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Il noto sociologo e massmediologo Manuel Castells, ha definito internet come un nuovo modello o
strumento sociotecnico basato sulla comunicazione molti a molti su scala globale. Questa
definizione non è sbagliata, ma se riflettiamo bene ci accorgiamo che questa nuova tecnologia,
racchiude un significato più ampio. Non è quindi semplicemente un modello sociotecnico, perchè
mai nessuna tecnologia nel corso della storia, ha rivoluzionato in maniera così radicale e soprattutto
con una rapidità sorprendente, la vita sociale. Ovviamente posta la questione in questi termini così
generali, è facile pensare a una nuova forma di "determinismo tecnologico", secondo il quale, una
qualsiasi società sarebbe plasmata dalla propria tecnologia dominante. Se ci soffermiamo un po su
questo concetto capiremo che questo tipo di approccio non è del tutto attendibile, lo stesso
M.Castells, nel suo libro "Galassia internet" sottolinea questo aspetto affermando che:
Quali sono stati invece i cambiamenti sociali, dovuti alle nuove tecnologie?
Se ne possono elencare almeno tre:
1) Nuove forme di interazione sociale
2) Separazione di spazio e tempo (eliminazione dei confini geografici), è possibile comunicare con
più persone nello stesso tempo, che sono spazialmente lontane l'una dall'altra.
3)Internet ha favorito lo sviluppo dell'individualismo, diventando nella società moderna lo
strumento democratico per eccellenza.
Ma quali sono i tratti essenziali del paradigma della tecnologia dell'informazione?
Innanzitutto internet è caratterizzato da una nuova materia prima, cioè le informazioni, o meglio
beni immateriali, che lo ha portato a una diffusione pervasiva in tutti i processi dell'attività umana
sia individuali che collettivi, adottando la logica di rete in qualsiasi sistema o insieme di relazioni.
Dal punto di vista economico ha fatto, della velocità, reticolarità, flessibilità, capacità di
riconfigurazione e automazione dei compiti le sue qualità determinanti e più importanti.
Queste caratteristiche peculiari, fanno delle nuove tecnologie dell'informazione non soltanto
strumenti da applicare, ma processi da sviluppare.
Vediamo ora nella tabella seguente, le principali differenze tra industria e servizi , o meglio
tra economia tradizionale e quella in rete caratterizzata dai servizi:
Concludendo possiamo affermare che nella new economy emergono due tipi di lavoratori:
1. Manodopera autoprogrammabile (costituita dal nucleo, numericamente limitatae capace
di autoaggiornarsi e adattarsi ai cambiamenti del contesto lavorativo)
2. Manodopera generica (periferia del mercato del lavoro, tendenzialmente sempre più ampia,
composta da lavoratori rimpiazzabili e da lavoro che può essere meccanizzato o
delocalizzato , es. call-center - agenzia di viaggi on-line).
L'economia dell'informazione in rete si basa dunque:
• Su un approccio non market economy - dove la produzione e circolazione di beni cognitivi
segue logiche non di mercato, che però non necessariamente si oppone all'economia di
mercato.
• Networked economy - una nuova economia strutturata intorno ad un network di computer,
cioè da una rete di persone, idee, saperi e desideri che si trova al centro dei processi
economici contemporanei.
Conclusioni:
• Cresce il ruolo della produzione non commerciale nel settore dell'informazione secondo una
forma di cooperazione decentrata, basata su strategie non proprietarie che mettono in crisi la
normativa sulla proprietà intellettuale e diritti d'autore.
• La produzione è radicalmente distribuita per la partecipazione di numerose persone
attraverso il meccanismo non gerarchico della rete e della comunicazione da molti a molti.
• I mezzi di produzione e di scambio dell'informazione hanno un prezzo relativamente
contenuto, permettendo una proprietà diffusa.
Imparare dalla rete:
Una singolarità di internet è che il capitale fisico che permette l'intelligenza in rete è diffuso,
essendo di proprietà degli utenti finali. Questo ci dimostra come le nuove tecnologie digitali siano
delle tecnologie abilitanti perchè permettono alle persone di fare da sole, in proprio, a costi bassi, al
contrario dell'economia industriale.
Intervista a Y.Benkler
Maggio 11, 2007Milano, 10 maggio 2007. Yochai Benkler presenta il suo libro “La ricchezza della
Rete” e noi lo intervistiamo a lungo su produzione orizzontale, commons, proprietà intellettuale e
social software Ecco le sue risposte:
Cos’è la produzione orizzontale? ( commons-based peer production)? Come trasforma il
modo in cui guardiamo all’economia?
Gli elementi in gioco sono due: i commons (beni comuni) e la produzione orizzontale. La parola
“commons” si riferisce a un modo di organizzare le risorse. Strade, marciapiedi e piazze sono
commons. Significa che tutti possono usarli entro un dato insieme di norme oppure senza alcuna
regola, senza chiedere il permesso a nessuno. La produzione basata sui beni comuni può essere
commerciale o non commerciale. Per esempio, qualcuno che tiene uno spettacolo in piazza per
raccogliere denaro sta seguendo un modello commerciale basato sui commons: sta usando uno
spazio comune, a differenza di quello che farebbe in un teatro.“Produzione orizzontale” si riferisce
invece a un fenomeno di cooperazione su larga scala dedicato a un certo progetto o problema. Ciò
che caratterizza la produzione orizzontale è che essa rappresenta un modello alternativo di
organizzare la gente, rispetto a quelli delle aziende e del mercato. Più che rispondere al comando
manageriale o al sistema dei prezzi, i produttori orizzontali (i pari) organizzare le loro attività
tramite motivazioni sociali e comunicazione.L’avvento della produzione basata sui commons in
generale, e della produzione orizzontale in particolare, crea un nuovo settore all’interno
dell’economia dell’informazione e della conoscenza. Dà vita a nuove fonti di competizione per le
imprese consolidate, ma anche a nuove opportunità per quelle imprese che sapranno adattarsi
abbastanza rapidamente. I desideri che esaudisce sono vecchi, come il bisogno di enciclopedie, ma
lo fa in forme nuove. Inoltre fornisce alle persone cose completamente nuove, in particolare forme
di espressione tramite parole, suoni e immagini.
In che modo libertà di espressione e libertà politiche possono essere migliorate da media
digitali open access e many-to-many (da molti a molti)?
Ciò che conosciamo, il modo in cui conosciamo, quello che pensiamo del mondo e il modo in cui
riusciamo a immaginarlo sono cruciali per la libertà individuale e la partecipazione politica. Il fatto
che oggi così tanta gente possa parlare, e che si stia raggruppando in reti di citazione reciproca,
come la blogosfera, fa sì che per ogni individuo sia più facile farsi ascoltare ed entrare in una vera
conversazione pubblica. Al contempo, sulla Rete ci sono un sacco di sciocchezze. Ma incontrare
queste assurdità è positivo. Ci insegna a essere scettici, a cercare riferimenti incrociati e più in
generale a trovare da soli ciò che ci serve. La ricerca di fonti differenti è un’attività molto più
coinvolgente e autonoma rispetto alla ricerca della risposta da parte di un’autorità. Quindi ora,
quando entriamo nel mondo, adottiamo due atteggiamenti politicamente interessanti. Innanzitutto
vediamo le cose con gli occhi di chi può commentare ciò che vede in una piattaforma politica di un
certo peso. E lo facciamo con uno sguardo da critici scafati, invece che da credenti.
Quali forze politiche, in Europa e America, stanno supportando produzione sociale, libertà
digitali e riduzione della protezione monopolistica garantita da brevetti e copyright?
Credo che ci troviamo di fronte all’emergere di un movimento per l’accesso globale alla conoscenza
che rappresenta la risposta alle spinte degli anni Ottanta e Novanta in direzione dell’estensione di
brevetti e copyright in ogni aspetto dell’innovazione e della creatività e della loro integrazione nel
sistema globale del commercio tramite gli accordi Trips all’interno della Wto. Di questo movimento
fanno parte alcune alleanze sorprendenti. Un primo elemento è costituito dalle organizzazioni
tradizionali della società civile: associazioni di consumatori e gruppi per i diritti civili che
percepiscono l’importanza della partecipazione degli individui alla produzione del loro ambiente
informazionale.Un altro elemento è rappresentato dai programmatori. L’emergere del movimento
del free software ha portato più di un milione di informatici, soprattutto negli Stati uniti e in Europa,
alla consapevolezza di subire gli effetti di copyright e brevetti, e li ha politicizzati in modi che per
gli ingegneri del passato sarebbero risultati estremamente atipici. Gli scontri su musica e video,
insieme alle disponibilità su larga scala di strumenti che rendono qualunque teenager un potenziale
creativo (e un potenziale criminale) hanno guidato il movimento degli studenti per la free culture e
quello dei Creative Commons.Al contempo, le maggiori aziende di tecnologia dell’informazione
stanno comprendendo che l’ecosistema legale all’interno del quale si trovano a operare sta alzando i
costi che esse devono sopportare senza dar loro alcun vantaggio reale. Molte aziende di It si trovano
a spendere milioni di dollari in brevetti che hanno solo scopi difensivi, e a doversi preoccupare della
possibilità che i loro standard vengano trafugati dal possessore di un brevetto, oppure che chi
detiene un diritto di proprietà intellettuale li citi in giudizio per cifre astronomiche a causa di una
tecnologia da loro sviluppata. Anche alcuni paesi in via di sviluppo, in particolare il Brasile, hanno
cominciato a fare causa comune con questa grande coalizione sotto la sigla “A2K” – Access to
Knowledge. Si tratta di un movimento molto simile a quello apparso negli Stati uniti tra il 1999 e il
2001, quando organizzazioni della società civile e compagnie tecnologiche cominciarono a formare
una lobby che per quasi un decennio ha prevenuto l’approvazione di leggi o regolamenti che
facessero gli interessi degli incumbent dell’economia industriale dell’informazione. Inoltre è simile
al movimento europeo contro la brevettazione del software. Ma ora sta raggiungendo dimensioni
globali.
Il 2006 è stato l’anno del social networking e del web 2.0. Credi che finiranno come la bolla
delle dot-com o che sia davvero possibile cavarne un sacco di denaro, come sembrano inclini a
credere Google e Murdoch?
Innanzitutto, non dovremmo confondere l’esplosione del folle stock market con un fallimento del
decollo di internet. Non scordiamocelo: Google, Amazon, eBay, eccetera sono tutte aziende sorte
prima e durante e rimaste in vita dopo l’esplosione della bolla. Le pratiche sociali ed economiche
dell’industria dell’informazione sono cambiate e il risultato è stato un aumento enorme del valore e
della produttività delle aziende. Non prendiamo la Bolla 1.0 soltanto come un periodo di inganni. È
stata una fase di crescita, innovazione e sviluppo enormi, che è finito soffocato da avidità e follia. È
la seconda parte, non la prima, a essere collassata. Credo insomma che web 2.0 e social networking
rappresentino una combinazione di innovazioni fondamentali – alle quali dedico molto spazio nel
mio libro – e di inganni e tentativi di fare un sacco di soldi in poco tempo. Prima o poi, non
possiamo sapere se fra uno o cinque anni, un bel po’ di gente diventerà avida e sconsiderata e
perderà denaro. Ma ciò non renderà meno reali o meno stabili i nuovi modelli economici,
l’innovazione e la crescita. Per cui sì, credo che ci sia un intero schieramento di modelli economici
attorno ai commons informazionali. Alcune imprese stanno già facendo grandi guadagni, altre ci
stanno gettando un sacco di soldi e c’è molta incertezza. Ma il cambiamento cruciale in direzione
della decentralizzazione del capitale umano e fisico e le opportunità rappresentate dall’integrazione
di questi esseri umani dotati di nuove capacità all’interno delle pratiche sociali ed economiche ci
saranno ancora.
I principi della teoria liberale della giustizia richiedono che le amministrazioni pubbliche e le
istituzioni educative utilizzino software libero/open source?
No, non credo che si debbano derivare scelte così specifiche dalla teoria liberale. Le
amministrazioni hanno molte responsabilità, incluso assicurare l’uso di software eccellente, per
esempio utilizzabile dai bambini come dagli studenti. Se il free software non risponde a queste
caratteristiche, allora è legittimo che un governo decida di non usarlo. Però credo che le istituzioni
pubbliche ed educative non debbano avere pregiudizi in favore dei modelli proprietari solo perché
esistono e sono stati oggetto di attività di lobby. Devono verificare le applicazioni disponibili e
pensare a lungo termine, riflettendo sull’alfabetizzazione informatica e su quanto la differenza tra i
due modelli possa aumentare nei ragazzi la consapevolezza relativa a ciò che stanno usando e a
come usarlo. Se una piattaforma rischia di diventare monopolistica o se le capacità del sistema
vengono azzoppate affinché aderiscano alle esigenze dell’industria, come nel caso dei cosiddetti
trusted system, allora sì: l’uso di sistemi aperti acquisisce grande valore e può diventare una
strategia cruciale. Tuttavia ci sono altri aspetti che supportano l’adozione del free software. Lo
sviluppo, per esempio, è fortemente influenzato dal software libero perché quest’ultimo facilita la
nascita di un mercato interno per i programmatori, che possono quindi partecipare al mercato
globale dei servizi software in modo più immediato rispetto a quanto potrebbero fare se
conoscessero solo i sistemi proprietari e quindi per l’accesso alla competizione dipendessero dalle
licenze. La Difesa e i sistemi della sicurezza nazionale tendono a utilizzare free software, in parte
per la sua robustezza, ma soprattutto perché garantisce indipendenza da qualunque azienda e
possibilità di adattare il software alle proprie esigenze. Per riassumere: ci sono molti buoni motivi
per adottare il software libero, nelle scuole e in qualunque altro luogo. Dal mio punto di vista,
l’impegno a favore di un’infrastruttura comune e aperta, incluso il livello del software, è coerente
con l’impegno in direzione della libertà e della giustizia. Questo impegno dovrebbe informare le
decisioni pubbliche, ma non sono certo che debba sovrastare altre considerazioni politiche.