se non ti sposti, potresti prendere una bella scossa». A quest’ultima battuta, i
soldati si allontanarono. Henry, unico ad avere accolto le affabili accuse per la propria
ignoranza in fisica, pensò a quando, spavaldo, disse a Prince che lo studio era roba da ricchi
e si sentì un po’ sciocco. D’altra parte, sapeva perfettamente di non avere del tutto torto. Lui
non aveva avuto la possibilità di mettersi sui libri, certe cose non poteva saperle e, di certo,
questo non faceva di lui una persona meno rispettabile. Mentre confortava sé stesso, vide uno
dei tecnici estrarre il dispositivo elettronico di registrazione dei dati, una sfera, tutt’altro che
discreta, simile alla russa MSRP-12-96 utilizzata nel Tupolev Tu-22M. «Sembra una palla
medica», disse a bassa voce, «Io l’avrei progettata più piccola». Malgrado avesse tentato di
non farsi sentire, Texler, intento a scollegare il sistema elettrico, si voltò nella sua direzione
con un sorrisetto ammonitorio. A causa di quella distrazione, l’ingegnere non si accorse che,
alle sue spalle, qualcosa lumeggiava. Scintille bluastre fuoriuscivano dall’impianto e un
brusio insistente, come di centinaia di mosche imbestialite, colmò un silenzio che Henry
affrontò correndogli incontro. Prese Texler per il bavero e, come se fosse una palla da
football, lo scaraventò dall’altra parte della stanza, subendo in pieno la scarica
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elettromagnetica. Fu una rapida iniezione di luce. Tutto attorno a sé si fece bianco, non sentì
dolore, ebbe soltanto il tempo di riflettere sul fatto di non essere così diverso da quegli
umanoidi kamikaze. Poi niente più.

Qualche ora dopo.

Un bip perpetuo fu la prima cosa che le orecchie anestetizzate di Henry percepirono. Un


senso di impotenza, di rigidità, unito all’incapacità di muovere gli arti, lo costringeva in una
posizione supina. Una emicrania da sbronza gli impediva di aprire gli occhi appannati dal
sonno indotto dallo svenimento e da una buona dose di Sufentalin. Borbottò qualcosa.
Avrebbe voluto domandare dove si trovasse, ma tutto ciò che fuoriuscì dalle sue secche
labbra serrate fu un brontolio, un soffocato rantolio di gola, a cui però una chiara voce
femminile rispose. «Henry, sono la dottoressa Williams. Non temere, sei fuori pericolo.
Fortunatamente, i soccorsi sono arrivati in tempo. Ora ti trovi nell’infermeria dell’Arcturus.
La tua temperatura corporea è scesa a valori nella norma. Quando sei arrivato, sembravi del
Fish’n Chips della Swanson cotto al microonde», sogghignò. Henry non capì subito chi gli
stesse parlando. Tentò di spalancare le palpebre, ma fallì. Erano pesanti come incudini. Capì
però che fosse ancora vivo, anche se non ricordava bene perché dovesse essere morto. Rimise
insieme i pezzi e, fermi come fotografie, vide il WarBip saltare in aria, l’esercito di alieni
decimato, vide Pillon perso nei suoi pensieri, vide Texler, poi la scarica.
«C-ce l’abbia…mo fa-fatta?», domandò con estrema difficoltà.
«Siete stati bravi. L’ammiraglio Barrett si è raccomandato di farti i complimenti, appena ti
saresti ripreso. C’è aria di promozione, recluta Mitchell», si interruppe, guardò la sua cartella
clinica, poi riprese, «Purtroppo, il generale non è più tra noi. L’hanno ritrovato senza vita
poco lontano dalla torre di comunicazione», disse, impostando sempre più la voce verso un
tono rammaricato.
«Ch-chi è st-stato?», balbettò, sforzandosi di riprendere del tutto coscienza di sé.
«Non è ancora certo. Ciò che è sicuro è che aveva messo il naso, a sua insaputa, in qualcosa
di estremamente grave. Quando tornerai in forze, te lo farai raccontare. Ora non è il
momento. Sono qui per capire se il trauma che hai subito, non abbia corrotto le tue funzioni
cognitive. Vediamo un po’, riesci a dirmi come si chiama tua madre?».
«Agatha», rispose, dopo aver ingoiato un sorso di saliva acida che scese come una pallina di
spilli.
«Bene, sai dirmi quando sei nato?».
«A volte ho l’impressione di non averlo mai fatto», tartagliò, incuriosendo la psichiatra che
prese la risposta per buona.
«Cosa ti piacerebbe fare una volta tornato sul Pianeta Terra?».
«Bere una birra».
La dott.ssa Williams rise. Davanti a sé aveva un questionario con molte domande che gli
avrebbe dovuto fare, ma pensò che non fosse necessario. «Come posso notare, non ha perso il
senso dell’umorismo. Ne sono felice. Penso che si riprenderà presto. Lo comunicherò ai suoi
superiori. Adesso, il suo unico compito è riposare. Quando sarà in piedi e riuscirà ad aprire
gli occhi, magari potremmo fare una chiacchierata informale. Questa navicella è così noiosa,
non c’è mai un attimo di svago. Sarebbe divertente parlare con qualcuno che non pensi solo
al lavoro». Così dicendo, premette il pulsante di apertura del portello dell’infermeria. Henry,
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con uno sforzo titanico, scardinò le ciglia e, per la prima volta da quando aveva iniziato
quella conversazione, vide la sua interlocutrice. La riconobbe. Le guardò il culo e si interrogò
su cosa avesse detto di così interessante per meritarsi un appuntamento. La porta si chiuse.
Restò solo. Si guardò attorno. Era inchiodato a un lettino in una stanza asettica. Macchine
tintinnanti monitoravano il suo livello di attività corporea. Sul braccio sinistro, ustioni di
terzo grado gli avevano corroso la pelle. «Farà un male cane quando non sarò più sedato»,
sussurrò, poi guardò il soffitto bianco. Sembrava plastificato. Meditò su quello che gli aveva
detto la dottoressa. Pillon era morto. Questo poteva significare solo una cosa: che il peggio
doveva ancora venire.

Anche l’ammiraglio Barrett l’aveva capito bene. Rintanato in un’espressione di distaccata


serenità, vide il corpo del generale, coperto da un telo, venire momentaneamente tumulato
nelle celle refrigerate dell’obitorio dell’Arcturus. Un brivido gli corse su per la schiena, e non
si seppe spiegare se fosse per la bassa temperatura della stanza o per qualcos’altro. In fin dei
conti, il generale non l’aveva mai avuto troppo in simpatia, ma nemmeno lo odiava.
Probabilmente non aveva mai approfondito la sua conoscenza. Era solo un collega, un uomo
a cui portare rispetto, un eroe di guerra, un vecchio capriccioso con il pallino del comando.
Forse, però, era anche altro. «Spesso dimentichiamo di essere solo umani, che questa nostra
condizione possa finire da un momento all’altro», disse l’ammiraglio, quasi come se stesse
parlando a sé stesso. Il sergente Gilbert e il tenente Vaughn, presenti anche loro alla chiusura
della cella, lo guardarono e, in un silenzio rispettoso, ascoltarono quello che sembrava essere
un inatteso elogio funebre: «Troppe morti pendono su di noi. Ogni soldato deve essere per
noi una responsabilità. Spetta a noi ufficiali distinguerci, così come ha fatto il nostro Alex. Lo
chiamo così, adesso, perché lui si è liberato delle medaglie raccolte negli anni, dell’uniforme,
degli ordini. Lì dove si trova adesso non ha bisogno di niente di tutto questo. È solo un uomo
come tanti, è solo Alex. Il suo sacrificio e quello di molti giovani che non vedranno più le
loro case non deve essere vano. Ora tocca a noi distinguerci, farlo ancora di più. La paura
deve essere nostra alleata fino alla fine ».

Anche l’ex-tenente Van Bolen ascoltò il discorso dell’ammiraglio. Quattamente appostato


all’esterno della porta d’ingresso dell’obitorio della navicella, origliò quelle parole con un
disgustato distacco. In seguito alla rimozione di grado, si era trovato a combattere con
quell’orgoglio che, fin da tenera età, gli aveva impedito di relazionarsi con i suoi coetanei. La
scalata alla realizzazione personale in ambito militare aveva logorato quel carattere che,
probabilmente, non si era mai formato del tutto. Risultava essere, per via di una crescita
forzata, cocciuto e dispotico come un bambino in un negozio di giocattoli. Odiava sentirsi
escluso dalle decisioni, ma non si era mai reso conto che le sue parole avevano trovato
raramente l’appoggio di qualcun altro. Era cieco, immune alla diffidenza dei suoi colleghi
che, spesso, gli avevano consigliato di seguire le orme di chi, prima di lui, aveva ricoperto
quella carica. Una guida non l’aveva mai voluta. Credeva di potercela fare da solo e, da cieco,
divenne anche sordo, e per tutti gli altri anche muto. «La paura deve essere nostra alleata fino
alla fine», bisbigliava, facendo il verso a Barrett che, intanto, discuteva della video-
conferenza che, di lì a poco, avrebbero dovuto fare con il Presidente Cooper, avvisato con
urgenza dei disordini avvenuti a Marsgrad, «Ha ragione, ammiraglio. Fate che la paura sia
vostra alleata, che alla fine ci penserò io». Rifocillandosi dalle sue stesse parole, si allontanò
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nel corridoio a passo svelto. Percorse la Panorama Room, un odore di gumbo con gamberi e
pollo gli entrò nelle narici, riportandolo a Baton Rouge, sua città natale. Fu solo un attimo, e
gli bastò a provare un senso di ripugnanza. Proseguì in direzione della palestra di bordo, poi,
incrociato lo sguardo di alcuni soldati, sterzò in un andito poco illuminato che conduceva a
un’uscita di emergenza. Tese l’orecchio, cercando di capire se qualcuno lo avesse seguito.
Quando comprese di essere solo, estrasse un AirPod di ultima generazione Surrey Satellite
Technology Limited dalla tasca destra di quella che era ancora la sua divisa da tenente e lo
indossò. «Chiama Finch», ordinò all’assistente virtuale. I secondi che trascorse in attesa di
una risposta li visse come chi sa di non essere nel giusto, nascondendosi. «Finch, sono io. Sì,
la situazione è più tesa del previsto. Ho poco tempo. Non ho il permesso di accedere al
consiglio terrestre, farò il possibile per inviarti le informazioni che ti servono. È una lunga
storia, non posso spiegare. Certo, provvederò anche a farti recapitare le armi. Ci vorrà un po’
di tempo, ma la tua, la nostra causa non si fermerà. Ti devo lasciare, si avvicina qualcuno».
Erano l’ammiraglio Barrett, il sergente Gilbert e il tenente Vaughn. Procedevano, parlando
delle nuove scoperte del dott. Ergon, in quei corridoi per raggiungere la sala riunioni.
«Probabilmente è giunto a una conclusione», diceva Vaughn, «Sembra che non provengano
da questo pianeta». «Come fa a dirlo?», domandò il sergente. «Al momento, sono in possesso
solo di questa informazione. Ha ricevuto anche lui una convocazione per la riunione. Ci dirà
sicuramente qualcosa in più», e mentre Van Bolen si ritirava nella sua capsula, non troppo
differente da quella del generale Pillon, gli ufficiali si misero in collegamento con il
Presidente Cooper. Alla sinistra del dott. Ergon, vi era la dott.ssa Hawkins. Stringeva tra le
mani una tavola bronzea, un reperto xeniano che, ai più, sarebbe apparso come un pezzo di
metallo su cui un perdigiorno aveva scolpito delle linee prive di significato. «Signor
Presidente, ciò a cui abbiamo assistito nelle poche ore di permanenza sul pianeta Marte ci
lascia senza parole. Il generale Pillon e molti ragazzi della truppa terrestre hanno sacrificato
la propria vita per una guerra in cui non percepiamo ancora il nostro ruolo. Siamo stati
attaccati da umanoidi, da esseri che abitano nel sottosuolo, da un WarBip in dotazione al
nostro esercito. Nessuno, e ripeto nessuno, ci ha messi al corrente di tali pericoli. Mi riferisco,
in primis al presidente della colonia marziana, Pàvius Brennon, latitante da questa mattina. Il
suo atteggiamento omertoso ci aveva, nel nostro primo e unico incontro, già insospettiti, ma
non potevamo di certo aspettarci quello che successivamente abbiamo pagato con la morte di
molti uomini. Al momento, le nostre forze non ci consentono di proseguire prima di una
decisione chiara. Abbiamo necessità di stabilire un piano di attacco, considerando la presenza
di conplanetari civili a Marsgrad», disse l’ammiraglio Barrett.
«Stiamo ragionando sull’invio di astronavi-navetta, ma ci vorrà del tempo. Parliamo di
settantamila persone e di un viaggio molto costoso. Inoltre, se dovessimo riportare i nostri
conplanetari sulla Terra, sarà estremamente difficile rinnovare l’entusiasmo e la credibilità
del progetto Marsgrad. Pochi vorrebbero ripartire, forse nessuno. Questo significa che tutti i
nostri sacrifici sarebbero stati vani. Ci ritroveremo ad avere un sepolcro a ricordo della nostra
codardia», disse il presidente.
«Con il dovuto rispetto, qui non è possibile parlare di viltà. Anche se, da quello che abbiamo
potuto vedere, le persone nella cupola sembrano vivere serenamente, il pericolo è alle porte.
Nelle miniere si muore ogni giorno e ciò che abbiamo scoperto nella stazione metereologica
non può che farci credere che sia l’unica soluzione possibile», rispose il tenente Vaughn che,
scontrandosi con la perplessità del presidente, continuò, «Non sappiamo chi abbia commesso
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 48

un simile reato, ma abbiamo ritrovato dei prigionieri umani in un carcere allestito lontano da
occhi indiscreti. Purtroppo, non è stato possibile interrogarli per chiarire i motivi di tale
brutalità: gli uomini, ridotti alla fame, sono deceduti durante il trasporto in infermeria».
«Questo cambia tutto», disse il presidente. Calò il silenzio. La dottoressa Hawkins, fremente
dalla voglia di intervenire, guardò Ergon che, con uno sguardo, le fece capire di attendere.
«Bene, farò partire immediatamente il piano di evacuazione. Il vostro compito, ora, è...», fece
in tempo a dire il presidente, prima di essere interrotto dalla dottoressa. «Partire!». Gli
ufficiali si voltarono nervosamente verso la Hawkins che, alzando la tavola, proseguì con la
consapevolezza di chi sa di essere nel giusto: «Questa è una mappa spaziale. Vi sono riportate
delle coordinate che ci conducono a Encelado, satellite naturale di Saturno. È solo la prima
parte di un percorso che ci condurrà all’exo-spazio. Unendo tutte le tavole, avremo la
possibilità di attraversare un portale galattico che...».
«Basta così!», urlò il sergente Gilbert, «Come si permette di interrompere il Presidente
Cooper, imponendo che le sue teorie fondate su delle possibilità, diventino degli ordini
categorici?».
«Mi faccia capire, professor Ergon», intervenne il presidente, «Cosa sta cercando di dire la
sua collega?».
«Beh», rispose timidamente lo scienziato, «Quello che sta cercando di dire è che, se i nostri
calcoli sono esatti, avremo la possibilità di esplorare l’intera galassia, traghettati da una forza
propulsiva inesauribile. Potremmo, in altre parole, considerarci prossimi al dominio
dell’universo».

*
«È una follia!», sbraitò l’ammiraglio Barrett, colpendo con un pugno vigoroso il display
sul quale compariva la cifra 0,74.315.994.592. Era la distanza in miglia orarie tra Marte e
Saturno. Ciò che lo preoccupava realmente, non era la lunghezza del viaggio, ma la
trasformazione della missione da militare a quello che considerava “investigativa”. «Una
caccia al tesoro! Una cazzo di caccia al tesoro! Dovremmo restare qui, e poi pur mantenendo
una velocità costante di 700.000 mi/h impiegheremo troppo tempo», concluse, cadendo su
una poltrona con la testa tra le mani. «Ci sarebbe un modo, ammiraglio», disse il tenente
Vaughn. «No, non ci penso neanche. Non voglio mettere a repentaglio la vita di tutti per i
piagnucolii di un uomo che, al caldo in un ufficio sorvegliato a vista, non pensa ad altro che
al suo tornaconto. Mi sembrate tutti impazziti! E mi sorprendo di te, Vaughn. Sai bene di
cosa stiamo parlando».
«Credo che non ci sia altra scelta, se non vogliamo essere tacciati di diserzione».
«Sai cosa significa se procedessimo in modalità tachioni?», attese una risposta del tenente,
che fu anticipato dal sergente Gilbert, entrata silenziosamente nella cabina di pilotaggio
rispettando il turbamento dell’ammiraglio: «Significa che viaggeremo ad una velocità così
forte da invadere non solo lo spazio, ma anche il tempo. Romperemo la barriera del passato-
presente per ricomparire nel futuro». Barrett guardò il sergente e, nella delicatezza della sua
voce, ritrovò un po’ di serenità. Sospirò, confermando ciò che aveva appena detto, annuendo
con la testa. Notò che le sue mani tremavano. La consapevolezza di dover procedere con una
manovra rischiosa lo spaventava terribilmente. La fermezza dello sguardo della Gilbert
sembrava, però, rassicurare il suo fondato timore. «In tutta la mia carriera, ho azionato i
motori a particelle a massa immaginaria soltanto per una traversata. Ai tempi ero capitano di
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 49

vascello. L’Arcturus era appena stata varata e c’era bisogno di collaudare questa nuova
tecnologia. Né io né l’ammiraglio di allora eravamo del tutto consapevoli di ciò che stavamo
per fare. Calcolammo una distanza considerevole per non rischiare di schiantarci su qualche
pianeta: dalla Terra avremmo voluto raggiungere Giove. Qualcosa andò storto e, in poco più
di un minuto, raggiungemmo i confini del sistema solare. Capimmo che il problema di questo
sistema era la frenata. Oggi, a distanza di anni, mi spaventa ancora. Un insignificante errore e
puf!». «Faremo in modo che non accada, ammiraglio», disse il sergente, appoggiandogli la
mano sulla sua. Fu un battito di ciglia, una vampata di inatteso calore e l’ammiraglio smise di
tremare.

«E va bene. Dia l’annuncio, tenente. Si assicuri che tutti si allaccino le cinture».

**

Intanto su Encelado...

Visto da Encelado, Saturno era sessanta volte più grande della Luna osservata dalla Terra.
Uno spettacolo meraviglioso. Il gigante gassoso, immobile in quel cielo nero, brillava con i
suoi hula-hoop di ghiaccio che gli ruotavano attorno. Solitario, silenzioso, si lasciava
guardare senza chiedere a nessuno il costo del biglietto. Perso in una notte eterna, soffocato
dall’idrogeno, sarebbe stato semplice considerarlo morto, ma la sua inospitalità era soltanto
una testimonianza della sua perfezione. Non aveva bisogno di generare vita per sentirsi vivo.
Con la sua forma di ellissoide schiacciato, il satellite Encelado era relativamente piccolo.
All’apparenza, per via del suo colorito pallido, sembrava essere stato pavimentato da
mattonelle di un grigio porcellanato levigato, ma, se si studiava più approfonditamente, era
possibile scorgere crateri, pianure e cavità contenenti acqua salata che conducevano a un
oceano sotterraneo. Qualcosa in quelle profondità si muoveva, chissà da quanto tempo. Era
una comunità aliena. Di carnagione marrone, privi di labbra e coperti da aderenti tuniche di
un materiale simile al pvc, alti come gli atleti del Dream Team del 1992 ma molto più eterei,
si radunavano in una struttura incastonata in una grotta. Accedevano, uno alla volta, da una
porta delle loro esatte dimensioni per scomparire in un salone illuminato da sfere di luce
mobili. Tra loro non sembrava esserci una distinzione di età. Non era possibile distinguere un
bambino da un anziano. Ciò che appariva abbastanza evidente era una diversificazione di
genere. Quelli che si sarebbero potuti definire “maschi” avevano una barba che cadeva liscia
sul petto, mentre le “femmine” avevano capelli lunghi come i veli delle spose. Quando tutti
ordinatamente si disposero al centro del salone bianco e privo di ornamenti, da una stanza
comparve una donna. Non sorrideva, ma non era possibile neanche dire che avesse
un’espressione seria. La gestualità, in quella comunità, si limitava a una estrinsecazione di
serenità, che non lasciava trasparire mollezza d’animo bensì una dura austerità. Aprì le
braccia verso il popolo e gesticolò per qualche secondo, raccogliendo una reazione della
platea tanto composta da non lasciarne trasparire l’entità. Trascorsero pochi attimi e tutti
alzarono lo sguardo al soffitto. Una grandissima finestra che li collegava con la vista della
superficie si aprì: un quadrato nero di cielo. Attesero qualche secondo senza muovere un
muscolo, poi un lampo, un bagliore candido si donò alla loro vista. Un tuono si liberò, un
vento smosse polveri e cristalli di acqua. Indietreggiarono. La donna indicò il cielo. Il baleno
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si diradò lentamente, qualcosa ne emerse, qualcosa che non avevano mai visto prima, ma che
stavano aspettando da migliaia di anni. Ciò a cui non sapevano ancora dare un nome era
l’Arcturus.
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Capitolo Settimo

«Paragonata alle altre lune ghiacciate, l’atmosfera qui è significativa», disse il sergente
Gilbert, osservando il magnetometro presente nella cabina di pilotaggio dell’Arcturus, «La
gravità è troppo debole per trattenerne una; i geyser e i vulcani di ghiaccio presenti sul
satellite faranno sicuramente la loro parte per rifornirla». L’ammiraglio Barrett, ancora
sconvolto dal viaggio appena compiuto a velocità superluminale, mendicò un attimo di
privacy. Si allontanò e, mantenendo un certo contegno, si chiuse nella toilette di bordo, si
accasciò e vomitò fino quasi a perdere i sensi. La testa gli girava come un ragazzino alla
prima vera sbronza. Chiese a sé stesso di calmarsi, di trovare un punto di equilibrio tra quello
che aveva vissuto e quello che doveva ancora affrontare. Capiva, mentre si asciugava le
labbra con il polsino della divisa, di avere la responsabilità di condurre un esercito su una
sfera inesplorata con un periodo di rivoluzione di trentatré ore, che qualcuno aveva
soprannominato mondo-oceano. Si rimise in piedi, ciondolò per un attimo, poi si guardò allo
specchio con un’espressione severa che, a mano a mano che scorrevano i secondi, si
trasformò in una risata. Il tenente Vaughn, preoccupato per le condizioni dell’ammiraglio,
attendendolo pazientemente fuori dalla porta, lo sentì. Non riuscendo a capire cosa stesse
succedendo, bussò e, con un tono gentile, domandò come stesse. «Benissimo, tenente. Un po’
di mal di navicella, niente di preoccupante. Informi l’equipaggio che, a breve, atterreremo su
Encelado. Dì loro di indossare le BioSuit e prepararsi a sentire un leggero venticello a -200°».

La fase di atterraggio durò molto più della traversata interplanetaria. Docilmente, come un
sommozzatore che si cala nell’oceano, l’Arcturus planò fino a toccare il suolo del piccolo
satellite. Un sospiro di sollievo si levò tra l’esercito. Henry, che aveva vissuto quegli ultimi
minuti della sua vita in uno stato di rigidità emotiva, finalmente riprese coscienza con ciò che
vedeva avvicinarsi dalla vetrata panoramica.
«A me sembra una palla da biliardo», disse Prince.
«A me ricorda le conchas che preparava mia nonna», farfugliò Conrado con aria sognante,
«Quanto ne vorrei mangiare una teglia».
«Dubito che qui ci sia un chiosco di dolcetti, Messico. Credo che non ci sia proprio nulla»,
chiosò Henry, palesando tutte le sue perplessità sulla spedizione nella provincia di Saturno. Il
conto alla rovescia per l’apertura del portellone partì. I soldati si strinsero, non sapendo cosa
aspettarsi. «Azionate il dispositivo di riscaldamento», ordinò il sergente Gilbert, premendo un
interruttore posizionato sul polso della tuta. Nessuno se lo fece ripetere due volte, e la
sensazione di prendere fuoco scatenò un lamento generale che, però, si acquietò alla prima
folata di aria esterna. La temperatura all’interno della BioSuit si abbassò velocissimamente,
per stabilizzarsi intorno ai cinque gradi, un buon compromesso considerando che se avessero
messo solo la punta del naso fuori dal casco avrebbe subito istantaneamente una metamorfosi
in un ghiacciolo Sunny Delight. L’ammiraglio Barrett, rinvigorito da quel clima, guidò la
truppa come uno sherpa alla prima esperienza tra i ghiacci dell’Himalaya. Era chiaro che non
sapesse dove andare, cosa cercare, ma lo nascondeva con una certa eleganza. Accanto a lui,
c’erano la dott.ssa Hawkins e il prof. Ergon. Entrambi stringevano tra le mani dei georadar
che sfruttavano la riflessione delle onde elettromagnetiche per sondare il sottosuolo. «Cosa
stiamo cercando? Le monetine sotto la sabbia?», disse Prince. Henry rise, immaginando che
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tutto quello spreco di risorse si potesse ridurre per davvero a una sessione di rabdomanzia.
«Mettila così, male che andrà avrai visto un posto nuovo», intervenne, seria, Ronda.
«Ah, certo. Mi stavo giusto chiedendo quanto potesse costare una settimana bianca qui. È
così bello e accogliente questo posto che, quasi quasi, potrei portarci anche la fidanzatina»,
rispose Prince, sogghignando alle sue parole divertite che male si abbinavano alla marcia
estenuante tra la burrasca gelida a inseguire un orizzonte non visibile a occhio nudo.

«Ci siamo!», urlò la Hawkins, non trattenendo un entusiasmo che non trovò seguaci, «Sotto
di noi... Siamo prossimi a una scoperta epocale, ammiraglio. Tutto ciò che dobbiamo fare è
dirigerci lì!». La visiera del casco termico di Barrett era ricoperto da una brina ghiacciata che
gli impediva di capire cosa stesse indicando la dottoressa. Con un gesto automatico, lo ripulì
con la mano, liberando la visuale dal manto gelato, e strizzò gli occhi. Quello che vide era un
antro, una cavità oscura nel fianco di un’altura bianca come il marmo. Era abbastanza grande
da potervi accedere tre alla volta e non di più, alta un paio di metri, decisamente poco
rassicurante. «Professor Ergon, lei è sicuro di quello che dice la sua collega?», domandò
l’ammiraglio, ottenendo in risposta un cenno deciso del capo. «E va bene, ma esigo che, da
questo momento, sia lei a indicarci la strada», ingiunse prima di fare cenno ai suoi uomini di
seguirlo nelle tenebre.

Percorsero, con le torce frontali accese, un lungo corridoio roccioso che, oltre a stringersi
sempre di più, acquisiva una notevole pendenza in discesa che rendeva difficoltosa la marcia;
un suono costante, come di un ruscello o di acqua in un acquario, faceva da tappeto; la
temperatura, passo dopo passo, saliva, fino a diventare quasi piacevole; gli animi dei soldati
invece con, negli occhi, ancora il ricordo della miniera di Marsgrad, diventavano sempre più
inquieti. «Fermi!», ordinò l’ammiraglio, «Qualcosa non va». Davanti a loro, una parete di un
materiale simile al vetro cellulare gli sbarrava la strada. «È un vicolo cieco», sbuffò,
guardando il professore che, tastando delicatamente il muro, disse: «Penso sia l’ingresso del
loro mondo. Dobbiamo solo capire come chiedere il permesso di entrare». Non fece in tempo
a pensare che un segmento rettangolare delle dimensioni di una porta si illuminò per aprirsi in
una cabina circolare con porte girevoli e un sofisticato sistema di controllo biometrico. Lo
sbigottimento generale fu palpabile. L’ammiraglio, con il suo fucile spianato, si avvicinò per
verificare che non si trattasse di una trappola. Stentava a credere che qualcuno fosse stato così
gentile da aprire le porte di casa senza nemmeno conoscere gli ospiti. «Qualcuno dovrà
restare qui. Non possiamo entrare tutti, né possiamo tirarci tutti indietro. Tenente Vaughn, lei
torni all’Arcturus. Ci attenda lì. Porti con sé metà degli uomini. La restante parte verrà con
me, insieme al reparto scientifico», ordinò l’ammiraglio. Van Bolen fu uno dei primi ad
essere scelto. Non ne fu particolarmente entusiasta, ma non lo diede troppo a vedere.
Approfittando del buio, infatti, a mano a mano che il numero dei soldati chiamati aumentava,
si inserì nelle retrovie, fino a confondersi con gli uomini reclutati per oltrepassare il muro. Si
salutarono, dandosi appuntamento al più presto, e con il cuore pieno di domande, un po’ alla
volta, chiusero gli occhi e sparirono...

Quando li riaprirono si trovarono in una opalescente caverna dalla sconfinata profondità,


illuminata da un impianto di luce artificiale che appiattiva i contorni delle poche strutture
presenti. Quella che poteva definirsi una città si estendeva lungo le rive di un fiume che
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nasceva da una sorgente naturale. Una strana quiete regnava in quel luogo dal cielo di pietra.
Le onde sonore, rotolando ed echeggiando attraverso le pareti, soffocavano e si gonfiavano,
sbiadivano, si avvicinavano e si allontanavano. Ogni suono prodotto rimbalzava, si spingeva
in avanti per poi tornare indietro cambiato. L’ammiraglio Barrett guardò il prof. Ergon,
implorando una risposta al quesito che tutti si ponevano.
«Capisce cosa ha provato Colombo quando mise piede nelle Americhe? Questa data, che lo si
voglia oppure no, verrà ricordata come la scoperta di un Nuovo Mondo», disse Ergon.
«Non si emozioni troppo», sbuffò l’ammiraglio, comprendendo che neanche lui poteva essere
d’aiuto.
«Chi decide chi è lo scopritore?», disse una voce femminile che risuonò nelle teste di tutti.
«Chi va là?», urlò il sergente Gilbert, voltandosi intorno. Nemmeno un’ombra si mosse.
«Noi vi abbiamo scoperti secoli fa. Siete un popolo pittoresco, voi terrestri. Divisi da cultura,
lingua, religione, tradizioni, storia. Avete creato arte, siete gli unici ad averlo fatto, avete
creato amore, siete gli unici ad averlo fatto, avete creato miseria, guerra, paura, siete i primi
ad averlo fatto. Tutto questo l’avete testato prima su voi stessi, vi è piaciuto e ora non potete
farne a meno. Cosa volete adesso? Sentirvi padroni di un qualcosa che non vi appartiene?
Esportare il vostro stile di vita così come avete fatto sul pianeta Marte?».
«No!», strillò la dott.ssa Hawkins, «Non siamo qui per colonizzarvi. Siamo qui per parlare
con voi. Abbiamo ritrovato una mappa che ci ha condotti qui. Le nostre intenzioni sono
pacifiche. Potremmo condividere le nostre scoperte».
Un silenzio irreale rese sordi i soldati. «Non amiamo le vostre urla. Rispettate la nostra pace,
abbassando la voce». Tremò Henry, tremò Prince, tremò anche l’ammiraglio. Poi, il cigolio
di un pesante portone che si spalancava lentamente risuonò. Lo videro aprirsi. Era l’ingresso
di un edificio incassato in una spelonca. «Posate le vostre armi ed entrate».
Obbedirono. Si spogliarono dei fucili e, con deferenza, si incamminarono. Varcarono il ciglio
della porta. Centinaia e centinaia di alieni, perfettamente allineati, disposti in due file laterali
ben ordinate, creavano due navate al centro del quale era possibile camminare. Guardavano
tutti in avanti, nessuno sembrò turbarsi della presenza degli uomini. «Sono tutti uguali! E non
hanno la bocca! Da dove mangiano questi?», bisbigliò Prince ad Henry che, preoccupato, gli
fece cenno di non fiatare. Avanzarono lungo il percorso a loro destinato. Sul soffitto videro la
grande finestra da cui era possibile vedere il cielo, Saturno e i suoi satelliti. Era il loro
collegamento con l’esterno. Alla dott.ssa Hawkins sembrò poetico e, mentalmente, prese
nota. Quando sarebbe tornata sull’Arcturus avrebbe voluto descrivere dettagliatamente di
quel mondo, di quel popolo che la osservava senza farsi notare, di quella quiete spaventosa,
di quel senso di mistica serenità che si respirava in quella specie di cattedrale, e di quella
donna aliena che adesso li guardava con un’espressione inafferrabile, lucente nel suo colorito
ambrato. Aprì le braccia, mostrando le sue lunghe dita, quattro per mano, poi le richiuse,
stringendosi in una sorta di abbraccio. Camminò senza timore tra gli uomini che, al contrario,
si spostarono per lasciarle libero il passaggio. Guardò tutti, uno ad uno, e tornò indietro.
«Io sono Arkana Akedi, veglio sul popolo e le terre psioniche. Sapevo che sareste giunti fin
qui, un giorno», disse senza aprire bocca.
«Come fa a parlare? E per giunta nella nostra lingua?», domandò Henry tra sé e sé.
«Non vi sto parlando, sto solo comunicando con il vostro sistema nervoso centrale. È il
vostro cervello che traduce in parole gli impulsi che vi sto inviando», rispose, «Qui, il
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silenzio è il nostro Dio. Non abbiamo una lingua come voi, solo contatti mentali che ci
consentono di dirci qualsiasi cosa senza turbare la quiete originale».
«Arkana, mi presento, sono il professor Ergon, scienziato a servizio dell’esercito terrestre.
Avremmo bisogno della sua saggezza per comprendere il significato dei reperti ritrovati sul
pianeta Marte. Siamo certi che lei sia in possesso della seconda tavola».
«Terrestri... io vi conosco. Possedete il dono della lusinga. Dietro di essa, però, si
nascondono sempre i vostri interessi personali».
«Le assicuro che non è così», intervenne la dott.ssa Hawkins, sforzandosi di contenere
emozioni discordanti.
«Ne conobbi uno, non troppo tempo fa. Diceva di essere a capo di una vostra colonia, si
chiamava Pavius», disse Arkana, generando stupore negli animi dei soldati e, in particolare,
dell’ammiraglio Barrett che, quasi pietrificato, si dimenticò dove si trovasse e aprì le orecchie
per non perdere neanche una parola di quello che l’alieno stava per confessare, «Raggiunsi la
sua dimora insieme a una delegazione d’altri mondi per discutere di pace. E quale modo
migliore che conoscersi? Lui sembrava molto cortese e, soprattutto, molto interessato a
stringere legami con alcune comunità nomadi, presenti anche nel nostro mondo. Fidandomi
della sua bontà, riuscii a stabilire un contatto tra i due. Non potevo immaginare che le sue
intenzioni fossero di vendere i propri simili per creare delle chimere».
«Chimere?», domandò Barrett, non comprendendone il significato.
«Una fusione genetica inter-specie», balbettò, terrorizzato, il prof. Ergon.
Arkana Akedi si avvicinò alla prima fila della truppa. Inchiodò i suoi occhi in quelli
dell’ammiraglio che, non muovendo un muscolo, rimase in attesa di capire cosa volesse.
Pensò di essere disarmato. Se mai avesse voluto aggredirlo, avrebbe potuto fare affidamento
solo e soltanto sulla sua forza. Si guardò mentalmente attorno. Erano troppi. Da giovane
aveva studiato l’arte della boxe, ma sicuramente non sarebbe bastata ad atterrare tutti quegli
alieni. Rifletté e rassicurò il suo animo: qualunque fossero state le sue intenzioni non avrebbe
reagito. La donna psionica tese le sue mani sul suo capo e lentamente riuscì a sfilargli il casco
integrale. Barrett trattenne il respiro, credendo di morire, di lì a poco, di asfissia. Il sergente
Gilbert lo guardò terrorizzata, indecisa se intervenire oppure no. Comprese la volontà del suo
superiore e attese che la morte lo prendesse. Questa, però, non arrivò. Arrivato al limite della
sopportazione, l’ammiraglio sputò tutta l’aria che aveva incamerato e ne raccolse di nuova.
Lo fece senza difficoltà. Fissò Arkana e, con il fiatone di un apneista a fine gara, la ringraziò.
L’atmosfera permetteva una regolare respirazione. Diede il permesso a tutto il suo esercito di
liberarsi del casco e così fecero. Henry aspirò con forza. Era come inalare della dolce brezza
primaverile del Monte Elbert, nel Colorado. Si attaccava alle narici, solleticandole
piacevolmente. Sorpreso e rigenerato, chinò in segno di rispetto la donna aliena, e così fecero
tutti.

«Adesso venite con me».

Camminarono, a volto scoperto, lungo le rive del fiume, accompagnati, come in una
processione, da un manipolo di autoctoni. Era come se fossero giunti alle stesse
considerazioni di Frank Lloyd Wright sull’architettura organica. Promuovevano l’armonia tra
la comunità e la natura con la creazione di un sistema in equilibrio tra ambiente costruito e
ambiente naturale, attraverso l’integrazione di vari elementi artificiali e naturali dell’intorno
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 55

ambientale della gigantesca caverna. Non vi erano orpelli o distinzioni sostanziali tra gli
edifici. Difficile era distinguere un’abitazione da un magazzino o un’altra attività. Fatto sta
che tutto era in ordine, pulito, ma allo stesso tempo selvaggio. «Che noia, sembra di stare a
Bakersfield», disse Prince a Ronda che, seria, non lo calcolò neanche con un’occhiatina,
«Avevo un amico di Bakersfield. Si chiamava Arthur. Diceva che la cosa più divertente che
fosse capitata in città era stato il crollo immobiliare del 2048». Un microscopico sorriso
illuminò a intermittenza il volto della ragazza. Prince, considerandola una conquista, le si
affiancò nel tentativo di sfiorarle una mano. Non poté, però, nemmeno allungare un mignolo
che un suono sinistro, proveniente dalle retrovie, si diffuse energicamente. Era lo stomaco di
Conrado, brontolava come un cucciolo di dinosauro, indomabile malgrado il suo tentativo di
occultare i borgorigmi con dei colpi di tosse. «Dove stiamo andando potrete anche
rifocillarvi», disse Arkana, aumentando il suo imbarazzo.

Presero posto attorno a un tavolo, su sedute ricavate da rocce calcaree, in un salone ampio e
frequentato da nativi di Encelado. Su un piedistallo, vi era uno di loro. Apparentemente
sembrava non avere una funzione. Fermo, in una posa dimessa, osservava i presenti senza
interagire con nessun simile e nessuna apparecchiatura. Capirono solo quando alzò le mani al
soffitto che poteva considerarsi un deejay. Con lo stesso principio della comunicazione
verbale, telepaticamente, inviava codici che venivano tradotti in musica. «Niente di
paragonabile rispetto a quella terrestre», disse Henry, «Si avvicina al jazz, ma soltanto perché
non la capisco». Riuscire a interpretare lo stato d’animo degli psionici, anche in quel
contesto, era impresa per pochi. La maggior parte di loro era radunata al centro della pista,
marciavano in senso circolare, ricreando una sorta di girotondo che, se si fissava a lungo,
poteva risultare quasi psichedelico. Era la loro danza, il loro divertimento. «Del resto, Arkana
l’aveva detto. Noi abbiamo creato l’arte e tutta una serie di simpatici diversivi per intrattenere
la nostra noia», disse Conrado, «Spero almeno che il cibo sia buono». Arrivarono dei
camerieri. Servirono ad ognuno delle placche metalliche delle dimensioni di un pacchetto di
Lucky Strike. Chiedendosi se quello fosse solo il piatto, Prince inarcò il sopracciglio e guardò
in direzione dell’ammiraglio che, come tutti, attendeva indicazioni su come mangiare quella
strana pietanza. «Questo è quello che possiamo considerare il nostro piatto tipico, nonché
l’unico. Avete notato che noi non possediamo cavità orali, né tantomeno un apparato
digerente. Non necessitiamo di mangiare, ciò che abbiamo sviluppato è una vivanda che
nutre lo spirito, che trasmette al nostro cervello la sensazione del gusto, della sazietà.
Solitamente si serve in eventi particolari, unioni o funerali, ma considerando la vostra
presenza, possiamo considerarla una festa», disse Arkana, prima di imporre le mani sulla
placca. Il sergente Gilbert, perplessa ma affamata, fece lo stesso. Dapprima non avvertì nulla,
poi qualcosa: un sentore di cibo già masticato e inghiottito. Dire che il sapore fosse gradevole
era fuori discussione, simile al gusto della gelatina della carne in scatola con un arrière-goû
terroso. I soldati, augurandosi un incerto buon appetito, imitarono il loro sergente. Nessuno
provò disgusto, solo un senso di insoddisfatto satollamento. «Le siamo grati per la cena, ma...
Come mai ci ha portati qui?», domandò l’ammiraglio Barrett all’alieno che le sedeva accanto.
«Voglio darle una possibilità», rispose Arkana. «Lo vede?», chiese, indicando un solitario
indigeno che si intratteneva guardando la danza che, ossessiva, proseguiva senza mai
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 56

cambiare, «Il suo nome è Pinkot. È un venditore di informazioni. Vada da lui, ma non baratti
sul prezzo. La qualità di ciò che le dirà potrebbe cambiare».
Henry, incuriosito dalla situazione, si voltò con discrezione. Vide quel tale. Se si fossero
trovati sulla Terra, avrebbe pensato che fosse assorto nei suoi pensieri. Un tizio tranquillo,
come chiunque a quelle latitudini. Se l’avesse perso di vista, non avrebbe saputo identificarlo.
Era identico a tutti gli altri maschi, vestiti, portamento, corporatura, taglio di capelli,
carnagione, tutto in linea con i restanti abitanti di Encelado, nessun segno distintivo.
L’ammiraglio Barrett, dopo essersi consultato con uno scambio di sguardi con il sergente
Gilbert, chiese il permesso di alzarsi e lo raggiunse con un passo incerto. Henry seguì la
scena, fingendo di essere interessato all’ambiente. Tamburellava, per non dare nell’occhio, le
dita sul tavolo per portare il ritmo della canzone trasmessa in cervello-diffusione dal deejay. I
due parlarono, o meglio, l’ammiraglio parlò, mentre Pinkot si limitava a guardarlo. Fecero
questo per una decina di minuti, poi l’informatore estrasse dalla tasca della tunica uno
scrigno, una piccola scatola che consegnò tra le mani di Barrett che, furtivamente, la ripose
nel taschino interno della giacca. Si congedarono con quello che, agli occhi di Henry, non
sembrò neanche un saluto. La musica si alzò di tono, diventando quasi insopportabile, e
un’espressione preoccupata, stampata sul viso dell’ammiraglio, al suo ritorno alla tavolata,
fece capire ad Henry e ai pochi attenti, tra cui Van Bolen, che qualcosa non andava.

**

Trascorsero la notte, o quello che sembrava essere la notte, in un ostello buio e umido.
Malgrado l’ospitalità psionica fosse ineccepibile, la carenza di comfort rese la permanenza
dura e faticosa. Il sergente Gilbert e l’ammiraglio non dormirono, se non per poche ore.
Discussero su ciò che Pinkot aveva comunicato. «C’è da fidarsi?», fu la domanda che
rimbalzò maggiormente tra i due ufficiali. «Mi ha dato questo. Vuole che venga consegnato a
un certo Finch», disse, rispondendo alla domanda su quale fosse stato il prezzo da pagare per
aver ottenuto l’informazione che li avrebbe portati, la mattina seguente, all’ospedale
abbandonato di Encelado. Consultarono le mappe, non era molto distante, circa tre miglia.
Era situato, da quello che avevano potuto capire, in una periferia ormai disabitata del satellite.
Arkana aveva consigliato a tutti gli autoctoni di trasferirsi nel nucleo centrale dopo il
sopraggiungere delle comunità aliene nomadi, che avevano deciso di stanziarsi lì. Non era
possibile parlare di emarginazione, in quanto le stesse non gradivano la vicinanza di
nessun’altra razza. Il loro inserimento era da considerarsi più un’occupazione coatta e, così
come avevano fatto su Encelado, così solevano fare anche su altri pianeti. Pinkot aveva detto
all’ammiraglio che nell’ospedale avrebbero trovato qualcosa di cui anche Arkana era
all’oscuro: un lager per umani. «A questo punto, la questione della mappa spaziale, tanto cara
ai nostri scienziati, passa in secondo piano», disse il sergente Gilbert, riflettendo sul modo
migliore per intervenire. «Non conosciamo l’area, non possiamo prevedere il numero di
guardie a protezione del campo di concentramento, né di che tipo di attrezzatura militare
dispongano. L’unica cosa di cui potremmo essere certi è che lì dentro ci sono dei nostri
conplanetari mercificati da Brennon. Siamo, forse, la loro unica possibilità di salvezza e,
considerando che qui ci siamo arrivati per un puro caso, dubito che possano sperare in
qualcos’altro. È nostro dovere intervenire, o almeno provare», disse l’ammiraglio. Fece
recuperare le armi che avevano deposto al loro arrivo e radunò la truppa.
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***

Marciarono ordinatamente sotto i vigili sguardi psionici, poi, superata una lunga serie di
labirintici cunicoli, raggiunsero uno spiazzo largo come un campo da football, al centro del
quale vi era una struttura cadente ricavata da una monumentale roccia. Dalle fessure del
plesso si intravedevano delle luci e, a sentire bene, era possibile udire delle voci, dei gemiti.
Barrett diede l’ordine di circondare la zona. Il numero di soldati era ristretto e, a giudicare
dalla grandezza dell’ex-ospedale, sarebbe stata una follia procedere con un’incursione.
Troppi dubbi, troppa impreparazione, troppa paura di fallire. Guardò il suo esercito. Erano
armati e determinati a fare bene. Il sergente Gilbert aveva, per grandi linee, spiegato loro il
motivo dell’attacco. “Un buon soldato lavora meglio se messo al corrente delle proprie
azioni”, aveva sempre pensato. Tempo di pensare a una strategia però non ce n’era.
Aspettare, d’altronde, non avrebbe portato benefici. Le domande sarebbero rimaste insolute,
mentre il tempo per salvare anche solo una vita umana si sarebbe ridotto ulteriormente. Ciò
che si decise fu tentare di fare uscire allo scoperto il maggior numero di alieni e colpire a
distanza. Creare, dunque, un gran trambusto da guerriglia urbana e, sfruttando l’effetto
sorpresa, decimarne il più possibile. Il piano era chiaro. Divisi in squadre da dieci uomini, i
soldati si appostarono attorno alla struttura in attesa del segnale. Fu allora che un’etica
incertezza sublimò nella testa dell’ammiraglio. “E se fosse tutta una bugia? Se ci stessimo
accingendo a uccidere degli innocenti? Ci stiamo fidando delle parole di un alieno mai
incontrato prima. Un’operazione simile, sulla Terra, non sarebbe mai avvenuta. Ci sarebbero
volute settimane, forse mesi di indagini prima di procedere. Eppure qualcosa si sente. Delle
voci, confuse, ma si sentono! Lì dentro c’è qualcuno, ma non posso dire con certezza che
siano uomini. Di me non mi importa. Per questi giovani, però, mi dispiace. Li sto portando a
combattere con un nemico che non abbiamo visto neanche in foto. Non avrei voluto che
andasse così. Mi dispiace. Perdonatemi, ragazzi”, pensò e diede il segnale di procedere. Ogni
capo-squadra sparò con un lanciagranate un’ogiva esplosiva in direzione dell’ingresso
dell’ex-ospedale. Fu solo l’inizio. Il sergente Gilbert, con il suo M16, sparava, con clinica
precisione, lacrimogeni nelle finestre aperte, mentre Henry e Prince, intanto, frantumavano
quelle chiuse. Le prime forme di vita si palesarono. Avevano orrende maschere da teschio e
lunghi sai neri; imbracciavano fucili laser e, a giudicare dalla velocità e precisione con cui
individuarono e freddarono un marine, sapevano usarli molto bene. «Niente di buono potrà
mai esserci nel cuore di chi si veste in quel modo», disse l’ammiraglio Barrett che,
d’improvviso, si sentì molto sciocco per i pensieri fatti poco prima. «Santa Muerte!», esclamò
Conrado, vedendone uscire a flotte. Non temendo di essere colpiti, correvano in direzione dei
fuochi, nel tentativo di instaurare uno scontro frontale. L’esercito terrestre, in pochi istanti, si
trovò da attaccare a difendersi. Ne abbatterono a centinaia, ma questi continuavano a uscire
dalla struttura.
«Una volta, tirai un sasso a un alveare», disse Henry a Prince, mentre ricaricavano i propri
fucili, per poi riprendere a sparare.
«Ah, sì? E chi se ne frega!», rispose Prince, poco incline alle distrazioni.
«Uscirono tantissime api incazzate, sembravano non finire mai. Proprio come questi qui»,
aggiunse comunque Henry. L’amico non lo ascoltava nemmeno, ma lui continuò: «Vuoi
sapere come mi salvai?».
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«Se ci tieni tanto...», disse Prince, mentre ne centrava uno nel bel mezzo della fronte.
«Scappai!», concluse Henry e scaricò, disperato, un caricatore da venti su altrettanti alieni.
L’esercito sfruttò tutte le sue risorse, ma queste erano limitate. Non potevano essere preparati
a uno scontro, né tantomeno a uno così intenso. Una trentina di soldati non ce la fece. Gli
effetti delle scariche laser sui loro corpi erano raccapriccianti. Apparentemente, sembrava che
non avessero segni di perforazione, poi iniziavano a contorcersi, a bruciare dall’interno.
Fumavano dagli occhi, dalle narici, dalla bocca. L’odore era nauseante. La divisa, la pelle,
dopo poco, iniziavano a liquefarsi, scoprendo i tessuti muscolari che, pian piano, si
carbonizzavano. Lo strazio per alcuni era durato anche dieci minuti, minuti di urla strazianti,
di preghiere e richieste di aiuto, minuti in cui l’ammiraglio pensò di arrendersi, di lasciar
perdere, di tornare all’Arcturus e chiedere rinforzi. Metà dell’esercito era lì, così come anche
quelle munizioni che, più continuava la battaglia, più avrebbero fatto comodo. Stava per dare
l’ordine di ripiegare, quando un bagliore, una deflagrazione improvvisa e di furiosa intensità
lo rese, per qualche secondo, cieco, sordo e incapace di ragionare. Quando riacquistò il senso
della vista e dell’udito, tutti i nemici erano stesi al suolo, ridotti a brandelli di carne. Gli spari
cessarono. L’ammiraglio si guardò attorno, nel tentativo di capire da chi fosse partito il colpo
vincente. Fumante, ancora in posizione di attacco, c’era l’M72 S-Space bazooka di Ronda
Shirov. «Santa Muerte...», disse Conrado, fissandola. Avendo a disposizione un solo razzo,
Ronda aveva atteso che un folto numero di alieni si radunasse per trucidarne il più possibile.
Un’insolita distensione calò sul campo di battaglia. Barrett, come preso da un morbo di
incoscienza, abbandonò la sua postazione e camminò tra il verdastro sangue che sgorgava dai
cadaveri alieni. Notò che nessuno di loro aveva perso la maschera. Tentò di sfilarne una dal
volto di uno di loro. La prese per la parte alta e, imprimendo una gran forza con tre dita,
riuscì a strapparla. Sembrava incollata. Fu doloroso, ma la cosa che più fece rabbrividire
l’ammiraglio fu ciò che nascondeva. Un volto pallido, rugoso, quasi umano se non fosse stato
per la mancanza di palpebre e per quegli occhi grandi e rossi che lo ipnotizzarono al punto da
non avvertire nemmeno i suoi pensieri. Gettò la maschera tra la polvere e attraversò il campo
disseminato di corpi. Erano gli stessi umanoidi incontrati su Marte. Visto dall’alto, non era
che un fantasma fluttuante che, spinto da un leggero vento, si approssimava all’ingresso
dell’ospedale. Henry si domandò se dovessero seguirlo, ma non giungeva nessun comando.
Prince, stremato dalla fatica, ascoltò Ronda chiedere, attraverso il sistema radio incorporato
nel casco protettivo, istruzioni al sergente Gilbert. «Riposo, tenente. L’ammiraglio sa cosa sta
facendo», fu l’ordine. Barrett, in effetti, non sapeva cosa stesse facendo. Fu solo la curiosità
che fece da anestetico allo sgomento che avrebbe dovuto provare alla visione di ciò che trovò
all’interno della struttura. Un carcere, una grigia scatola di internamento. Il plesso, da luogo
di ricovero e cura di malati, era stato adattato a un inferno. In capsule trasparenti, grandi
come lavatrici, spoglie di uomini, donne, bambini e feti annegavano in soluzioni acquose;
alcuni, chiusi in celle, avevano mendicato pietà fino a morire di disperazione; su tavoli
metallici, centinaia di salme erano state sezionate, parti del corpo di alcuni di loro erano stati
cuciti insieme, quelli che sembravano essere degli scarti industriali erano stati accatastati in
una stanza inavvicinabile per via del miasma stomachevole; altri, legati a letti e pareti con
funi e manette, erano stati fucilati con armi a raggi laser, bruciavano ancora. «Sono tutti
morti», disse a bassa voce l’ammiraglio, «Sapevano che avrebbero perso e hanno preferito
non lasciarne vivo neanche uno». Ripeté, tra sé e sé, queste parole per convincersi che ciò che
stava vedendo era la realtà, incomprensibile e sofferente come non avrebbe mai pensato
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potesse essere. «C’è qualcuno?», urlò, in un disperato tentativo di salvare almeno un essere
umano, «Rispondete! Rispondete, vi prego! Sono qui per aiutarvi...», continuò, mentre la
voce si rompeva sempre più in un pianto, «Ci abbiamo provato... Perdonateci, perdonate il
vostro pianeta! Non potevamo sapere cosa stesse accadendo. Non potevamo immaginare che
Brennon... Tanti ragazzi lì fuori si sono sacrificati per aiutarvi, ci abbiamo provato, ve lo
giuro. Non è servito... Non è servito a niente!». Si guardò attorno, tremando come le prime
foglie che cadono d’autunno in Ontario, e, non riuscendo più a sopportare tutto quello,
spalancò una finestra, facendo luce su quel cimitero e su sé stesso. «Ve lo prometto, non
finirà qui».
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Capitolo Otto

Vedendoli tornare all’Arcturus, il tenente Vaughn non potè fare a meno di assaggiare quella
tristezza che Barrett elargiva sotto forma di mutismo. Entrarono dal portellone principale,
stanchi, assenti, come lo erano in molti. Il numero di soldati, infatti, si era ridotto
drasticamente. Il sergente Gilbert, comprendendo la domanda che aleggiava come una mosca
impazzita, scosse il capo. Le speranze perirono in quel momento, il loro incedere cadenzato
riverberò nei cuori di chi non c’era che, cercando tra i superstiti, si rese conto di aver perso un
amico, un compagno di bevute, una spalla su cui contare in guerra e in pace. I posti letto si
liberavano troppo velocemente, i ricordi appesi con lo scotch alle pareti delle capsule di quei
militari che mai avrebbero fatto ritorno sulla Terra rumoreggiavano, chiedevano giustizia,
imploravano quella verità insoluta che anche i vivi cercavano. L’ammiraglio, transitando
dinanzi ai dormitori, senza proferire parola, le ascoltò. Erano le voci di fidanzate, fidanzati,
mamme e figli; erano le voci di un futuro vero soltanto per metà, di rancori che non sarebbero
scomparsi con una misera pensione di guerra, con una medaglia all’onore, con una parata
celebrativa. Nessuno avrebbe mai restituito a quelle voci la gioia di vedere quei giovani
attraversare il vialetto di casa, così come nessuno avrebbe mai accettato la morte di quegli
uomini ancora senza nome, incolpabili solo di essersi fidati del piano coloniale del pianeta
Marte. Henry e Prince furono gli ultimi a salire sulla navicella. Portavano a fatica una scatola
piena di attrezzi, documenti e materiale di tortura prelevati dall’ex-ospedale, che
depositarono sulla scrivania del laboratorio. Il professor Ergon e la dottoressa Hawkins, dopo
aver ringraziato i due soldati, si misero immediatamente a lavoro. Indossarono dei guanti in
lattice e analizzarono meticolosamente ogni pezzo. Vi era un vasetto di metallo a collo sottile
dal corpo globulare che riportava sul manico ad ansa un’incisione incomprensibile, vi erano
due maschere di ferro, un bavaglio che ricordava una mordacchia, bisturi di ogni tipo, un
rudimentale pulsi-ossimetro e una cartella in cui, su dei fogli di un materiale simile alla
plastica, vi erano dei messaggi scritti nel loro codice linguistico, qualcosa di molto simile a
un rapporto.
«Ha qualche idea su come tradurlo?», domandò la dottoressa.
«È la prima volta anche per me. Ci vorrà un po’ di tempo», rispose il professore, strizzando
gli occhi su quei caratteri alieni.
L’opportunità di studiare con tutta calma quell’alfabeto, però, non gli fu concessa.
L’ammiraglio, teso come la corda di uno Stradivari, impose alla troupe di scienziati di venire
a capo della questione in tempi inumani. «Siete pagati per questo! Cosa dovremmo fare,
aspettare che compiliate un dizionario? A me sembra che il vostro interesse sia soltanto
quello di raccogliere informazioni ed esperienze utili per scrivere i vostri dannati saggi! Vi
ricordo, cara dottoressa Hawkins, che siamo giunti fin qui anche per colpa vostra e delle
vostre idee sulla mappa spaziale. Dov’è finita, adesso?», urlò Barrett in un laboratorio in cui
regnava imbarazzo e senso di colpa, «Farete bene a sbrigarvi. Io in questo posto non voglio
restare un minuto di più!».
«Punte di resistenza nella fascia di asteroidi del sistema Starback. Ritardo con l’invio del
carico di cavie. Richiesta la supervisione, Belak», disse una voce familiare nelle loro teste.
«Arkana? Dove sei?», domandò l’ammiraglio, guardandosi attorno.
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«Non sono con voi. Ci siamo conosciuti e abbiamo stabilito un contatto che ci consente di
avviare, a richiesta, un collegamento mentale, quantico. Quello che vi ho letto è ciò che
stavate tentando di interpretare», disse Arkana.
«È inquietante», balbettò il tenente Vaughn, non comprendendo la situazione, «Che cos’è?».
«Le spiego dopo», rispose l’ammiraglio, rincuorato dal sostegno psionico che iniziò a
reputare di gran lunga più efficace di quello terrestre, «Cosa ci consiglia di fare? Il sistema
Starback è collocato fuori dal sistema solare. È lì che si nasconde il loro quartier generale?».
«Rispondere a questa domanda è, per me, impossibile. Se è quello ciò che cercate, non vi
resta che provare».

L’Arcturus lasciò Encelado quel giorno stesso. Nel navigatore di bordo furono inserite le
coordinate per il nuovo sistema planetario. «Cinquemila anni luce, radiazione
elettromagnetica nel vuoto nell’intervallo di un anno in più, radiazione elettromagnetica nel
vuoto nell’intervallo di un anno in meno», disse il sottotenente Lee, scardinando un leggero
sorriso dalle labbra dell’ammiraglio che, velocemente, si tramutò in preoccupazione. Ciò che
concordarono fu un viaggio in modalità mista. Viaggiando al massimo della velocità e
utilizzando solo pochi minuti al giorno il sistema tachioni, avrebbero raggiunto l’obiettivo in
una settimana. Fare un utilizzo eccessivo del sistema di viaggio “veloce”, infatti poteva
compromettere il buon funzionamento della navicella, oltre che a mettere a repentaglio la loro
incolumità. Ciò a cui non si pensò immediatamente, però, fu al morale dei soldati. Nei
corridoi, nella sala comune e negli alloggi si parlava a stento. Ognuno, risucchiato in qualche
tipo di pensiero, investiva il proprio tempo a consumare meno energie possibili. Di
distrazioni, del resto, non ce n’erano. Guardando lo spazio dalle vetrate della Panorama
Room era possibile, anche per giornate intere, contemplare solo un’infinita oscurità che non
poteva di certo fare bene all’umore. Qualcuno dormiva, fregandosene della scomodità del
materasso, per alzarsi solo per buttare giù un boccone e svuotare la vescica; qualcuno
scriveva lettere che non avrebbe mai inviato; qualcuno si dedicava alla palestra; qualcuno,
facendo avanti e indietro nelle corsie della navicella, coprì in sette giorni l’equivalente in
miglia di Chicago-St. Luis; qualcuno pensò di aver sbagliato mestiere, tutti riconoscevano in
quella missione un senso di abuso ai limiti della legalità. Anche Henry si sentiva così, un
burattino tra le mani dell’esercito terrestre. Giurare fedeltà alla propria nazione, al proprio
pianeta, era stata ed era una promessa dalla quale non sarebbe mai rifuggito, ma la fedeltà era
un sentimento che doveva essere alimentato da sincerità. Quello a cui erano andati incontro,
la scatola cinese che, a mano a mano, apriva i suoi cassetti, e infondeva agli ufficiali la
pertinacia per continuare a esplorare lo spazio come se fosse il Rhode Island, l’irritazione di
non poter esprimere la propria considerazione, perché non richiesta, generava in lui l’idea che
si trattasse solo di una grande messa in scena, una bugia a cui tutti, superiori compresi,
avevano creduto, un gioco estremamente pericoloso da cui forse solo pochi ne sarebbero
usciti vivi. Henry era uno di quelli che preferiva trascorrere le ore a letto, spesso non
alzandosi neanche per la cena. Non che si perdesse chissà cosa. In cucina, infatti, i cuochi
iniziavano ad avere non poche difficoltà a offrire un menù variegato e appagante. La scelta di
chiudere gli occhi e sognare un Juicy Lucy, invece di aprirli e trovarsi davanti della carne in
scatola con contorno di verdure disidratate, non era poi così balzana. Quella sera, sarà stato il
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terzo o il quarto giorno di navigazione, avvertì di dover cedere alla realtà. Rendendosi conto
di non profumare propriamente di fiori di pesco, preparò tutto l’occorrente per una doccia
che, probabilmente, l’avrebbe anche aiutato a raschiare via i brutti pensieri e sagomarli in
qualcosa di diverso, di più pulito. Così fu, o almeno in parte. Uscendo dalla cabina, ancora
avvolto dal vapore che appannava i vetri e gli occhi, si sentì leggermente meglio. Coprì le
nudità con un asciugamano e attraversò il corridoio deserto che lo separava dalla camerata.
Con apatico distacco, entrò sicuro di essere solo. Nessuno nelle capsule, nessuno nei paraggi,
erano tutti a cena. Gettò il misero canovaccio che separava le membra da un’assoluta, seppur
momentanea, libertà e fece per raccogliere i vestiti che aveva accuratamente piegato sul suo
materasso, quando un rumore di passi lo destò da quel rilassamento. Si infilò rapidamente il
boxer, ma non tanto da evitare che, anche se solo per pochi istanti, qualcuno lo vedesse come,
forse, non avrebbe voluto. «Oddio, Mitchell!», disse una voce rotta dall’imbarazzo, «Mi
perdoni. Torno non appena ha finito di vestirsi». Era la dottoressa Williams che a quelle
parole non fece seguire azioni. Restò ferma lì, in attesa di ordini, di una conferma da parte del
soldato che, intanto, si infilava un pantalone. «Devo dire che, come primo appuntamento, è
un po’ strano, dottoressa. Poteva almeno avvisarmi», disse Henry, intuendo del potenziale in
quella situazione in equilibrio su un filo di languidezza. Non sentendo una risposta, Henry si
voltò per sorriderle, ma incrociare il suo sguardo era impossibile, aveva stretto le palpebre
come una bambina davanti a un film horror e, allo stesso modo, faceva con un foglio.
«Cos’è?», le domandò Henry.
«L’ammiraglio sta distribuendo in sala mensa l’elenco delle attività. Vuole che vi sentiate
pronti a un possibile sbarco su Starback. Non vedendoti da qualche sera, ho pensato che fossi
qui», rispose la dottoressa, consegnandogli il piano ad occhi chiusi. Henry lo prese, non lo
guardò neanche, lo lasciò cadere sul pavimento. Preferì avvicinarsi sempre più alla
dottoressa, fino a invadere la sua zona intima. Quando la sua faccia era a pochi centimetri dal
viso pallido della Williams, ridendo, disse: «Volevi dirmi anche qualcos’altro?». La
dottoressa aprì gli occhi, ritrovandoselo davanti. Una scintilla, un attimo di incoscienza, un
bacio. In quei pochi secondi, vennero catapultati sulle rive del fiume Snake, gli storioni
bianchi, giunti dal mare, attraversavano quelle acque alla ricerca di un fondale sabbioso dove
riprodursi all’ombra del Teton Range. Percepirono distintamente l’aria che si respirava al
confine tra l’Idaho e il Wyoming, anche se nessuno dei due ci era mai stato. Poi, come scossi
da un vento invernale, si allontanarono per tornare sulla navicella, nel dormitorio, in quel
momento. Si guardarono come storioni fuor d’acqua. Henry, sentendola tremare, temendo di
aver esagerato, balbettò delle traballanti scuse che, però, si persero nella testa della dottoressa
che, prima di sgattaiolare fuori dalla stanza, quasi come ad auto-convincersene, ripeté: «Non
è saggio. Non è saggio».

**

«Davanti a quel sistema che viene chiamato, come dite, Solare, c’è un pianeta. Tale pianeta,
poi, è più grande di Giove e Nettuno messi insieme, e a coloro che procedono da esso si offre
un passaggio agli altri pianeti, e dai pianeti a tutta la galassia che sta tutto intorno, intorno a
quello che è veramente universo. I suoi abitanti, i Proxyan, innalzarono un’unica immensa
città che toccava tutto il perimetro del pianeta, così che tutti gli abitanti si sentissero parte di
un solo centro. Erano filosofi, pensatori, amanti delle stelle, ma anche artigiani, pastori,
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condottieri. Il loro regno fu invidiato da chiunque ne avesse anche solo sentito parlare, un
sogno durato millenni. In tempi successivi, però essendosi verificata una terribile invasione,
nel corso di un giorno e di una notte, tutto il complesso dei guerrieri che vi abitavano di
colpo scomparve, e il pianeta Starback, allo stesso modo crollando su di sé, sparì. Furono gli
Ares a svegliarli dal sonno», raccontò Arkana, mentre l’Arcturus si approssimava al pianeta
Starback. L’ammiraglio Barrett, vedendolo, ne rimase impressionato. Non aveva mai visto in
vita sua nulla di più maestoso. Ruotava lento, sereno, nonostante la cortina di detriti stellari
che gli gravitavano attorno. Per raggiungerlo avevano perforato migliaia di miglia attraverso
una corona di asteroidi che le faceva da fortezza. C’era qualcosa di noto nei suoi colori:
un’infinita macchia di blu, circondata da un vastissimo continente di un verde selvaggio.
«Idrosfera attiva, ammiraglio», disse il tenente Vaugh, scoprendo nel dettaglio le
caratteristiche del pianeta dal computer di bordo, «I sensori non rilevano nessun tipo di
trasmissione, segnale o impronta termica fuori dall’ordinario. Il pianeta sembra essere
deserto». «Utilizzeranno una tecnologia stealth, probabilmente», disse l’ammiraglio,
guardando i suoi colleghi. «Potremmo precedere per tentativi. Atterrare e...», consigliò il
professor Ergon, prima di essere interrotto da Barrett che, con tono severo, disse:
«Impossibile. Riusciremmo a perlustrare solo una piccola area». Il sergente Gilbert, annuendo
alle considerazioni dell’ammiraglio, rifletté sulla possibilità di far stazionare l’Arcturus
nell’orbita bassa di Starback e scandagliare i velivoli leggeri. A disposizione ve ne erano tre, i
Typhoon X. Utilizzati per voli transcontinentali, equipaggiati per combattimenti aerei e
posizionabili a un massimo di cinquecento chilometri dalla superficie, potevano passare in
poco tempo da una velocità ipersonica di Mach 5 a Mach 30 e ospitare quattro uomini oltre al
pilota. Non sentendo altre proposte, la espose, rompendo il tentennamento creatosi in sala
comandi. Barrett ponderò a lungo. Si chiuse in una smorfia accigliata, meditò sui rischi che
quel piano avrebbe comportato, rimuginò sugli errori commessi su Marte ed Encelado, e
convenne con il sergente. Era probabilmente la scelta più logica, «Chiamate a raccolta i
piloti, partiranno non appena avremo parcheggiato questo mostro».

Ronda, malgrado la giovane età, aveva accumulato oltre tremila ore di volo su ottanta tipi di
aerei e aveva partecipato allo sviluppo dello stesso Typhoon X. Durante i suoi dieci anni in
Aeronautica aveva volato sull’F-40 Hornet e sull’F-38, partecipando anche a svariate
missioni operative in Nigeria. Era stata il pilota più giovane a volare su quei velivoli e, fin da
subito, tra le più promettenti. Fu convocata, insieme ad altri due veterani dell’aria, per
indossare la tuta anti-G e prendere il volo nel tentativo di raccogliere informazioni sul suolo
alieno. I sensori avionici, integrati nella visiera del casco, li avrebbero aiutati negli
spostamenti. «Non viaggerete alla cieca, vi guideremo con il sensor fusion dalla navicella. La
perlustrazione, se escludiamo sorprese, durerà un’ora, alla fine della quale farete ritorno
sull’Arcturus. Siate prudenti», comunicò il sergente alla truppa che, diligentemente, prese
posto nei caccia e attese il lancio nel vuoto. Dalla stiva uscirono tutti, restarono soli. C’era
qualcosa di magico in quegli attimi: la preparazione, la messa in sicurezza, la verifica del
perfetto funzionamento di tutti gli apparecchi, l’attesa. Era l’attesa che rendeva quel
momento estatico. Ci si chiedeva come mai non arrivasse il permesso di accendere i motori,
come mai fossero ancora inchiodati su una pista di lancio, per poi rendersi conto che
semplicemente il tempo scorreva in maniera diversa, più lenta, e quella voglia di partire era
figlia della paura e sorella della frenesia. Tutti i soldati provarono contemporaneamente le
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 64

stesse emozioni, come quando ci si deve togliere un cerotto, avrebbero voluto strapparlo in un
colpo solo, tutti compreso Prince, fermo nella Panorama Room a guardare dalla vetrata la
partenza di Ronda. Un tetro suono sordo annunciò l’apertura del portellone, insieme al
potente rombo dei motori. L’Arcturus sussultò, lo fecero anche i cuori. Si fermarono solo
quando i Typhoon X partirono, precipitando a una velocità impressionante verso Starback.
Scomparvero in pochi istanti alla vista di chiunque, bucarono l’atmosfera del pianeta,
trasformandosi in falchi pellegrini tra spazio e cielo. Non fece altro che aspettare il loro
rientro. Per Henry e gli altri, pronti a ricevere direttive, non restò che attendere e sperare.
Trascorsero minuti lunghi come ore, minuti in cui nessuno ebbe il coraggio di parlare. Da un
momento all’altro una sirena avrebbe potuto cantare il suo richiamo alle armi, da un
momento all’altro quelle speranze si sarebbero potute tramutare in drammatiche realtà.
Guardarono lontano, e più si spingevano in avanti più si guardavano dentro. Cercavano di
capire a occhio nudo cosa stesse succedendo a migliaia di chilometri di distanza;
immaginavano di essere con i propri compagni, di avere informazioni in diretta, di potersi
innestare al loro sguardo per vedere ciò che vedevano loro. Non potevano sapere però che
tutto quello che i piloti videro fu una sconfinata distesa di rovine, di strutture crollate, di
cumuli di detriti, una desolazione nata probabilmente da una tempesta di bombe atomiche.
Identificare una possibile roccaforte nemica era pressoché impossibile. Perlustrarono un’area
grande come il Canada, ma i radar non inquadrarono nulla di vivo. Si rassegnarono all’idea di
tornare all’Arcturus, fare rifornimento e ripartire non appena sarebbero arrivati nuovi ordini.
«Permesso accordato, tornare alla base», comunicò l’ammiraglio in contatto radiofonico.
Ruotarono su un fianco, accelerarono fino a raggiungere i Mach 30 e, non rallentando mai, si
prepararono a un volo in verticale. Il caccia di Ronda fu il primo ad ascendere, seguito dagli
altri due. Per quanto potesse essere emozionante sfrecciare in cielo, mettere i piedi a terra,
anche se su una navicella spaziale in orbita nell’atmosfera bassa di un pianeta sconosciuto,
era tutto quello che un pilota cercava. Il successo di una qualunque missione aerea si
calcolava solo dopo l’atterraggio e ciò che accadde fece in modo che il risultato fosse
tutt’altro che positivo. Una piccola flotta di velivoli non identificati, alzatisi in volo da uno
squarcio in una montagna, attaccò i Typhoon X con missili aria-aria. L’ultimo della fila
amica esplose, riducendosi in una nuvola compatta portatrice di una pioggia calibro 30 mm di
fuochi Izhmash GSh-301 e di bombe AGM-130. «Ritirata! Ripeto, ritirata!», urlava Barrett,
visionando dal suo radar l’arrivo di decine di aerei. «Non è possibile, siamo circondati!»,
strepitò Ronda, volteggiando come una libellula tra gli aviatori extraterrestri. Giocando
d’astuzia, ne abbatté due e lo stesso fece l’altro pilota. Fortuna volle che le aquile metalliche
nemiche non fossero dotate di una tecnologia tale da poter mettere immediatamente la parola
fine alla battaglia. Erano decisamente più lenti e meno equipaggiati, la loro forza era il
numero. Crescevano sempre di più. Sbucavano come calabroni da quella montagna,
frusciando in coro e scagliando dardi pirotecnici. «L’abbiamo trovata! La base è posizionata a
N 41° 53' 24″ E 12° 29' 32″», informò il neo-tenente, avvicinandosi sempre più a quel punto.
L’ammiraglio, sulle prime sconcertato dalla sconsiderata scelta della Shirov di fiondarsi verso
il loro covo, comprese il suo intento e ordinò al sergente Gilbert di inserire le coordinate e
puntare il cannone a ioni. «Che intenzioni ha, ammiraglio? No, è una follia! Condanneremo a
morte i nostri soldati!», replicò il tenente Vaughn. «Eseguite!», ma Barrett, che tentava di
mettersi in contatto con i due piloti, invitò tutti ad attenersi ai suoi ordini senza replicare. In
pochi e affannosi istanti, l’arma era pronta a colpire. Il caricamento richiedeva poco meno di
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 65

un minuto. Il gruppo di atomi avrebbero dovuto condensarsi fino a non richiedere altro che
fuoriuscire sotto forma di fascio disintegratore. Il conto alla rovescia partì. Ronda, intanto,
piroettava, infischiandosene degli attacchi e non perdendo occasione di perforare ali e
fiancate con potenti mitragliate. Il piano era chiaro. Attrarre l’intera flotta aliena nei pressi del
loro bunker per colpirli di sorpresa con un colpo da cinquecento chilometri di altezza. La
tempistica era fondamentale. I due Typhoon si affiancarono, caracollarono verso il suolo di
Starback e si librarono nuovamente in cielo, costeggiarono la montagna, bordeggiarono la
rada vegetazione, eseguendo una spirale che molti inseguitori non riuscirono a emulare,
schiantandosi tra loro e contro costoni di roccia. Mancava poco, una manciata di secondi,
accelerarono. Il raggio che l’Arcturus stava per lanciare, avrebbe interessato gran parte
dell’area circostante. Una volta giunti al bersaglio, si sarebbero dovuti allontanare al massimo
della velocità per sperare di non essere interessati dall’onda d’urto. L’ammiraglio prese il
comando. L’obiettivo era nel mirino. Dalla fronte cadde una goccia di sudore fredda come le
acque del lago Michigan. Contò: «Tre, due, uno, fuoco!».
Henry, Prince e gli altri soldati, ignari di ciò che stava accadendo, furono colti alla sprovvista
da una scossa tellurica che li fece crollare sul pavimento. Un fascio di luce illuminò quello
spicchio di galassia e si gettò, ancor prima che qualsiasi occhio potesse accorgersene, su
Starback, centrando in pieno il bersaglio. L’onda di sovrappressione lo distrusse
istantaneamente, il monte franò, trasformandosi in una striscia di terra, una voragine si aprì a
imperitura memoria del passaggio degli esseri umani. In sala comandi si levò un boato di
gioia. Anche l’ammiraglio fu tentato dall’esultare, ma prima volle accertarsi che gli unici due
sopravvissuti fossero i suoi soldati.
«Qui l’ammiraglio Barrett, mi sentite?», chiese, non ottenendo una risposta. «Segnalate la
vostra posizione», continuò, «Rispondete! C’è qualcuno in ascolto?». Il segnale era assente, i
radar della navicella non percepivano le loro tracce. Calò un silenzio che raccontava una
sconfitta. La felicità provata per pochi attimi si trasformò in un commiato. «Sono i morti a far
vincere le guerre», sussurrò il tenente Vaughn, fissando una luce che schizzava fuori dal
pianeta per dirigersi a tutta velocità verso di loro, «Ma questa volta credo siano meno del
previsto. È uno dei nostri!».
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Capitolo Nove

Assiepati nella palestra dell’Arcturus, i soldati, disposti in modo tale da delimitare un


quadrato, avevano creato un ring di sei metri circa per lato. Vigorosi schiamazzi rombavano
tra le pareti della sala. Liberavano, urlando sonori e rudi incoraggiamenti, le loro frustrazioni.
Nel perimetro lasciato libero si stava svolgendo un incontro di pugilato senza limiti di tempo
né arbitri. All’apparenza, poteva essere confuso con una rissa, ma il rispetto delle regole della
nobile arte da parte dei contendenti e il loro abbigliamento raccontava una storia diversa.
La campagna di Starback aveva aperto ancora di più un controverso solco tra i pensieri delle
truppe e le scelte dei superiori. Le speranze di un ritorno sul pianeta Terra si riducevano di
pari passo con l’allontanarsi della navicella dal sistema solare, così come la fiducia nella
lucidità mentale dell’ammiraglio. Nessuno, prima di quel viaggio, si sarebbe mai permesso di
mettere in discussione la lucentezza delle sue decisioni, ma ormai da troppo tempo era palese
la sua difficoltà. Le asperità di una guerra disorganizzata e mal preparata pesavano su di lui
come un Monte Rushmore posato sul petto che non lo faceva respirare né ragionare con
serenità. Da giorni l’Arcturus stazionava sull’ex-pianeta dei Proxyan, in attesa di ordini che
potevano essere sputati fuori soltanto da lui. Chiuso nella sua camera, però, Barrett rifletteva,
studiava, cercava di trovare un rimedio al quel senso di colpa che gli comprimeva il torace.
Perse la cognizione del tempo. L’unica persona che aveva il permesso di fargli visita era il
sergente Gilbert. Inutili furono i suoi tentativi di rassicurarlo. Tutto quello che l’ammiraglio
aveva era in quel veicolo volante, ottenuto in decenni di impegno, di lavoro, di sudore, che
rischiavano di trasformarsi in una colossale sconfitta per lui e per il genere umano. «Non
tornare a casa, per me, non sarebbe un grave problema», disse una sera, «In fondo, sulla Terra
non ho niente. Ho rinunciato a tutto per stare qui: una moglie, una famiglia, una dimora
stabile. Quei ragazzi, però, hanno una vita. Tu, Melissa, hai una vita laggiù! Siamo stati
fortunati nel non veder morire tutti i nostri piloti l’altro giorno, a essere ancora vivi, ma per
quanto ancora? E per cosa stiamo morendo, poi? Laggiù c’era solo un’aviorimessa, niente di
più. Sono stanco di non avere certezze, di girovagare come una scheggia impazzita nel vuoto
cosmico. Ho inviato un fascicolo a Foster. Ora basta. Lui e Cooper devono venirci incontro,
smetterla di stare a guardare! Lo sforzo che ci stanno chiedendo non è mai stato richiesto a
nessun altro. Comprendo il malessere dei soldati, lo provo anch’io». La sicurezza del sergente
crollò nel sentirsi chiamare con il proprio nome. In tanti anni di conoscenza, l’ammiraglio
non l’aveva mai fatto. Si era sempre rivolto a lei con quel distacco richiesto dal codice
militare. Capì che, più scorrevano le settimane, più i rapporti professionali saltavano come
cilindri di dinamite. Fu allora che la tranquilla ragazza di North Platte, dormiente in quel
corpo indolenzito dall’estenuante traversata, venne allo scoperto, spintonando quella
spigolosità che le faceva da scudo, e gli strinse la mano. Nulla di più che una trasmissione di
calore, probabilmente tutto quello che a quelle altitudini mancava e di cui tutti avevano
bisogno per ritrovare un po’ di fede, per riuscire a dare un senso anche alla morte.
L’ammiraglio la sentì attraversargli le vene, dare colore alle proprie guance e seccargli la
bocca da cui non uscì una parola se non «grazie».
Per stemperare la tensione tra i soldati, nell’intervallo in cui si attese una replica dal
presidente degli Stati Uniti Terrestri e dal Capo di stato maggiore, furono indetti dei giorni
dedicati allo svago. Pochi erano gli strumenti per divertirsi sulla navicella, ma si fece il
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 67

possibile. Si organizzarono incontri di boxe, un torneo di squash e una serata karaoke a cui
prese parte soltanto Prince. Non avvezzo al canto, Henry decise di suonarle su un ring. Si
iscrisse senza pensarci su, indossò i guantoni e i pantaloncini e diede sfogo, dandone sfoggio,
a tutta quella rabbia accumulata, mandando a tappeto chiunque gli si trovasse davanti. «Ho
cercato di fare piano, scusami», diceva a ogni fine incontro, «Non volevo farti male. Siamo in
guerra, non possiamo permetterci troppa gente in infermeria». Quest’aria da gradasso non
faceva che accrescere nei cuori degli sfidanti un’insana voglia di zittirlo con un pugno ben
assestato. Era proprio quello che pensava O’ Reilly, il gigante irlandese con le gote rosse e un
naso aquilino, mentre gli scaricava addosso dei montanti che avrebbero abbattuto anche il
generale Sherman, la sequoia si intende. Henry però non franava al suolo. Restava in piedi,
quasi rideva e, alla prima distrazione o cenno di stanchezza, colpiva. «Ma di cosa sei fatto, di
gomma?», domandò, sputacchiando saliva e sudore, O’Reilly, «Perchè sei ancora in piedi?».
Il pubblico strepitava, ululavano, sghignazzavano senza sosta. Tutti tranne la dottoressa
Williams. Entrò in palestra, attratta dalle grida, e si fece largo per vedere chi si stesse
fronteggiando. Apertasi una finestrella tra due energumeni, incappò negli occhi di Henry che,
vedendola, abbassò la guardia. L’irlandese non se lo fece scappare, caricò un gancio destro in
cui condensò tutte le sue forze e lo liberò in tutta la sua devastante potenza sul volto di Henry
che, senza distogliere lo sguardo da Elizabeth, cadde al tappeto, sconfitto. Knock out.
Aveva ancora lo sguardo fisso quando Prince gli corse incontro per raccoglierlo. Credendo
che fosse svenuto, o peggio, gridava a gran voce nell’orecchio il suo nome e richiedeva
assistenza medica. Lo fece per qualche secondo, poi Henry mosse il capo, sensibilmente
confuso, ma vivo. «Ho perso?», sbiascicò, generando una fragorosa risata nei pochi che
riuscirono ad ascoltarlo. Il baccano, infatti, era insopportabile. Incitavano, come taglialegna
dell’Oregon, O’Reilly a battersi ancora. Distrutto dall’incontro appena terminato, l’ercole di
Cork declinò la proposta, gettandosi a peso morto su una panca ed elemosinando una bottiglia
d’acqua che gli fu consegnata proprio mentre un messaggio in filodiffusione negli altoparlanti
della navicella invitava tutti a raccolta nella Panorama Room per un’assemblea straordinaria.
Chiedendosi cosa mai potesse essere accaduto, data la severità dell’appello, i soldati si
incamminarono nella sala comune. Henry, reggendosi a Prince, rivendicava una rivincita:
«Non è giusto, ero soprappensiero». «Se non ti fai ammazzare dagli alieni, ci pensa
l’irlandese!», gli rispose l’amico, sorridendo. Presero posto a un tavolo e rivolsero il loro
interesse verso l’ammiraglio Barrett che, con il capo chino, attese pazientemente che ogni
singolo membro della truppa spaziale si sedesse. Calò un silenzio di sospensione lungo e
teatrale, che fu rotto dalla sua voce forte e decisa come non l’avevano ascoltata dai tempi di
Fort Bliss.
«Vi ho convocati tutti qui perché credo sia giusto mettervi al corrente della situazione. Per
troppo tempo, avete obbedito agli ordini pur essendo all’oscuro di ciò che stava accadendo.
Beh, devo confessarvi che anche io, nella maggior parte dei casi, lo sono stato ed è per questo
motivo che adesso voglio che la scelta del prosieguo della missione sia condivisa da tutti»,
disse, non staccando la vista dai suoi stivali, «Ho parlato con il presidente Cooper. Ringrazia
ognuno di voi per i sacrifici fatti e per il coraggio dimostrato finora. Va senza dire che Pavius
Brennon ha perduto la carica di presidente della colonia marziana e ora è ufficialmente
considerato un traditore del pianeta Terra. La Universe Investigation Desk, in seguito al
comunicato inviato dopo le nostre scoperte su Marte, si è messo sulle sue tracce e,
probabilmente, hanno capito dove si nasconde». Un telo scese dal soffitto. Su di esso venne
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 68

proiettato la fotografia di un corpo celeste avvolto da una densa foschia rossastra. «Questo è
Shasur. È qui che i servizi segreti vogliono che andiamo». La dottoressa Hawkins sbarrò gli
occhi e bisbigliò qualcosa nell’orecchio del professor Ergon che, di tutta risposta, annuì
profondamente. «In modalità di viaggio mista, dovremmo riuscire a raggiungerlo in un paio
di giorni. Ciò che ci attenderebbe è un mistero per tutti noi», continuò Barrett, «È per questo
che voglio, per la prima volta nella mia carriera, chiedere a voi un ordine. Voglio che tutti
siate d’accordo con il procedere in questa caccia all’uomo, sperando che sia l’ultima volta.
Quindi, chi è disposto a mettere in gioco nuovamente la propria vita, a sparare a occhi chiusi
contro degli immondi extraterrestri, e a vantarsi in eterno della cattura di quell’apostata di
Brennon?», tuonò. La quasi totalità della platea non comprese il significato della parola
apostata, ma ne percepì la forza, solenne come l’arditezza che infuocò i loro animi scellerati.
Ronda, l’unica sopravvissuta della battaglia aerea di Starback, fu la prima ad alzarsi in piedi e
urlare: «Presente!». Seguirono il sergente Gilbert, il tenente Vaughn, Conrado, Henry, Prince,
O’Reilly e l’Arcturus stesso.
*

Lo sbarco su Shasur non fu una passeggiata. La densa atmosfera composta essenzialmente di


CO2, insieme alle nubi di anidride solforosa, generava un forte effetto serra, portando la
temperatura della superficie a oltre 100°C. Questo lo rendeva il pianeta più caldo mai visitato
fino a quel momento. Non appena lo videro, inospitale, arido, con quelle dune di sabbia
simili a quelle di Killpecker, venne spontaneo soprannominarlo il pianeta Inferno.
L’equipaggiamento in dotazione all’esercito, la BioSuit, nonostante fosse pensata per
sopportare grandi freddi e grandi caldi, reggeva a malapena la tentazione di gettare la spugna.
Il sistema di raffreddamento interno, infatti, spinto al massimo, rischiava di rompersi e
mettere un punto definitivo alla faccenda Brennon. Si decise di collegare la tuta a uno zaino,
il Primary Life Support System, dotato di un serbatoio per il liquido di raffreddamento
collegato a un sublimatore. Fu una scelta saggia, non certo pratica. Era come avere un
compagno sulle spalle, ti salvava la vita, ma pesava parecchio. E parecchio pesava anche il
cammino, la marcia in quel deserto, fermo e sconfinato, in cui non vi era nemmeno un
chiosco che vendesse una Strawberry Crush o una 7 Up. L’obiettivo, a quanto disse
l’ammiraglio, era stato individuato a circa sei miglia dall’area in cui atterrò l’Arcturus.
Ansimando per la fatica, Henry si domandava perché fossero costretti a camminare così
tanto, in fondo avrebbero potuto avvicinarsi con la navicella. Queste riflessioni non gli
uscirono dalla bocca e si cancellarono come le orme che lasciava nella sabbia non appena
Barrett, apri-fila insieme al sergente Gilbert, comunicò di essere giunti a destinazione. Prince,
non distaccandosi troppo dal pensiero comune, disse di non vedere altro che un mucchio di
rena. Effettivamente il paesaggio non era cambiato minimamente da quando erano scesi
dall’Arcturus e, pur gettando lo sguardo il più lontano possibile, non sembrava riservare
sorprese. Il problema, però, era proprio la direzione dello sguardo. Il professor Ergon, infatti,
indicava un punto a terra, una sorta di lapide su cui vi era inciso un messaggio con gli stessi
caratteri del rapporto trovato su Encelado. La dottoressa Hawkins estrasse dalla cintura
attrezzata una minuscola macchina fotografica, si inginocchiò e fece vari scatti. «Beh, cosa
c’è scritto?», domandò Barrett. I due scienziati tentennarono quel tanto che bastava per far
prendere all’ammiraglio la decisione di chiamare a gran voce Arkana. A vederlo, sembrava
matto. Urlava quel nome, guardando il cielo fulvo di Shasur, quasi come se la stesse cercando
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 69

proprio lì. Tra la ciurma si contennero le risate. Non ottenendo risposte, Prince ironizzò,
dicendo: «Il telefono della persona chiamata potrebbe essere spento o non raggiungibile. La
preghiamo di richiamare più tardi». Fortunatamente nessuno dei suoi superiori lo sentì. Poi,
improvvisamente, rispose: «Ammiraglio, ha bisogno di me?».
«Arkana, potrebbe dirci cosa vi è scritto su questa pietra?», domandò Barrett, leggermente
imbarazzato dalla richiesta di una consulenza linguistica, ma consapevole che fosse l’unica
possibilità per comprendere, un passo alla volta, qualcosa in più.
«Mi faccia vedere», disse Arkana, entrando nel campo visivo dell’ammiraglio, «Bene, vi è
scritto semplicemente...».
«Tirare!», gridò la Hawkins. Per qualche secondo tacquero tutti, poi la regina psionica parlò:
«Esatto. C’è scritto semplicemente “tirare”».
Barrett ringraziò Arkana per la gentilezza e, inflessibile, si avvicinò alla dottoressa. «Vedo
con piacere che ha studiato», le disse, «Adesso si sposti». La allontanò e chiese a tutti di
retrocedere. Rimasto solo, ghermì la lapide, strinse i denti e spinse verso di sé con tutta la
forza che aveva. In un primo momento, restò ancorata al suolo, poi, pian piano, si piegò, fino
a abbattersi al suolo come una casella di Guess Who?. Una piccola buca circolare, posizionata
poco distante dall’ammiraglio, si allargò artificialmente. Colate di sabbia vi scivolavano
all’interno. Raggiunse il diametro di un pozzo, una cavità oscura nel bel mezzo del nulla.
«Tutto qui?», domandò Prince, attendendosi che una metropoli si levasse dalle sabbie,
«Brennon è lì dentro? In un pozzo?». Tempo per riflettere sull’assurdità della situazione non
ce n’era. Il caldo iniziava a permeare nelle BioSuit e, arrivati a quel punto, non restava altro
da fare che cavalcare l’onda degli eventi. Cautamente, il sergente Gilbert si affacciò. Il fondo
non era visibile. Niente scale, solo un lungo tubo simile a quelli degli acquapark. «È uno
scivolo», disse il sergente. «Bene», rispose l’ammiraglio, legandosi stretto il fucile al petto
con una cinghia, «Chiunque non possieda un’arma torni sull’Arcturus. Tutti gli altri mi
seguano», e, così dicendo, si lanciò senza timore alcuno. Henry guardò, perplesso, il tenente
Vaughn che, dapprima incerto, si fece serio e sentenziò: «Avete sentito? Prepararsi alla
discesa!». Il professor Ergon, prima di abbandonare il sito, fece in tempo a chiedere agli
ufficiali di raccogliere dei reperti, se mai ne avessero trovato uno, ma nessuno lo rassicurò.
La preoccupazione superava la voglia di ricerca. Selena Hawkins, pur di prendere parte alla
spedizione, disse di essere pronta a sparare, se qualcuno le avesse fornito una pistola.
Naturalmente nessuno fu disposto a privarsi anche solo di una Sig Sauer XM17. Si vide
costretta, scimmiottando Ergon, a mendicare tra la truppa un souvenir dalle profondità di
Shasur. Con la testa già al tunnel, nessuno le rispose, considerando anche che la lapide
meccanicamente, ritornando in posizione eretta, faceva richiudere il pozzo. Il tempo, anche
solo per ragionare, scarseggiava. Soltanto Prince, facendole l’occhiolino, prima di introdursi
nell’oscura galleria, le promise che non si sarebbe dimenticato di lei. Le bastò, in fondo non
poteva fare altro.

Uno a uno i soldati scesero a gran velocità nel condotto artificiale, una serpentina lunga un
centinaio di metri, ripida e tetra. Avere gli occhi aperti o chiusi non faceva differenza, si
ripeteva Henry, mentre la gravità lo spingeva chissà dove. Sentì le urla divertite dei
compagni, ma lui non la prese come un gioco. «O’Reilly, qui è stretto! Attento che ti
incastri!», scherzava un soldato in una caduta libera che si concluse in un rovinoso schianto al
suolo. Il tubo, infatti, terminava all’improvviso sul pavimento di roccia di uno speleo
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 70

incandescente. Tutti provarono la dolcezza di una batosta sull’osso sacro, ma più che
bestemmiare non poterono fare. L’ammiraglio, giunto lì per primo, aveva già avuto il tempo
di maledire Brennon e osservare l’area: un budello di passaggi, più o meno larghi, in cui
perdersi poteva considerarsi una possibilità concreta, anche perché le attrezzature per la
comunicazione radio, in quel posto, non funzionavano: erano completamente isolati.
Assumendosi il rischio, ordinò di dividersi in tre squadre, la prima capitanata da lui stesso, la
seconda dal sergente Gilbert e la terza dal tenente Vaughn. Avrebbero perlustrato una galleria
a testa e si sarebbero rincontrati all’uscita dello scivolo d’ingresso dopo trenta minuti. «Se
qualcuno vede Brennon, fatelo prigioniero», disse in ultima istanza Barrett, poi aggiunse:
«Ma se proprio vi sentite clementi, avete il mio permesso di farlo fuori». Henry, strozzando
un sorriso, si mise in fila con il plotone del sergente che, prima di fare il primo passo, salutò
l’ammiraglio con uno sguardo di complicità.

Avanzarono lentamente. Eccetto il tacchettare dei soldati, non si avvertivano altri suoni.
Eppure quel luogo doveva essere frequentato. Delle lampade, posizionate tra la speleotema,
di tanto in tanto, illuminavano a occhio di bue degli angoli dei cunicoli. Qualcuno doveva
averle installate, non l’avevano fatto di certo da sole. Altro, però, non c’era. Solo roccia per
miglia, gallerie che si allargavano e stringevano, in un caldo soffocante, una serra umida che
chiunque avrebbe fatto volentieri a meno di visitare. Il sergente Gilbert si fermò per
controllare da quanto tempo andasse avanti il loro peregrinare. Erano trascorsi circa
venticinque minuti e, da almeno cinque, le sembrava di girare in tondo. Pensò che potesse
bastare. Fece cenno con indice e medio ai soldati di fare retrofronte, ma proprio in quel
momento le poche luci si spensero. Un’eco lontano di grida di terrore e disordinati colpi di
fucile si levò tra le gallerie. «Azionate le torce!». In un attimo, si scatenò il delirio. Qualcosa,
dalle crepe della parete rocciosa, sgusciava lentamente fuori. Erano come grandi e disgustosi
peduncoli animati. Sbucavano da ogni lato, allungandosi sempre più, rivestendo l’intera zona
come un tunnel fiorito. «Via! Via! Via!», ordinò il sergente Gilbert, ma le piante, rivelandosi
tutt’altro che decorative, sbocciarono. Opercoli, aprendosi, scoprirono bocche dentate simili a
piante carnivore che attaccarono la truppa come se fosse uno sciame di ignare mosche.
L’assalto fu compatto, rapido, inaspettato. O’Reilly, morso tra collo e spalla, si dimenò,
strillando blasfemie, nel tentativo di staccarlo via. Fu tutto inutile, non mollava la presa.
Quegli aghi che sporgevano, più che denti, erano delle vere e proprie zanne, gli bucarono la
BioSuit ed entrarono nella carne. Era come essere stritolati da un lupo e, come se non ne
bastasse uno, ne arrivarono altri. Gli si attaccarono alle gambe, alle braccia e in testa. Henry
sparò sul soffitto, sui muri laterali, nel tentativo di liberarlo, ma non servì a niente. O’Reilly
si inginocchiò, forse già morto, cadde solo quando le piante lasciarono la presa. Almeno
un’altra dozzina di uomini ebbe lo stesso identico trattamento. Reagire sembrava inutile. Con
i Ka-Bar con lama fissa al carbonio era possibile intervenire tagliando il gambo, ma era
un’operazione lunga e, inoltre, la morsa era una trappola per orsi. Una volta entrato a segno,
la tagliola non si staccava finché non ti riduceva a cadavere. «È finita», disse Prince,
sparando come un forsennato, mentre il sergente montava uno strano adattatore sulla canna
del fucile e un altro al calcio che, collegato a un tubo, terminava in una tanica di benzina
grande come una borraccia. «Tutti a terra!», urlò la Gilbert. Un M16 convertito in un M2
poteva scatenare una potenza di fuoco notevole, e lo fece. I lanciafiamme erano stati banditi
dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America nel 1978, ma a quanto pare non per
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 71

lei. «Porca miseria!», scivolò dalla bocca di Henry, nel vedere quella donna bruciare quelle
piante che, a mano a mano che avanzava, si riduceva a erba secca. Appiccò un incendio
doloso. Il fuoco, propagandosi lungo la galleria, non risparmiò neanche una foglia. «Fuori!»,
ordinò, ottenendo un riscontro unanime immediato. Sfrecciarono come antilopi tra le fiamme
e il fumo, tra i corpi dei compagni e i bozzoli di proiettile per raggiungere il rendez-vous
scelto dall’ammiraglio Barrett. Furono i primi a presentarsi. La disperazione tra i soldati
ancora incastrati nei corridoi rombava, giungendo alle orecchie dei superstiti del plotone della
Gilbert, come le voci dei dannati.
«Sergente, come facciamo a uscire di qui?», domandò Conrado, guardando il tubo da cui
erano arrivati, «Qui si può solo entrare, non uscire».
«Ci penseremo più tardi», rispose, sfibrata dalla tensione e dall’arsura, «Ora abbiamo visite».
Un’ombra, arrancante, si avvicinava da una delle gallerie, trascinando i piedi. I soldati
puntarono i loro fucili in quella direzione, in attesa dell’ordine a fare fuoco. Sempre più
vicino, era quasi possibile sentire il suo respiro. Sfiorarono i grilletti, strizzarono gli occhi e
«Non sparate! Sono...». Il tenente Vaughn, con la tuta completamente coperta di sangue,
cadde, stremato. Abbassarono immediatamente tutti le armi e corsero in suo soccorso. La sua
squadra era stata massacrata, una carneficina. «È una trappola, sergente. Qui non c’è
Brennon, non c’è nessuno... Dovete andare via, mettervi in salvo. Proseguite lungo questo
corridoio, troverete l’ammiraglio, siamo quasi certi di aver visto una via di fuga. Fate
attenzione, è sorvegliata da...», disse prima di chiudere gli occhi.
Il sergente attivò sulla visiera del casco un sensore per rilevare i parametri vitali. Vennero, in
pochi secondi, scansionate la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la temperatura
corporea di Vaughn. I livelli erano vicini al minimo, ma non era ancora giunto ai cancelli
perlati. La Gilbert ordinò a Prince e Conrado di sollevarlo. L’avrebbero portato di peso con
loro, non potevano lasciarlo lì. Obbedirono senza porre domande. Lasciarono che l’intera
truppa li precedesse, avrebbero rallentato troppo la marcia. Seguirono, infatti, con andatura
barellante, i compagni in una sorta di processione in cui il morto (in questo caso, il
moribondo) faceva da chiudi-fila.

Lo scenario era assolutamente identico a quello in cui si erano imbattuti poco prima, se non
fosse per delle iscrizioni sulle pareti. Vedendole, Prince si ricordò della dottoressa Hawkins,
ma avendo le mani e la mente occupate, decretò che lo studio potesse anche aspettare.
Procedere senza soste era l’unica disposizione. Procedere, nonostante l’ecatombe di soldati
martoriati, riversi nel tartaro di quel pianeta disgraziato, che rendeva penoso il cammino
verso quella che poteva significare una salvezza, almeno momentanea. Procedere a testa alta,
evitando gli sguardi imploranti dei cadaveri, evitando di respirare, evitando di riflettere
troppo, procedere, procedere e basta. Così fecero per mezz’ora circa. Di piante carnivore,
sazie di sangue, non se ne vide neanche una. Il sergente Gilbert rifletté sul fatto che,
probabilmente, in quella galleria non ce ne fossero mai state, poteva esserci qualcos’altro.
Fatto sta che non incontrarono nessun essere ostile e non sentirono nessun suono, eccetto la
voce, nei pressi della fine del condotto, dell’ammiraglio che li esortava ad avanzare in fretta.
Incalzarono più che poterono. La tensione della battaglia rese le gambe meno reattive e i loro
passi pesanti e sgraziati, ma ce la fecero comunque. Raggiunsero Barrett e buona parte degli
uomini che aveva al seguito. Scrutavano nell’oscurità in modalità infrarossa e con i fucili
pronti a sparare, come se fossero a caccia. Al sergente fu indicata una lapide del tutto simile a
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quella che gli aveva aperto le porte di quella gabbia di roccia e angoscia. «Se ha funzionato
una volta, funzionerà anche adesso», disse l’ammiraglio, ordinandole di tirare la pietra. Il
sergente ripose il suo M2 accanto a sé e fece pressione per azionare il meccanismo che
avrebbe, teoricamente, aperto un portale verso l’esterno. Funzionò.
Un passaggio si spalancò lentamente. Era l’ingresso di una scalinata che conduceva sulla
superficie di Shasur. Un fascio di luce esterna entrò nella caverna e, per un attimo, i soldati si
sentirono sollevati. La sensazione, però, durò poco. Un verso, a molti familiare, trafisse i loro
animi e li gelò in un istante. Erano gli stessi esseri ripugnanti delle miniere di Marsgrad.
Henry li riconobbe subito: tentacoli da polpo, ventose argentate, grandi come cani da slitta e
affamati come grizzly dei Monti Mackenzie.
«Ronda, hai con te il tuo lanciagranate?», domandò Prince.
«Purtroppo, no», rispose, mostrandogli il fucile, «Ho solo questo».
«Bene, siamo fottuti».
Una scarica di spuntoni, sputati fuori dalle loro rivoltanti fauci, non perforò per una questione
di pollici Conrado che, intanto, insieme a Prince aveva adagiato il tenente Vaughn accanto al
portale che, come se provasse gusto nel vederli soffrire, si apriva sempre più pigramente.
Immediata fu la risposta. Uno scudo di fuochi, mitragliati dalle canne degli M4, ostacolò
l’arrivo di altri attacchi, ma le munizioni iniziavano a scarseggiare. Non poteva durare ancora
per lungo, dovevano uscire, correre via, e il momento giusto era finalmente arrivato. Il
passaggio aveva raggiunto il suo massimo, lo stretto necessario per passare uno alla volta.
«Procedere! Via di qua!», urlava l’ammiraglio, strattonando i soldati ancora intenti a sparare
all’impazzata e spingendoli verso la scalinata. Stava per dirigersi verso Prince, quando un
alieno scagliò la sua viscida escrescenza sulle caviglie del ragazzo. Disse ai compagni di
aiutarlo, gridò a Henry di aiutarlo, ma fu così veloce che non ebbero neanche il tempo di
capire. Il mostro lo risucchiò nel buio e di lui non fu più niente. «Cazzo! Cazzo! Cazzo!»,
strillò Henry, maledicendo il mondo intero e tentando disperatamente di raggiungere l’amico.
L’ammiraglio lo bloccò e spinse verso il portale che, intanto, iniziava a chiudersi. Ronda fu
una delle ultime a uscire. Da sola, sollevò il tenente e corse via. Chi non voleva proprio
saperne di correre era il sergente. Sola contro quei cefalopodi alieni, danzava in uno slow-
motion illuminato dalle fiamme dell’M2 che aveva attivato. «Melissa, dobbiamo andare!», le
disse l’ammiraglio, ma lei non sentì nemmeno. «Andiamo via!», continuò, correndole
incontro per afferrarla per la spalla. Prima che potesse farlo, però, un alieno la cinse per il
bacino e la inghiottì, facendola sparire nelle tenebre. «Melissa!».
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 73

Capitolo Dieci

Il tenente Vaughn si svegliò di colpo e, per un attimo, pensò di sognare. Era nell’infermeria
dell’Arcturus, circondato da medici di bordo che, con espressioni tutt’altro che rilassate, gli
ricordarono cosa fosse successo. Attorno a lui, dormienti e imbottiti di ativan e incubi,
c’erano molti soldati. Le immagini della battaglia, pian piano, gli vennero proiettate nella
mente. Il buio illuminato dal fuoco delle armi, l’ansimare dei moribondi, le grida dei
proiettili, la sensazione di avere fallito per l’ennesima volta. «Avreste dovuto lasciarmi
morire laggiù!», disse, guardando le barelle vuote e tentando con fatica di alzarsi.
Un’infermiera tentò di calmarlo, ma non volle sentire ragioni. Il tormento che provava era
troppo forte, insopportabile. Si strappò i sensori dal petto e la flebo dal braccio. Reggendosi
al materasso, si mise in piedi. Le gambe non gli reggevano, era debole come non lo era mai
stato. Si guardò le gambe, erano piene di lividi e medicazioni, lo stesso sulle spalle e sul
fianco sinistro. Il capo-infermiere, capendo che il tenente non avrebbe dormito un minuto di
più, procurò celermente una sedia a rotelle e lo aiutò a sprofondarvi sopra.
«Dove vuole che la porti?», gli domandò.
«Dall’ammiraglio», rispose senza pensarci.

Attraversarono il corridoio centrale. Non incontrarono nessuno. La navicella, ancora ben


salda al terreno di Shasur, era deserta, avvolta da un silenzio irreale. Dai dormitori, dalla
palestra, dagli uffici non proveniva alcun rumore. Tutto era fermo, stanco, vinto. Solo la voce
di Barrett, gelida come il vento invernale di Chicago, a un tratto si udì provenire dalla
Panorama Room. Entrarono, lo vide. Camminava tra i tavoli, zoppicando vistosamente. Ai
soldati era stata servita una cena che quasi nessuno consumò. Avevano tutti il capo abbassato
e posture scomposte, qualcuno piangeva. C’era Henry tra questi. Condiva il suo rancio con le
lacrime che cadevano a dirotto, come la pioggia su Forks. Inconsolabile, ricordava gli ultimi
attimi di Prince. Forse avrebbe potuto fare di più, ma come? Per quanto si impegnasse a
cercare un movente per incolparsi, non ci riusciva. Lo desiderava ardentemente. Voleva
addossarsi il peccato di averlo lasciato solo a sparare a dei mostri alieni, sarebbe stato più
facile farsene una ragione, ma la cronaca dei fatti lo assolveva. Era stato tutto così veloce,
così confuso. Ognuno era impegnato ad allontanare il pericolo per quello che poteva. La
quasi totalità delle truppe era stata risucchiata, martoriata. L’unica fortuna era di morire
subito, senza eccessive sofferenze. Per Prince non poteva esserne certo. Non restava che
singhiozzare. D’un tratto gli tornarono in mente le parole che gli disse negli ultimi istanti
trascorsi sulla Terra: «Questa non è la vita che avrei voluto, Henry, ma non ho scelta. Non ce
l’hai nemmeno tu». Comprese quanta paura provasse, quanto disincanto covasse nel
profondo. Era un buon amico, nonostante fosse una gran testa di cazzo, ma era proprio quello
che lo rendeva speciale, diverso da chiunque avesse incontrato a Fort Bliss. Sapeva ridere
perché, prima di ridere degli altri, rideva di sé stesso. Ora, però, non c’era altro da fare che
abbandonarsi alla tristezza. Quella tristezza che faceva più vittime di quegli schifosi polpi
extraterrestri. Nessuno ne fu salvo, non vi erano armi per difendersi e, probabilmente,
nessuno voleva farlo. Si abbandonarono a quello che aveva tutta l’aria di essere la fine.
Anche l’ammiraglio Barrett non ne fu immune. Aveva già dimostrato di camminare in
equilibrio su un filo di desolazione, ma questa volta non c’erano belle parole che potessero
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 74

consolare i suoi uomini e sé stesso. Le uniche parole che trovò furono tutt’altro che belle: «È
ora di dichiarare la resa. La Universe Investigation Desk ci ha illusi. Vorrei credere che sia
stato un errore, ma temo in un complotto. Sono settimane che vaghiamo nello spazio in
un’assurda e inconcludente caccia all’uomo. È compito di un superiore avere il coraggio di
arrendersi. La minaccia aliena è imprevedibile e Brennon, a questo punto, potrebbe essere
ovunque. Non abbiamo più le forze per continuare. Le armi scarseggiano e il nostro numero
di partenza si è ridotto drasticamente. Siamo pochi, una novantina forse, e siamo stanchi,
molto stanchi. Anche solo tornare a casa non sarà una passeggiata. Lontani anni luce da casa,
ci vorranno giorni per rientrare. Questo non si può considerare un fallimento, almeno non il
nostro. Noi, ragazzi miei, abbiamo fatto il possibile e, a volte, anche di più. È vero, il compito
di un soldato è difendere il proprio paese, il proprio pianeta, ma come fare a difendersi se non
si hanno le giuste coperture? No, non ha senso. Continueremmo a viaggiare, galassia dopo
galassia, nella speranza di prendere quel pazzo, fino a quando non sarà caduto anche l’ultimo
dei nostri. Mi dispiace, ma non possiamo permettercelo. Dobbiamo tornare indietro per poter
raccontare ciò che abbiamo visto, per far sentire la nostra voce che, per tutto questo tempo,
non è stata ascoltata. Non siamo giocattoli, siamo esseri umani e, come tali, meritiamo di
calpestare le nostre strade. Questi errori non li abbiamo commessi noi. Chi deve pagare
pagherà. A noi non resta che onorare la memoria di chi non è qui». Il sottotenente Lee si
avvicinò a Barrett. Aveva con sé una scatola. Conteneva le fotografie, i ricordi dei soldati
scomparsi nelle varie battaglie. L’ammiraglio ne prese una manciata e la mostrò ai presenti.
«C’è rimasto poco di questi ragazzi. Solo qualche pezzo di carta e portafortuna.
Probabilmente, qui dentro c’è tutto quello a cui tenevano di più. Il nostro obitorio è vuoto.
Fatta eccezione per la salma del generale Pillon non ve ne sono altre. Siamo stati costretti ad
abbandonarli per scappare e il loro sacrificio, mi duole dirlo, è stato fondamentale alla nostra
salvezza. Non li dimenticheremo, non lasceremo che questa guerra ci tolga anche l’ultimo
briciolo di umanità che abbiamo in corpo», disse l’ammiraglio. Prese una pausa, una lunga e
dolorosa pausa in cui sembrò non avere più fiato nei polmoni, poi, fissando il fondo della
sala, riprese: «A breve prenderemo il volo. Ci allontaneremo da questo pianeta infernale e
libereremo nel cosmo i nostri amici. Li omaggeremo con un funerale, con il nostro saluto più
rispettoso. Sono certo che così riusciranno a trovare la strada di casa prima di noi».

Al sottotenente Lee fu ordinato di provvedere a un check-up dei motori e pianificare la


traversata. Ci vollero delle ore. I tecnici si occuparono della supervisione del motore a
propellenti ibridi. Verificando che il tasso di combustibile e di ossidante non si fosse
modificato a causa dell’elevato stato di stress accumulato dalla navicella, notarono un leggero
regime operativo fuori-picco. Niente di preoccupante ma, considerando il viaggio che
avrebbero dovuto intraprendere, preferirono prendersi qualche ora per risolvere il problema.
L’ultima cosa di cui non si sarebbero potuti lamentare era proprio l’Arcturus. Mai un
cedimento dell’involucro, mai un hard start, una macchina vicina alla perfezione, sicura e
pensata per durare ancora per centinaia di anni. Su Shasur, però, non volevano più trascorrere
nemmeno un minuto. L’insofferenza dei soldati nell’attendere di lasciare per sempre alle
spalle quel cimitero fluttuante si palesò in brontolii e atti di frustrazione che non vennero
giudicati in alcun modo dai superiori. Il regime di controllo sugli atteggiamenti dei soldati
non era mai stato più libero. Henry e Ronda, alienati e sperduti, fissavano il paesaggio del
pianeta Inferno dalla grande vetrata centrale. La linea dell’orizzonte, smussata solo da una
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 75

nebbia rossiccia che ne opacizzava i contorni, sembrava disegnata da un bambino con una
matita.
«Ho come l’impressione che sareste stati bene insieme», disse Henry.
«Chi?», domandò Ronda, ancora assorta in altri pensieri.
«Tu e Prince. Credo che sarebbe stato capace di volerti bene», rispose e lasciò che il silenzio
negli occhi di Ronda facesse da colonna sonora a ricordi che non ci sarebbero mai stati.
Restarono lì a scrutare il tempo che, spietato, passava e fino a quando la realtà non si sostituì
alla fantasia. Un’ombra, arrancante e indistinta, si approssimava sempre più alla navicella.
Pensando che fosse un miraggio, un’illusione ottica, i due non allarmarono immediatamente
l’ammiraglio. Si limitarono a guardare, chiusi in un cipiglio incredulo.
«Chi diavolo è?», domandò la Shirov.
«La vedi anche tu?», rispose Henry, rassicurando sé stesso sul fatto di non essersi del tutto
ammattito. Era una figura longilinea, femminile forse. Lenta e costante, guadagnava terreno,
decisa a raggiungerli. «Non sembra umana... Dobbiamo informare Barrett».

Non appena si prese coscienza dell’evento, un plotone di dieci marines fu schierato in difesa
della navicella. Attendevano l’ordine al fuoco dell’ammiraglio. Malgrado le intimazioni a
dichiarare la propria identità, lo spettro su due gambe non rispondeva. Continuava ad
avanzare, quasi sospinto da un eroico quietismo. Fu allora che Barrett estrasse un binocolo
per comprendere con chi avessero a che fare. Quello che vide lo turbò dal profondo, a tal
punto da non farlo parlare. I soldati, convinti di essere prossimi alla fucilazione dell’essere, lo
inquadrarono nel mirino. Una preda facile, rispetto a tutto quello che avevano visto in quelle
settimane, era il male minore e non vedevano l’ora di sbarazzarsene. L’ammiraglio, però, non
fu dello stesso avviso. Lasciò cadere il binocolo e, in preda al raccapriccio di chi aveva
appena visto uno zombie, urlò: «Giù le armi! È il sergente Gilbert!».
Eppure qualcosa non tornava. Certo, indossava la BioSuit dell’esercito terrestre, il Primary
Life Support System era ancora quasi integro, ma c’era qualcosa di strano nell’andatura e
nello sguardo che la maschera celava. L’ammiraglio fece chiamare d’urgenza degli infermieri
e le corse incontro. La raggiunse, ma lei, probabilmente sotto shock, quasi non lo vide. Passò
oltre, continuò a camminare, fiacca e intontita. «Melissa, che ti è successo?», chiese Barrett,
non ricevendo risposta. Intanto, gli infermieri, portandosi dietro una barella e un gran fiatone,
raggiunsero il sergente. Anche per loro fu destinato lo stesso trattamento. Proseguì sola.
Inutile fu qualsiasi tentativo di sostegno. La Gilbert era sorda e apparentemente cieca. Tutto
ciò che vedeva era l’Arcturus, salire a bordo era il suo unico obiettivo, e voleva portarlo a
termine con i suoi piedi. Lo fece. In corteo, fecero il loro ingresso dal portellone principale,
sfidando l’incredulità dei soldati e degli scienziati che, avvisati dell’avvenimento, si
precipitarono per assistere con i propri occhi. «È tutto finito, Melissa. Ci siamo noi adesso»,
tentò di confortarla l’ammiraglio, ma quello che lo aspettava non fece altrettanto con lui.
Sedutasi su una poltrona, si sfilò il casco. Quello che una volta era il volto di una donna del
Nebraska si era deformato in qualcosa di incomprensibile. Aveva un colorito tendente
all’azzurro; le pupille si erano dilatate fino a raggiungere la grandezza di una biglia; il colore
dell’iride era mutato in un magenta senza sfumature; i capelli, sciolti e untuosi, le cadevano
sulla fronte coprendole le guance; le labbra erano di un blu elettrico; quasi non respirava.
«Portatela immediatamente nella camera di decontaminazione! Sgomberate una sala e
allestitela per il suo ricovero. Non sappiamo cosa le sia capitato. Abbiamo necessità di tenerla
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 76

sotto osservazione senza che entri a contatto con nessuno. Muovetevi!», dispose
l’ammiraglio, mobilitando un gran numero di uomini.

Si fece come ordinato. Il sergente fu fatta spogliare. I vestiti furono riposti in una scatola di
piombo per prevenire la nebulizzazione delle potenziali particelle radioattive. Il personale
DEA aiutò la Shirov a lavarsi con acqua tiepida corrente e sapone neutro; successivamente
venne sottoposta a una doccia di decontaminazione a tutto il corpo, e alla pulizia di occhi,
narici e bocca con una soluzione fisiologica. Terminata l’operazione, si procedette a misurare
la radioattività corporea. Non presentava livelli di contaminazione. I medici tirarono un
sospiro di sollievo, ma durò poco. Utilizzando un transistor, un dispositivo nano-elettrico al
grafene, effettuarono un test per identificare una possibile mutazione del suo genoma umano.
L’esame diede risultati positivi. Nel corpo del sergente Gilbert non vi era più lei, ma un
essere ibrido, solo per metà terrestre. L’ammiraglio, che ansioso faceva su e giù nei corridoi
della navicella, ne fu messo subito al corrente. Chiese il permesso di incontrarla per tentare
un colloquio. Gli fu accordato e, rifiutando la maschera protettiva, entrò nella sala in cui il
sergente era ricoverata. Vestiva solo con un camice per degenti, stesa su una brandina con gli
occhi sbarrati. Immobile, sembrava bucare il soffitto con lo sguardo, mentre Barrett le sedette
accanto. Seguì la sagoma del suo corpo consumato in una composta rigidità. Senza uniforme,
con i capelli disseminati sul cuscino, gli apparve, nonostante tutto, bellissima. Pensò a quella
sera in cui la sua mano si tese verso la sua, trasferendogli quel calore di cui aveva un
immenso bisogno. Molto probabilmente lei l’aveva cancellato dalla mente, ma lui no. Così,
prima di aprire bocca, fece lo stesso. Gli strinse la mano. Era fredda, gelida, quasi come se
non scorresse più sangue. Non era sofferente, sembrava non provare nulla. Viva, ma smarrita
in un limbo irraggiungibile. «Chi è stato? Chi ti ha fatto questo?», domandò, affettuoso, non
aspettandosi una risposta, «Parlami, Melissa...». L’orlo delle labbra era secco,
apparentemente parevano incollate. Non emetteva suoni. Il mistero che nascondeva, serrato
nella bocca e in quell’austerità che la rendeva più simile a una fredda statua di cera, emanava
una serenità celeste, qualcosa di incomprensibile, di inumano. L’ammiraglio provò a farla
tornare alla realtà. Aveva bisogno di capire, ma non ci riuscì. Le sue parole non giungevano a
destinazione, si scontravano con un muro di incomunicabilità che non seppe aggirare se non
con un pianto incontrollato. Si piegò su quella mano che lo aveva rianimato dall’afflizione e
la bagnò con la sua amorevole disperazione. Qualcosa in lei si mosse. Quel battito cardiaco
che, fino a quel momento, tamburellava al minimo, si riattivò. Mosse il capo e, perforandolo
con un’espressione malinconica, lo fissò. Barrett, spaventato e al contempo sollevato, restò in
ascolto senza perdere quel contatto visivo. Non guardava lui, guardava oltre e, così facendo,
disse: «Sono qui. Li vedo». L’ammiraglio, tranquillizzandola, le assicurò che non ci fosse
nessuno nella stanza, eccetto loro due, ma lei continuò: «Xeniani. Sono qui, li vedo». Il
sergente Gilbert socchiuse le palpebre e, per un attimo, Barrett vide la stessa donna di
sempre. Quello che disse, però, gli fece capire che così non sarebbe più stato. «Sono una di
loro. Hanno iniettato nel mio corpo un siero. Sono qui, li vedo. Mi hanno rapita, condotta nei
laboratori, operata. Sono scappata, ma ora sono qui. Li sento, li vedo». Barrett chiamò subito
i medici e il professor Ergon. Accorsero immediatamente. Tentò di spiegare cosa fosse
accaduto, ma il sergente intervenne prima di cadere in un sonno profondo: «È su Xenon che
lo troverete. Lo vedo, si nasconde, ma io lo vedo».
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 77

Non impiegò poi molto la dottoressa Hawkins per redigere una relazione sul pianeta che il
sergente aveva indicato come meta finale, ma all’ammiraglio sembrò un’eternità. Erano
ormai ore che stazionavano su Shasur, un giorno intero probabilmente. Ore in cui Barrett non
riuscì a trovare pace. In totale segreto, contattò il presidente Cooper. Gli comunicò della
disfatta e della decisione di invertire la rotta. Nessuno glielo avrebbe impedito, ma al suo
ritorno, gli fu detto, sarebbe stato accolto non certo come un eroe. La discussione si accese
come i fantocci a Black Rock City. «Questa spedizione ci sta costando più del previsto,
signor presidente. Sarebbe un ottimo risultato che torni almeno un uomo vivo sulla Terra»,
disse, indisponendo non poco Cooper, che lo appellò come codardo. Ci passò sopra, non
reagì. In cuor suo, sapeva di non voler rinunciare alla missione per vigliaccheria, ma per buon
senso. Il raziocinio tra il Joint Chief of Staff si disperdeva nella trepidezza di una colossale
sconfitta da libri di storia. Fu per avvalorare le proprie tesi che il presidente mostrò
all’ammiraglio un video di pochi secondi che Brennon, sbeffeggiante, aveva fatto recapitare a
Washington. Sembrava come impazzito, fuori di sé, borioso e sadico come un dio punitore.
Rideva delle sconfitte dell’esercito, rideva del proprio pianeta d’origine, rideva della morte
che avrebbe portato nell’universo intero. Il suo piano di assedio dei mondi si stava
compiendo. I patti che aveva stipulato con le tribù aliene, disse, lo avevano trasformato in
un’implacabile macchina di distruzione. Rispettato e potente, era a capo di ciò che nessun
uomo aveva mai avuto prima. Le sue mire espansionistiche non si riducevano a Marte e a
pochi altri pianeti, voleva di più, voleva tutto e un esercito di ragazzini armati di fucile non
gliel’avrebbero certo impedito. Il video si concludeva con un arrivederci che cambiarono
nuovamente le carte in tavola.
«Sono le parole di un megalomane», disse Barrett, «Cerca di intimorirci per evitare lo scontro
e scappare ancora più lontano».
«Se ne è convinto, allora vada a prenderlo e me lo porti vivo!», strillò Cooper. «Una pista ci
sarebbe, ma non sappiamo quanto possa essere attendibile», confessò l’ammiraglio.
«Non mi interessa chi o cosa vi indichi la strada! Chiedete a un astrologo, a un cartomante, a
un veggente, non mi interessa! Io voglio che mi consegniate Brennon e basta! Se doveste
rientrare a mani vuote, avremmo perso tutti, anche se non dovesse mai accadere niente.
Immagini cosa direbbe la stampa di noi, immagini la psicosi generale che si creerebbe. Il
pensiero di poter essere attaccati dall’alto da un momento all’altro generebbe il delirio, un
delirio che si protrarrebbe per decenni, forse secoli. Vuole questo, ammiraglio?».
Barrett, sospirando, scosse leggermente il capo.
«Bene, e allora faccia la cosa giusta», concluse il presidente, prima di interrompere la
comunicazione.

Fu così, con il cuore pieno di domande, che l’ammiraglio ascoltò il frutto della ricerca
congiunta degli scienziati di bordo. Gli fu difficile mantenere la concentrazione, ma ci provò.
«Xenon ruota attorno a un sole simile a quello della Terra. Nel sistema ci sono altri tre
pianeti, tutti di dimensioni minori e inseriti su orbite interne, oltre ad un planetoide che orbita
su un piano verticale, in opposizione al piano orizzontale degli altri quattro pianeti del
sistema. La sua orbita è leggermente ellittica, con una distanza media dal sole di 77,7 milioni
di miglia. Un anno locale dura 447,7 giornate standard, corrispondenti a 295,68 giorni locali.
Ha un diametro di 11.650 miglia. Pur essendo più grande della Terra, ha un peso inferiore a
quello terrestre, con una densità inferiore al 50% data la sua composizione costituita
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 78

prevalentemente da un minerale semi-gassoso. Ci sono enormi giacimenti naturali di questa


sostanza, quella che noi comunemente chiamiamo elemento C. L'atmosfera di Xenon è
ritenuta sostanzialmente respirabile, contenendo un 40% di diossido di carbonio, un 38% di
azoto, un 15% di ossigeno, uno 0,2% di argon, un 3% di idrogeno oltre a un 3,8% di altri
elementi minori. Il clima del pianeta è estremamente caldo. Un denso strato di nuvole che
raramente si apre o si smaglia, se non a volte nelle regioni polari, produce un inversione
termica. Le temperature medie variano in genere da 30° a 44° C ai poli; da 44° a 107° C nelle
zone temperate e da 107° a 120° C all'equatore. Nel periodo invernale le piogge sono
continue, situazione che ai poli dura tutto l'anno, e calde, con esalazioni di vapore e nebbia
per il resto dell'anno, mentre i periodi asciutti sono solo occasionali. C'è una rigogliosa vita
vegetale autoctona, alcune forme di animali inferiori, animali superiori che ricordano i
pterodattili ed un numero piuttosto ridotto di creature intermedie, metà vegetali e metà
animali, probabilmente...», disse la dottoressa Hawkins, prima di essere interrotta
dall’ammiraglio che, in preda a un ingorgo di informazioni, chiese di interrompere quella
lezione di geografia. Il professor Ergon provò a dirgli che le loro scoperte potevano essere di
fondamentale importanza, ma Barrett non volle andare oltre: «Lasci pure il fascicolo sulla
scrivania. Ringrazio tutti voi per l’impegno, ma non ho bisogno di questo. Io voglio sapere se
lui è lì oppure no».
«Ammiraglio, con tutto il rispetto, noi non possiamo saperlo», disse Ergon.
L’ammiraglio, con un’espressione affaticata, gli poggiò una consolatoria pacca sulla spalla:
«Lo so», disse e uscì, inoltrandosi nei corridoi per ritrovarsi, spinto da una riflesso
involontario, dinanzi alla camera dove dormiva il sergente Gilbert. Vi entrò. Le raccontò
tutto, del presidente Cooper, delle scoperte sul pianeta Xenon, della sua indecisione.
Trascorsero molto tempo insieme. Lei dormiva. Il suo pallore celeste si intensificava di
minuto in minuto, così come quello dell’ammiraglio che, sedutosi su una poltrona, cadde in
un sonno profondo e inquieto. Sognò il generale Pillon. Fiero, avvolto da un’aura salvifica, si
aggirava in un campo di frumento rosso sangue. Lo chiamò, non si voltò. Lo chiamò
nuovamente, non si voltò. Andò via, ma la sua voce fluttuava sospinta da un vento caldo.
Diceva che è il dubbio a uccide i soldati, non i proiettili. Barrett gli chiese cosa dovesse fare,
ma non ottenne una sua risposta, bensì quella di Melissa. Anche lei era lì, in quel campo. La
chiamò, rispose. «Credimi, John. È lì. Si serve di esseri complessi come gli umani per creare
il suo esercito e delle risorse minerarie, il nunkasion, per rifornire le sue flotte interstellari.
Siamo in pericolo, John».

L’ammiraglio si svegliò. Sudava freddo. Lei non si era mossa di un centimetro. Eppure quel
sogno gli era parso così reale. Le voci, i volti erano così nitidi, chiari. Era possibile che gli
fossero entrati nella mente, oppure no. In fondo, era solo un sogno. Forse era solo ciò che
voleva, un consiglio concreto, un percorso da seguire. Cercò di svegliarla, ma non aprì gli
occhi. Era altrove e si convinse a lasciarla lì, almeno per un po’. Ripetendo ossessivamente le
parole che il generale Pillon gli aveva lasciato come testamento in sogno, entrò nella
Panorama Room: «Sono i dubbi a uccidere i soldati, non i proiettili. Sono i dubbi a uccidere i
soldati, non i proiettili. Sono i dubbi a uccidere i soldati». Era così smarrito che non si
accorse della presenza del tenente Vaughn, si alzò dalla cigolante sedia a rotelle e,
barcollando, gli si avvicinò: «È vero, ammiraglio», disse, «Sa, questo viaggio mi ha
cambiato, il problema è che ha cambiato anche lei. Sono felice che lei tenga a noi, a nostri
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 79

uomini, come se fosse un padre. Su questa navicella, però, abbiamo bisogno di un


comandante, non di un padre. È vero quello che dice. Sono i dubbi ad aver mietuto vittime,
non quegli sporchi alieni».
L’ammiraglio si destò dal torpore, non aggiungendo una parola a quello che il tenente gli
aveva crudamente sputato in faccia. Accennò un sorriso e andò in sala comandi dove, ad
attenderlo, c’era il sottotenente Lee. Gli ordinò di mettere in moto e azionò l’interfono per
lanciare un messaggio a tutta la truppa: «È l’ammiraglio che vi parla. Ci sarà un cambio di
programma...».

E mentre l’Arcturus superava l’atmosfera e si immetteva nella corsia d’accelerazione


dell’autostrada astrale, i ricordi delle vittime furono liberati. Fotografie, gingilli, cose da nulla
volarono nell’esosfera come sassi lanciati nel mare. Ottennero finalmente un meritato riposo.
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Capitolo Undici

C’era da chiedersi che cosa avesse fatto Van Bolen in tutto quel tempo. In effetti, era
dall’attacco all’ex-ospedale di Encelado che qualcuno non ricordava di averlo visto sparare.
Girava voce che, approfittando della confusione, si nascondesse negli scompartimenti al
momento di ogni sbarco. A guardarlo, le maldicenze dei soldati non sembravano essere
troppo lontane dalla realtà. Non aveva neanche un graffio, né un capello fuori posto. Il suo
sguardo appariva sereno, quasi divertito. Certo, il fatto che non avesse stretto rapporti
nemmeno con un inserviente faceva pensare che quel viaggio stesse diventando per lui una
punizione, ma del resto non aveva mai ricercato un amico o un confidente, quindi nulla di
nuovo. Durante i pasti, sedeva solo, mangiava la sua razione e tornava nella sua capsula.
Ascoltava musica, mentre scriveva ossessivamente un memorandum su un taccuino che
custodiva gelosamente. Faceva questo tutto il giorno, e di giorni ne erano trascorsi molti
ormai. Giunti nei pressi di Xenon, però, qualcosa mutò. Henry lo aveva visto, burrascoso,
parlottare con un gruppo di soldati nell’area palestra. Il succo del discorso non lo aveva colto,
ma era certo che la parola che più di tutte ricorse in quel monologo fosse «Barrett». Pensando
che si trattasse del simposio di un uomo volubile e capriccioso che non bramava altro che
tornare sano e salvo nel suo appartamento di Baton Rouge, non ci diede peso. Passò oltre
senza approfondire la faccenda. Del resto, la manovra di rientro era iniziata e, a breve,
l’ammiraglio avrebbe richiesto a buona parte dei pochi soldati rimasti di indossare le tute
spaziali e imbracciare i fucili. Così accadde. Il tenente Vaughn, ancora arrancante, selezionò
una squadra di dieci uomini di fiducia. Fornì loro il Primary Life Support System e li informò
simpaticamente sulle condizioni metereologiche del pianeta: «Fa caldo». Conrado,
selezionato insieme a Henry e Ronda, sospirò. Aveva delle occhiaie profonde e scure. Ingerì
una pillola di modafinil per riprendere forze e concentrazione. Era svigorito, l’Arcturus lo
aveva reso insonne e, malgrado i consigli della dottoressa Williams per trovare un equilibrio
che gli consentisse di scaricare la tensione, proprio non riusciva a dormire sereno, a fare
pensieri positivi. Henry aveva seguito quel tracollo emotivo da lontano. Non c’era stato molto
tempo per scambiare due chiacchiere, per chiedere come si sentissero. Lo vedeva guardare la
fotografia della sua ragazza, probabilmente immaginandola ballare alla Fiera di San Marco.
«Martinez, fai un ultimo sforzo. Fallo per il tuo fidanzato», gli disse Henry, ridendo della sua
stessa stupida battuta. Conrado, malgrado tutto, l’apprezzò e rispose: «Non è poi così brutta.
E poi io non sono Anthony Quiin». Henry arricciò il sopracciglio in un’espressione
interrogativa. «È un vecchio attore messicano naturalizzato statunitense, va be’. Era per dire
che io non sono un adone, e poi a me Candelaria piace anche con un accenno di baffo».
«Si chiama Candelaria? Ma che nome è?», sghignazzò Henry che, per un attimo, si sentì
sinceramente disteso. Quella percezione, però, durò il tempo di un battito di ciglia, spazzata
via dalla sirena che preannunciò l’apertura del portellone e dell’arrivo dell’ammiraglio
Barrett e di quello che rimaneva del sergente Gilbert.
Il lungo sonno le aveva fatto bene. Camminava senza sostegno alcuno, fasciata da un’aura
austera e dignitosa. Incuteva un certo timore da cui nessuno era esente. Il piano era semplice.
Avrebbe utilizzato i suoi nuovi occhi per guidare la truppa all’impianto di estrazione di
elemento C e successivamente da Brennon. La mutazione l’aveva trasformata in un radar solo
per metà umana, nell’ultima arma che l’esercito di Barrett sapeva di avere a disposizione.
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 81

Partì il conto alla rovescia allo sbarco. Tutti indossarono le maschere, tutti tranne lei. Si
rifiutò, non ne aveva bisogno. Il suo organismo rigenerato le consentiva di adeguarsi
all’atmosfera di Xenon, un vantaggio straordinario considerando che la temperatura era più
del doppio rispetto a quella della Death Valley. Un microonde in cui era possibile riconoscere
bacini di antichi laghi prosciugati, campi di cenere intervallati da steppa alofila, piccoli rettili
e grandi volatili gracchianti simili a degli squali con le ali. Aveva tutta l’impressione di essere
un pianeta in cui l’origine della vita stesse da poco iniziando il suo corso, ma camminando tra
sagebrush e prickleleaf scorsero qualcos’altro. Giganti ermafroditi, alti come querce, che
mostravano impunemente le proprie nudità, gareggiavano in violenti scontri fratricidi. Il
sergente Gilbert fece cenno alla squadra di fermarsi. Henry non aveva mai visto niente di
simile, ne rimase stupito. Gli ricordavano quei mostri mitologici che, da bambino, aveva visto
su qualche fumetto. La differenza sostanziale con quelle creature era nel loro atteggiamento.
Animali selvaggi dall’incontenibile forza, privi di una coscienza e, apparentemente, molto
poco dotati d’intelletto. «Mi ricordano O’Reilly», disse Henry, prontamente perforato dallo
sguardo del sergente che, senza aprire bocca, si avviò nel centro dell’arena in cui si stava
consumando la lotta tra quei dinosauri umanoidi.
«Che intenzioni ha?», domandò Conrado all’ammiraglio.
«Non ne ho la più pallida idea», rispose, respirando a fatica.

I giganti, una decina almeno, incuriositi dall’audace presenza che, leggera, gli si avvicinava,
interruppero la contesa e fecero fronte comune per ringhiarle contro come lupi in difesa del
proprio territorio. Pronti ad aggredirla, la accerchiarono. Il sergente restò immobile.
Impavida, li guardò uno a uno e attese che facessero la prima mossa. Raggiunsero
velocemente il culmine della sopportazione e si scagliarono tutti, quasi in contemporanea, su
di lei. L’ammiraglio, divincolatosi dall’intorpidimento che la vista di quella scena gli stava
procurando, agguantò la sua Heckler & Koch e corse in suo aiuto. Non ci mise molto, però,
per capire che era tutto inutile. Un bagliore turchino, emanato dal corpo della Barrett, le si
sparse attorno fino a inglobare i giganti che, cadendo in uno stato di trance ipnotica,
mutarono il loro atteggiamento da inospitale a remissivo. Non riuscirono nemmeno a
sfiorarla. Si sedettero in cerchio, come leoni domati, per ascoltare ciò che voleva dirgli. Lei
gli parlò con una voce tanto bassa e calma da sembrare un sospiro di vento. Barrett, Henry,
Conrado e gli altri non capirono. Ammirarono quell’incantesimo, fattura, stregoneria che la
Gilbert aveva praticato con così tanta disinvoltura, e si domandarono cosa diavolo fosse
diventata. «E se utilizzasse quei poteri contro di noi?», chiese l’ammiraglio a sé stesso senza
darsi una risposta, anche perché non ne ebbe il tempo. La donna, infatti, fece cenno ai giganti
di seguirla e, in corteo, procedettero verso di loro. Malgrado adesso fossero docili come
Golden Retriever, erano pur sempre dei monumentali orchi. I soldati compresero che nel loro
incedere non vi era niente da temere, ma indietreggiarono ugualmente. Da vicino, erano
ancora più grandi e possenti. Brutti come troll, maleodoranti come century egg. Avevano
occhi piccoli, sproporzionati al corpo, così come erano troppo lunghe le braccia e grande la
testa. Probabilmente erano frutto di una sfortunata evoluzione, ma l’Arcturus non era di certo
atterrata lì per un casting per un concorso di bellezza. «Loro fanno parte della tribù dei
Sextor. Verranno con noi, ci aiuteranno a entrare nei depositi minerari», disse il sergente e,
nello stupore generale, avanzò insieme alle nuove reclute. Ai restanti non rimase che seguirli.
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 82

Sfilarono all’ombra dei colossi fino a raggiungere l’accesso della cava. A giudicare dalla
struttura sarebbe stato abbastanza semplice prenderne il controllo. Era sorvegliata da indigeni
del tutto simili, per carnagione e mimica facciale, alla nuova Gilbert. Pochi, forse una decina,
e male armati. Ce l’avrebbero fatta probabilmente anche senza il supporto dei Sextor, ma un
appoggio esterno non poteva che aumentare le loro possibilità di successo. Così fu, un gioco
da ragazzi. I giganti, come una mandria di bufali selvatici, transitarono davanti alle sentinelle,
distraendole senza creare sospetto sul fatto che, di lì a poco, una squadra selezionata
dell’esercito terrestre avrebbe circondato l’intera area. Si mossero con rapidità. Inutili furono
i tentativi di resistenza. Le guardie vennero abbattute senza avere nemmeno la possibilità di
capire chi avessero davanti. Era sempre un dolore uccidere, ma quella guerra l’avevano
voluta loro. Camminarono tra i bozzoli di proiettile e i cadaveri xeniani, entrarono nel sito.
Sembrava abbandonato, non vi erano operai. Eppure le trivelle erano funzionanti. «È un
sistema automatizzato», disse il sergente, «Questa è la sorgente energetica a cui ci avrebbero
condotto le tavole xeniane, il nunkasion, il motore dell’universo. Chiunque ne entri in
possesso ottiene il potere di domare l’exo-spazio. Né Brennon, né noi possiamo
permettercelo. Dobbiamo distruggerla!». L’ammiraglio, leggermente infastidito dall’aliena
intraprendenza del sergente, alzò sarcasticamente la mano e disse: «Se permette, gli ordini li
do io. Un po’ di carburante potrebbe farci comodo per non tornare a casa in riserva.
Riempiamo dei barili e portiamoli all’Arcturus, torneremo più tardi per completare l’opera.
Ora che abbiamo a disposizione questi giovani forzuti, faremo molta meno fatica».

Notarono subito che qualcosa non andava. Non vi era neanche un soldato che piantonava la
navicella. Il pensiero corse immediatamente a un’imboscata. Probabilmente le forze di
Brennon li avevano individuati. La trepidazione prese il sopravvento nell’animo di Barrett
che, vedendosi costretto a decidere sul da farsi, ordinò ai soldati di ammonticchiare i fusti
pieni di carburante e seguirlo. Al sergente Gilbert fu chiesto di aspettare all’esterno con i
Sextor. Obbedirono. Henry inghiottì il comando dell’ammiraglio e, scrutando ogni anfratto
dell’Arcturus, insieme ai compagni, vi fece incursione. Sembrava che non ci fosse anima
viva, poi, giunti all’ingresso della Panorama Room, si palesò ciò che non avrebbero mai
sospettato. Il tenente Vaughn, la dottoressa Williams, Ergon, la Hawkins e buona parte dei
soldati che non avevano preso parte allo sbarco erano in ginocchio, con le mani legate dietro
la schiena, imbavagliati come prigionieri in procinto di un’esecuzione. Quello che appariva
strano era l’assenza di un boia. Barrett, non potendo fare altrimenti, fece il suo ingresso nella
sala. Henry e gli altri fecero lo stesso, ma non riuscirono a liberare nemmeno un compagno
che una voce familiare li freddò. «Vi conviene posare le armi». Era Van Bolen. Sbucò, come
un’ombra sorridente, alle loro spalle insieme a un manipolo di disertori armati.
«Cosa crede di fare, Van Bolen?», domandò l’ammiraglio.
«Forse voleva dire ammiraglio Van Bolen!», rispose, compiacendosi della sonorità del grado
che si era attribuito e dello sbigottimento che leggeva negli occhi di Barrett, «Lo ammetta,
questa guerra è stata un’inutile perdita di tempo. Con lei al comando non si è stati capaci
nemmeno di abbattere delle tenere piantine. Ha fatto il suo tempo, ammiraglio. È diventato
vecchio, goffo, vile. È arrivato il momento di fare spazio ai giovani. E chi meglio di me?
Potrei infondere grande ardore nei cuori di questo esercito, far tornare loro la passione il
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coraggio di lottare, di sentirsi parte integrante della grande famiglia del pianeta Terra. Le
lascio libera scelta. Si può dimettere spontaneamente, mettersi in un angolo e giocare a
battaglia navale con i suoi coetanei fino al ritorno a casa, oppure si fa conficcare una bella
pallottola nel cervello in ricordo della sua testardaggine. Sappia, però, che se dovesse
scegliere la seconda opzione, metterebbe anche a dura prova la mia volontà di fare male a
tutti questi innocenti». Barrett serrò istintivamente le palpebre, sputò un respiro lungo e
amaro, e chiese ai suoi uomini di abbassare le armi. Tentennarono, ma assecondarono
l’ordine. Van Bolen sorrise, compiacendosi per quella scelta saggia: «Bene, non le resta che
decidere come uscire di scena».
L’ammiraglio si strinse nel suo orgoglio, guardò i suoi uomini, quell’esercito che gli era stato
fedele fin dal primo momento, pensò a tutti coloro che avevano donato la propria esistenza
per fare in modo che anche lui vivesse e non poté che scegliere la propria morte: «Uccida me,
se lo ritiene giusto, ma lasci stare questi uomini». Van Bolen sembrava non aspettare altro.
Ordinò a Barrett di inginocchiarsi e chinare il capo. Lo fece. Gli puntò una Beretta 98 alla
testa e chiese se avesse qualcosa da dire prima di morire. Con la serenità di chi è morto mille
volte, l’ammiraglio lo guardò dritto negli occhi e disse: «Fottiti!». Van Bolen poggiò l’indice
sul grilletto, ma non fece in tempo a imprimere una forza tale da far partire il colpo che la
navicella iniziò a ciondolare. Dei barriti sempre più vicini facevano pensare che un branco di
elefanti avesse varcato la soglia dell’Arcturus e si stesse avvicinando a una velocità costante.
Non prometteva niente di buono. Gli uomini di Van Bolen si voltarono in direzione del
corridoio centrale. Fecero in tempo solo a provare un indistinto senso di sbigottimento che gli
inattesi ospiti li travolsero come manichini da car crash. Erano i Sextor. Guidati mentalmente
dal sergente Gilbert, avevano atteso il momento giusto per colpire alle spalle. Fu una strage. I
giganti, fuori controllo, fecero a brandelli i disertori. A nulla servirono i pochi proiettili
rigettati dai loro fucili, non sortirono alcun effetto sulla loro pelle tutt’altro che elastica. Lo
stesso Van Bolen, non sapendo cosa stesse accadendo, preferì accantonare la pratica Barrett e
concentrarsi sui colossi che, avendo sterminato i suoi uomini, ora si dirigevano a piccoli e
pesanti passi verso di lui. Consumò l’intero caricatore, ma non produsse neanche un livido a
quei mostri che, quasi divertiti, lo attorniarono e, prima che potesse urlare, lo smembrarono.
Di lui non restò che una pozzanghera di sangue. «Basta così!», disse il sergente, entrando
nella Panorama Room, «Vi avevo detto di esagerare, sì, ma con moderazione!».
L’ammiraglio, sconcertato e disgustato, non riusciva nemmeno a sentirsi sollevato di non
essere passato a miglior vita. Provò quasi una sensazione di dispiacere per quei brandelli di
Van Bolen, che ora venivano sgranocchiati dai giganti come Cheetos croccanti. Henry
approfittò della cimiteriale quiete e, non invidiando affatto chi avrebbe dovuto pulire quel
macello, restituì la libertà all’impietrita dottoressa Williams. Tagliò le fascine con le avevano
legato le mani e le sfilò il bavaglio. Priva di forze, si accasciò sul ragazzo. Lo guardò,
imprimendo un languore nello sguardo che lo gelò. Mosse il capo, fino quasi a far coincidere
le labbra con quelle di Henry. Il soldato pensò che un altro momento forse sarebbe stato più
romantico, ma quell’avventura gli aveva insegnato a non rinunciare ai piaceri, in particolare
quelli inaspettati: “Cogli l’attimo! Un attimo prima sei vivo e vegeto, un attimo dopo sei uno
snack per giganti!”. Tese quindi il capo verso di lei che, sempre più cedevole, chiuse gli
occhi, quasi svenne e vomitò.

**
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 84

Ebbero bisogno di alcune ore per resettare tutto, per depurarsi dell’orrore che avevano
provato. Sgomberarono la Panorama Room, la ripulirono con acqua fredda e sapone e
seppellirono i resti dei soldati trucidati nelle bollenti steppe xeniane. Ai Sextor fu chiesto di
andare, di tornare a combattere liberamente tra loro per il controllo di una caverna o di un
albero da frutto particolarmente rigoglioso. Erano bestie selvatiche, riottose e battagliere, a
nessuno sembrò una buona idea tenerle con sé. Andarono via, confondendosi con la rada
vegetazione fino a scomparire. L’ammiraglio, chiuso nel suo ufficio, riprese il suo colorito. Si
fece servire una Dr. Pepper e, insieme al team degli scienziati, rilesse accuratamente lo studio
sul pianeta Xenon che aveva snobbato per sovraffaticamento. In un luogo così inospitale,
dove avrebbe potuto nascondersi Brennon? Era pur sempre un umano. Quelle temperature,
quelle insidie che si mimetizzavano tra i muschi e il deserto non avrebbero di certo giocato a
suo vantaggio. Quindi, dove poteva essere collocato il suo quartier generale? Crearono, a tal
proposito, una mappa termica del pianeta e scoprirono che, non molto distante dal punto in
cui erano atterrati, vi era un’anomalia climatica. Una concentrazione stabile di nuvole. Il
professor Ergon, inarcando il labbro superiore, propose una teoria secondo la quale si poteva
trattare di un’opera di geo-ingegneria. Il principio era semplice. Probabilmente, Brennon,
utilizzando una tecnologia già nota sulla Terra, aveva fatto sparare nell’atmosfera acqua
salata polverizzata in goccioline di una ben precisa misura e a una certa altezza. Con una
dispersione controllata, era possibile creare dei fenomeni atmosferici di carattere piovoso.
Queste piogge, prolungate nel tempo, avrebbero abbassato naturalmente le temperature di
quell’area, rendendo il clima sopportabile. All’ammiraglio sembrò credibile e concentrò i
suoi sforzi mentali nel pensare alla maniera migliore per coglierlo di sorpresa. Gli parve
logico considerare che i fumi dell’incendio all’impianto di estrazione avrebbero attirato
l’attenzione di Brennon, se mai si fosse trovato lì. Approfittando, quindi, di quella
distrazione, avrebbero attaccato senza ripensamenti. Ordinò, quindi, al sottotenente Lee di
accompagnare una squadra di dieci uomini alle trivelle. Giunti sul sito, avrebbero dovuto
installare degli esplosivi con detonatore a innesco remoto e tornare all’Arcturus. La
responsabilità dell’attivazione delle bombe se la sarebbe presa lui al momento opportuno. Il
piano era chiaro, non fu necessario ripeterlo. Il sottotenente scelse i pochi soldati svegli e
operativi, caricarono i loro zaini con Composizione C-4 e partirono. A Barrett non restava che
attendere il loro ritorno, e così fece. Chiese cortesemente a tutti di uscire. Nemmeno la
compagnia della Gilbert poteva infondergli tranquillità. La nuova personalità del sergente lo
turbava. La donna che aveva conosciuto e aveva imparato ad apprezzare era un’altra. Si
perdeva nei suoi ricordi. La donna a cui si era affezionato, fino forse a innamorarsi, era
intrappolata su Shasur e lì era stato sequestrato anche il suo amore. La donna che ora vedeva
era un essere nuovo, impudente, sicuro di sé, come non lo era mai stata. Averla in squadra era
come avere affianco un’estranea. Il timore più grande era che quella sconosciuta potesse
addirittura tramare contro di loro. In fondo, perché aiutare un popolo intento a mettere a ferro
e fuoco il pianeta a cui appartiene, suo malgrado, per metà? Barrett scacciò via il pensiero
sorbendo un sorso di Dr. Pepper. Sfogliò le carte un’ultima volta e chiuse gli occhi nel
tentativo di riposare, ma non gli fu concesso. Il monitor per le comunicazioni video si accese
improvvisamente. Qualcuno stava tentando di entrare in contatto con lui. L’ammiraglio pensò
subito che si trattasse di Cooper, uno dei pochi ad avere accesso alle coordinate dell’Arcturus.
Il segnale era disturbato, rumore bianco: uno sfarfallio casuale di punti e fiocchi di neve,
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intervallato da un’indistinta sagoma maschile. «Presidente?», domandò, timoroso, Barrett.


Anche l’audio era corrotto dal transistor. Ciò che, in un primo momento, era udibile
chiaramente furono soltanto due parole: Nikkolò Finch. Furono pochi gli istanti in cui
l’ammiraglio si scontrò con il sospetto che l’uomo che tentava di parlare fosse un intruso. Il
segnale, infatti, si stabilizzò, scoprendo un volto che non aveva mai visto prima. Un giovane
pasciuto che, trafelato, non si scomodò a chiedere l’autorizzazione a parlare: «Ammiraglio,
noi non ci conosciamo, anche se credo che il mio nome le suoni familiare. Sono Finch. Su
Encelado, le hanno consegnato un pacco per me. Ricorda?». Barrett, sbigottito da tanta
coraggiosa impertinenza, chiese come avesse fatto a trovare il modo di contattarlo. «È il mio
lavoro. Dispongo di apparecchiature e conoscenze tali da consentirmi di accedere ovunque».
Pronta fu una richiesta di spiegazione su cosa volesse. «Io e lei vogliamo la stessa cosa,
ammiraglio. Sono a capo di un’organizzazione chiamata “I Figli dell’Eden” e non desidero
altro che la testa di Brennon. Se unissimo le forze, potremmo prenderlo. Disponiamo di armi
e informazioni, ma non di alleati che possano garantirci un contributo in battaglia. Le
assicuro che, sia noi che voi, ne avremmo bisogno». L’ammiraglio, fuori controllo, si alzò in
piedi. L’equilibrio che aveva raggiunto nel disporre quel piano d’azione si sgretolava davanti
ai suoi occhi come un castello di sabbia. «Perché dovrei credere a uno sconosciuto che si
professa leader di una specie di setta o cosa? Per quanto mi riguarda potresti essere
tranquillamente un alleato di Brennon e...», urlò.
«Infatti, lo sono stato!», rispose. Cadde un silenzio che, dopo un sospiro, Finch volle colmare
con un’altra confessione: «So che è difficile credermi, ma le assicuro che conosco molte cose.
Ad esempio, sono al corrente di ciò che è accaduto con Van Bolen. Lo ammetto, è stato lui a
fornirmi le coordinate dell’Arcturus. Non potevo pensare, però, che la sua brama di potere lo
portasse a tanto. Vi seguo dal giorno in cui avete lasciato la Terra. Non ho timore nel dirlo,
voglio che lei si convinca che io non sono un bugiardo. Mi dia una possibilità, non credo che
ne abbia altre. Cosa pensa di fare?».
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Capitolo Dodici

Barrett uscì dal suo stordimento con sufficiente presenza di spirito da capire che era suo
dovere rischiare, accettando la proposta di Finch. Un’aria cupa pesava sulla valle in cui
l’Arcturus stazionava come un mausoleo alieno. Piovevano dal cielo raggi infuocati di una
stella così vicina a Xenon da far sentire tutta la sua ferocia. I giovani soldati, informati
dell’imminente attacco, rigurgitavano pensieri sotto forma di preghiere e silenzi. L’atmosfera
nella navicella si fece rarefatta. Il tenente Vaughn si accertò che tutto fosse in ordine. I lividi,
che aveva appuntato al petto come medaglie all’onore militare, gli pulsavano forte. Comprese
di provare una certa paura, ma non volle esternarla in alcun modo. «Fidatevi di noi», disse
alla truppa, «Fidatevi dell’ammiraglio, delle sue decisioni. Quello che ci apprestiamo a fare
resterà impresso, in un modo o in un altro, nella storia del nostro pianeta». Di discorsi
motivazionali, Henry e gli ultimi superstiti ne avevano abbastanza. Ciò che desideravano
davvero era chiudere quella pratica e prendersi un meritato congedo. Nelle orecchie di
ognuno, però, risuonavano le urla e gli strepiti dei compagni a cui non fu concesso che
morire. Si guardavano, chiedendosi mentalmente chi fosse stato il prossimo, chi avrebbero
pianto durante il viaggio di ritorno, sempre ammesso che ce ne fosse stato uno.

Quando fu tutto pronto per la partenza, l’ammiraglio e il sergente Gilbert uscirono


dall’ufficio. Avevano discusso a lungo, del posizionamento di Brennon, della presenza in
battaglia di un alleato. L’intera campagna spaziale era stata un appuntamento al buio con il
destino, quello non era che l’ultimo. Tanto vale provarci. Ronda fu la prima a portare
rapidamente e rigidamente la mano destra alla fronte in segno di saluto. Barrett rispose con
un cenno sbrigativo perché continuassero le loro faccende, poi mandò a chiamare il
sottotenente Lee. Era tornato da poco dall’impianto di estrazione. L’operazione di sabotaggio
aveva portato i risultati sperati, nessun imprevisto. Le cariche esplosive erano state
posizionate e non attendevano altro che il permesso di deflagrare. Il piccolo telecomando che
tremava tra le mani dell’ammiraglio non aveva altra funzione: un ovetto con un pulsante che,
se premuto, avrebbe causato un bel botto. Di quel giocattolo Finch fu tenuto all’oscuro. La
prudenza, gli aveva insegnato Pillon, era l’arma migliore in guerra. Sfruttava quella
sacrosanta lezione soltanto in quel momento, ma come avrebbe potuto metterla in pratica
prima? «Procederemo in direzione nord. Le coordinate sono state preventivamente inviate a
ogni membro attivo dell’operazione, 40° 54′ 55″ N 14°47′ 23″ E. Saranno visibili sulla
visiera della maschera protettiva insieme a tutte le altre informazioni utili. Avanzeremo con
tutte le forze che abbiamo a disposizione: fanteria, utility spacetruck e l’ultimo Typhoon X
che ci è rimasto. Signorina Shirov?», chiamò, cercandola nella sala comune. Non appena
sentì il suo nome, Ronda scattò come una lepre, frapponendosi fra lui e il sergente Gilbert.
«Lei piloterà il nostro caccia. Sarà affiancata da uno stormo di aerei che si dichiarano
cobelligeranti. Tenga gli occhi aperti. Si alzerà in volo solo quando saremo arrivati a
destinazione e avremo preso visione di come è strutturata la roccaforte di Brennon. Le darò io
l’ordine di partire e la informerò su cosa colpire», concluse l’ammiraglio giusto in tempo per
l’arrivo degli ospiti.

Arrivarono dal cielo. Scesero come uno sciame di cheti insetti neri, per adagiarsi al suolo
xeniano. Velivoli leggeri d’una tecnologia oscura. Silenti come farfalle e veloci come comete.
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Fu il sergente Gilbert ad accoglierli. Nessuno, eccetto lei, si era accorto della loro presenza.
Erano tanti, più di cento. Appartenevano ognuno a una razza differente, da disparati mondi.
Un esercito di ribelli uniti non dall’etnia, ma da una volontà comune. C’erano felinoidi,
insettoidi, grigi, pleiadiani, venusiani, omini verdi e, dinanzi a tutti, un uomo. All’apparenza
poteva essere scambiato per uno studente non particolarmente popolare della Clayton State
University. Indossava una tuta spaziale simile alla BioSuit in dotazione all’esercito, ma
personalizzata con i colori sociali e il logo dei Los Angeles Dodgers. «Inguardabile»,
commentò silenziosamente Barrett, vedendolo dirigersi verso di lui, «Sto davvero facendo
affidamento su questo tizio per prendere Brennon?». Chiese il permesso di varcare l’uscio
dell’Arcturus. L’ammiraglio glielo accordò, ma i suoi compagni dovettero attendere al caldo.
Si sfilò il casco, scoprendo il suo volto costellato da brufoli. Henry, facendosi largo tra la
folla che si era creata attorno al visitatore, lo squadrò per bene. Qualcosa in lui gli era
familiare, qualcosa in quel volto che gli stuzzicava la memoria. «Chi è? Dove l’ho già visto?
Un meccanico di Jay’s Automotive, forse? In un talent show? Sulla copertina di Popular
Science?». Restò lì a fissarlo, mentre l’ammiraglio gli chiese di presentarsi ai suoi uomini e
raccontare cosa ci facesse su Xenon. «Molto piacere, mi chiamo Finch», disse. Fu allora che
Henry collegò e, dimenticandosi dove si trovasse, urlò: «Ed io sono quello a cui rubato i
soldi! Ti ricordi? El Paso, uno zaino pieno di banconote, uno pieno di cartacce? Ti ricordi di
Prince? Pensava che tu fossi suo amico e invece hai fregato lui e anche me». Incerte
espressioni si raggomitolarono sui visi di soldati e superiori. Un velo di imbarazzo si stese
nella navicella. Finch, non potendo nemmeno sospettare di quella presenza, arrossì. Abbassò
il capo e, utilizzando un tono sinceramente sconfortato, disse: «Mi ricordo e mi dispiace. Ho
fatto cose di cui mi vergogno fortemente. Tu ed Easton non siete gli unici due che ho truffato.
Cercavo di raccogliere fondi extra per alimentare il nostro movimento interplanetario. Con
questo non ho intenzione di giustificarmi. Ti voglio soltanto dire che era per una buona causa
e che restituirò tutto, fino all’ultimo centesimo, a voi due e a tutte le persone che ho frodato».
«Prince è morto, pezzo di merda!», disse Henry, quasi in lacrime.
«Comprendo la tua rabbia, ma questo non è dipeso da me. La guerra fa schifo. Ho perso tanti
compagni anche io. So cosa si prova. È solo grazie a loro che non ci siamo ancora arresi. Là
fuori ci sono individui da ogni angolo della galassia che provano esattamente il tuo stesso
dolore. Abbiamo tutti perso un amico, un parente, un’amata. Noi vogliamo cambiare. Il
nostro intento è di creare comunione tra i pianeti, una rete di connessioni e interscambio, per
fare in modo che tutto ciò non accada mai più», rispose, guardando l’ammiraglio che, intanto,
si interrogava sulla credibilità di quel personaggio. «La mano destra, per poter effettuare
qualsiasi tipo di movimento, deve sapere cosa fa la sinistra», borbottò Finch, generando un
sentimento di incomprensione nei soldati, «Al momento, capisco che non ci possa essere
comunicazione tra voi e me. In fondo, sono un estraneo. Vorrei solo che proviate a capire, che
accettiate la mia presenza. Io voglio essere la vostra mano sinistra. Per far sì che la nostra
operazione vada a buon fine, però, è necessario sapere chi sono e cosa voglio fare.
Ascoltatemi, vi dirò tutto». Nessuno fiatò. Raccontò della sua passione per l’informatica, dei
primi passi come hacker negli scantinati di Skid Row, delle prime trappolerie telematiche,
dell’incontro con Brennon, del suo involontario contributo alla vendita di terrestri. Disse,
senza paura di essere giudicato, di aver accettato soldi, tanti soldi, dall’ex presidente della
colonia marziana. Il suo lavoro di spionaggio era molto ben retribuito. Quei fondi, uniti a
quelli che racimolava frodando persone come Henry e Prince, gli servivano per l’acquisto e la
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 88

creazione di tecnologie che gli avrebbero permesso di collegare in un’unica rete tutto
l’universo conosciuto sotto un’unica bandiera, I figli dell’Eden. Avvicinare le razze per creare
conoscenza, la stessa che avrebbe creato cultura e armonia tra i popoli. Brennon, a quanto
pare, acconsentì con fervente interesse a questa sua iniziativa. Ciò che non si poteva sapere,
era che la rete che Finch stava creando era, in realtà, per lui solo un gigantesco bacino di
informazioni utili per la sottomissione dei popoli stessi. Non voleva avvicinare, ma solo
conquistare. E quale modo migliore per conquistare un popolo che conoscerlo e farselo amico
per poi colpirlo alle spalle? Quando se ne rese conto, Finch prese le sue contromisure. Avvisò
tutti i delegati sui vari pianeti. Radunò una compagine di briganti spaziali e, con i pochi
mezzi rimasti, tentò la caccia a Brennon. Erano stati ingannati, ma sapevano cosa avesse in
mente quell’uomo. Voleva anticipare le sue mosse, prima che portasse a compimento la sua
opera. Mercificava terrestri, mercanteggiandoli con la fratellanza xeniana, suoi unici alleati.
Si spostava da un pianeta a un altro, apparentemente senza una logica precisa. Catturarlo
sembrava impossibile. L’ultima possibilità era unirsi alle forze terrestri, imbattutesi quasi per
caso in una caccia all’uomo, la stessa che stavano conducendo loro. Tutto, improvvisamente,
apparì più chiaro e lineare. Se prima i soldati non fiatarono, ora di fiato non ne avevano più.
Anche Henry sembrò mutare l’impressione che aveva di quel nerd da cartone animato in
qualcosa di più positivo. Toccò all’ammiraglio intervenire. Gli si avvicinò, gli poggiò una
mano sulla spalla e disse: «Andiamo a prenderlo».

Si spinsero con le milizie di terra fino alla destinazione finale. Pioveva a dirotto. Getti
d’acqua, costanti e violenti, cadevano dal cielo per infrangersi su un paesaggio desolante.
Una conca, un’immensa distesa di fanghiglia in cui gli stivali dei soldati sprofondavano,
rendendo difficile l’avanzata. Una roccia, un menhir alto come il SunTrust Plaza si elevava
dal brago fino a raggiungere quasi le nuvole perenni. Vi era un accesso, una sola e unica
porta, e poi nient’altro, nessuna finestra, nessuna via di fuga alternativa. Una volta entrati,
avrebbero avuto solo un’alternativa per uscire. Barrett, affiancato dal sergente e da Finch,
giocherellò nervosamente con il telecomando che avrebbe azionato l’esplosione all’impianto
di estrazione. Rifletté sul da farsi. Fece posizionare tutti gli uomini che aveva a disposizione
in posizione favorevole rispetto all’ingresso della rocca. Così come loro avrebbero avuto la
possibilità di entrare da quella parte, così anche Brennon e il suo esercito avrebbero fatto lo
stesso. Era necessario farli venire allo scoperto, colpirli di sorpresa, fare irruzione e catturare
quel bastardo, per sua fortuna, vivo. Attese che tutto fosse in ordine. I guanti bagnati, a causa
dell’acquazzone, non gli consentivano un’impugnatura ideale del suo fucile. Vedeva a stento.
Fiotti di melma zampillavano sulla sua visiera. L’azzurro e il bianco della tuta di Finch aveva
cambiato colore in uno sgradevole beige che rendeva la sua uniforme ancora più ridicola. Il
tempo di ragionare sull’abbigliamento, però, era scaduto, così come quello di perdersi nella
meditazione, non restava che passare all’azione. Contattò Ronda. Era giunto il suo momento.
Le diede l’ordine di partire, insieme alla flotta dell’Eden, e bombardare la roccaforte.
«Affermativo», rispose e nulla più. Attesero, stesi nel fango, mimetizzandosi con esso,
l’inizio della festa. Ad Henry sembrò di affondare, spinto sempre più in basso dalla tempesta.
Pensava a sua madre, a Ronnie, a Prince, alla dott.ssa Williams, a tutti coloro che almeno una
volta nella vita gli avevano donato anche solo un briciolo di affetto, fatto sentire quel calore
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 89

che, in quel punto del pianeta Xenon, non era più così asfissiante. La temperatura, così come
aveva intuito il prof. Ergon, erano effettivamente più miti, al limite del piacevole, ma Henry
non se ne accorse neanche. Guardò in alto, verso il nembo grigio e compatto. Chiuse gli occhi
per un istante e sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena, mentre un chiarore quasi
divino illuminò l’area. Sopraggiunsero a una velocità inaudita, tagliando la tempesta e
sganciando dei petardi a guida laser da cinquemila libbre. Le bombe impattarono sulla roccia,
smuovendola ma non abbattendola. Di certo, non era semplice pietra, quella si sarebbe
sgretolata immediatamente. Barrett si aspettava qualcosa in più, ma ormai era preparato agli
imprevisti. Mantenne la calma e aspettò che il primo xeniano mettesse il muso fuori.
«Prepararsi a fare fuoco». Nulla si mosse. Il fortino di Brennon, in effetti, era una costruzione
spaventosamente alta e probabilmente ci sarebbe voluto un po’ prima di venirne fuori. Un
altro monito, però, non avrebbe certo fatto male. «Colpire nuovamente», dispose
l’ammiraglio in contatto audio con Ronda. Non se lo fece ripetere una seconda volta.
Sembrava quasi non aspettare altro. Diede timone e l’ala esterna ruotò, generando una
portanza utile all’inclinazione nel senso della virata. I piloti dell’esercito di Finch imitarono
alla perfezione la sua manovra. Visti dal basso, erano un nugolo di corvi, degli spettri
sputafuoco. Circondarono l’area, planando come aquiloni metallici, e diedero sfogo a una
inaudita potenza balistica. Qualcosa, lentamente, si mosse. Barrett se ne accorse
immediatamente. Spuntarono, con naturalezza, dalla roccia dei cilindri, incastonati nella
pietra e perfettamente camuffati. Era come se la roccaforte si fosse svegliata da un torpore e
aprisse le sue braccia. Si stiracchiava. Il grattacapo era il fatto che disponesse di centinaia di
arti e non avessero ben chiaro la loro utilità. La pioggia si fece ancora più feroce. Un lampo
cadde poco distante, facendo brillare l’immensa struttura. Somigliava a un cactus, una stele
chiodata che muoveva i suoi spuntoni in tutte le direzioni. L’ammiraglio non fece in tempo a
comunicare di fare attenzione che il pericolo chiarì le sue intenzioni. Quelle braccia, quegli
aculei, non erano ornamentali, sparavano raffiche di fuoco, e lo fecero in contemporanea. Da
ogni lato una barriera di proiettili, incessante e fitta, proteggeva la zona, rendendola
impenetrabile. Un muro mortale che non dovette pazientare molto prima di mietere le prime
vittime. Due velivoli alleati furono abbattuti, colpiti frontalmente dall’inattesa scarica di
colpi. «Ne era al corrente?», domandò Barrett a Finch, visibilmente turbato. «A dir la verità,
no», rispose, prima che un proiettile lo raggiungesse a una gamba. La cupola di fuoco,
allargando il suo diametro, aveva raggiunto anche gli uomini posizionati a circa seicento
miglia dalla base. Finch urlò, lasciando cadere il suo Winchester. Era una ferita lieve, non
come quelle a cui furono destinati un’altra decina di uomini. Non ebbero il tempo di capire,
di indietreggiare, restarono lì, bloccati dalla melma. Raggiunti dal nemico che colpiva alla
cieca, in cielo e in terra, senza mostrare il suo volto, senza rischiare di perdere. Morirono,
trafitti brutalmente da un colosso di pietra, una casamatta pensata per uccidere.
Comprendendo l’inferiorità e vedendo sempre più vicina un’atroce disfatta, Barrett tirò su
Finch e pensò di rischiare il tutto per tutto. Aveva notato che, più gli spari allargavano il
proprio raggio più si disperdevano, lasciando scoperta la zona più prossima all’ingresso della
roccaforte. Correre tra gli spari era l’unica possibilità. Guardò il sergente Gilbert, inorridita
dalla distruzione che si avvicinava un proiettile alla volta. Contenne la paura e disse: «Chi
non ha niente da perdere mi segua». Scattò come un centometrista, non tentando nemmeno di
calcolare la direzione della morte. Abbassò la testa e corse più veloce che poteva nel fango.
Dozzine di colpi lo sfiorarono e si conficcarono al suolo. Nella disperata corsa, gettò uno
Gianluca Grillo / Galaxy Supremacy / 90

sguardo dietro di sé. Si aspettava di non vedere nessuno, ma non fu così. L’intero esercito,
compreso Finch e i suoi fanti, affrontavano la sorte in una gara di velocità e fortuna.
Convergevano tutti verso l’ingresso della fortezza. Giunti lì, sarebbero stati al sicuro, fino
all’incursione al suo interno. La flotta, intanto, tentava di far saltare i mortai nemici, ma gli
attacchi non furono abbastanza efficaci. In un attimo, il tempo arrancò. Negli occhi di Barrett,
di Henry, della Gilbert e di chiunque stesse procedendo, incurante della morte, quel momento
allentò la sua morsa di frenesia e tutti ebbero il tempo di guardarsi attorno. Nelle trecento
miglia che si erano lasciati alle spalle, vi erano compagni a terra, perforati da colpi più fausti
di loro, erano tanti, troppi; davanti a loro vi era l’ultima cosa che molto probabilmente
avrebbero visto in vita loro; sopra di loro raggi di luce, aerei in procinto di esplodere e
sfracellarsi a terra; sotto di loro pozzanghere, melma e niente più. Capirono che fermarsi, a
quel punto, sarebbe stato un suicidio; superare, in volata, i loro stessi timori sarebbe stata la
loro unica possibilità di salvezza. Più se ne convinsero, più dimenticarono quanto fossero
umane le loro gambe. Accelerarono fino quasi a non toccare il terreno con gli stivali, che
ormai non pesavano più, e, più veloci del fuoco nemico, raggiunsero l’ingresso. L’ammiraglio
guardò quegli uomini, guardò dietro di loro. Ce ne erano tanti a terra, ma non potevano
fermarsi, non potevano tornare indietro. Dio li avrebbe benedetti, questo era certo.
«Entriamo. Avete l’ordine di sparare a qualsiasi cosa respiri», disse Barrett, spalancando la
porta metallica d’ingresso con una pedata violentissima.
La scorreria ebbe inizio. Guardie xeniane, armate di Zkzm-1000, fecero immediatamente
scudo per interrompere l’avanzare delle forze terrestri di Barrett e interplanetarie di Finch, ma
fu un sacrificio inutile. Li avevano già incontrati su Marte, apparsi dopo il sopraggiungere del
War-Bip, su Encelado e a guardia dell’impianto di estrazione. Li conoscevano. Erano lenti e
sconsiderati, con una naturale propensione all’immolazione. Un nemico facile da abbattere,
se non fosse stato per il numero. Tanti, troppi, gli si paravano davanti a frotte, sparando senza
premura alcuna. Nel delirio di spari, si ebbe l’impressione che non mirassero neanche. Molti
caddero sotto il fuoco amico. L’ordine era di sparare, di evitare il raid a tutti i costi. Un morto
in più nelle loro schiere non faceva differenza. Del resto, era evidente che, per loro, la morte,
non era che una naturale conseguenza di un’esistenza, priva di un reale libero pensiero,
condotta a servire. Era questo il loro punto debole, ma per Brennon il punto di forza.
Disponeva di un’armata composta da centinaia e centinaia di umanoidi che aveva dovuto
soltanto equipaggiare con fucili laser. Cadevano come birilli al Bowlmor Lanes, senza
emettere un fiato. Era come uccidere dei morti viventi. Il problema era che anche loro
uccidevano, e lo facevano con la stessa disinvoltura con cui crepavano. Ne caddero molti di
soldati. Barrett sapeva che, nonostante fossero superiori per attrezzatura e preparazione,
avrebbero avuto la peggio se non avesse architettato qualcosa in fretta. Diede uno sguardo
rapido alla struttura per comprenderne l’architettura: una spirale, un unico corridoio che
saliva dall’ingresso alla cima senza scale né ascensore. L’idea era quella di fucilare la prima
linea e, in contemporanea, eliminare le retrovie. Lo spazio era limitato, ma ci dovevano
provare. Chiese a Henry e al tenente Vaughn di preparare le granate. Le avrebbero lanciate
come coriandoli il più lontano possibile, sfruttando gli angoli dei corridoi per farle schizzare
nei punti ciechi. Il sergente Gilbert che, intanto, imperturbabile, ne aveva abbattuti una
trentina, chiese all’ammiraglio il permesso di utilizzare il suo giocattolo eticamente scorretto.
Parlava dell’M2, il suo lanciafiamme da borsetta. Barrett, riconoscendo una vicinanza
antropica, le chiese di sfruttare le sue nuove virtù psichiche per placare la foga xeniana.
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«Questi non sono xeniani», rispose il sergente, «Non funzionerebbe». L’ammiraglio,


preparandosi a gettare la prima granata, le fece recapitare una saetta di incredulità che la
Gilbert schivò prontamente: «Sono ex-uomini, come me. Macchine prive di coscienza,
involucri vuoti, ibridi creati in laboratorio. Non rispondono a nessun impulso interno ed
esterno, se non a quello di partenza. Brennon e gli scienziati xeniani li hanno creati per essere
soldati obbedienti, e loro non fanno altro che uccidere a comando». Barrett li squadrò. In
alcuni di essi era possibile ancora riconoscere una fisionomia umana, maschile e femminile.
«Stiamo combattendo contro noi stessi?», domandò a sé stesso, prossimo alle lacrime, prima
di far cadere nuovamente lo sguardo sul sergente, ancora in attesa di una risposta. «E va bene.
Proceda!». L’M2 si azionò con una piccola fiammata, a cui seguì un letale getto rovente.
Come un disinfestatore di blatte, il sergente appiccò un falò nelle prime file. Un olezzo di
marcio si espanse nella fortezza. A questo si aggiunsero i tiri lunghi delle granate di Henry,
del tenente Vaughn e dell’ammiraglio, uniti ai colpi di fucile che non avevano mai smesso di
risuonare. Durò poco. Le forze nemiche cedettero. L’esercito avanzò fino a raggiungere
l’ultimo livello. I corridoi erano disseminati di corpi e brandelli di cadaveri. Anche Finch,
nonostante sanguinasse copiosamente da una gamba, partecipò al genocidio. La vittoria era
vicina. Il prezzo delle vite dei soldati era altissimo, ma quella guerra l’avrebbe vinta solo
l’ultimo uomo a restare in piedi e tra le milizie di Brennon non ce n’erano più. L’ultimo colpo
fu esploso. Erano rimasti in trenta circa, stanchi e disidratati. Respiravano faticosamente i
fumi delle esalazioni dei soldati carbonizzati. Non vi erano finestre nella torre, nessun
condotto dell’aria, e soprattutto nessuna traccia di Brennon. Iniziò a insinuarsi il dubbio che
quella struttura fosse solo un magazzino di soldati. In effetti, lungo l’intero percorso non
avevano incontrato apparecchiature particolari, solo celle e depositi di armi. Lì dove si erano
fermati, l’unico congegno era una sorta di interruttore, molto probabilmente il dispositivo che
azionava i mortai esterni. Barrett chiese al sottotenente Lee di verificare se si trattasse proprio
di quello e, in caso positivo, di disattivarlo. Si mise subito all’opera. Collegò uno strumento
simile a uno stetoscopio all’interruttore e sulla sua visiera comparve una scansione delle
caratteristiche dell’apparato elettronico. Era esattamente quella la sua funzione. Per bloccarlo
per sempre, bastava distruggerlo. Fece allontanare il resto della truppa e consumò un
caricatore per essere sicuro che non potesse mai più essere azionato. Tutto andò liscio. I
mortai smisero di funzionare. I piloti, ancora in volo, se ne resero subito conto. Ronda non
poteva comprendere chi avesse messo fine a quel delirio di proiettili, ma capì perfettamente
che qualcosa di ancora più pericoloso si stava avvicinando. All’orizzonte vide una macchia
nera, un cubo volante, procedere senza paura nella loro direzione. Contattò subito
l’ammiraglio, ma la comunicazione era difficoltosa. Capì di dover prendere una decisione, e
alla svelta, quando quella navicella, fece saltare in aria con una fucilata ionica tre aerei dei
figli dell’Eden. Affrontarlo frontalmente con un attacco disperato, sarebbe stata una vera
follia. D’altra parte, non aveva niente di meglio da fare.

«Benvenuti», disse una voce in filodiffusione che risuonò in tutta la torre, «Mi sorprende che
i miei amici non siano stati capaci di darvi una degna accoglienza. Beh, vorrà dire che la
prossima volta punterò sulla qualità e non più sulla quantità. Peccato che, per voi, non ci sarà
mai una prossima volta».
«Brennon!», urlò l’ammiraglio, «Esci fuori, codardo!».
«Le consiglio di non agitarsi troppo. Si goda gli ultimi minuti pensando al suo fallimento,
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Barrett. Certo, lei non poteva saperlo, ma lì dentro io non ci sono. In questo momento, sto
sorvolando, all’interno della mia nave spaziale, la roccaforte, Se vi fa piacere saperlo, vi dico
che sto schiacciando delle mosche che mi ronzano attorno. Sono vostri amici, per caso?».
«Figlio di puttana!», strillò Finch, in preda a una crisi nervosa.
«Non si dicono le parolacce, moccioso! Per questa volta, però, ti perdono. Stai per morire e
questa è già una bella punizione. Ecco, vi ho sotto tiro».
«Forza, tutti fuori! Vuole fare esplodere la torre!».
«Bravo, ammiraglio. Lei sì che mi capisce».

Non perdendosi in chiacchiere, gli ultimi superstiti percorsero il corridoio, saltando sulla
distruzione che profumava ancora di caldo. Sembrava non finire mai. Sapevano che, da un
momento all’altro, sarebbe successo l’irreparabile. Lo sentivano arrivare a ogni passo, eppure
non succedeva nulla. Nessuno ebbe la temerarietà di chiedere perché Brennon non avesse
ancora colpito, anche perché era molto meglio risparmiare il fiato per scappare. Quello che
non potevano sapere era che Ronda e gli ultimi caccia della flotta di Finch si stavano battendo
egregiamente. Non avevano la forza di abbattere quella navicella, ma erano discretamente
armati per metterla in difficoltà. Le giravano attorno sganciando tutto l’armamentario che
avevano a disposizione. Brennon, sicuro di sé, preferì sbarazzarsi di quel tenue disagio e,
come se stesse giocando a Space Invaders, li fece fuori tutti, tutti tranne Ronda che, rimasta
senza munizioni, non poté fare altro che ripiegare.

«Scusate il ritardo, amici. C’è stato un piccolo inconveniente, ma non mi sono scordato di
voi», disse Brennon, riprendendo il collegamento con la roccaforte, «I vostri cari verranno a
trovarvi presto in paradiso. Io e un mio amico, Thalos, gli faremo visita presto. Adieu!».
Trascorsero pochi secondi e il cannone blaster della sua navicella sputò un raggio dalla
spaventosa potenza distruttrice che colpì la struttura, disintegrandola in un attimo. Il crollo si
avvertì a miglia di distanza, sembrava un tuono. Eppure, anche la pioggia aveva smesso di
battere. Non era un tuono, era la fine. O almeno, così credeva Brennon che, ridendo, si
allontanò da quel delizioso scenario di morte. La polvere delle macerie raggiunse la volta
celeste, non c’erano suoni. Anche la natura divenne sorda. Da una nuvola filtrò uno spiraglio
di luce che, come un occhio di bue, rischiarò la valle, le rovine, i detriti, i defunti, ma anche i
vivi. Non erano molti, ma c’erano, solo in quindici riuscirono a varcare l’uscio della fortezza
prima che fosse distrutta. Tra questi c’era Henry, Finch, la Gilbert, l’ammiraglio... Per
Conrado, invece, per il sottotenente Lee, per il tenente Vaughn non ci fu niente da fare. I loro
piedi non erano riusciti a fare quel passo in più che li avrebbe salvati. Distesi nel fango, senza
più le forze nemmeno per alzarsi, strisciavano come vermi. Erano vivi, ma avevano perso. Le
carcasse degli aerei sembravano lapidi, una discarica, un cimitero di metallo, pietra e carne.
Barrett, con la bocca piena di melma, non ebbe il coraggio di pensare. Nessuno lo ebbe.
L’unica che faticosamente volle dire qualcosa fu la Gilbert: «Lo sento! Lo vedo!».
«Dove?», domandò l’ammiraglio.
«Vuole scappare. È all’impianto di nunkasion, ha bisogno di carburante», rispose.
Barrett rise, prima piano, poi sempre più forte. Henry pensò che fosse impazzito. Lo vide, con
una mano tremante, estrarre dalla tasca un telecomando e alzarlo al cielo. «Adieu, Brennon!»,
sogghignò e premette l’unico tasto presente su quell’aggeggio.
Un boato rimbombò nella valle. Una nebbia scura e pesante si propagò come un fungo
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atomico. I sopravvissuti guardarono tutti nella stessa direzione e compresero il senso della
risata isterica dell’ammiraglio. Ne furono contagiati. Ghignarono con i denti marroni, sporchi
di liquame, e il sangue incrostato su tutto il corpo, fino a quando il sergente non diede la
brutta notizia: «È ancora vivo». La disperazione giocava a braccio di ferro con la loro salute
mentale. Sperarono ardentemente che la Gilbert si fosse sbagliata, ma ebbero conferma del
contrario quando videro la navicella di Brennon arrancare nel cielo nei pressi della nube
scura. Saliva a tentoni nel cielo. Probabilmente si era danneggiata, ma non si era distrutta.
Henry pianse, e così anche Finch, ma le lacrime non fecero in tempo a cascare al suolo che un
fascio di luce trafisse il cielo e il cubo volante. Proveniva da sud, dall’Arcturus? Impossibile,
a bordo era rimasto soltanto il personale tecnico. Nessuno era in grado di utilizzare il cannone
a ioni. Con così tanta precisione, poi. Cadde polvere dorata, dell’astronave di Brennon non
restò nulla, solo polvere. Qualunque cosa si sedò, in particolare la loro capacità di distinguere
la realtà dal sogno. Restarono a guardare quel punto, convinti che non fosse vero, ma il
sergente, con un sorriso più che umano, deluse le loro certezze.
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EPILOGO
Dal diario di Henry Mitchell

(...). «È stata come un’illuminazione. Mi ero resa conto di aver terminato le munizioni e sono
tornata alla base per ricaricare. Una volta lì, mi sono detta: “Ma perché non utilizzare
l’Arcturus?”. Gli attacchi che stavamo scagliando contro di lui, in fondo, erano del tutto
inutili. Serviva qualcosa di più potente», ripeteva Ronda. Per l’ennesima volta, mi ero fatto
raccontare la dinamica della battaglia aerea e del colpo di grazia che aveva scagliato su
Brennon. Non mi saziavo mai di quella storia, neanche una volta giunti sulla Terra. La mia
testa era rimasta ferma a quel momento, come un sogno da cui non mi ero mai svegliato. Fu
Selena a dirmi di scrivere questo diario. Decisi di andare in terapia principalmente per
vederla. Le sedute velocemente si trasformarono in appuntamenti e, infine, in qualcosa di più.
Beh, sì, in effetti erano successe molte cose da quel giorno di sciagurata gloria su Xenon.
Torniamo a noi, ci siamo quasi.
Ripartimmo dopo un paio di giorni, giusto il tempo di riprenderci dalle ferite e dalla
stanchezza. Viaggiammo per una settimana, forse due. Nella navicella non volava una mosca.
Eravamo rimasti in pochi. Sentivamo la mancanza anche di quelle persone con cui non
avevamo stretto amicizia. Festeggiammo la vittoria mestamente, mangiammo qualcosa,
ridemmo a malapena. Provavamo una profonda tristezza. La soddisfazione che avremmo
dovuto provare si perdeva nello sconforto, nella voglia di dimenticare. L’ammiraglio, esausto
dopo anni luce di traversata, chiese il permesso ad Arkana di atterrare su Encelado. Aveva
bisogno di sgranchirsi le gambe, di fare una pausa. Acconsentì. Fu quella l’ultima volta che
vedemmo la Gilbert, Finch e i suoi uomini rimasti vivi. Era la loro fermata. Il sergente pensò
che non fosse il caso di tornare sulla Terra e correre il rischio di essere etichettata come
alieno, preferì diventare un’apolide dell’universo. Ci lasciò con la promessa che sarebbe stata
sempre al nostro fianco, qualsiasi cosa fosse accaduta in futuro. Finch, malconcio, fece lo
stesso. Disse che le fondamenta per edificare il suo movimento erano state gettate, sarebbe
ripartito da lì. Non sentii un magone quando lo vidi andare. Del resto, non mi era
particolarmente simpatico. Sarei un bugiardo, però, se dicessi che non fosse stato utile alla
causa. Sicuramente senza il suo supporto non starei qui a scrivere. L’ammiraglio pianse,
guardando la Gilbert passeggiare, fino a scomparire, con Arkana. Da quel momento in poi,
non parlò più. Si chiuse nel suo ufficio e lì vi restò. Quando il nostro pianeta fece capolino,
sentii come di non appartenervi più. È difficile da spiegare, ma mi sentivo cambiato. Avevo
visto troppe cose diverse, e non mi sorprenderebbe sapere che anche i miei compagni
provassero la stessa sensazione. Fummo accolti con sospetto. Barrett era l’unico a non
esserne sorpreso. Ci portarono tutti in un ospedale per accertamenti, ci fecero mangiare
avidamente e ricaricarono prontamente le nostre carte di credito con degli extra che ci
avrebbero consentito, se solo l’avessimo voluto, di non lavorare per una ventina di anni. Mi
intenerii quando vidi che, nel mio conto, compariva un bonifico di diciottomila dollari che
nella causale indicava “Rimborso Figli dell’Eden”. Feci visita a mia madre. Quando mi vide,
mi riconobbe a stento. Venni a sapere che mio padre era morto poco tempo dopo la mia
partenza. Sentii di non provare nulla, e un po’ mi dispiacque. Andai con lei al cimitero, lo
salutai, e lo stesso feci con Ronnie. Restai in paese per un fine settimana. Avrei voluto
trascorrervi più tempo, ma il Capo di Stato maggiore Foster ci aveva convocato tutti.
Dovevamo presiedere dinanzi alla Corte Marziale. Quando lo seppi, mi venne un colpo. Non
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capivo cosa stesse succedendo, poi compresi quella strana serenità dell’ammiraglio nel
ricevere poche, se non nessun onore al nostro rientro. C’era qualcosa che non andava e, non
passò molto, prima di capire di cosa si trattasse. I tre membri delle Forze Armate americane
giudicarono Barrett colpevole di violazione del Codice Uniforme della Giustizia militare. Il
principale capo d’accusa fu la non concordata intesa con delle milizie di banditi extraterrestri,
ma si vociferò che ciò che fece più infuriare Foster e soci fu l’uccisione di Brennon. Lo
volevano vivo. Condannarono l’ammiraglio a due anni di reclusione. Accettò la pena senza
battere ciglio, quasi con fierezza. Davanti alla corte aprì un pacco. Disse che glielo avessero
consegnato su Encelado e che appartenesse a Nikkolò Finch. Lui stesso glielo aveva donato
per farlo ascoltare a chi lo considerava un criminale. Al suo interno vi era un registratore. Lo
azionò e la voce del ragazzo risuonò tra le mura del tribunale. Una specie di testamento in cui
Finch spiegava tutte le sue ragioni, le stesse che aveva ben espresso su Xenon al cospetto
della truppa dell’Arcturus. I giudici non lo presero nemmeno in considerazione. Si
allarmarono soltanto quando Barrett, prima di essere portato via, disse a voce piena:
«Rendete onore ai nostri giovani, perché hanno lottato per il bene di tutti noi. Sorridete, ma
guardate in alto, non pensate di essere al sicuro. C’è qualcosa lassù. Io non so altro che il suo
nome: Thalos».

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