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Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Prologo. Storia del bambino che tratteneva il respiro
Introduzione. L’impossibile è un’opinione
1. Cosa sono i limiti. Conoscerli, misurarli, affrontarli, superarli. E spostarli un po’ più in là
2. «Fa’ un bel respiro e rilassati». Respirazione, concentrazione, rilassamento
3. Pressione, imprevisti, paure. La gestione delle difficoltà
4. Sott’acqua non si è mai da soli. L’importanza delle relazioni: la squadra, i maestri, i rivali
5. La memoria dell’acqua. L’apnea si impara, l’apnea insegna
Conclusione. L’apnea è guardarsi dentro
Biografia dell’autore
Inserto fotografico
Copyright
Il libro
UMBERTO PELIZZARI (Busto Arsizio, 1965) è tra i più importanti apneisti a livello
internazionale.
Durante l’attività agonistica ha stabilito record mondiali in tutte le discipline dell’apnea
ed è stato il primo a infrangere il muro dei 150 metri di profondità.
Dopo il ritiro, ha creato la scuola Apnea Academy per la diffusione, la didattica e la
ricerca dell’apnea subacquea a livello mondiale. Inoltre ha lavorato in tv come conduttore
e inviato di programmi di successo, tra i quali Pianeta Mare, Lineablu, Lo show dei record
e Sai xché?
www.umbertopelizzari.com
Umberto Pelizzari
PRIMA metà degli anni Settanta del Novecento. In un’aula di scuola elementare
un ragazzino biondo – avrà sì e no otto anni – è seduto al banco dell’ultima fila.
Non respira. Non è un modo di dire: non sta respirando non perché stia fermo,
immobile, per sfuggire allo sguardo severo della maestra. No, trattiene il fiato,
letteralmente. È un gioco che quel ragazzino fa spesso, e si diverte pure.
Ha gli occhi fissi sull’orologio che scandisce lo scorrere dei secondi. Sta
provando a battere il proprio record personale: due minuti e mezzo senza
respirare. Quel giorno – chissà perché proprio quel giorno, poi, e chissà perché
proprio a scuola – il ragazzino biondo ha deciso che vuole superare i tre minuti.
Alla televisione ha visto gente che si immerge in mare e, senza respirare,
arriva a oltre settanta, ottanta metri di profondità. Ha scoperto che si chiamano
apneisti e che l’apnea è quell’esercizio che ti fa trattenere volontariamente il
respiro. Quelli bravi e allenati riescono a farlo per parecchi minuti.
Il ragazzino biondo prima si è preparato, come ha visto fare in tv. Ha iniziato
a fare iperventilazione, gli esercizi di ripetuta e sempre più veloce e profonda
inspirazione ed espirazione. L’apneista famoso che ha visto alla televisione,
quando fa iperventilazione, produce un rumore strano che ricorda un asino che
raglia. Lì in classe però non è il caso: attirerebbe l’attenzione della maestra.
Quando sente che i suoi polmoni sono sufficientemente ventilati e pieni
d’aria, inizia a trattenere il respiro e fa partire il cronometro del suo bell’orologio
nero al quarzo con i numeri digitali rossi, che qualche mese prima aveva chiesto
in regalo ai genitori per la Comunione.
Il tempo scorre. Passa un minuto, un minuto e mezzo. Tutto bene. Ma in aula,
dal fondo, comincia a salire un certo brusio. Com’è possibile stare calmi e zitti –
senza fiatare… – quando un tuo compagno di classe sta tentando di migliorare il
proprio record personale di apnea? La maestra si accorge di qualcosa e chiede
che in fondo si faccia silenzio, ma niente da fare: nonostante il richiamo
l’agitazione in classe aumenta.
Il tempo continua a scorrere. Ormai siamo oltre i due minuti: due minuti e
dieci, due minuti e venti. Il record si avvicina, ma ormai è impossibile
nascondere «l’impresa», e il trambusto aumenta. I compagni si girano verso il
ragazzino biondo, qualcuno lo vorrebbe incitare, dai, dai che ce la fai. Due
minuti e mezzo, record personale superato!
Intanto la maestra si è alzata dalla cattedra e sta arrivando a passo deciso
verso il fondo dell’aula con una faccia per nulla rassicurante. Capisce che la
causa di tutta quella confusione è il ragazzino biondo seduto all’ultimo banco.
Lo vede rosso, paonazzo, quasi viola. E si spaventa.
«Mio Dio, cosa succede? Stai male?!» si mette a urlare.
Il ragazzino mugola qualcosa in modo convulso. Indica l’orologio. Mancano
soltanto dieci, nove, otto, sette, sei, cinque secondi ai tre minuti. Non può
mollare proprio adesso, a un soffio dal suo record. Non può rispondere alla
maestra, che ormai è terrorizzata e si mette le mani nei capelli. Sta per chiamare
aiuto quando, allo scoccare dei tre minuti sul display, il ragazzino biondo apre la
bocca e respira. È sulla soglia dello svenimento, della sincope, ma riesce lo
stesso a esultare.
«Tre minuti, maestra! Tre minuti! Record! Il mio record!»
Non si ricorda molto altro di quel momento, se non la formidabile sberla che
gli rifila la maestra per sfogare d’impulso il suo grande spavento e che lo fa
rinvenire dallo stordimento e dall’euforia. Un sacrosanto schiaffone.
«Ma come ti viene in mente di fare certi scherzi, e per di più a scuola?!»
Il ragazzino biondo non fa neanche in tempo a realizzare quello che sta
succedendo che si ritrova trascinato in presidenza. La maestra, ancora trafelata,
racconta al preside la bella trovata dell’apprendista apneista. Ne seguono
predica, reprimenda e punizione, più convocazione dei genitori. A quei tempi
genitori e insegnanti erano una cosa sola: se a scuola ricevevi un brutto voto, se
prendevi una nota disciplinare o, peggio, come in questo caso, venivi sospeso, la
colpa, giusta o sbagliata che fosse, era certificata dall’autorevolezza della
maestra. E di solito a casa mamma e papà rincaravano la dose. Così, anche
quella volta alla punizione si aggiunse il castigo dei genitori.
Ma lui, tutto sommato, era un bravo ragazzino, e le punizioni si trasformarono
presto in raccomandazioni.
«Ti prego, prometti di non farlo mai più!»
Il ragazzino biondo promise.
Ma non mantenne.
Introduzione
L’impossibile è un’opinione
QUEL ragazzino biondo, in quell’aula di una scuola elementare, ero io: Umberto
Pelizzari. Quasi cinquant’anni fa, o giù di lì, promisi alla maestra, al preside e ai
miei genitori che trattenere il respiro, o mettere alla prova i miei limiti in apnea,
era una cosa che non avrei mai più fatto. Ma già allora sapevo che non sarebbe
stato così, che non avrei potuto mantenere quella promessa. Proprio non potevo.
L’apnea, o meglio l’immersione in apnea, è stata la mia vita e continua a
esserlo anche oggi nonostante da vent’anni mi sia ritirato dalle competizioni. Ma
da allora non ho mai smesso di fare dell’apnea, se non la mia ragione di vita – ce
ne sono e ne conosco molte altre, in particolare da quando ho la mia famiglia,
mia moglie e i miei tre figli –, sicuramente uno stile di vita. Soprattutto, è un
modo per conoscere me stesso, il mio corpo e la mia mente, una disciplina a cui
ancora oggi non posso rinunciare.
È come una ricerca continua che mi ha spinto fin da quegli anni lontani, da
quella che al tempo era una pratica che somigliava poco più che a un gioco, a
spostare in là i miei limiti e a misurarmi con essi.
Questo aspetto quasi filosofico l’ho scoperto proprio negli ultimi anni, da
quando ho lasciato l’agonismo. Se prima l’obiettivo era vincere in gara e
stabilire dei record, adesso mi dedico a far capire agli altri quanto il rilassamento
mentale e fisico, la gestione delle proprie capacità mentali e l’uso corretto della
respirazione possano portare a risultati incredibili non solo nell’ambito
dell’apnea subacquea ma anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni, nella
realtà lavorativa e nella quotidianità.
Dopo aver lasciato l’attività agonistica mi sono cimentato nel campo della
divulgazione e della comunicazione, mettendo a disposizione la mia esperienza
di uomo di mare e la mia passione per le sfide sportive in alcuni programmi
televisivi che hanno riscosso un buon successo, come Sai xChé?, Pianeta Mare,
Linea Blu, Lo show dei record, il docu-reality Vite in apnea e Ritorno alla
natura. Quel contesto così particolare, a metà tra l’informazione e lo spettacolo,
mi ha divertito molto.
Oggi però mi coinvolge e mi appassiona maggiormente essere chiamato a
portare la mia testimonianza in congressi, simposi e conferenze motivazionali,
davanti a platee eterogenee e composte certamente non da «uomini di mare». In
queste situazioni racconto come l’atleta si prepara per affrontare e superare i
propri limiti, e come l’apnea e l’attività subacquea estrema – con tutto quello che
riguarda questo mondo che ben conosco, dalla preparazione fisica alla
motivazione psicologica, dalla gestione dello stress all’importanza di poter
contare su un team ben affiatato – possano essere prese a modello anche in
ambiti molto diversi, se non addirittura lontani, dall’immersione in apnea.
Spesso vengo invitato da società e aziende di vari settori a tenere interventi
motivazionali, durante i quali racconto la mia storia, che è appunto la storia di
chi si è sempre confrontato con i limiti: limiti che innanzitutto devono essere
individuati, capiti, studiati e poi superati. In ogni caso sempre rispettati, avendo
riguardo prima di tutto di se stessi, degli altri e del mondo che ci sta intorno.
Questo libro va in stampa nei giorni in cui la tremenda pandemia di Covid-19,
o Coronavirus, sta scuotendo le nostre esistenze. Giorni attraversati dalla paura,
individuale e collettiva, e da un senso di indefinita impotenza di fronte a un
fenomeno estremo che la maggior parte di noi può affermare di non aver mai
vissuto prima, che solo ad alcuni tra i più anziani può richiamare alla memoria la
drammatica esperienza degli anni, ormai lontani, della guerra. Giorni in cui ci
troviamo improvvisamente a confrontarci con limiti – così straordinari da
sembrare inconcepibili – che vengono imposti alle nostre vite quotidiane, al
lavoro, agli affetti, alle consuetudini. Anche questi sono limiti che per prima
cosa bisogna sforzarsi di conoscere, capire e misurare, per poterli rispettare,
come dicevamo, rispettando se stessi, gli altri e ciò che ci circonda.
Paradossalmente, in questa condizione, accettare un limite, rispettarlo, può
significare migliorare la propria esistenza e quella degli altri.
Proprio intorno al concetto di limite, come metafora di un senso relativo del
nostro essere uomini, ho voluto allora immaginare la struttura del libro che avete
tra le mani. Magari non vi ha mai sfiorati, e mai vi sfiorerà, l’idea di diventare
apneisti, di immergervi nel fantastico mondo sommerso dei fondali marini.
(Credetemi: se mai vi convincerete a farlo, anche per voi diventerà quasi
impossibile farne a meno…) Leggendo queste pagine, però, non vi sarà difficile
trovare parecchie analogie tra l’esperienza dell’apneista e la vita di tutti i giorni.
Respirazione, rilassamento, pressione e compensazione sono prove o
momenti con i quali, più o meno consapevolmente, tutti noi abbiamo a che fare
nella quotidianità: il lavoro, le relazioni e il confronto con gli altri, le
conseguenti situazioni di stress, il dover rispondere a richieste del mondo
professionale e privato, la preoccupazione di non essere all’altezza delle
aspettative e la ricerca di un proprio benessere per compensare o, meglio,
equilibrare le pressioni a cui veniamo sottoposti.
Sono tutte esperienze che hanno in qualche modo a che fare con limiti,
personali e interiori, collettivi e condivisi, determinati dalla natura o stabiliti
dalle convenzioni, con cui, di volta in volta, dobbiamo misurarci nella loro reale
dimensione.
Per spiegarmi meglio faccio ancora un passo indietro nel tempo, riportandovi
con me in quell’aula di scuola elementare di quasi mezzo secolo fa. Quando
tornai a scuola, la maestra mi prese da parte e mi disse che, se avessi promesso
di non ripetere più quelle prove di apnea in classe, alla fine dell’anno scolastico
mi avrebbe fatto un regalo. Ma non un regalo qualsiasi: mi avrebbe fatto avere
l’indirizzo di Enzo Maiorca.
Era il mio mito, lei lo sapeva. Nei primi anni Settanta Maiorca rese popolare
l’immersione in apnea. Siciliano di Siracusa – anche la mia maestra era di
Siracusa –, aveva ingaggiato con altri specialisti, in primis il francese Jacques
Mayol, una vera e propria «corsa alla profondità», una gara infinita tra chi fosse
stato capace di raggiungere il punto più profondo del mare, strappando un
cartellino con indicato il numero dei metri raggiunti, per poi risalire in superficie
e tornare a respirare.
Diventò un vero e proprio personaggio pubblico quando, il 22 settembre
1974, la Rai trasmise in diretta per la prima volta il tentativo di record mondiale
di apnea, nelle acque del mare di Sorrento. Tra l’altro è paradossale, e anche un
po’ ingiusto, che sia diventato famoso non tanto per un successo o per i numerosi
record conquistati in decenni di immersioni, quanto per un clamoroso incidente.
Quel giorno il suo tentativo di raggiungere i 90 metri di profondità fu vanificato
dallo scontro, avvenuto a una ventina di metri dalla superficie, con un maldestro
operatore televisivo che si trovava in un punto in cui non si sarebbe dovuto
trovare.
Maiorca, in piena fase di discesa, andò a sbattere con la testa contro le
bombole del sommozzatore. Lo scontro fu violento. Maiorca si fece male ma
riuscì comunque a ritornare in superficie. Appena sbucò dall’acqua era una furia!
Mentre il suo sguardo di fuoco girava tutto intorno per cercare il responsabile di
quel disgraziato incidente, Maiorca si lasciò andare a uno dei più celebri
turpiloqui in diretta della storia della televisione. Nella litania di parolacce
s’infilarono anche un paio di bestemmie che tutti i telespettatori fecero in tempo
a sentire prima che i tecnici del suono riuscissero a disattivare l’audio. Gli
sarebbero costate un paio d’anni di interdizione dalla televisione di Stato.
Motivo di ulteriore scandalo fu il fatto che lo sbadato operatore tv non era una
persona qualsiasi: si chiamava Enzo Bottesini ed era un esperto subacqueo. La
Rai lo aveva scritturato come inviato speciale dopo che pochi anni prima era
divenuto noto al grande pubblico televisivo per aver partecipato come
concorrente a Rischiatutto, il famosissimo telequiz condotto da Mike Bongiorno,
e per aver vinto una considerevole somma «in gettoni d’oro» rispondendo
proprio a domande sul mondo sottomarino.
Maiorca ritentò il record pochi giorni dopo e arrivò a –87 metri. Risalendo in
superficie accusò una sincope: il record non venne omologato e Maiorca pensò
seriamente di ritirarsi. Quattordici anni dopo, però, nel 1988, spinto dalle figlie
Patrizia e Rossana, anche loro grandi apneiste, sarebbe tornato a immergersi per
stabilire il suo ultimo record a –101 metri.
Al di là dei numeri e delle prestazioni – nonché di quella sua improvvisa
popolarità – Enzo Maiorca è stato davvero un mito dell’immersione in apnea.
Appartiene a quella generazione di pionieri, avventurieri un po’ romantici, che
affrontavano il mare e le sue profondità, e di conseguenza i nostri limiti,
conservando però un profondo rispetto sia per l’essere umano, sia per il mare.
Il biglietto che mi diede la mia maestra, con l’indirizzo di Maiorca all’Ortigia,
l’ho conservato. A dire il vero quell’anno, finita la scuola, non scrissi nessuna
lettera; lo riposi in un cassetto della mia scrivania e aspettai un bel po’ di anni
prima di riprenderlo in mano. Continuai le scuole, finii le elementari, poi le
medie, quindi le superiori, e mi iscrissi all’università. Ma l’apnea entrò sempre
di più a far parte della mia vita; da gioco, con il cronometro in mano, divenne
una vera e propria passione e attività sportiva.
E dire che all’inizio avevo un brutto rapporto con l’acqua. Da piccolissimo
addirittura la sola idea di andare sotto la doccia e che l’acqua potesse bagnarmi
la testa ed entrarmi negli occhi mi terrorizzava. Bastava la sola vista del
flaconcino dello shampoo per farmi strillare a più non posso. Anche per questo,
per farmi superare questo blocco – ero anche un po’ paffutello, e imparare a
nuotare mi avrebbe fatto bene –, mia mamma, verso i quattro, cinque anni,
decise di mandarmi in piscina. Credo che abbia rimpianto per tanti anni quella
decisione, tutte le volte che è rimasta anche lei «con il fiato sospeso» quando
tentavo di battere un record.
L’esperimento riuscì e la paura dell’acqua mi passò in fretta. Altrettanto
presto scoprii che la cosa che più mi piaceva era trattenere il respiro sott’acqua.
Durante gli allenamenti mi divertivo a nascondermi ai piedi della scaletta della
piscina per saltare qualche vasca e stare a guardare i miei compagni che
facevano avanti e indietro nuotando in superficie. A ogni virata cercavo di
emergere il più lontano possibile dal bordo percorrendo la massima distanza
senza respirare. Nei percorsi di rana subacquea, non potendo ancora nuotare
un’intera vasca sott’acqua, contavo le piastrelle per migliorarmi ogni volta di
più.
Non sapevo quasi nulla di apnea, ma quel mondo mi affascinava. A metà anni
Settanta stava iniziando la sfida tra i due grandi nomi del «profondismo» di
allora: Enzo Maiorca, appunto, e il rivale, il francese Jacques Mayol. Un duello
affascinante, fatto di record continuamente migliorati, ora da uno ora dall’altro.
A diciassette anni smisi con il nuoto agonistico e decisi di dedicarmi
completamente all’apnea. Non potevo però che farlo in piscina. Già, non ve l’ho
ancora detto: sono nato a Busto Arsizio, tra Milano e Varese, in piena Pianura
Padana. Anche dal nome della mia città si capisce che la sua storia ha più a che
fare con il fuoco che con l’acqua. L’origine di Busto potrebbe essere il latino
combustum, «bruciato, rinsecchito» o perlomeno asciutto. La seconda parte del
toponimo, Arsizio, non è da meno: pare che rimandi alla memoria di un
incendio, forse dei tempi delle guerre tra i Celti insubri e i Romani, o dei secoli
successivi, durante le lotte comunali contro il Barbarossa, noto appiccatore di
roghi. Insomma, lo sanno anche i muri che Busto Arsizio non è esattamente una
repubblica marinara.
Eravamo all’inizio degli anni Ottanta, e chi avesse voluto saperne di più su
come immergersi in apnea doveva arrangiarsi: non c’erano manuali, i rari articoli
che si potevano leggere su questo argomento erano disquisizioni mediche che
invitavano alla prudenza e mettevano in guardia dai rischi fisiologici dell’apnea.
Di corsi per imparare, migliorare o allenare questa disciplina neanche a parlarne.
Ovviamente eravamo ancora lontanissimi da Internet e dai tutorial online. Si
doveva fare tutto in autonomia, lunghi percorsi da autodidatta e ricerca su se
stessi e incontri con chi ne sapeva più di te.
In quegli anni, nonostante Maiorca si fosse ritirato dalle competizioni, era
ancora viva la disputa con Jacques Mayol, amplificata e spettacolarizzata dalla
trasposizione cinematografica della loro rivalità: nel 1988 uscì nelle sale Le
Grand Bleu, un film di Luc Besson che avrebbe avuto un grande successo di
pubblico in Francia, ma che in Italia innescò numerose polemiche che avrebbero
portato alla causa per diffamazione intentata da Maiorca. Il campione siracusano
aveva contestato il modo in cui la sua figura era stata rappresentata nella
sceneggiatura e la pellicola poté essere distribuita nelle sale italiane solo nel
2002, dopo alcune modifiche.
Enzo Maiorca e Jacques Mayol possono essere considerati, a pieno titolo, i
padri dell’apnea moderna. Nonostante il significato agonistico della loro sfida
sia ormai stato superato da anni, le loro figure spiccheranno per sempre nella
loro dimensione leggendaria, perché le personalità di questi due grandi uomini,
affascinanti, complesse e contraddittorie, vanno ben oltre i confini dello sport e
dei semplici record.
Ho avuto modo di conoscerli molto bene e da entrambi ho imparato
moltissimo, dal punto di vista tecnico ma soprattutto per quello che mi hanno
insegnato sotto l’aspetto umano. Di Maiorca mi rimarrà per sempre impresso il
significato che attribuiva al concetto di limite. Fin dalle sue prime esperienze in
apnea fu il primo a lanciare la sfida al limite invalicabile imposto dalla scienza.
Negli anni Sessanta un medico, il professor Gabarrou, massimo esponente
mondiale della fisiologia subacquea e membro dell’équipe dell’oceanografo
francese Jacques-Yves Cousteau, dopo alcuni esperimenti aveva stabilito un
limite fisico che non avrebbe permesso all’essere umano di superare certe
profondità in apnea. Sosteneva infatti che il nostro corpo non avrebbe potuto
sopportare le condizioni di pressione atmosferica a profondità maggiori di 50
metri. Per affermare questa teoria, il professor Gabarrou aveva fatto costruire un
contenitore che replicava le caratteristiche meccaniche e volumetriche di un
essere umano con una capacità polmonare di circa 6 litri e mezzo. Tutte le volte
che il contenitore veniva calato alla profondità di oltre 50 metri, la sua struttura
implodeva e si schiacciava, tanta era la pressione cui veniva sottoposta.
In fisica, la legge dell’isoterma, o legge di Boyle, afferma che in un gas a
temperatura costante pressione e volume sono inversamente proporzionali: più
aumenta l’uno, più in proporzione diminuisce l’altro. Tradotto in numeri, quando
si scende sott’acqua, ogni 10 metri di profondità la pressione aumenta di 1
atmosfera, e i volumi del nostro corpo si devono necessariamente ridurre in
modo proporzionale. Il volume aereo più importante che portiamo sott’acqua
con noi in apnea sono i polmoni (circa 6 litri), che sono sottoposti alla più
importante riduzione di volume. A 50 metri di profondità la pressione è pari a 6
atmosfere, quindi il volume dei nostri polmoni sarà un sesto di quello iniziale,
ovvero 1 litro. Secondo Gabarrou, proprio lo spazio vuoto creatosi in seguito alla
riduzione del volume polmonare avrebbe provocato l’implosione del torace e
quindi la morte per l’uomo che avesse osato sfidare il mare, superando la fatidica
soglia dei 50 metri. Da qui il famoso detto «après l’homme s’écrase», oltre
l’uomo si schiaccia… e muore.
Enzo Maiorca non era per nulla convinto di questo assunto. Non aveva le
competenze scientifiche per contestare la teoria del fisiologo francese, ma sapeva
per esperienza, e sulla base di quello che il suo corpo gli indicava non lontano da
quella profondità, che quel limite era tutt’altro che invalicabile.
Dei molteplici record infranti nella sua carriera di apneista, quello che lo
portò ad abbattere il «muro dei 50 metri» è secondo me quello simbolicamente
più significativo. Quando mi capitava di incontrarlo non mi stancavo mai di
chiedergli che mi raccontasse proprio quell’impresa. Lui spiegava, con il suo
spiccato accento siciliano e con la passione che trasmetteva da quel suo sguardo
acceso e penetrante, che non poteva accettare che qualcuno, anche il più
autorevole medico, potesse chiuderlo in una gabbia, limitandolo nelle sue
potenzialità. Nessuno di quegli scienziati era mai sceso a quelle quote
sott’acqua. Nessuno di loro poteva conoscere le sensazioni che lui provava
quando si avvicinava a quelle profondità; nessuno poteva conoscere i messaggi
che il suo corpo inviava nelle discese verso l’abisso. Lui si rendeva conto che
esisteva ancora margine, che poteva spingersi a toccare quel limite considerato
impossibile per l’essere umano e, probabilmente, a superarlo.
Provate a immaginare come ci si può sentire nel momento in cui si sta per
effettuare la capovolta per iniziare un tuffo in apnea, con l’obiettivo di
raggiungere una quota dalla quale, secondo la medicina mondiale, non si potrà
fare ritorno in superficie! Immaginate lo stato d’animo di Maiorca che si trova lì,
sul pelo dell’acqua, con la muta e la maschera stretta sul viso, e sta ventilando
negli ultimi secondi prima dell’inizio di un’immersione che lo porterà a una
profondità dove un illustre medico gli ha detto che troverà la morte certa,
schiacciato dal peso dell’acqua!
Ecco, Maiorca era quel tipo di uomo, l’uomo che voleva misurare il proprio
limite, non per sentito dire ma per conoscenza diretta.
Una delle ultime volte che lo incontrai – Maiorca ci ha lasciati non molto
tempo fa, nel 2016 – gli chiesi per l’ennesima volta di raccontarmi quel tuffo a
50 metri. Era con me un amico paracadutista, e usai un esempio per fargli
comprendere la grandezza di quel momento per Maiorca, per la storia dell’apnea
e, senza esagerare, per la storia della fisiologia umana. Gli dissi che per capire
quello che Enzo aveva vissuto nel momento della partenza avrebbe dovuto
immaginare la sua sensazione da paracadutista al momento del lancio, affacciato
al portellone dell’aereo, pronto a fare il balzo nel vuoto, con un paracadute che
secondo i migliori ingegneri aeronautici del mondo non si sarebbe mai aperto.
Gabarrou, pochi giorni prima del tentativo di superamento dei 50 metri di
profondità, andò a trovare Maiorca in Sicilia. Era un ultimo, forse disperato,
tentativo per dissuaderlo. Si incontrarono e parlarono di quello che stava per
succedere. La chiacchierata, in inglese, durò un paio d’ore. Alla fine Gabarrou
sapeva di non aver convinto Maiorca a rinunciare, ma prima di accomiatarsi
ribadì che quello che avrebbe tentato da lì a un paio di giorni era semplicemente
impossibile. Maiorca lo guardò negli occhi, lo salutò e stringendogli la mano
disse, in un inglese elementare ma efficacissimo: «Impossible is an opinion».
Due giorni dopo, quando Maiorca emerse in superficie stringendo tra le mani
il cartellino dei 50 metri, tutte le convinzioni scientifiche e gli studi di medicina
subacquea che si basavano sulla teoria che «l’homme s’écrase» a –50 metri di
profondità saltarono in un colpo solo.
Dopo quella prova incredibile di Enzo Maiorca, Gabarrou e la sua équipe non
si diedero tuttavia per vinti: rifecero i loro calcoli fisiologico-strutturali,
adattarono il famoso contenitore e riaggiornarono il limite: i 75 metri di
profondità erano le nuove «colonne d’Ercole» per l’uomo in apnea. Ma questa
volta fu Jacques Mayol ad abbatterle. Spostarono ancora un po’ più in là il
confine, portandolo a 100 metri, ma Maiorca con 101 e Mayol con 105 metri
dimostrarono che anche quel limite era solo un’opinione.
Solo qualche anno dopo la comunità scientifica avrebbe scoperto e testato che
anche gli uomini possono beneficiare in parte dell’automatismo fisiologico del
blood shift, il richiamo di sangue che è proprio dei mammiferi marini come le
foche, le balene e i delfini, e di cui parleremo meglio nel Capitolo 2.
* * *
Tanti anni fa, ricevetti la garbatissima lettera di un ragazzo, «un apneista emergente», che mi
chiedeva consigli sui criteri di allenamento e altro che avrebbero potuto migliorare le sue
prestazioni. Dissi a me stesso: «Al diavolo! Ho faticato tanto per arrivare agli attuali risultati
(fatica, freddo, dolore ai timpani, paura, critiche, previsioni infauste), e questo, appena giunto,
vuole già sedersi al tavolo dei successi». Non risposi alla missiva, prescindendo dal tono.
Oggi, a distanza di tanti anni che pesano sul groppone come mai avrei creduto, quell’apneista
emergente è diventato capostipite di una scuola affermatissima, Apnea Academy, libero
docente nella scuola del mare: per meriti suoi e solamente suoi.
A Umberto Pelizzari, con l’ammirazione che meritano i grandi, da parte di Enzo Maiorca.
Con il disappunto di non avere distinto un «battito di mare» da «un’onda che fraia».
1
Cosa sono i limiti
Conoscerli, misurarli, affrontarli, superarli. E spostarli un po’ più in là
LA parola «limite» deriva dal latino limes, ovvero il segno che indicava che in
quel punto finiva un territorio e ne iniziava un altro. Il limite come linea
immaginaria, come margine che separa due parti distinte: la proprietà di un
podere da un altro confinante, la fine di un campo prima dell’inizio del bosco,
ma anche, in senso più esteso, la discontinuità di spazio geografico tra due
territori, tra due Stati. Un confine, insomma.
Nel linguaggio quotidiano la parola «limite» viene usata assai più
frequentemente con significato astratto e generico per stabilire un livello
raggiunto, oppure superato il quale accade qualcosa di diverso rispetto alla
situazione di partenza. Di solito riferirsi a un limite contiene in sé un’accezione
di avvertenza, di richiamo alla prudenza: un limite può essere di velocità per un
mezzo di locomozione, di carico per un mezzo di trasporto e via dicendo. Quel
segno viene posto per indicare che non si può andare oltre, o comunque per
avvisare che il suo superamento comporta rischi dei quali ci si deve assumere la
responsabilità.
In ambito sportivo un limite è più propriamente un traguardo da tagliare, un
obiettivo da oltrepassare. In certe discipline, in cui l’atleta deve confrontarsi con
lo spazio o con il tempo, il senso ultimo e specifico dell’attività agonistica è
proprio quello di raggiungere i limiti e di superarli. Possiamo migliorare un
limite incrementando una distanza, se si tratta di misure spaziali, come per
esempio il salto in alto o in lungo in atletica leggera, o il record dell’ora su pista,
nel ciclismo. Possiamo migliorare un limite abbassando un tempo, come nel
podismo o nelle gare di nuoto, sempre per fare esempi facili.
Il «fattore Ulisse»
Dietro l’istinto che porta a sfidare i limiti della «normale condizione umana» c’è
da qualche anno una spiegazione scientifica. Studi congiunti di ricercatori
israeliani prima e statunitensi poi hanno rilevato, attraverso indagini
psicoattitudinali e analisi di laboratorio, che esiste una relazione tra il rilascio di
dopamina, un neurotrasmettitore endogeno presente nel nostro cervello, e
l’impulso innato a confrontarsi e superare i limiti convenzionali e ad assecondare
attitudini che portano a vivere esperienze che provocano forti emozioni.
I ricercatori dell’Università Ben Gurion di Gerusalemme hanno esaminato un
campione di volontari per sondarne, attraverso un dettagliato questionario, le
attitudini ad affrontare situazioni non abitudinarie. Le domande poste
interrogavano i volontari su quali fossero le reazioni dei soggetti quando
venivano messi di fronte a compiti mai svolti prima di allora; oppure come si
comportavano in situazioni che per la maggior parte delle persone erano fonte di
preoccupazione o addirittura di ansia; o ancora quali fossero i loro
comportamenti nei momenti in cui la routine quotidiana prendeva il sopravvento
nelle loro vite.
Un’indagine condotta sul dna di quegli stessi volontari, tramite prelievo del
sangue, ha rilevato nel 15 per cento di loro la presenza di un gene in grado di
produrre la proteina che intercetta e si combina più facilmente con la dopamina.
Incrociando i dati del questionario con quelli delle analisi genetiche, si è visto
che i soggetti che rientravano in questo 15 per cento avevano ottenuto un
punteggio medio più alto nelle risposte che dovevano individuare le più spiccate
attitudini al cambiamento.
Come si sa, la vita di un essere umano è solo in parte scritta nei suoi geni,
mentre il resto viene determinato dalle condizioni ambientali in cui il soggetto si
trova a vivere: cultura, economia, alimentazione eccetera. Di sicuro ci sarà stato
un motivo, una causa scatenante che portò i lontani antenati del genere umano, i
primati, a scendere dalle piante, dove vivevano in una condizione di maggior
protezione e, affrontando l’ignoto e il pericolo, a mettere i piedi a terra per poi
scegliere gradualmente la posizione eretta.
Si può ben dire che fu il superamento di un limite da cui abbiamo tratto in
seguito enormi benefici rispetto alle altre specie animali.
Questa innata predisposizione all’avventura che, senza saperlo, possediamo
tutti, in proporzioni diverse, e che può essere innescata o meno da particolari
condizioni ambientali, non è nient’altro che l’ancestrale spinta a modificare una
condizione di comfort per andare alla ricerca di un limite e del suo superamento.
Insomma, ce lo insegna la storia evolutiva: se la nostra specie non avesse
sentito il bisogno di cambiare il proprio status quo, e quindi di esplorare nuovi
territori e assumersi rischi e pericoli per conoscere nuovi orizzonti, forse
saremmo ancora appesi ai rami. Fa parte della nostra natura e della nostra storia.
Gli scienziati hanno chiamato questo istinto umano «fattore Ulisse». Il
riferimento è all’eroe greco reso famoso dai poemi omerici, ma ancora di più dal
mito letterario che lo ha accompagnato nella cultura occidentale a partire dal
Medioevo.
Fuga all’Elba
Al mio ritorno a casa, come prima cosa, per terminare il restante periodo di leva
militare, decisi di chiedere il trasferimento al Comando dei Vigili del Fuoco di
Livorno, nella speranza di essere distaccato alla sede di Portoferraio. A dire il
vero non tutti erano d’accordo, soprattutto i miei genitori. Anche quello era un
limite da superare. Ma come, rinunciare alla comodità di fare quei pochi mesi di
militare vicino a casa, alla famiglia, agli amici? Quella scelta sembrava davvero
una follia. Speravano che la mia passione per l’apnea rimanesse al massimo un
hobby da coltivare nel tempo libero, non che andasse a interferire con la mia
strada professionale di informatico. Forse in quelle settimane mia mamma
cominciò davvero a maledire il lontano giorno in cui aveva deciso di portarmi
per la prima volta in piscina per farmi superare la paura della doccia.
La richiesta di trasferimento venne accettata di lì a poco e partii, ma all’inizio
di questa nuova avventura non andò tutto liscio. Dovetti fare i conti con le
apparenze che, come si sa, sono limiti ingannatori. Il giorno in cui arrivai il
capoturno della caserma pensò che, per essere stato trasferito dalla caserma sotto
casa a una a centinaia di chilometri di distanza, molto probabilmente l’avevo
combinata grossa. In altre parole, erano convinti che fossi stato trasferito per
punizione e non per espressa richiesta. Così, appena giunto in caserma fui
mandato con altri ragazzi nelle cucine a lavare montagne e montagne di piatti e
padelle. A poche ore dal mio arrivo a Livorno ero già disperato: avevo lasciato la
mia città alla ricerca del mare e mi vedevo annegare in un oceano di pentole
sporche.
L’equivoco durò poco. L’indomani chiesi un incontro al comandante, a cui
spiegai i motivi del mio trasferimento: volevo farmi destinare al distaccamento
dell’Elba per potermi allenare con il nucleo sommozzatori dei Vigili del Fuoco.
L’ufficiale fece un controllo al Comando di Varese, dove confermarono la mia
versione. Nel giro di poche ore mi imbarcai da Piombino sul traghetto in
direzione Portoferraio. Ma ero letteralmente stravolto: la mia personale battaglia
con piatti, pentole e padelle era durata tutta la notte, avevo dormito poco e male,
per cui appena mi sdraiai sulla panca del ponte di prua mi addormentai
profondamente. Mi risvegliai solo perché un mozzo addetto alle pulizie della
nave mi diede un colpetto sulla spalla: «Ancora un po’ che dormi e ti riportiamo
a Piombino!» mi disse. Non appena capii quello che stava per succedere,
trafelato presi il mio borsone, mi precipitai in tutta fretta giù per le scalette e
imboccai di corsa l’uscita del traghetto.
Al molo, ad aspettarmi, con qualche chiaro segno di impazienza per il ritardo,
c’era un istruttore del nucleo sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Portoferraio.
Mi squadrò con aria severa. A vederlo sembrava più un pugile che un subacqueo.
Balbettai qualcosa per scusarmi, e dovevo avere anche una faccia non poco
sconvolta. Lui non sorrise, non disse quasi nulla, solo poche parole. Il benvenuto
fu una vigorosissima stretta di mano. Così, in quel pomeriggio di fine agosto del
1990, incontrai per la prima volta Massimo Giudicelli, la persona che forse più
di chiunque altro mi avrebbe cambiato la vita.
La sfida a Pipín
Francisco Ferreras era sceso a –63 metri in assetto costante. Dopo gli anni del
lungo duello tra Maiorca e Mayol, da qualche tempo era ormai lui il dominatore
della scena mondiale. Oltre al record nella specialità dell’assetto costante, aveva
stabilito i record anche nelle altre due discipline dell’apnea profonda: l’assetto
variabile (discesa con zavorra e risalita a braccia) e il no limits (discesa con
zavorra e risalita con pallone), rispettivamente –92 e –112 metri.
Avevo conosciuto Pipín l’anno prima, nel 1989, quando ero stato a Cuba, a
Cayo Largo, e avevo avuto il privilegio di nuotare e fare pesca subacquea con
lui. Per me fu un’esperienza unica e un’emozione fortissima: non solo perché era
la prima volta che facevo immersioni in acque diverse dal Mediterraneo, ma
soprattutto perché avevo avuto la fortuna e l’onore di condividere dei tuffi con il
grande campione cubano. Grazie a quell’incontro, io e Pipín diventammo amici,
anche se lui rimaneva per me un mito, una leggenda irraggiungibile.
Ma torniamo ai miei giorni elbani. La preparazione di un record non prevede
solo allenamenti duri e sacrifici, ma anche un’enorme quantità di impegni e
incombenze burocratiche e organizzative. Si doveva mettere in piedi la squadra
di supporto, e nella caserma dei Vigili del Fuoco tutti quanti cominciarono a
darsi da fare, anche chi magari non aveva mai messo la faccia sott’acqua.
10 novembre 1990
Finalmente arriva il giorno della prova, il 10 novembre 1990. Mi confronto per
la prima volta con la pressione dell’evento. Già dalla vigilia, la caserma di
Portoferraio brulica di gente, e non sono solo gli amici e i parenti che sono
venuti per starmi vicino e incoraggiarmi. Ci sono giornalisti, fotografi, c’è la
televisione.
Roberto Sparnocchia, anche lui vigile del fuoco, tra i primi insieme a
Massimo ad avermi accolto mesi prima a Portoferraio, e poi assistito negli
allenamenti, mi suggerisce di sparire da tutta quella confusione. Mi allontano
dalla folla usando il palo da cui i pompieri si calano per salire sui mezzi di
soccorso, e me la svigno.
Roberto mi accompagna a casa di Massimo, dove trascorro la notte. Il giorno
dopo, quello del tentativo di record, arrivo con la mente più sgombra. Mi sento
rilassato. Passeggio sulla spiaggia di Porto Azzurro, mentre Roberto mi segue a
distanza; sarà un rito che da lì in avanti ripeteremo a ogni record.
Arriva la chiamata che segnala che tutto è pronto e che posso raggiungere il
punto di immersione. Salgo sul gommone dei sommozzatori dei Vigili del Fuoco
e il pilota, non esattamente un mental trainer o uno psicologo, mi urla,
guardandomi fisso negli occhi, che è presente la Rai e che quindi non posso
assolutamente sbagliare. Forse l’ha fatto con il sincero proposito di caricarmi,
ma quello che ha ottenuto è stato l’esatto contrario! Anche se non era in
programma la diretta televisiva, quel giorno una troupe della Rai avrebbe
realizzato e poi mandato in onda un servizio speciale su di me. Di questa notizia
rimasi sorpreso. Felice ma sorpreso: non ero nessuno, uno sconosciuto in uno
sport che non era assolutamente popolare, e alla mia prima uscita ufficiale avevo
la Rai?!
Con questi pensieri prendiamo il largo, fuori da Porto Azzurro. Giunti al
punto di immersione, il gommone si affianca alla barca del Corsaro. Salgo a
bordo e vedo ancora la coperta bianca, gialla e nera di Mayol, dove concluderò
la fase di rilassamento prima dell’immersione.
Ci siamo, finalmente. Fa molto freddo, il mare è spazzato da un maestrale
gelido, ma io mi sento perfettamente calato nella mia parte. Non ho esitazioni,
sono calmo e determinato. So che quei 65 metri di profondità li ho nelle gambe e
li ho nella testa. Ripeto mentalmente dentro di me i numerosi tuffi che si sono
susseguiti nelle settimane precedenti. Mi rivedo nell’effettuare la capovolta,
pinneggiare verso il fondo, compensare progressivamente i timpani, arrivare alla
massima quota dove trovo il cartellino-testimone attaccato al cavo che indica i
65 metri. È già tutto dentro di me. Sono pronto! Do l’ok alla partenza del conto
alla rovescia. Cinque minuti alla partenza. Da questo momento non posso più
cambiare nulla.
Quattro minuti.
Tre minuti.
Trenta secondi.
Cinque secondi.
Quattro.
Tre.
Due.
Uno.
Zero.
Mi immergo deciso.
Tutto va per il meglio, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Stacco il
cartellino e ritorno in superficie stringendolo nel pugno. All’uscita dall’acqua il
finimondo! Vedo dalla loro barca i miei compagni pompieri che urlano,
strepitano, si abbracciano fra di loro. Vedo i fotografi che scattano foto a
ripetizione. Vedo le telecamere della tv. Vedo i miei famigliari sorridenti e
commossi: li raggiungo per primi, esco dall’acqua e li abbraccio. È il mio primo
record. La misura, paragonata ai primati attuali, fa sorridere, ma è la prima volta
che provo queste emozioni e posso dire che rimarrà nella mia memoria, se non
come il più importante, di certo come il record più emozionante.
Cercavano una sincope e trovarono un record
Un paio d’anni dopo incontrai a Ustica il giornalista che aveva realizzato il
servizio televisivo il giorno del record al largo di Porto Azzurro. Tra una
chiacchiera e l’altra mi fece una confidenza: in quel periodo la Rai stava
producendo un documentario di medicina e salute sul tema delle sincopi e degli
svenimenti. Siccome non avevano immagini di repertorio, mandarono una troupe
all’Elba ad assistere al tentativo di record: se qualcosa fosse andato storto, le
immagini della mia uscita privo di conoscenza sarebbero tornate utili alle loro
esigenze di produzione.
Ci facemmo sopra una risata, ma quell’aneddoto mi fece capire quali fossero
le aspettative degli addetti ai lavori sul mio valore di apneista. Era la conferma
che fino a poco prima del record del 10 novembre 1990 ero davvero un totale
sconosciuto e nessuno sarebbe stato disposto a scommettere una lira su di me.
Nessuno però sapeva che avevo un sogno e che ero determinatissimo a
realizzarlo. Avevo uomini che mi aiutavano, straordinari professionisti, abili
sommozzatori e amici sinceri che sapevano come mettermi nelle migliori
condizioni fisiche e mentali per tentare qualcosa di grande che avrebbe potuto
cambiare – come in effetti è stato – la storia della mia vita. Se così non fosse
stato, probabilmente non sareste qui, in questo momento, a leggere questo mio
libro.
Ricordate? Lo aveva detto anche Maiorca al fisiologo francese che voleva
convincerlo a non scendere al di sotto dei 50 metri: «Impossible is an opinion».
L’impossibile è un’opinione, non esiste, come non esistono i limiti, che sono fatti
per essere superati. E come i limiti, anche i record sono transitori.
Del resto le colonne d’Ercole, fin da quando vennero «inventate dal mito»,
non sono mai rimaste sempre nello stesso posto. I limiti sono relativi, nel tempo,
nello spazio ma anche nella storia dell’essere umano. Quel giorno, andando
contro ogni previsione e aspettativa, ho dato una prima posizione alle mie
personali «colonne d’Ercole».
Da lì in poi sarebbe stata una continua ricerca per poterle spostare
ulteriormente.
Un respiro diverso
Tornando a quel 10 novembre 1990, nel momento in cui misi la testa fuori
dall’acqua e ricominciai a respirare, provai per la prima volta la sensazione che
Maiorca aveva descritto in uno dei suoi libri: «Il primo respiro che fai quando
riemergi dal fondo del mare è come il primo respiro che hai fatto quando sei
uscito dal ventre di tua madre».
Quel respiro rappresenta davvero il confine, la linea di demarcazione tra la
vita acquatica e quella per cui siamo stati fatti e creati. A quello ne seguiranno
milioni di altri, ma il primo ha un sapore e un significato davvero particolari. E
lo senti.
È così ogni volta che riemergi da tuffi importanti. Quando sei sul fondo sei
molto più acquatico che terrestre, e d’altronde se non fosse così non si
sopravvivrebbe alle condizioni che ci sono «là sotto». Poi, risalendo, ti
riappropri lentamente, progressivamente, della tua natura umana, e ritorni a
essere quello di sempre solo dopo questo primo respiro, quando con il viso
rompi la superficie del mare.
Anche per me quella boccata d’aria conquistata alla fine del mio primo record
è stata davvero un respiro diverso. Quella sensazione ha però continuato ad
accompagnarmi negli anni, tutte le volte che provavo sul mio corpo la
sensazione ancestrale di appartenere a una natura marina; una natura lontana
nell’archivio genetico delle nostre cellule di uomini e animali terrestri, eppure
incredibilmente sempre presente, se non altro come memoria dei nove mesi in
cui, nella nostra breve ma intensa esistenza prenatale, abbiamo vissuto protetti e
alimentati dal liquido amniotico nel grembo di nostra madre.
L’atto del non respirare, del trattenere il respiro, o perlomeno di respirare in
un modo diverso dalla consuetudine ormai paleontologica di bipedi terrestri, non
è poi così estraneo alla nostra natura.
Lo scopriremo meglio nelle prossime pagine.
2
«Fa’ un bel respiro e rilassati»
Respirazione, concentrazione, rilassamento
Respirare, meditare
Non avete certo bisogno di un apneista per capire quanto sia fondamentale
respirare. Sicuramente, però, chi pratica apnea può insegnarvi qualcosa di questo
gesto così apparentemente banale e scontato. A dire il vero non è solo una
prerogativa degli apneisti. Anni fa, in occasione del festival di divulgazione
scientifica Bergamo Scienza, assistetti a una conferenza di Simone Moro,
l’alpinista che ha conquistato otto dei quattordici ottomila al mondo. Simone
raccontava di come la conquista di una vetta lo avesse spesso portato a
confrontarsi in modo profondo, quasi meditativo, con la dimensione della
respirazione. Nel momento in cui descriveva le sensazioni e le emozioni che
provava ad alta quota, per esempio l’aria fredda che entra nei polmoni ma che
non porta ossigeno, mi ritrovai in sintonia con le sue parole. Erano le stesse
sensazioni e le stesse emozioni che avrei potuto restituire io nel descrivere le mie
esperienze di apneista.
Le due pratiche, l’alpinismo e l’immersione in apnea, stanno agli antipodi: ma
come spesso accade gli estremi si toccano, o perlomeno si somigliano. Quello
che lui trova nelle rarefatte altitudini degli ottomila io lo ritrovo nella profondità
del mare. Il rapporto che Simone ha con il suo respiro quando si trova sulle vette
delle montagne più alte al mondo è lo stesso che ho io con l’aria che mi riempie i
polmoni negli istanti immediatamente precedenti un’immersione: le particelle di
ossigeno che inali sono la vita, l’energia, le senti in tutto il corpo, ti pervadono e
ti permettono di sopravvivere a quelle situazioni al limite dell’impossibile. Tutto
forse si spiega così: entrambi, nelle nostre attività «estreme», sviluppiamo una
propensione a indagare nel profondo di noi stessi, del nostro corpo e della nostra
mente.
Respirare, come ho detto, è un’attività talmente spontanea che la sua
volontaria interruzione, anche soltanto per un periodo di tempo limitato, può
sembrare una forzatura, una violenza al nostro corpo. Chi non fa apnea mi
chiede spesso come si possa essere attratti da una cosa così innaturale per un
essere umano, per di più praticata nelle profondità del mare, in ambienti così
poco compatibili con la nostra natura di esseri terricoli.
Di solito a questi interrogativi si possono dare due risposte. La prima apre
scenari più ampi e complessi che rimandano indietro nella storia dell’essere
umano, alle sue origini e all’evoluzione della specie. La seconda è di tipo, per
così dire, tecnico e rende ragione del «come si fa».
Cominciamo dalla prima.
L’adattamento
La pratica apneistica può essere considerata una buona lezione in materia di
adattamento. La storia della vita sulla Terra, e dell’essere umano in particolare, è
stata segnata dalle capacità di adattamento degli esseri viventi all’ambiente in
trasformazione: trovare, volta per volta, attraverso processi di mutazione e
selezione, le soluzioni migliori per sopravvivere nelle condizioni più diverse.
L’apnea, anche al di fuori del suo ambito sportivo o agonistico, insegna anche
questo: sapersi adattare, procurarsi risorse proprie e utilizzarle, attivare le proprie
capacità di difesa o sopportazione in condizioni difficili.
Se prima ci si è preparati in maniera adeguata, quando si va sott’acqua il
corpo si adatta e si predispone al nuovo contesto. C’è una spiegazione fisiologica
a tutto questo. Vi ricordate quello che sosteneva il professor Gabarrou, il medico
dell’équipe di Cousteau, a proposito del tentativo di Maiorca di scendere oltre i –
50 metri? Quando Enzo superò quella soglia, si pensò che sì, forse le previsioni
mediche erano state troppo pessimistiche e quel limite era troppo cautelativo,
quindi doveva essere rivisto di qualche decina di metri più in basso; ma
fondamentalmente si volle dare una spiegazione al nuovo record di Maiorca
ricorrendo all’eccezionalità del caso e a non meglio specificati determinanti
«fattori ereditari», oltre che agli effetti di uno straordinario allenamento
progressivo.
Come stavano davvero le cose lo si capì soltanto qualche anno dopo. Anche
in questo caso, le precedenti frontiere delle conoscenze biomediche vennero
superate grazie al coraggio e allo spirito d’avventura di un altro grande pioniere
dell’apnea. Nel 1974 Jacques Mayol accettò di sottoporsi a un esperimento nei
fondali marini a lui ben noti dell’isola d’Elba. Nel corso di un’immersione, dal
gomito gli venne infilato un catetere fino a raggiungere la vena cava superiore
che convoglia al cuore il sangue proveniente dalle braccia e dalla testa. In questo
modo i medici poterono misurare la pressione venosa intratoracica a due diverse
profondità, –40 e –60 metri, e notarono che in quell’intervallo la quantità di
sangue nel torace aumentava progressivamente, passando da 1 a 2,2 litri. Era la
dimostrazione sperimentale di una teoria ipotizzata per la prima volta alcuni anni
addietro: il fenomeno del blood shift, o emocompensazione toracica.
Sott’acqua la pressione, che al livello del mare è di 1 atmosfera, aumenta di
un’unità ogni 10 metri: a –20 metri sarà di 3 atmosfere, a –50 di 6, a –100 di 11.
L’effetto pressorio tende a comprimere tutti i volumi aerei presenti nel nostro
corpo, e gli effetti si fanno sentire soprattutto su quelli più importanti, i polmoni.
La legge di Boyle, già incontrata nel capitolo precedente, dice che, a parità di
temperatura, la pressione e il volume di un gas sono inversamente proporzionali:
più aumenta la pressione più diminuisce il volume del corpo gassoso. I nostri
polmoni a 50 metri di profondità, dove c’è una pressione di 6 atmosfere,
diventano dunque sei volte più piccoli del normale. Ma cosa ne è dello spazio
rimasto libero nella gabbia toracica?
Secondo il professor Gabarrou, questa riduzione di volume avrebbe
comportato un’implosione, un violento cedimento delle pareti di un corpo cavo
sottoposto a una forte pressione esterna. In realtà questo non succede per effetto
del blood shift, che letteralmente significa «spostamento di sangue». Si tratta di
un automatismo fisiologico: il nostro corpo, in maniera del tutto involontaria,
richiama il sangue dalle zone periferiche dove non risiedono organi vitali,
soprattutto braccia e gambe, e lo spinge nella cavità toracica a occupare lo spazio
lasciato vuoto dalla riduzione del volume dei polmoni. A differenza del gas il
sangue, in quanto liquido, è incomprimibile, quindi la gabbia toracica non
implode con l’aumentare della pressione esterna.
Questa è la ragione per cui Maiorca non è morto a 50 metri di profondità, ed è
lo stesso motivo per cui io non sono imploso a –150. Il blood shift è una forma di
adattamento spontaneo del nostro corpo alle mutate condizioni di pressione.
Certo, non sappiamo ancora bene quali siano i limiti entro cui il flusso sanguigno
può sopperire all’aumento di pressione. Si presume che a determinate quote di
profondità un’elevata quantità di sangue possa non essere gestita in modo
efficiente dal muscolo cardiaco che, come la pompa di un motore, potrebbe
«ingolfarsi».
Il pescatore di spugne
La cosa eccezionale è che trattenere il fiato fuori dall’acqua è per il nostro
organismo molto più difficile che farlo in acqua. Questo aspetto non è ancora
stato del tutto spiegato dalla scienza. Nella storia dell’apnea è divenuto
leggendario il nome di un pescatore di spugne greco, Stathis Haggi. Nel 1913, a
causa di un incidente che provocò la morte del comandante in seconda e il
ferimento di alcuni marinai, una corazzata della Regia Marina Italiana, la Regina
Margherita, perse l’àncora e la catena sul fondale della baia di Pigadia, nell’isola
di Karpathos, tra Rodi e Creta. All’epoca si trattava di un problema serio, perché
una nave senza àncora era assolutamente ingovernabile.
Alcuni giorni dopo, mentre la nave aveva trovato riparo nel porto, un curioso
personaggio che di mestiere faceva il pescatore aveva saputo del problema e si
era offerto di recuperare il materiale disperso in fondo al mare. Inizialmente gli
ufficiali della Regina Margherita non presero seriamente in considerazione
questa possibilità, in quanto si trattava di scendere in apnea per le ricerche a oltre
80 metri di profondità. Quest’uomo però sosteneva di essere in grado di arrivare
anche a –110 metri e di poter resistere fino a sette minuti senza respirare. Le
operazioni di recupero durarono alcuni giorni e furono assai laboriose. Il curioso
pescatore di spugne, tra immersioni progressive di allenamento e successivi
tentativi di localizzazione e di aggancio della catena dell’àncora, fu impegnato in
21 immersioni tra i –45 e i –84 metri, ma alla fine la sua impresa ebbe successo.
Stathis Haggi disponeva di strumenti a dir poco rudimentali: all’epoca non
esistevano né pinne né maschera. Per poter vedere sott’acqua, metteva delle
gocce d’olio negli occhi. Per poter scendere usava come zavorra una pietra piatta
di ardesia, di 14 chili e mezzo, legata a una sagola; il suo polso sinistro era
collegato alla sagola per mezzo di un capocorda all’interno del quale la cima
scorreva liberamente. Prima dell’immersione il pescatore greco faceva una sorta
di respirazione forzata – oggi la chiameremmo iperventilazione – e introduceva
acqua marina in bocca e nel naso.
Il medico della Regia Marina scrisse una relazione in cui riferiva, con grande
meraviglia, come alla fine di ogni immersione il pescatore greco dimostrasse di
essere nel pieno del vigore delle forze: dopo essere salito senza alcun aiuto sulla
barca di appoggio, si liberava energicamente dell’acqua entrata nel naso e nelle
orecchie. Al termine dell’impresa, Stathis venne sottoposto a una visita medica: i
suoi parametri fisiologici non indicavano nulla di eccezionale – battito nella
norma, tutt’altro che bradicardico, e frequenza respiratoria regolare –, ma
dall’auscultazione polmonare si constatava una notevole forma di enfisema
polmonare.
Oltre a questo era praticamente sordo: in un orecchio aveva perduto del tutto
la membrana del timpano, e nell’altro era quasi completamente lacerata. Questo
spiegava il fatto che nel corso delle immersioni Stathis non aveva alcuna
necessità di compensare la pressione sui timpani. (Vedremo in seguito che la
compensazione dei timpani è l’ostacolo principale per poter raggiungere grandi
profondità.) Ma quello che strabiliò gli ufficiali medici fu che, invitato a
trattenere il respiro, dimostrò di non saper resistere in apnea «a secco» per più di
40 secondi. Durante le operazioni di immersione si era invece trattenuto
sott’acqua per tempi variabili tra il minuto e mezzo e i 3 minuti e 35 secondi.
Sono molti gli apneisti, me compreso, che possono confermare questa
apparente stranezza. Durante i test medici di laboratorio, per esempio, riesco a
trattenere il respiro con molta fatica per cinque minuti. Quando mi alleno in
acqua, nei periodi di forma migliore, arrivo a seguire tabelle che prevedono dieci
apnee di sei minuti, con un recupero tra una e l’altra di un solo minuto. Oppure
quindici apnee di cinque minuti con un recupero, tra l’una e l’altra, di 40
secondi. E via così, aumentando la sequenza delle apnee, di minore durata, e
accorciando i recuperi.
Non credo, come affermano i medici, che questa differenza di prestazione si
possa spiegare solo con il fatto che durante l’immersione l’assenza di forza
gravitazionale facilita una condizione di massimo rilassamento muscolare
rispetto all’ambiente «asciutto». Non può essere solo questo. Ritengo piuttosto
che, come ho scritto prima, ci sia qualcosa di non ancora chiaro a livello
scientifico che ci restituisce, anche se solo per un breve lasso di tempo,
un’ancestrale condizione di benessere, come se vivessimo nell’ambiente
acquatico una sorta di «profonda regressione» che ci riporta alla condizione di
pace e quiete vissuta nello stato prenatale.
Predisporsi al rispetto
Un proverbio eschimese dice: «Quando decidi di trasferirti in un altro Paese
porta con te le tue armi e tua moglie. Lascia dietro di te le leggi del posto da cui
provieni e accetta le leggi del popolo che ti accoglie». Lo ricordava spesso
Jacques Mayol, in quel suo modo sapienziale, da guru, che aveva di trasmetterti
la sua conoscenza del mondo.
Quando ci si avvicina al mare è sempre una buona regola ricordarsi di questo
proverbio. Lo stesso vale per la montagna, ovviamente, e per ogni altra
circostanza che ci porta a venire a contatto con la natura. Apparentemente
impassibile e indifferente alle vicende umane, la natura – sia essa un oceano
profondo o una vetta innevata, un deserto o una foresta – ha una forza superiore
che si deve rispettare. Così dev’essere il nostro rapporto con l’acqua, con il
mare: bisogna mettere da parte le leggi che vigono nel mondo terrestre e
predisporsi al mondo subacqueo.
Come abbiamo visto con il fenomeno del blood shift, la natura ci viene
incontro, se ci prepariamo in modo corretto a questa esperienza. Si innescano
automatismi fisiologici, il corpo si adatta e reagisce fisicamente e chimicamente
in modo sorprendente. Ma bisogna assecondarlo.
La compensazione
Di solito si pensa che ciò che più ci limita nella pratica di immersione in
profondità sia il tempo di permanenza sott’acqua senza respirare. Non è
assolutamente così. Nel mio record più profondo, quello a 150 metri nella
specialità dell’assetto variabile no limits, sono sceso e risalito in meno di tre
minuti. Sapevo che sarebbe stato l’ultimo mio tentativo in quella specialità,
quindi come si suol dire «me la sono presa con calma».
Sul fondo ho salutato e ringraziato i due sommozzatori in assistenza; poi, a 60
metri, ho lasciato il pallone che mi portava verso la superficie e ho continuato la
mia risalita a braccia, lentamente, per avere il tempo di guardare negli occhi i
miei angeli custodi e ringraziarli con uno sguardo o un gesto per tutto quello che
avevano fatto per me. Questo è possibile perché nelle prove no limits, in cui si
scende trascinati da una zavorra e si risale appesi a un pallone, non si fa quasi
alcuno sforzo fisico. Il mio miglior tempo in apnea statica è di 7’58”: in otto
minuti potrei teoricamente raggiungere i 400 metri di profondità.
Il vero limite da superare è quello della resistenza alla pressione idrostatica,
che si sente soprattutto sui timpani. Infatti, oltre alla cavità della gabbia toracica
(che come abbiamo visto, a profondità elevate resiste alla forte pressione esterna
grazie al sangue che viene richiamato dalla circolazione periferica per colmare il
vuoto lasciato dalla riduzione del volume polmonare), tutte le altre zone aeree
nel nostro corpo sono sottoposte all’effetto pressorio: l’orecchio è una di queste
e scendendo in profondità dovrà essere oggetto di particolari attenzioni.
Come abbiamo visto, più si scende in profondità più l’acqua esercita una
pressione maggiore sul nostro corpo: la membrana timpanica, che ha uno
spessore di 0,1 millimetri e una superficie di circa 85 millimetri quadrati, si
introflette progressivamente. A 150 metri di profondità ogni centimetro quadrato
di superficie del nostro corpo deve sopportare un peso di 16 chilogrammi e il
timpano, schiacciato verso l’interno, rischia di spaccarsi.
Per ristabilire la sua posizione normale bisogna eseguire una manovra di
compensazione. In questo caso non si attiva un fenomeno fisiologico di
protezione, come avviene con il blood shift per i nostri polmoni; siamo noi a
dover ripristinare volontariamente la posizione di equilibrio dei nostri timpani
attraverso una manovra specifica. La compensazione prevede lo spostamento di
aria dai polmoni alla tromba di Eustachio, quindi il riposizionamento del
timpano dalla posizione introflessa a quella naturale. Durante tutta la discesa,
dalla superficie alla massima profondità, si deve compensare ininterrottamente.
Tuttavia, come abbiamo visto, l’aria all’interno dei nostri polmoni si riduce
proporzionalmente all’aumentare della profondità e quindi della pressione. A
150 metri, per esempio, dove abbiamo 16 atmosfere di pressione, il volume
polmonare è pari a un sedicesimo di quello normale in superficie. Con i polmoni
in queste condizioni, grandi quanto una mela, è sempre più complicato
recuperare altra aria da mandare verso i timpani per effettuare la manovra di
compensazione.
La ricerca dell’equilibrio
A livello fisico la compensazione è dunque determinante nell’apnea. Ma in senso
più lato, da un punto di vista semantico e concettuale, tale tecnica non è altro che
una relazione di scambio tra un più e un meno, la ricerca di un equilibrio tra le
parti. Questa tendenza all’equilibrio totale, all’adattamento per eliminare
progressivamente le situazioni che sono in contrasto tra loro, fino
all’annullamento delle forze opposte, è l’essenza dell’apnea.
Nel mare, in profondità, senza respirare, ci si cala in una dimensione
particolare: viene a mancare la luce, si azzerano i rumori e la forza
gravitazionale agisce in modo completamente diverso. Si sente forte la pressione
sul corpo, i polmoni si ridimensionano, la circolazione sanguigna si riduce, il
cuore batte più lentamente. Le sensazioni di fatica, paura e schiacciamento
devono essere compensate a livello emotivo e mentale dal desiderio di
abbandonarsi, di lasciarsi andare in uno stato di quiete e rilassamento.
È questo il segreto dell’apnea, un segreto che si conquista, che fa scoprire un
mondo completamente diverso che non si vorrebbe mai più abbandonare; come
Elliot, il bambino protagonista del film E.T., che scopre il piccolo essere
extraterrestre e lo nasconde nella sua cameretta per viverne in modo esclusivo la
sua compagnia, per prendersene cura ogni giorno, con pazienza, attenzione e
dedizione.
L’apnea, vissuta in questo modo, diventa una pratica a cui tieni
profondamente, e che vorresti continuare a vivere. La spinta ad andare oltre il
limite, a stabilire il record, diventa secondaria. Ho smesso da quasi vent’anni di
gareggiare, eppure non riesco a immaginare una vita senza apnea. Pratico da
sempre la pesca subacquea, che mi regala molte emozioni: mi piace la sfida che
mi pone di fronte e mi piace cucinare il pesce che catturo. Ma anche qui ciò che
mi dà la più piena sensazione di benessere è sentire la colonna d’acqua sopra di
me, che mi sovrasta, il senso progressivo di profondità, la percezione del mutare
e dell’adattarsi del mio corpo.
Quando si usa la zavorra per scendere ci si lascia andare, non si fa alcuno
sforzo. Si sente il corpo svanire: gambe, braccia, tutto. Alla fine resta solo la
testa. Tutto si riduce alla testa. Il battito cardiaco è ridotto al minimo, lento, un
battito ogni quattro, cinque, sei secondi. Lo senti dentro la testa, fortissimo.
Un’esplosione: boom!
NEL capitolo precedente abbiamo parlato della pressione, di quanto sia un fattore
fondamentale nell’immersione in apnea e di come il nostro corpo, in modo
automatico o indotto, attraverso il blood shift e la compensazione provveda ad
affrontarla, modificandosi e adattandosi.
Esistono tuttavia ben altri tipi di pressione alle quali, nella mia storia di atleta
e di recordman, ho dovuto far fronte. Non c’entrano con il variare della
pressione idrostatica legata all’incremento della profondità: sono di natura
diversa e riguardano in particolare la gestione delle emozioni. Anche in questo
l’esperienza sportiva può essere un buon modello di riferimento per altri campi
di azione e interesse.
L’avvicinamento al record
La preparazione di un record richiede un lungo e accurato percorso di
avvicinamento. Non si tratta semplicemente di arrivarci nelle migliori condizioni
fisiche e mentali, ma di saper trovare giorno per giorno le motivazioni giuste per
fare sempre un passo avanti. Il che, badate bene, non è esclusivamente un
miglioramento quantitativo, un incremento di quota di profondità o di resistenza
in apnea. Paradossalmente, per trovare l’equilibrio necessario a tenere alta la
concentrazione e la determinazione verso il raggiungimento dell’obiettivo finale,
a volte è utile dimenticarsi l’obiettivo. Il rischio infatti è quello di trasformarlo in
un’ossessione, oppure nella meccanica ripetitività delle tabelle di allenamento, di
inaridire la motivazione, la spinta ideale verso il traguardo.
Più la data del giorno stabilito è lontana, più nel percorso degli allenamenti
esiste il pericolo di andare a logorare l’aspetto psicofisico, a causa della noia e
della ripetitività, e di allentare l’intensità dell’allenamento stesso.
Il mio allenatore, Massimo Giudicelli, nella sua meticolosa pianificazione,
cercava di evitare la routine. Gli allenamenti erano massacranti: nelle fasi di
massimo carico duravano anche sei ore al giorno. Massimo mi invitava ad
andare alla ricerca di obiettivi intermedi e, soprattutto, a provare a ogni
immersione lo stimolo della scoperta di qualcosa di nuovo. Mi incoraggiava a
sperimentare nuove tecniche e ad analizzare gli effetti su di me: per esempio,
testare diversi modi di compensazione per capire quale potesse essere quello a
me più congeniale, anche per poter avere a disposizione, in caso di necessità,
soluzioni alternative a cui ricorrere nelle più varie circostanze.
Nel 1991 un’équipe medica seguiva i miei allenamenti e mi sottoponeva a test
per due o tre ore al giorno. Un giorno programmarono dieci immersioni ripetute
a 50 metri. Avrebbero monitorato le mie prestazioni con un holter, effettuando
elettrocardiogrammi in profondità. Inoltre, a ogni uscita dai miei tuffi mi
avrebbero fatto un prelievo dei gas espirati. Massimo mi disse che quelle due ore
«dedicate alla scienza» non dovevano rappresentare una perdita di tempo: voleva
trasformare quell’esigenza in un’opportunità e mi chiese, per ognuno di quei
tuffi, di compensare con una tecnica diversa.
Voleva sempre che scoprissi, che esplorassi mondi sconosciuti. Era il suo
mantra: allenati per migliorare la tua prestazione ma anche la tua conoscenza.
Solo così sfuggirai alla routine. A volte non capivo cosa intendesse, quindi mi
portava degli esempi. Sosteneva che se da sempre si compensa in un certo modo,
non significa che quello sia l’unico, o il migliore, per compensare, e finché non
ci porremo come obiettivo quello di inventare o scoprire nuove tecniche, forse a
queste novità ed evoluzioni non ci si arriverà mai; nella compensazione come in
qualsiasi altro ambito. Questo approccio non aveva solo l’obiettivo di migliorare
la performance. Secondo lui, introducendo nuove tecniche avrei lasciato un
segno indelebile nel mio mondo, sarei rimasto un punto di riferimento in questa
disciplina anche dopo il mio ritiro, quando altri avrebbero superato le mie misure
e i miei record.
«Arriveranno sicuramente quelli che faranno meglio di te, e allora la più
grande soddisfazione sarà proprio quella che chi ti avrà battuto sarà partito dal
segno che tu hai lasciato, da quello che in questo sport hai insegnato. E se sarà
così non sarai mai dimenticato», mi diceva.
I record passano, il modo in cui si arriva a batterli resta: «Quando si supera un
limite, quando si vince una gara, si mette sempre in gioco il proprio talento. Ma
può non bastare per lasciare un segno nella storia. Non basta centrare il bersaglio
per dire di essere i migliori. I veri campioni, quelli che al talento uniscono la
genialità, puntano a bersagli che gli altri neppure riescono a immaginare».
Massimo mi stava insegnando la mentalità vincente, che credo sia qualcosa di
più di uno strumento per arrivare al successo, al risultato. È una pratica che ha a
che vedere con l’etica personale e con quello che uno può, o deve, aspettarsi da
se stesso e dagli altri.
Emoglobina e bistecche
Si dice sempre che la cosa più difficile per un atleta non sia raggiungere il
grande risultato per cui ci si è impegnati a lungo, bensì la capacità di mantenere
quello standard di eccellenza nel tempo, che è la vera dimensione che
contraddistingue un campione.
L’anno più importante nel mio percorso sportivo è stato il 1991, quando, dopo
essermi rivelato l’anno prima con il record in assetto costante, ho dovuto
dimostrare a tutti che non ero una meteora, un fenomeno di passaggio. Per
sancire il mio potenziale e il mio talento, quell’anno ci ponemmo un obiettivo
molto ambizioso, anzi tre! Ci saremmo allenati per conquistare tutti e tre i record
mondiali nelle diverse specialità dell’apnea profonda. All’inizio di quel fatidico
1991, infatti, Pipín aveva fallito il tentativo di superare il mio primato in assetto
costante (–65 metri), ma aveva portato il record dell’assetto variabile da –87 a –
92 metri.
Normalmente la preparazione parte a fine novembre dell’anno precedente,
circa dieci mesi prima dei tentativi di record. È un periodo lungo e complesso, in
cui agli allenamenti di preparazione atletica e condizionamento fisico si
sommano quelli in piscina, in profondità, di respirazione e yoga. Dopo l’estate
però ero pronto, e in ottobre vennero stabilite le date dei tre tentativi di record
mondiali.
Come spesso capita, il percorso nasconde insidie e difficoltà impreviste. Dopo
aver battuto il record a –67 in assetto costante, una troupe medica mi raggiunse
per sviluppare un programma di ricerca sugli adattamenti umani in profondità e
monitorare dal punto di vista scientifico le mie prestazioni. Infatti stavo
continuando i miei allenamenti in profondità per i record in assetto variabile e no
limits. La sorpresa fu che dopo alcune analisi del sangue scoprirono un
preoccupante calo dei valori dell’emoglobina: rispetto ai normali 15-16, avevo
circa 9 grammi per decilitro, un numero molto basso che può causare un forte
senso di spossatezza e fatica.
Io, tuttavia, continuavo ad allenarmi senza alcun sintomo di malessere; anzi, i
miei allenamenti andavano a gonfie vele, gli incrementi di quota erano migliori
del previsto e io, all’uscita da ogni tuffo, stavo benissimo.
I medici non si capacitavano: con quell’emoglobina così bassa, secondo loro,
avrei potuto a malapena scendere dal letto. In attesa di capirci qualcosa di più dal
punto di vista fisiologico, per compensare quella strana carenza il mio staff mi
obbligava a mangiare ogni giorno enormi bistecche; con mio dispetto, peraltro,
dal momento che da sempre non sono un grande appassionato di carne. Un
giorno io e il Corsaro eravamo in macchina sulla strada da Capoliveri a
Portoferraio. Davanti a noi viaggiava un furgone con cella frigo per trasporti
alimentari. All’uscita da una curva imboccata con un po’ troppa foga, si spalancò
il portellone che, evidentemente, l’autista non aveva chiuso bene: dalla guidovia
della cella frigorifera si sganciò un quarto di manzo che finì sull’asfalto. Il
Corsaro con una sterzata fece appena in tempo a evitarlo, ma subito dopo
inchiodò l’auto a bordo strada.
«Corsaro, cosa fai? Guarda che dobbiamo avvertire il macellaio che ha perso
un pezzo!» gli dissi io.
Il Corsaro mi guardò e poi mi rispose: «Te se’ matto! Codesto l’è il Signore
che ce l’ha mandato, con tutte le bistecche che ci costi! Da’ retta a me: scendi e
caricalo in macchina. Questo ce lo portiamo a casa noi!»
La gestione dell’imprevisto
Tra i fattori di stress cui ho dovuto spesso far fronte nella preparazione e nella
realizzazione dei record, c’è stata la gestione dell’imprevedibilità meteorologica,
un’incognita che può giocare brutti scherzi. E io – saranno state le probabili
macumbe che mi indirizzava Pipín! – dal 1993 in poi non ho mai realizzato un
record in cui ci fossero condizioni meteo favorevoli. Voglio raccontare solo due
di queste esperienze e di come ho dovuto fare i conti con continui e snervanti
cambiamenti di programma.
Nel 1993 decido di andare all’attacco del record no limits che nel frattempo,
dopo il 1991, è tornato nelle mani di Pipín. L’obiettivo è scendere a –123 metri.
Il campo gara è sempre il mare dell’Elba, con la mia squadra ormai collaudata da
tre anni. Sperimentiamo però alcune novità tecniche. Per esempio, questa volta
ricorrerò a una slitta-zavorra che mi consentirà di immergermi in piedi, con la
testa in alto e faciliterà la manovra di compensazione, dal momento che l’aria
immagazzinata nei polmoni tende naturalmente a salire verso l’alto.
Tuttavia, questa nuova zavorra nelle prime settimane di allenamento crea non
pochi problemi: una volta non funziona il dispositivo per il gonfiaggio del
pallone per la risalita; un’altra è il pallone a sganciarsi in modo anomalo; le
correnti poi rendono instabile l’assetto della zavorra, il che provoca sgradevoli
effetti di sbilanciamento; un curioso effetto di aquaplaning tra il cavo e il
sistema frenante rende difficoltose le operazioni di frenata, situazione da
prevedere in caso di eventuali problemi di compensazione o altro. Insomma, la
messa a punto della nuova slitta-zavorra ci fa perdere il passo sulla tabella di
marcia. Massimo allora cambia programma: mentre si approntano le modifiche
necessarie allo strumento, mi chiede di impegnarmi in una lunga serie di
allenamenti in assetto costante. Ritiene infatti, e con ragione, che la preparazione
in questa specialità, in cui l’apneista scende e risale spinto solo dalle sue gambe,
senza l’aiuto di braccia, palloni, zavorre e via dicendo sia la migliore per
garantire all’atleta di acquisire tranquillità e sicurezza fisica e mentale anche in
tutte le altre specialità.
Finalmente i problemi tecnici sembrano risolti, ma nel frattempo a cambiare
sono le condizioni meteorologiche. Il 1° ottobre, in conferenza stampa, subito
dopo il cerimoniale della misurazione del cavo con i giudici e i commissari
internazionali, viene annunciato ufficialmente il limite da raggiungere: –123
metri.
Ed ecco l’imprevisto. L’indomani il mare è in tempesta: forza 8 di libeccio, e
le condizioni non migliorano neppure nelle giornate successive, al punto da
permettermi di fare solo qualche sessione di allenamento. Fortunatamente il no
limits richiede molta meno condizione fisica, poiché non prevede quasi alcuno
sforzo muscolare. Passo però quattro giorni di completa inattività, e l’energia che
viene meno è inversamente proporzionale allo stato di nervosismo che mi assale
a ogni rinvio. Nonostante tutto mi devo tenere pronto, come se il giorno dopo
potesse essere quello buono. Mangio pochissimo e dormo ancora meno. In
questo caso la vicinanza di Mayol, con il suo atteggiamento da filosofo fatalista
– «Se a un problema c’è rimedio, non ti arrabbiare. Se non c’è rimedio, non ti
arrabbiare» – non mi è di molto aiuto.
Finalmente c’è una schiarita, così, dopo tutti quei giorni senza entrare in
acqua, torno in mare per un allenamento intorno ai 100 metri. Ma niente da fare,
nel pomeriggio il tempo si rimette al brutto. A questo punto non posso rimandare
a un’ulteriore uscita il mio allenamento per puntare ai –115 metri: decidiamo
quindi di provare al calar del sole, quando il moto ondoso si sarà un po’ calmato.
Fa freddo ed è buio. Vengono applicati dei fari alla zavorra per illuminare il
mio passaggio. I profondisti in assistenza sanno che in quelle condizioni
dovranno poi affrontare una decompressione al buio completo per circa tre ore.
C’è molta tensione, ma io mi sento pronto e do il via al conto alla rovescia.
Scendo come una torcia che illumina l’abisso più nero, e chi mi sta a guardare,
facendo attenzione che vada tutto bene, mi dirà che è stata un’immersione
perfetta.
L’allenamento è andato bene; non resta che sperare che domani, domenica 10
ottobre, il tempo regga. E invece, ancora una volta, il meteo sembra averci preso
di mira: tira uno scirocco infernale e il mare è tutto una schiuma. La squadra
aspetta a bordo dello Squalo, l’imbarcazione più grande che, preso il posto del
Corsaro, consente di rimanere al largo di Punta Calamita anche quando c’è mare
grosso. Il vento non si placa, e sono allo stremo delle forze e nervosissimo.
Nel pomeriggio annuncio a tutti – la squadra, i giudici, i giornalisti e l’équipe
medica – che se l’indomani le condizioni non cambieranno rinuncerò al
tentativo. So che significa mandare all’aria dieci mesi di preparazione e un’intera
stagione agonistica, ma da un punto di vista mentale sono al limite e non potrei
resistere oltre. Però proprio in quelle ore ci viene in mente la soluzione. Dallo
Squalo si vede in lontananza, a sud, in mezzo alle onde alte, la sagoma scura e
alta dell’isola di Montecristo, resa celebre dal romanzo di Dumas, i cui fondali
profondi e le pareti strapiombanti potrebbero fare al caso nostro. A differenza
dell’Elba, infatti, si può trovare sufficiente profondità molto vicini alla costa,
quindi protetti dal vento.
All’alba della mattina seguente salpiamo verso Montecristo e dopo quattro
ore di burrascosa navigazione gettiamo l’ancora a Cala Maestra, protetta dal
moto ondoso e con un fondale sufficientemente profondo per farne l’ideale
campo di gara di quella giornata. Scortati dalla motovedetta della Guardia
Costiera – i fondali di Montecristo fanno parte di una riserva naturale integrale –
nel pomeriggio siamo pronti per il tentativo di record. Siamo stati a un passo
dall’annullarlo ma finalmente il momento è arrivato.
Tecniche di visualizzazione
Era l’atto finale di una lunghissima preparazione psicofisica, un lavoro di
squadra articolato e complesso, reso ancora più difficoltoso dalle situazioni
meteorologiche degli ultimi giorni. Non potevo certo dire che fossi arrivato nelle
condizioni migliori: non avevo in me quella sorta di nirvana, di tranquillità
interiore e senso di sicurezza assoluti di cui sarebbe auspicabile godere prima di
un passo così impegnativo. Ma sapevo quello che dovevo fare, cioè isolarmi,
rilassarmi e concentrarmi sull’obiettivo. Da un lato andare alla ricerca della mia
storia personale, delle motivazioni più profonde, quelle che mi avevano portato
fino a lì; dall’altro ripercorrere quello che mi aspettava: si chiama «tecnica di
visualizzazione», ed è un potentissimo strumento immaginativo per trovare la
migliore concentrazione poco prima di entrare in azione.
Si tratta di un esercizio di creatività mentale che proietta virtualmente dentro
di noi ogni dettaglio dei gesti che stiamo per fare. Lo si pratica a integrazione e
affiancamento del costante allenamento fisico, ma serve anche a favorire il
processo di apprendimento di determinate tecniche e, ripercorrendole
mentalmente, a correggere i propri gesti motori. Soprattutto, nell’imminenza di
un impegno agonistico, visualizzare la sequenza di azioni che ci si accinge a
compiere serve ad aumentare la concentrazione, eliminando i fattori di
distrazione, a potenziare l’autostima, ripercorrendo esperienze che la nostra
storia personale conferma che siamo in grado di affrontare con successo, e a
mettere un argine all’ansia da prestazione, ricreando un senso generale di
benessere fisico.
Quel pomeriggio dell’11 ottobre 1993, in vista delle pareti scoscese di Cala
Maestra, al riparo dalla burrasca che sferzava il Tirreno, afferrai la zavorra e mi
lasciai trascinare sul fondo. E sentii la certezza che avrei «timbrato il cartellino»
alla profondità prevista. In effetti andò così, e il giorno dopo mi meritai un titolo
di due colonne di spalla sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport.
Il valore dell’errore
Ancora adesso, ventun anni dopo, quello che più mi dà soddisfazione ripensando
a quell’impresa è il fatto che sono riuscito a trasformare una condizione negativa
di partenza in una positiva. Da un mio errore, potenzialmente molto grave, ho
saputo trarre una motivazione in più. Sì, era un errore, ed è fondamentale
ammetterlo. Gli errori si possono commettere, sono inevitabili in ogni ambito
della vita. Come dice il proverbio: «Chi non fa non sbaglia». L’importante è
riconoscere l’errore, analizzarlo per capire se e come si può rimediare.
Soprattutto, se da quella condizione di difficoltà non prevista si riesce a venirne
fuori nel migliore dei modi, il risultato è enorme: per noi stessi e per chi ci sta
intorno.
Una sera, a cena da amici, ho avuto il piacere di conoscere Riccardo Pittis,
dalla metà degli anni Ottanta e per i vent’anni successivi uno dei più forti
giocatori italiani di basket. Mi raccontava che, a un certo punto della sua
brillante carriera, ebbe un grave problema: per una patologia sconosciuta di tipo
tendineo-cerebrale, nel momento in cui stava per effettuare il tiro a canestro la
mano destra restava bloccata, quasi paralizzata. Nonostante decine di visite dai
migliori ortopedici e neurologi, l’origine del problema non venne trovata.
L’unica cosa certa era che Pittis non avrebbe potuto continuare a giocare a
basket. Riccardo mi raccontò che non riusciva proprio a immaginare la sua vita
lontano dai campi di pallacanestro.
Un giorno, quando la sua carriera da giocatore sembrava essere arrivata al
capolinea, si disse: «Se con la destra non posso più tirare, imparerò a farlo con la
sinistra!» Passò tre mesi ad allenare nel tiro un braccio che praticamente non
aveva mai usato nella sua vita e, con la ripresa del campionato, era di nuovo in
campo con la sua squadra. Questo adattamento tecnico lo portò a ottenere
sorprendenti risultati, tanto che il suo rapporto tiro-canestro migliorò rispetto ai
campionati precedenti. La cosa che più lo fece riflettere – e arrabbiare allo stesso
tempo – è che se avesse immaginato quel suo potenziale, se avesse imparato a
tirare anche di mancino quando aveva la destra in piena efficienza, sarebbe
potuto diventare un cestista ancora più forte. Mi ha confessato che se non fosse
stato costretto dall’incidente non avrebbe mai scoperto quelle insospettate
potenzialità tecniche.
Andare alla scoperta dei propri limiti che, appunto, possono essere migliorati
anche quando pensiamo che sia ragionevolmente impossibile farlo, è un
eccezionale arricchimento di conoscenza di se stessi. Uno straordinario carico di
autostima. Nessuno, durante quel tentativo a –150 metri, sapeva che ero sceso
con un timpano perforato, tranne Massimo Giudicelli, il medico e ovviamente io.
Avevamo preferito non comunicarlo per non provocare ulteriori problemi al
team. Era troppo tardi per cambiare i protocolli di intervento e avremmo solo
generato una situazione di stress.
Da quell’errore e dalla conseguente situazione di difficoltà sono uscito ancora
più forte. Il fatto di aver raggiunto quell’obiettivo – considerato impossibile dalla
medicina, difficilissimo da me e addirittura una pazzia da mia mamma – dopo
essere «caduto all’inferno» per un errore che avrebbe potuto compromettere
un’intera stagione, mi ha permesso di ripartire, con un bagaglio di esperienza
ancora più grande e una forza ancora più incredibile. Ti rendi conto che quello
che fino al giorno prima era un numero che consideravi inarrivabile è il punto di
partenza per una nuova avventura, per alimentare la voglia di continuare e
provare a migliorarsi.
Avere un piano B
L’immersione a –150 metri non è stato il mio ultimo record. Nel 2001 avrei
salutato la mia carriera agonistica di apneista tentando di superare il record
nell’assetto variabile a cui, come ricordate, avevo dovuto rinunciare per avverse
condizioni meteomarine nell’ottobre 1999, a Portofino. Non che due anni dopo il
maltempo mi abbia lasciato in pace!
Era il 3 novembre 2001, e quella volta il palcoscenico fu lo spettacolare
paesaggio dei faraglioni di Capri; proprio per il fatto che avevo annunciato che
sarebbe stato il mio ultimo record, c’era una grande attesa. Era prevista persino
una diretta Rai tra le 13.30 e le 14.00, in coincidenza con un programma molto
seguito, Dribbling. Già dalla mattina si era alzato un fortissimo vento da nord-
est, quindi all’ora stabilita per la diretta fu impossibile tentare il record. Il campo
gara era instabile perché il grecale faceva scarrocciare i corpi morti e gli
ancoraggi. L’appuntamento venne rimandato di qualche ora, in corrispondenza
delle disponibilità del collegamento via satellite.
Trovare il rilassamento e la massima concentrazione in quei continui cambi di
programma fu difficilissimo, ma era il mio «passo d’addio» e non potevo
deludere gli amici e i compagni che mi avevano seguito per oltre dieci anni fino
a quel momento. Ancora una volta, con sempre più determinazione per arrivare
nel miglior modo possibile all’appuntamento con l’ultimo record, ho dovuto
cercare le motivazioni dentro di me, ripercorrendo a ritroso la mia storia.
Nel corso della mia carriera di apneista mi è capitato di dovermi adattare
rapidamente e con molta flessibilità a cambiamenti di programma, e non solo per
colpa delle bizze della meteorologia o dei vincoli dei collegamenti della diretta
televisiva. Per questo avere un piano B è sempre stato fondamentale. Quando
parte una stagione e si decide quale sarà il traguardo da battere, il limite da
infrangere, la strada da tracciare insieme a tutto lo staff è lunga e complessa: le
tabelle di allenamento, le progressioni di incremento, l’alternanza di carichi e
scarichi di lavoro e così via.
Parallelamente a questo programma, incentrato sulla preparazione atletica e
mentale, c’è la pianificazione dei protocolli di assistenza, che devono essere
organizzati per garantire la massima sicurezza sia nelle diverse fasi di
allenamento sia nel momento fatidico della prova del record. Capita tuttavia che
questa complessa architettura organizzativa debba essere rivista a causa di un
fattore esterno, per esempio il fatto che nel frattempo un altro atleta abbia
raggiunto o superato il limite che avevi deciso di infrangere. Mesi e mesi di
lavoro non possono essere vanificati: avere un piano di riserva che preveda nel
dettaglio come resettare la programmazione in funzione di un obiettivo diverso è
di vitale importanza.
I cambi di programma nella mia storia di recordman non sono tuttavia mai
stati dettati dall’essere stato anticipato da un avversario. Abbiamo dovuto tirar
fuori dal cassetto il famoso piano B quando abbiamo capito, tutti insieme, che
era necessario aggiornare l’obiettivo. In un paio di occasioni, infatti, durante la
preparazione mi sono accorto, sempre grazie al fatto di aver ascoltato il mio
corpo e le sensazioni che mi dava, che il limite programmato settimane prima era
diventato «stretto» e che avrei potuto fare di meglio. In quei casi ho deciso di
aumentare le quote, di mirare a un limite più profondo, pur sapendo che questo
avrebbe comportato un gravoso cambio di programma, per me e per tutta la
squadra. Ma ero convinto che fosse la cosa giusta da fare, e che avrei avuto
l’approvazione di tutti i collaboratori che condividevano con me il piacere e
l’orgoglio non semplicemente di superare un limite, ma di farlo con la migliore
prestazione possibile, senza fare calcoli al risparmio.
Senza risparmiarsi mai
Appartengo infatti a quella schiera di atleti che non sono mai riusciti a speculare
sulle proprie prestazioni, che non hanno mai saputo gestire le proprie
performance come dei ragionieri. Se fossi stato un podista mi avrebbero
etichettato come front runner, quelli che stanno sempre davanti, incapaci di
strategie attendiste.
Ho molti amici nel mondo del nuoto. Io e Massimiliano Rosolino, per
esempio, ci frequentiamo spesso: anche per lui, le vittorie che si ricordano con
maggiore soddisfazione sono quelle nelle quali si è consapevoli di avere dato
tutto e di non potersi rimproverare nulla. A volte queste prestazioni che lasciano
il segno non sono neppure vittorie. Tra i campioni del nuoto ho conosciuto
Milorad Čavić, il serbo che alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 contese allo
statunitense Michael Phelps l’oro nei 100 metri farfalla in una memorabile
finale, decisa da uno scarto temporale di 1 centesimo di secondo (a favore dello
statunitense).
Anche Milorad, atleta straordinario e grande appassionato di pesca
subacquea, è uno di quei campioni che non sanno risparmiarsi, magari a scapito
del successo finale. Così è stato proprio a Pechino quella mattina del 16 agosto
2008, quando scesero in piscina i più forti specialisti del mondo: lo statunitense
Ian Crocker, detentore del record mondiale, il kenyano Jason Dunford e lo stesso
Čavić, che nelle rispettive batterie avevano fatto segnare a poca distanza il
record olimpico di specialità, che Phelps aveva siglato ad Atene quattro anni
prima; senza dimenticare la presenza di altri pezzi da novanta, come
l’australiano Andrew Lauterstein, il giapponese Takuro Fujii e l’ucraino Andrij
Serdinov.
La vigilia della finale era stata caratterizzata da aspre polemiche, montate un
po’ ad arte dai giornalisti, tra Čavić e Phelps, i due grandi favoriti, circa i
presunti vantaggi che il serbo avrebbe tratto dall’indossare un particolare
costume integrale. La tensione ai blocchi di partenza si tagliava con il coltello,
anche perché in caso di vittoria Phelps avrebbe eguagliato il record di medaglie
d’oro (sette) in una sola Olimpiade stabilito da un altro americano, il mitico
Mark Spitz, ai Giochi di Monaco di Baviera nel lontano 1972.
Milorad partì a bomba dai blocchi e al giro dei 50 metri fece segnare un
tempo inferiore al record mondiale in vasca unica. Purtroppo era solamente a
metà gara. Mi ha raccontato che la vasca di ritorno sono stati i 50 metri più
lunghi della sua carriera: le gambe e le braccia erano attanagliate dall’acido
lattico che lo stava aggredendo, mentre con la coda dell’occhio intuiva nella
corsia alla sua sinistra la rimonta di Phelps, che aveva virato soltanto settimo. A
5 metri dalla fine Phelps era a pochi centimetri da Čavić, e sullo slancio toccò la
piastra 1 centesimo di secondo prima. Phelps affiancò il «mito Spitz», e anzi
qualche giorno dopo fece anche meglio, perché ottenne l’ottava medaglia d’oro.
Per Milorad fu invece una delusione immensa, ma paradossalmente, come ebbe
modo di confessarmi, non poteva rimproverarsi nulla. Aveva dato tutto quello
che poteva dare e non avrebbe potuto fare di meglio, neppure di quel centesimo
di secondo che decise le sorti di quella finale.
Ecco, io mi riconosco in questo approccio senza calcoli, senza risparmiarsi
mai.
Superare le paure
Affrontare la pressione, gestire e valutare l’errore, adattarsi all’imprevisto. Fin
qui abbiamo analizzato alcuni aspetti che possono essere fortemente limitanti
nell’attività sportiva, ma anche nell’esperienza di tutti i giorni. Esiste, però, un
altro fattore che in alcuni casi può addirittura trasformarsi in un blocco: la paura
o la paura di fallire.
La mia carriera di apneista è stata caratterizzata da ben sedici tentativi di
record, tutti conclusi con esito positivo. Questo «archivio storico» di positività,
ottenuto grazie a uno strepitoso lavoro di squadra, che non ha mai lasciato nulla
al caso, dalla perfetta organizzazione a una minuziosa attività di motivazione
collettiva, mi ha consentito volta per volta di beneficiare di un bagaglio di
esperienza e autostima che mi ha sempre aiutato nelle situazioni difficili.
Raramente ho avuto momenti di paura, per questo mi ritengo fortunato: so
bene quanto sia provvisoria e precaria la sorte di chi si confronta con una
potenza naturale così straordinaria come il mare. Averne un infinito rispetto mi
ha sicuramente permesso di non incorrere in incidenti fatali che tuttavia hanno
segnato la mia vita per conoscenza indiretta: molti amici mi hanno lasciato a
causa dell’imponderabile e imperscrutabile destino degli uomini che sfidano il
mare.
In due momenti della mia vita però mi sono confrontato con la paura, anche
se di diversa natura. La prima volta è stata per una sciocchezza: è proprio in
questi casi, quando i livelli di attenzione si abbassano ed è richiesta la
concentrazione dell’impegno agonistico, che si corrono i rischi maggiori. Era il
1° maggio 1993 e mi trovavo in Martinica, dove stavo facendo degli allenamenti.
Una sera per rilassarci organizzammo una festa con grigliata sulla spiaggia. A
me toccava il compito di procurare le aragoste. Avevo scoperto in quei fondali
una grotta intorno ai 20 metri di profondità. Sapevo che brulicava di crostacei,
così mi immersi sicuro di fare bottino pieno.
L’imboccatura della cavità era alta poco meno di un metro e portava in una
specie di corridoio interno che si inoltrava per una ventina di metri. Lo spazio
però era angusto; non c’era modo di girarsi per tornare indietro, quindi per uscire
dovevo retrocedere. Avevo già fatto più di un’immersione, con buon successo di
pescato, quando forse per effetto dell’intorbidamento dell’acqua mi smarrii in
una grotta laterale. Non trovavo più l’uscita. Sono abituato a fare le mie
immersioni in apnea avendo sempre una riserva di fiato per risalire senza
complicazioni, ma in quel caso il tempo stava passando e stava salendo la
tensione, mentre io continuavo a brancolare nel buio.
Istintivamente mi misi a pinneggiare in avanti e, quando ormai sentivo che le
energie stavano per finire, vidi un chiarore azzurrino, poi una luce: avevo
ritrovato l’uscita. Spinsi in quella direzione, la imboccai e risalii. A sette metri
intravidi la faccia di Feliz, il ragazzino meticcio che mi faceva assistenza in
superficie. Poi non ricordo più nulla. Non so come abbia fatto a salire sul
gommone, mentre Feliz nuotava per chiedere soccorso. Per fortuna mi sono
ristabilito in fretta, senza subire alcuna conseguenza fisica. Per alcune notti però
mi sono svegliato di soprassalto in preda all’incubo di rimanere intrappolato in
quella grotta.
È un’esperienza che non dimenticherò mai, soprattutto per la sua natura
accidentale che mi spinge a considerare quanto, in particolare in un’attività come
l’apnea, l’attenzione al rischio e alla sicurezza debba essere sempre altissima.
Anche nei momenti di relax e divertimento non si deve mai dimenticare il
rispetto per se stessi e per l’ambiente che ci ospita.
Il secondo momento in cui ho dovuto vincere uno stato di emotività negativa
che rischiava di bloccarmi si è verificato durante il periodo di pausa forzata dopo
un incidente avuto il 22 settembre 1994. Mi stavo allenando nel tentativo di
migliorare il record dei –130 in assetto no limits, e utilizzavo per la prima volta,
nella manovra di risalita, un pallone di nuova concezione con una spinta molto
rapida. Non appena misi piede sulla barca, non sentivo più una gamba. Era
paralizzata. Per tre ore non riuscii a muoverla, poi ripresi gradualmente la
mobilità. Il timore a quel punto era che si trattasse della pericolosa sindrome di
Taravana, che colpisce gli apneisti che si immergono frequentemente a grandi
profondità.
Fortunatamente gli accertamenti medici esclusero questa eventualità: avevo
«solamente» subìto la rottura di un microcapillare cerebrale a causa dalla forte
pressione sanguigna provocata a sua volta dalla velocità di risalita. Dovevo
fermarmi per quattro mesi: riposo assoluto. Niente mare, niente apnea. Fu un
momento terribile.
Intorno a me erano molti a incoraggiarmi, a dirmi di tenere duro, che si
trattava solo di avere pazienza, ma dentro di me continuava a lavorare il tarlo del
dubbio: tornerò quello di prima? Potrò ancora misurarmi con i miei limiti? Non
mi restava che aspettare e, ancora una volta, cercare la via del rilassamento e
della concentrazione interiore. Devo però dire che, terminato il periodo di
inattività forzata, avvertii un senso di tensione ed emozione all’idea di scoprire
quale fosse diventato il mio stato atletico e mentale. Scelsi di ricominciare ad
allenarmi lontano da tutto e da tutti, in un’isoletta della Polinesia, a migliaia di
chilometri dal mio mondo. Solo lì, e solo confrontandomi con me stesso, sarei
riuscito a capire quello che volevo davvero. Fu un percorso graduale: tornai in
contatto con il mio corpo, ascoltandone le sensazioni, cercando di capire cosa
non andava e, allo stesso tempo, riscoprendo le vecchie emozioni. Mi accorsi
che poco a poco la paura di non essere più lo stesso svaniva: non vivevo più la
paura del limite, ma assaporavo nuovamente il gusto di andare a conoscerlo.
Finché non le si affrontano, le paure, come i limiti, sono dei pesi opprimenti.
Nel momento in cui ti ci avvicini e accetti il confronto, cominci gradualmente e
con serenità a non vederle più come tali. Quando ero piccolo avevo paura del
buio; mio nonno allora mi chiedeva sempre di scendere in cantina a prendere il
vino. Non mi piaceva farlo, ma non dicevo di no e ho accettato il confronto.
Quando mia mamma mi metteva sotto la doccia strepitavo come un’aquila; poi
abbiamo visto com’è finita. Ancora, quando per la prima volta ho messo la
maschera e dalla superficie ho guardato il fondo a 10 metri, mi sono venute le
vertigini. Ma ho scelto di continuare.
Paure, imprevisti ed errori: se si decide di affrontarli e si trovano le risorse per
ottenere un successo, questo risultato vale molto di più. Può anche non essere un
successo assoluto, ma soltanto un miglioramento della situazione preesistente.
Quando si esce vincenti da un’esperienza negativa si ha una diversa e più
consolidata coscienza dei propri mezzi: una carica diversa che può essere d’aiuto
anche per gli altri.
4
Sott’acqua non si è mai da soli
L’importanza delle relazioni: la squadra, i maestri, i rivali
La piramide dell’assistenza
Una squadra di assistenza che segue un apneista nel programma di
avvicinamento al record è formata da un numero variabile di persone a seconda
della tipologia del record da battere. Più aumentano le profondità, maggiori sono
le misure di sicurezza che si devono approntare, più complicate sono le modalità
di intervento in caso di emergenza.
L’assetto variabile no limits è il più difficile dal punto di vista organizzativo e
tecnico. Alle quote meno profonde, fino ai 30 metri, operano gli apneisti di
assistenza che, in caso di bisogno, possono intervenire e riportarmi in superficie
rapidamente. Per le quote più importanti si ricorre invece ai sommozzatori (o
subacquei), che in caso di emergenza assicurano l’apneista a un pallone e lo
«sparano» in superficie.
Per i sommozzatori, che respirano sott’acqua con l’ausilio delle bombole, si
pone il problema della decompressione. Bisogna fare attenzione a non
confondere la decompressione con la compensazione. Quest’ultima, che
abbiamo descritto nel Capitolo 2, è la manovra che apneisti e sommozzatori
devono effettuare durante la discesa per evitare il problema del timpano
schiacciato verso l’interno a causa dell’aumento della pressione esterna. Per un
subacqueo che scende con le bombole la compensazione non è un problema
importante, perché ha a disposizione qualche migliaio di litri di aria, contenuta
nelle bombole, da mandare verso le orecchie. Per l’apneista invece, come
abbiamo visto, la compensazione può essere un problema serio, soprattutto a
quote importanti.
La decompressione è una procedura che dev’essere seguita soprattutto da chi
presidia le quote più profonde. In un’immersione con le bombole, a seconda
della profondità toccata e dal tempo di permanenza sul fondo, nel momento in
cui avviene la risalita, con la conseguente diminuzione della pressione, l’azoto,
che è un gas sciolto nel sangue, forma delle piccole bolle. Lo scopo della
decompressione, attraverso una o più soste, è proprio quello di eliminare queste
microbolle ed evitare che entrino nel circolo ematico dei tessuti. La mancata
sosta di decompressione può portare anche all’embolia, ovvero l’ostruzione dei
vasi sanguigni da parte di un corpo gassoso (l’azoto); nei casi più gravi si
rischiano ischemie cerebrali, polmonari o cardiache con esiti il più delle volte
letali, o comunque la paralisi.
Vi faccio un esempio per rendere più chiaro questo concetto. Immaginate una
bottiglia d’acqua: quando è chiusa non possiamo sapere se la bottiglia contiene
acqua frizzante o naturale. Nel momento in cui tolgo il tappo, e quindi riduco la
pressione all’interno della bottiglia, nell’acqua si formano tante bollicine che
salgono verso la superficie; solo allora capisco che si tratta di acqua gasata. Se
lascio aperta la bottiglia per molte ore, alla fine l’acqua si sarà «sgasata», cioè
avrà eliminato completamente tutte le sue bollicine. Allo stesso modo, nella fase
di risalita i sommozzatori devono «sgasare» il loro sangue dall’azoto che si è
accumulato durante l’immersione, facendo delle soste vincolati al cavo.
I miei due sommozzatori alla massima profondità di 150 metri, per
un’immersione della durata di circa cinque minuti, durante la risalita si dovevano
fermare per intervalli di decompressione complessivi di quasi sei ore! E non è
tutto: oltre certe quote, respirare aria (quindi una miscela composta da circa l’80
per cento di azoto e il 20 per cento di ossigeno) porta all’ebbrezza da profondità,
detta anche «narcosi da azoto». Si tratta di una specie di ubriacatura che non
permette al subacqueo di essere mentalmente lucido. Per ovviare a questo grosso
problema, nella bombola viene inserito dell’elio, che permette al sommozzatore
di restare vigile sott’acqua e ridurre notevolmente il problema della narcosi. C’è
però un aspetto negativo: l’elio ha un peso atomico molto basso, quindi innesca
dispersioni caloriche incredibili. I sommozzatori, nelle lunghe ore di
decompressione, soffrono un freddo terribile, non a causa della bassa
temperatura dell’acqua – indossano delle speciali mute – ma perché il loro corpo
disperde calore, raffreddandosi rapidamente.
Quando arrivano alla tappa di decompressione dei 15-16 metri di profondità,
per evitare l’ipotermia, dalla barca vengono passate delle manichette di acqua
calda che, infilate tra muta e pelle, portano un po’ di sollievo.
Più le quote di profondità sono elevate, maggiore è la presenza di
sommozzatori in assistenza lungo le quote intermedie. Per tutti loro, in ogni
caso, sono ore e ore di permanenza sott’acqua. Tenete presente oltretutto che
questo non avviene solamente il giorno del record, ma tutte le volte che la tabella
di allenamento prevede immersioni di avvicinamento o anche di raggiungimento
della quota stabilita. Mentre per me che scendevo in apnea il tutto si risolveva
nel giro di tre o quattro minuti, per i sommozzatori del mio team di assistenza
l’allenamento o il record si traduceva in un’attesa di tre, quattro, cinque e più ore
a causa del fattore decompressione.
Vi rendete conto, ora, a cosa andavano incontro i miei angeli custodi? E
ripeto, non lo facevano per la gloria, per il prestigio o per apparire: erano lì, pur
sapendo di dover affrontare enormi sacrifici, perché con orgoglio e dedizione
sapevano di lavorare tutti insieme a un progetto ambizioso che avrebbe avuto
come obiettivo quello di portare un atleta a una profondità dove nessuno prima
era mai arrivato. Lo facevano dando il massimo di quello che a ognuno di loro
veniva richiesto, con entusiasmo, rispetto reciproco, professionalità e ricerca
dell’eccellenza in ogni gesto.
La loro presenza era per me fondamentale: potevo scendere con la massima
tranquillità, serenità e concentrazione perché sapevo di poter contare su di loro.
Sapevo che là sotto non sarei mai stato solo: a seconda della quota a cui mi
trovavo, in discesa o in risalita, in caso di emergenza avevo sempre un
sommozzatore pronto a intervenire con un pallone che, una volta gonfiato e
vincolato al mio polso, mi avrebbe portato in superficie.
La famiglia dell’apnea
L’apnea è un percorso personale, intimo, che però non puoi fare a meno di
condividere con chi ti accompagna tra le braccia del mare. Perché il mare ti
forma, ti segna e ti insegna; il mare è più forte di te, decide per te. Se anche
qualche volta hai l’impressione di averlo conquistato, di averlo fatto tuo, sappi
che è solo una concessione temporanea.
Anche in questo gli uomini della mia squadra mi hanno sempre aiutato: mi
hanno caricato quando ero un po’ demotivato o sotto tono per problemi
inaspettati, ma soprattutto mi hanno riportato con i piedi per terra nei momenti di
particolare esaltazione.
Le perdite in mare degli amici più cari sono lì a ricordarti che devi sempre
avere umiltà, tanta umiltà e rispetto, e riconoscere che quella forza è di gran
lunga superiore a te, e devi comportarti di conseguenza. È quando perdi quel
rispetto e ti senti troppo sicuro che ti sorprende l’incidente, che accade il
dramma. Il mare, con la sua incommensurabile potenza, è una scuola di vita.
Per questo affidare la tua vita a un’altra persona quando vai sott’acqua si
trasforma in una relazione fortissima che dura nel tempo. Tra gli amici di una
vita, quasi tutti arrivano dall’esperienza dell’apnea. Con l’apnea non puoi
mentire, non puoi mistificare.
Devi giocare in trasparenza, devi essere sincero con te stesso e con gli altri,
mettendo in campo i valori fondamentali: onestà, umiltà e amicizia.
Enzo e Jacques
Il mare in generale e l’apnea in particolare mi hanno consentito di conoscere il
mondo attraverso le persone, le stesse persone che sono state la mia grande
famiglia. Come ho detto fin dalle prime pagine di questo libro, sono diventato
apneista grazie al fascino che hanno esercitato su di me da ragazzino due grandi
campioni come Enzo Maiorca e Jacques Mayol. Nel 1988 avevo appena
affrontato la mia prima prova ufficiale da apneista in una piscina di Busto
Arsizio. Tutto quello che sapevo di profondità lo avevo letto sui libri in cui
Maiorca e Mayol raccontavano le loro vite e le loro imprese.
Maiorca e Mayol sono stati il Bartali e il Coppi dell’apnea mondiale, hanno
segnato l’era eroica dell’apnea e soprattutto hanno avuto il merito di diffondere a
livello popolare una disciplina sportiva che era considerata una pazzia per pochi.
La gente pensava che il mare fosse qualcosa di misterioso, di pericoloso, e la
medicina poneva dei limiti rigidissimi relativamente alle possibilità dell’uomo di
«diventare delfino».
Enzo e Jacques erano molto diversi l’uno dall’altro, per carattere e
formazione. Conobbi Enzo Maiorca nel 2001 prima dell’inizio di un convegno di
medicina iperbarica a Pisa. Ricordo che nella pausa pranzo non esitò a
prendermi da parte e a parlarmi a quattr’occhi. Io ancora gli davo del lei ed ero
non poco in soggezione.
«Ho un nipote, Giuseppe. Te lo devo presentare», mi disse. «Devi insegnargli
l’apnea.»
«Ma come, signor Maiorca, e lo manda da me?»
Lui si guardò intorno, con aria circospetta. Poi, stringendomi il braccio, mi
rispose a mezza voce: «Io, di questa apnea moderna, non ci capisco una
minchia…»
Questo era Maiorca, un uomo schietto, semplice, immediato. Da allora
nacque una sincera simpatia e amicizia, anche se lui sapeva che io ero
considerato l’allievo di Mayol.
Da Cousteau ai delfini
Girare il mondo significa anche andare alla ricerca delle mie vecchie passioni
d’infanzia. Da piccolo mi appassionava guardare in televisione i documentari di
Jacques Cousteau. Quando erano in programma nessuno doveva disturbarmi.
All’epoca avevo deciso che da grande avrei fatto il veterinario o il biologo
marino. Al largo delle coste sudanesi del Mar Rosso, a Sha’ab Rumi, sono
andato alla ricerca di Précontinent II, il piccolo villaggio sottomarino costruito
nel 1963, a circa 10 metri di profondità, dal comandante Cousteau.
Si trattava di un esperimento per studiare le reazioni fisiologiche e
psicologiche del corpo umano. Sui fondali di Sha’ab Rumi sono rimaste le
vestigia di quel programma di ricerca, molto simili a relitti di navicelle spaziali
ormai un po’ arrugginiti. Proprio in quell’occasione, Cousteau e la sua équipe
sperimentarono i primi incontri ravvicinati con gli squali, attraverso la
costruzione di apposite gabbie. L’osservazione scientifica di questi straordinari
esseri marini ci consente oggi di conoscerli meglio e di poterli avvicinare e
addirittura nuotare con loro.
Ma come mi ha insegnato Mayol, cultore del visionario concetto di Homo
delphinus, sono proprio i delfini gli animali che più mi hanno affascinato e anche
insegnato di più. A parte l’amicizia con Jo-Jo, alle Bahamas, sono stati numerosi
gli incontri con questi animali che hanno lasciato un segno indelebile nella mia
storia di apneista. Nel 1996, in uno dei primi corsi di Apnea Academy, in
Spagna, riservato ai bambini, tra i miei piccoli allievi c’era un ragazzino
sordomuto. Uno degli ultimi giorni portai la classe in un’insenatura naturale
chiusa, dove viveva in cattività un delfino, che tra tutti i ragazzini sott’acqua
scelse proprio il piccolo sordomuto. I due sembravano capirsi a meraviglia.
Avevamo tutti la netta sensazione che il ragazzino si trovasse a suo agio con il
delfino proprio perché, nel suo mondo senza suoni, era abituato a comunicare in
modo diverso e sott’acqua aveva trovato un ambiente a lui congeniale. Ebbi la
conferma che i delfini sono creature dalla sensibilità davvero speciale, capaci di
stabilire dei notevolissimi gradi di comunicazione con gli esseri umani.
In un’altra occasione è stato sempre un bambino a sottolineare l’eccezionalità
del carattere dei delfini. Eravamo sul Great Bahama Bank, un vasto fondale
sabbioso, con acque poco profonde, al largo di Miami, che attraversa il
Northwest Providence Channel, formando un’ampia curva lunga più di 500
chilometri, tra Cuba e l’isola di Andros. Il bordo del banco precipita di netto
nell’abisso oceanico per 2-3.000 metri di profondità. Qui viveva una colonia di
delfini, che si avvicinarono all’imbarcazione e cominciarono a giocare. Io e i
miei compagni di navigazione ci tuffammo con loro. Insieme a noi c’era una
coppia con un bambino di cinque o sei anni, che si stava divertendo un mondo e
non voleva uscire dall’acqua. Quando finalmente riuscirono a convincerlo a
salire in barca, il piccolo mi spiegò, raccontandomi un favola, la ragione per cui i
delfini sorridono. «Quando Dio creò la Terra e la popolò, nel mare ci mise i pesci
e i mammiferi marini. Si sbizzarrì con tutti i colori che aveva a disposizione per
dipingere tutte le specie, ma quando arrivò ai delfini si accorse di aver finito i
colori. Si sentì un po’ in colpa, e per farsi perdonare disse che i delfini sarebbero
rimasti grigi, senza colore, ma sarebbero stati gli unici animali marini dotati di
sorriso.»
Il tuffo greco
Ricordate Stathis Haggi, il pescatore di spugne greco che nel 1913 recuperò
l’àncora e la catena della corazzata italiana Regina Margherita nella baia di
Karpathos? Nel 1998 decisi di raccogliere una sfida, lanciata nientemeno che da
Filippo Giardiello, presidente di un’azienda di orologeria che allora era uno dei
miei sponsor tecnici. Fu lui durante una cena a raccontarmi l’incredibile impresa
di Stathis Haggi. Decisi così di cimentarmi in qualcosa di simile, a metà tra
l’esibizione e la rievocazione storica. Mi preparai a scendere a –100 metri, 20 in
più della profondità raggiunta più di ottant’anni prima dal pescatore greco,
utilizzando le sue stesse rudimentali attrezzature. Mi sarei immerso senza pinne
e senza muta, soltanto in costume da bagno, e mi sarei fatto trascinare da una
pietra di sette chili.
Il difficile era proprio questo: da un lato affrontare i repentini cambiamenti di
temperatura senza la protezione termica della muta, dall’altro gestire la
compensazione senza poter frenare la zavorra che ti spinge in basso a una
velocità elevata, senza neppure poter ricorrere alle pinne per opporre resistenza
al trascinamento. Ma era questo il gusto della sfida: riprovare le stesse
sensazioni che aveva avvertito il mio eroico predecessore.
A settembre tutto era pronto a Karpathos: il cavo di 100 metri, la pietra e il
resto. Non c’erano giudici, perché non era una prova ufficiale, ma della mia
squadra non mancava nessuno. Il tuffo fu bellissimo, sentivo il mio corpo, libero
dalle sovrastrutture tecnologiche, completamente in sintonia con il mare. Arrivai
in fondo, lasciai la zavorra, mi aggrappai al cavo e risalii in superficie a grandi
bracciate. A impresa terminata, proprio come era avvenuto nel 1913, una grande
festa ci accolse nella piazza del paese.
Sono molto felice di aver legato il mio nome a quello di Stathis Haggi, il
primo recordman dell’apnea a sua insaputa.
Ocean Men
Insomma, questa era l’apnea venticinque, trent’anni fa. Eravamo ancora uomini
che vivevano intensamente il mare; anzi, la cui vita coincideva con il mare. Io e
Pipín abbiamo fatto da trait-d’union tra l’età pionieristica e la nuova
generazione, e credo che abbiamo svolto una funzione importantissima nella
«democratizzazione» dell’apnea. Oggi, a livello sportivo, molte cose sono
cambiate: gli apneisti sono degli atleti fortissimi, vere e proprie macchine da
guerra. Si è però perso quel romanticismo e quello spirito di avventura che
circondava il nostro mondo. Non ci sono più squadre di sommozzatori di
assistenza, il cui ruolo viene svolto da speciali sistemi di contrappeso che, in
caso di bisogno, riportano l’apneista in superficie. Non si respira più lo stesso
«odore del mare», la stessa filosofia, quelle situazioni uniche che
caratterizzavano la storia di un record di apnea, le sfide all’ultimo metro tra due
apneisti e le sfide tra i team.
L’antagonismo ha fatto la fortuna del nostro sport, e anche di noi due. Nel
1999 fummo coinvolti nella produzione cinematografica di Ocean Men, che
voleva essere il remake de Le Grand Bleu, il grande successo che portò alla
ribalta le vite parallele di Maiorca e Mayol. Questa volta chiesero a me e a Pipín
di raccontare le nostre storie e la nostra rivalità di «uomini dell’oceano».
Francisco che dice di aver scoperto il mare ancor prima di imparare a
camminare, quando su una spiaggia cubana venne «sacrificato» a Olokun, il dio
degli abissi, una specie di Nettuno caraibico; io che racconto della mia iniziale
paura della doccia, fino alla prima volta in cui ho trattenuto il fiato, in una molto
meno esotica piscina di Busto Arsizio.
All’inizio del film, che venne girato in versione IMAX, ovvero per essere
proiettato su grandi schermi speciali che rendono più spettacolare e coinvolgente
l’ambientazione sottomarina, compare Jacques Mayol, che racconta a modo suo
la storia dell’apnea. Ma durante le riprese del film, dalle Bahamas all’Honduras,
dalla Cina a Capo Testa, in Sardegna (che nel frattempo è diventato il mio luogo
dell’anima), io e Pipín non ci siamo mai incontrati. Le nostre storie parallele
sono raccontate a distanza, e in luoghi differenti. Solo dopo sono state montate in
sequenza alternata. Anche questo fa parte del mito della nostra rivalità.
COME avete letto nelle prime pagine di questo libro, mi sono trovato a fare
l’apneista nonostante le condizioni di partenza non fossero proprio le più
naturali: un «uomo di mare» originario di Busto Arsizio non si era mai visto.
Certo, alla base c’era una grande passione, l’irresistibile attrazione per l’acqua,
per quel mondo sommerso che mi aveva affascinato fin da bambino quando i
documentari di Jacques Cousteau mi incollavano davanti alla televisione. C’era
indubbiamente una buona predisposizione fisica e – forse ancora di più –
mentale che mi ha permesso di confrontarmi con il mondo dell’immersione.
Però c’è voluta anche una buona dose di casualità, di situazioni favorevoli, di
incontri, di coincidenze. Cosa sarebbe stato di me se non mi avessero concesso,
durante il servizio militare, il trasferimento all’isola d’Elba? E se, una volta
arrivato lì, non avessi avuto la fortuna di incontrare una persona come Massimo
Giudicelli, che come credo abbiate capito è stato per me molto più di un
semplice allenatore? Probabilmente sarei rimasto, o sarei tornato, a fare
l’informatico… Ma non è andata così: da quel momento in poi ci sono stati altri
incontri e altre opportunità di crescita. Da parte mia posso dire di non essermi
mai risparmiato nel dare il meglio di me stesso in tutte le situazioni che ho
vissuto, portando ogni volta a casa un nuovo bagaglio esperienziale.
Parlando più in generale, credo tuttavia che la più grande occasione che ho
colto sia stata l’aver saputo trasformare una passione in un lavoro e di averla poi
coltivata e fatta crescere ed evolvere con totale dedizione e tenace senso di
responsabilità in tutti gli anni della mia carriera agonistica.
Insegnare l’apnea
Ho sempre saputo che non avrei potuto «fare il campione» per tutta la vita. Per
questo, nel 1995, a trent’anni, pur sapendo di poter dare ancora molto dal punto
di vista agonistico e dei risultati sportivi, ho pensato che fosse giunto il momento
di smettere di inseguire record e di iniziare a programmare il mio futuro.
Insieme a Renzo Mazzarri, tre volte campione mondiale di pesca subacquea, a
Marco Mardollo, all’epoca uno dei rarissimi istruttori di apnea, e ad alcuni altri
professionisti del settore ho fondato Apnea Academy. Quelli della mia
generazione che volevano avvicinarsi al mondo dell’apnea dovevano arrangiarsi
da soli: eravamo tutti più o meno autodidatti, e non esistevano metodi né
tantomeno corsi che insegnassero la preparazione, la tecnica e l’approccio
soprattutto mentale a quella disciplina. Se eri fortunato potevi trovare sulla tua
strada un maestro, come è capitato a me con Jacques Mayol; ma non esisteva
una vera e propria organizzazione didattica dell’apnea.
Con Apnea Academy si è pensato di colmare questa lacuna. Insieme a
Mazzarri, Mardollo e a figure professionali come fisiologi, psicologi e
nutrizionisti, abbiamo messo in campo le nostre esperienze pratiche e le abbiamo
fatte dialogare con le conoscenze scientifiche di allora, che non sono neppure
lontanamente paragonabili a quelle attuali. Abbiamo così iniziato a offrire dei
corsi per formare istruttori, figure che potessero a loro volta avviare al mondo
dell’apnea altri praticanti.
In venticinque anni di attività l’apnea è cambiata tantissimo: un’evoluzione
che difficilmente trova un paragone con gli altri sport. L’acquisizione di nuove
conoscenze nel campo della fisiologia e le molteplici attività di ricerca e studio
delle performance hanno innovato sia le tecniche di preparazione sia gli
strumenti per le prestazioni come mute, pinne e maschere, evolvendo
straordinariamente il mondo dell’apnea subacquea. Se leggessi ora quel
manualetto che pubblicammo a metà degli anni Novanta, mi verrebbe da
sorridere, ma a quei tempi costituì, nel suo piccolo, una pietra miliare, il primo
passo di un lungo cammino. Negli anni lo abbiamo continuamente cambiato,
arricchito, aggiornato, reso più approfondito, e alcuni capitoli sono diventati
singole monografie. Quella che non è cambiata è la nostra filosofia di fondo:
l’apnea intesa non solamente come pura performance atletico-agonistica, che
punta al raggiungimento delle quote di profondità, ma piuttosto come esperienza
più completa di sintonia con l’ambiente acquatico.
A questo principio di base si ispirano tutte le attività di Apnea Academy, dalla
didattica alle linee di ricerca scientifica, che vedono importanti collaborazioni
con istituti universitari nazionali e internazionali – dall’Istituto di Fisiologia
Clinica del CNR di Pisa al DAN (Divers Alert Network) – fino al
coinvolgimento nell’organizzazione di eventi sportivi. Con Apnea Academy
abbiamo voluto diffondere la visione che mi ha insegnato Mayol: l’immersione
senza respirare è un’esperienza che riporta a contatto con una dimensione
ancestrale di benessere fisico e mentale, che ci fa acquisire un senso perduto di
rilassatezza, che ci induce a meditare su noi stessi e il mondo attraverso la
compenetrazione del nostro corpo e della nostra mente con l’ambiente acquatico.
Trasmettere la passione
Venticinque anni dopo possiamo dire di esserci riusciti. Confesso che quando
fondammo Apnea Academy non mi sarei mai immaginato di ottenere i risultati
che oggi balzano agli occhi di tutti. In Italia ci sono attualmente più di 600
istruttori abilitati nei nostri corsi, e sono stati più di 1.000 quelli passati
attraverso il nostro percorso di formazione. Non solo: ve ne sono oltre 400 nel
mondo, perché abbiamo da tempo raggiunto una dimensione internazionale. Pur
non essendo né un’azienda né tantomeno una federazione, siamo una realtà
riconosciuta e stimata in tutto il mondo per la professionalità, l’autorevolezza e
la credibilità dimostrate sul piano della didattica e della ricerca scientifica.
La nostra forza sono i corsi per istruttori che teniamo ogni due anni, al
termine di una lunga e probante selezione. La procedura di ammissione è molto
rigorosa: ai candidati che vogliono accedere al corso viene richiesto un avanzato
livello di preparazione ed esperienza. Al termine di un percorso di tirocinio e di
affiancamento con un istruttore, ogni candidato viene sottoposto a prove tecniche
e d’insegnamento. Seguirà, quindi, una graduatoria nazionale con i migliori
candidati: nell’ultimo corso, dei 200 che avevano superato le prove, vengono
ammessi 50 futuri istruttori. Queste persone concludono il percorso di
formazione con una sessione molto impegnativa di due settimane: la prima,
intensissima, in un college a Lignano Sabbiadoro, la seconda con una settimana
dedicata al mare e alla profondità. Ogni due anni Apnea Academy certifica
nuovi istruttori pronti a loro volta a trasmettere le migliori e più aggiornate
tecniche di apnea.
Nelle due settimane finali del corso lo staff è composto da circa 25 istruttori
con elevata esperienza, per avere un rapporto di due candidati per ogni membro
dello staff. Quello che notiamo è che se un candidato all’inizio non eccelle
tecnicamente in tutto, durante il corso riesce a migliorarsi raggiungendo il livello
previsto. Il problema non è migliorare gli aspetti tecnici dell’apnea, dall’assetto
alla pinneggiata, dalle tecniche di compensazione a quelle di respirazione, dai
risultati «metrici» al rilassamento: le difficoltà maggiori si hanno nel trasmettere
e nel far acquisire ai futuri istruttori le tecniche e le modalità su come rapportarsi
con le persone, con gli eventuali futuri «clienti apneisti».
Quello che cerchiamo di insegnare è che l’allievo che si iscrive al loro corso
di apnea lo fa perché ha scelto quell’istruttore come persona prima ancora che
come professionista. Al primo approccio con un potenziale cliente dobbiamo
mostrare tutto il nostro entusiasmo in quello che stiamo proponendo, dobbiamo
cercare di convincerlo che tenere un corso di apnea, insegnare a una persona a
trattenere il fiato sott’acqua e far vivere belle sensazioni è davvero quello che ci
piace fare. Solo così lo conquisteremo, e solo dopo il nostro allievo scoprirà
anche quanto siamo bravi nell’insegnare la tecnica di una disciplina così
particolare. Insomma, credo che, ancor prima del prodotto che dobbiamo
proporre, conti mostrare la nostra umanità, la nostra persona, il nostro
entusiasmo. Il cliente sceglierà l’uomo, e poi l’istruttore di apnea per quello che
conosce e sa fare.
Insegnare «come si fa» è dunque l’ultimo dei problemi. Molto più difficile è
insegnare agli istruttori come relazionarsi e proporsi alle persone che vogliono
imparare e devono scegliere a chi affidarsi. Ma se non si riesce a catturare
l’anima, il cuore, il pensiero, la curiosità di chi chiede informazioni perché vuole
imparare, se non lo si «conquista», probabilmente sceglierà qualcun altro.
La bravura sta tutta qui: convincere chi ti sta di fronte che quella cosa che lui
cerca tu la possiedi e gliela puoi dare. Solo dopo arriva il know-how, la tecnica,
la parte apneistica. Nei nostri corsi puntiamo molto sul capitale umano che
ognuno di noi ha a disposizione. Credo fortemente nel valore delle relazioni
umane: me lo ha insegnato la mia squadra, il lavorare in gruppo, il contributo del
mio team di sommozzatori durante gli anni in cui ho gareggiato.
Tutti, da Massimo Giudicelli fino all’ultimo addetto al rimessaggio e alla
pulizia dei gommoni, condividevamo questi principi: l’umanità nel proporsi, la
disponibilità all’interno del gruppo, il valore dell’ascolto, dell’apertura al
confronto, del sapersi assumere le diverse responsabilità in un lavoro di squadra,
la credibilità carismatica nella costruzione di un rapporto.
UMBERTO Pelizzari è nato il 28 agosto 1965 a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Da piccolo aveva
paura dell’acqua: per sua madre metterlo sotto la doccia costituiva un vero problema. Per superare questo
blocco venne iscritto a un corso di nuoto, e tutto cambiò. Ma più che alle vasche da percorrere avanti e
indietro, il piccolo Umberto si appassionò all’apnea. Erano gli anni della rivalità tra Enzo Maiorca e
Jacques Mayol, che resero popolare quella che prima di allora era solamente una bizzarra pratica sportiva
per pochi folli.
Dopo i primi record in apnea statica, disciplina praticata in piscina, Umberto ha iniziato a dedicarsi alle
immersioni in mare aperto. Nonostante la laurea in scienze informatiche e alcune offerte di lavoro, il
richiamo del mare è stato per lui irresistibile. Durante il servizio militare svolto presso il Corpo Nazionale
dei Vigili del Fuoco, ottenne il trasferimento presso il distaccamento di Portoferraio, all’isola d’Elba. Era
l’estate del 1990, e venne assegnato alle cure di Massimo Giudicelli, istruttore del nucleo sommozzatori dei
Vigili del Fuoco. Nel giro di poche settimane, Giudicelli si accorse delle straordinarie capacità apneistiche
di Pelizzari e pianificò per lui un intenso programma di allenamenti che prevedeva il tentativo di migliorare
il record mondiale di immersione in apnea in assetto costante (la specialità in cui un atleta scende in
profondità e risale in superficie solo pinneggiando).
Con la collaborazione di Alfredo Guglielmi, detto «il Corsaro», titolare dell’omonimo diving center di
Pareti di Capoliveri, e storico riferimento tecnico e logistico di molti campioni di apnea, primo fra tutti
Jacques Mayol – che proprio all’Elba dalla metà degli anni Settanta aveva stabilito la propria dimora –,
Giudicelli preparò la squadra che avrebbe portato Pelizzari all’appuntamento del 10 novembre. Nelle acque
di Porto Azzurro, Umberto stupì ottenendo, al suo esordio, il nuovo record mondiale: –65 metri, 2 metri più
del limite fatto segnare dal cubano Francisco «Pipín» Ferreras. Da quel momento Umberto e Pipín si sono
contesi per oltre un decennio la corona di miglior apneista del mondo, sfidandosi a distanza e portando
sempre un po’ più in là i limiti da superare.
Se il 1990 è stato l’anno della rivelazione, il 1991 è stato quello della consacrazione. Sempre all’Elba,
Pelizzari ha conquistato tutti i record: il 3 ottobre è sceso in assetto costante e ha migliorato di 2 metri il suo
precedente limite (–67 metri); il 22 dello stesso mese ha stabilito anche il nuovo record mondiale in assetto
variabile (si scende utilizzando una slitta-zavorra, si risale con i propri mezzi, a pinne o tirandosi al cavo a
braccia), toccando i –95 metri (3 metri in più rispetto al limite di Pipín); il 26 ottobre ha fatto suo anche il
primato in assetto variabile no limits (discesa con una slitta-zavorra e risalita con un pallone): –118 metri.
La carriera di recordman di Pelizzari è continuata negli anni seguenti. Il 17 settembre 1992, a Ustica, ha
riconquistato il record mondiale in assetto costante (–70 metri), che gli era stato strappato a maggio dello
stesso anno da Pipín. L’11 ottobre 1993, al largo di Montecristo, ha stabilito un nuovo primato in assetto no
limits, scendendo a –123 metri. Il 24 luglio 1994, a Cala Gonone, in Sardegna, ha conquistato il nuovo
record mondiale in assetto variabile, portandolo a –101 metri.
Nel 1995 presso l’Università di Medicina del Nuoto di Chieti è stato sottoposto a una serie di test medici
dall’équipe del professor Piergiorgio Data. Dopo 8 minuti di ventilazione a ossigeno, Pelizzari ha trattenuto
il fiato per 19 minuti e 56 secondi. Nel luglio 1995, a Villasimius in Sardegna, ha ottenuto due nuovi record
mondiali: –72 metri in assetto costante e –105 metri in assetto variabile. Nel 1996, sempre a Villasimius, ha
messo a segno un’altra doppietta mondiale: il 9 settembre con –110 metri ha riconquistato il primato in
assetto variabile, e il 16 dello stesso mese, con –131 metri, ha strappato a Pipín quello in assetto no limits.
Il 13 settembre 1997, a Porto Venere, in Liguria, si è riappropriato del record in assetto costante con la
profondità di –75 metri, migliorando di 2 metri il limite di un altro atleta cubano, Alejandro Ravelo; e il 20
settembre, scendendo a –115 metri, ha riconquistato il record nel variabile, superando di 4 metri il primato
ancora di Ravelo.
Il 12 settembre 1998 si è impegnato in una singolare esibizione: emulando l’impresa che nel 1913 aveva
compiuto un pescatore di spugne greco, Stathis Haggi, Pelizzari, senza muta né pinne, e aiutandosi nella
discesa con una rudimentale pietra di poco più di 7 chilogrammi, ha raggiunto i –100 metri in un tempo di 2
minuti e 43 secondi.
Nel 1999 è tornato protagonista nelle competizioni: il 18 ottobre, al largo di Portofino, ha stabilito il
nuovo record mondiale in assetto costante, scendendo a –80 metri; otto giorni dopo, il 24 ottobre, col
supporto tecnico scientifico della nave Anteo della Marina Militare Italiana, ha compiuto la storica impresa
di raggiungere i –150 metri in assetto variabile no limits. Impiegando 2 minuti e 57 secondi, Pelizzari ha
toccato il limite mai raggiunto dall’uomo in apnea, abbattendo il precedente record di ben 12 metri.
Durante il 2000 Umberto Pelizzari è stato impegnato nella realizzazione di Ocean Men, docu-film girato
con la tecnologia IMAX, che racconta la sua carriera in parallelo a quella di Pipín, sulla falsariga del grande
successo cinematografico di Le Grand Bleu di Luc Besson (1988), che aveva raccontato con taglio
romanzesco la sfida tra Jacques Mayol ed Enzo Maiorca.
Il 2001 è stata l’ultima stagione agonistica di Umberto. In ottobre, con la nazionale italiana, insieme a
Davide Carrera e a Gaspare Battaglia, ha conquistato la medaglia d’oro al campionato mondiale di apnea a
squadre. Il 3 novembre, nelle acque di Capri, ha fatto segnare il nuovo primato mondiale di apnea in assetto
variabile regolamentato con –131 metri, e ha dedicato questo ultimo record a tutti coloro che in undici anni
di attività agonistica gli sono stati vicini.
Con questa impresa si è ritirato dalle competizioni come detentore di tutti i record nelle tre specialità
dell’apnea profonda. In undici anni di carriera agonistica ha stabilito 16 record mondiali in tutte le
specialità.
È stato il primo uomo a superare il muro degli 80 metri in assetto costante, dei 130 metri nel variabile e
dei 150 metri in assetto variabile no limits.
Nel 1995, insieme ad altri partner, tra i quali Renzo Mazzarri, tre volte campione mondiale di pesca
subacquea, ha fondato Apnea Academy, scuola di formazione, sviluppo e ricerca per l’apnea subacquea.
Attualmente conta oltre 700 istruttori qualificati che operano in Italia e all’estero. Dal 2000, all’attività
didattica si è affiancato un gruppo di ricerca scientifico, Apnea Academy Research, composto da medici
iperbarici, specialisti in otorinolaringoiatria, nutrizionisti e altri esperti di fisiologia subacquea che, in
collaborazione con centri universitari, si occupa di studiare e analizzare le reazioni e il comportamento del
corpo umano nell’immersione in apnea. Apnea Academy organizza anche eventi agonistico-sportivi, dal
livello dilettantistico fino a eventi di risonanza internazionale.
Negli ultimi anni di attività agonistica, e sempre di più dopo il ritiro dall’agonismo, Pelizzari è diventato
un volto noto e apprezzato della televisione. Nel 2000 e 2001 ha collaborato, in veste di reporter, con Linea
Blu, programma Rai di divulgazione culturale su temi ambientali e marini. Dal 2003 al 2006, sulle reti
Mediaset, è stato conduttore di Sai xChé?, programma di divulgazione culturale incentrato sulla proposta di
documentari di archivio di televisioni straniere sui temi scientifici più curiosi o «misteriosi». Negli anni
seguenti, sempre per Mediaset, ha collaborato con Lo show dei record, programma di intrattenimento
dedicato ai primatisti delle più singolari specialità nel mondo. Nel 2013 è stato il volto e la voce di Vite in
apnea, docu-reality che ha seguito le vite quotidiane degli atleti della Rari Nantes Savona durante la
preparazione in vista dei mondiali di nuoto di Barcellona.
A questa attività legata al mondo dello spettacolo ha affiancato quella della formazione e della libera
docenza. Dal 2006 è docente, presso la Scuola Normale Superiore Sant’Anna di Pisa, per il master di
secondo livello di Medicina subacquea e iperbarica. Dal 2013 tiene lezioni al master in Medicina subacquea
e iperbarica del Consorzio Universitario di Trapani, polo didattico dell’Università di Palermo.
Nel 2010 è stato nominato dal Ministero degli Interni componente del corpo docenti dei corsi per
sommozzatori dei Vigili del Fuoco, e dal 2014 fa parte dello staff nei corsi di formazione per operatori del
GIS (Gruppo di Intervento Speciale dell’Arma dei Carabinieri).
La sua esperienza di atleta e di recordman, in un ambito così particolare come l’apnea, sport individuale
che tuttavia non può prescindere da una lunga e meticolosa preparazione e organizzazione di squadra, da
alcuni anni è stata trasferita in numerose conferenze motivazionali. Attraverso narrazioni e filmati, Umberto
racconta la sua storia di atleta e dimostra come i principi e i valori che stanno alla base del successo
sportivo – dalla pianificazione degli obiettivi allo spirito di responsabilità e di sacrificio, dalla gestione dello
stress e delle paure al senso di appartenenza alla squadra – possano essere applicati dalle persone «normali»
nell’affrontare le sfide del quotidiano, nella vita privata come nel mondo del lavoro.
Nel 2019, con l’amico fraterno Leonardo Gatti, Pelizzari ha fondato Cibecco, portale di e-commerce
dove si possono acquistare i migliori prodotti tipici del patrimonio enogastronomico italiano direttamente
dai produttori locali. Un sistema di acquisto etico che garantisce la qualità e la genuinità del cibo al miglior
prezzo e, allo stesso tempo, sostiene e promuove le piccole economie delle aree rurali, con una particolare
attenzione all’ambiente, attraverso campagne di riforestazione per la riduzione delle emissioni di CO 2, e
alle persone, attraverso iniziative a favore della lotta alla povertà e alla fame.
Dal 2005 vive a Parma, con la moglie Irene e con i loro tre figli, Tommaso, Niccolò e Giulio.
Inserto fotografico
A lezione da Jacques Mayol.
Con il maestro Enzo Maiorca.
Immensamente solo con me stesso. Le pulsazioni rallentano, il corpo svanisce, ogni sensazione galleggia
dentro nuove forme. Resta soltanto l’anima (foto di Jon Borg).
L’esplosione di gioia all’uscita da un record.
Un lento ritorno alla superficie, alla luce, alla vita (foto di Jon Borg).
Violare il silenzio dei relitti, immergendomi in apnea, è una mia grande passione (foto di Jon Borg).
I delfini mi indicano la direzione da seguire (foto di Fabrice Dall’Anese).
Con Pipín nel Mar Rosso, 1991.
Con Pipín a Bologna, allo European Dive Show, 2017. Ci si rivede dopo venticinque anni!
Ballando con una tartaruga marina. Tenerife, Isole Canarie (foto di Sergio Hanquet).
Apnea con un capodoglio a Mauritius (foto di Fabio Ferioli).
Con una megattera in Polinesia (foto di Lilì Cottier).
Quando sono in apnea, cerco di diventare tutt’uno con il mare. So di essere un uomo che deve respirare…
Ma sento di non averne bisogno (foto di Paolo Zanoni).
A –42 metri sul fondo di Y-40, una delle piscine più profonde al mondo. Montegrotto, Padova (foto di Fabio
Ferioli).
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Si ringrazia Marco Rizzo per la foto di copertina.
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