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I principi di giustizia
“A vantaggio di ciascuno”
“Egualmente aperte”
Principio di efficienza Principio di differenza
Eguaglianza come carriere Sistema della libertà Aristocrazia
aperte ai talenti naturale naturale
Il principio di efficienza
Figura 3
Figura 4
Se d’altra parte si considera la retta a 45° come il luogo della
distribuzione egualitaria (ciò presuppone un’interpretazione
cardinale interpersonale del diagramma, il che non era presupposto
nelle osservazioni precedenti), e se ciò costituisce un’ulteriore base
per la decisione allora, tutto sommato, il punto D può risultare
preferibile sia a C sia a E: è infatti molto più vicino a questa linea. Si
può anche decidere di preferire un punto interno F a un punto di
efficienza come C. In realtà, nella giustizia come equità i principi di
giustizia sono prioritari rispetto alle considerazioni di efficienza e
perciò, approssimativamente, i punti interni che rappresentano
giuste distribuzioni saranno in generale preferiti a quelli di
efficienza che rappresentano distribuzioni ingiuste. Naturalmente
la Figura 4 descrive una situazione molto semplice, e non può certo
essere applicata alla struttura di base. Ora, il principio di
efficienza può essere applicato alla struttura fondamentale in
riferimento alle aspettative di individui rappresentativi.9 Possiamo
perciò affermare che un assetto di diritti e doveri nella struttura di
base è efficiente se e solo se è impossibile cambiare le regole per
ridefinire lo schema dei diritti e doveri, così da aumentare le
aspettative di alcuni individui rappresentativi (almeno uno), senza
al tempo stesso diminuire quelle di nessun altro individuo
rappresentativo (almeno uno). Queste modifiche devono
naturalmente essere compatibili con gli altri principi. Ciò significa
che, operando dei cambiamenti nella struttura di base, non è
permessa la violazione del principio di eguale libertà e del requisito
delle posizioni aperte ai talenti. È invece possibile alterare la
distribuzione della ricchezza e del reddito, e le modalità in cui
quanti sono in posizione di autorità e responsabilità regolano le
attività cooperative. Compatibilmente con i vincoli di libertà e di
accessibilità, l’allocazione di questi beni primari può essere regolata
così da modificare le aspettative degli individui rappresentativi. Un
assetto della struttura di base è efficiente quando non v’è alcun
modo per cambiare tale distribuzione con l’obiettivo di migliorare
le prospettive di alcuni senza peggiorare quelle degli altri.
Assumerò che vi siano molti assetti efficienti della struttura di
base. Ciascuno di essi specifica una divisione dei vantaggi della
cooperazione sociale. Il problema è quello di scegliere tra loro, di
trovare una concezione della giustizia che individui una di queste
distribuzioni non solo in quanto efficiente, ma anche in quanto
giusta. Se riusciamo in ciò, saremo andati al di là della semplice
efficienza, ma in un modo compatibile con essa. Ora è naturale
mettere alla prova l’idea per cui, fino a quando il sistema sociale è
efficiente, non c’è motivo di occuparsi della distribuzione. In questo
caso, tutti gli assetti efficienti vengono considerati egualmente
giusti. Naturalmente un’idea di questo genere sarebbe piuttosto
bizzarra nel caso di una allocazione di particolari beni a individui
conosciuti. Nessuno supporrebbe che il fatto che un certo uomo
possieda tutto possa risultare indifferente dal punto di vista della
giustizia. Ma una tale idea sembra egualmente irrazionale anche
per la struttura di base. Può perciò accadere che, in certe
condizioni, non vi possa essere una significativa riforma della
schiavitù senza una diminuzione delle aspettative di alcuni
individui rappresentativi, per esempio dei proprietari terrieri, nel
qual caso la schiavitù è efficiente. Però può anche darsi che, nella
medesima situazione, non possa essere cambiato un sistema basato
sul lavoro libero senza che ne risultino diminuite le aspettative di
alcuni altri individui rappresentativi, per esempio dei lavoratori
liberi, così che questo sistema risulta parimenti efficiente. Più in
generale, ogniqualvolta una società è divisa in un dato numero di
classi, supponiamo pure che sia possibile ottenere un massimo
rispetto a ciascuno dei suoi individui rappresentativi. Questi
massimi ci danno, per lo meno, le varie posizioni efficienti, poiché
non ci si può allontanare da nessuna di esse con lo scopo di
aumentare le aspettative di altri, senza diminuire quelle di
quell’individuo rappresentativo rispetto al quale è stato definito il
massimo. Così ciascuno di questi estremi è efficiente, anche se
certamente non possono essere tutti giusti, e nello stesso modo.
Ora, queste riflessioni mostrano soltanto ciò che sapevamo già
da tempo, cioè che il principio di efficienza non può fungere da solo
come concezione della giustizia.10 Di conseguenza, deve essere
integrato in qualche modo. Nel sistema della libertà naturale, il
principio di efficienza viene limitato da alcune istituzioni di sfondo;
nel caso in cui questi vincoli sono soddisfatti, ogni distribuzione
efficiente che ne risulta viene accettata come giusta. Il sistema della
libertà naturale sceglie una distribuzione efficiente più o meno in
questo modo. Supponiamo di sapere dalla teoria economica che,
nelle normali condizioni che definiscono un’economia di mercato
concorrenziale, il reddito e la ricchezza verranno distribuiti in una
maniera efficiente, e che la particolare distribuzione efficiente che
risulta in un dato periodo di tempo è determinata dalla
suddivisione iniziale dei beni, vale a dire del reddito, della
ricchezza, dei talenti naturali e delle capacità. A partire da ciascuna
distribuzione iniziale si ottiene un risultato efficiente determinato.
Accade quindi che, se dobbiamo accettare come giusto, e non
soltanto come efficiente il risultato, dobbiamo accettare la base su
cui viene determinata, nel tempo, la distribuzione iniziale dei beni.
Nel sistema della libertà naturale la distribuzione iniziale è
regolata dagli assetti impliciti nella concezione delle carriere aperte
ai talenti (come sono state prima definite). Questi assetti
presuppongono uno sfondo di eguale libertà (come è specificato dal
primo principio) e una libera economia di mercato. Essi richiedono
un’eguaglianza formale delle opportunità, nel senso che tutti
possiedono almeno gli stessi diritti legali di accesso a tutte le
posizioni sociali vantaggiose. Ma dato che non vi è una tendenza a
preservare l’eguaglianza o la similarità delle condizioni sociali, se
non in quanto ciò è necessario alla conservazione delle istituzioni
di sfondo richieste, in ogni periodo di tempo la distribuzione
iniziale dei beni è fortemente influenzata dalle contingenze naturali
e sociali. Per esempio, l’attuale distribuzione della ricchezza e del
reddito è l’effetto cumulativo di precedenti distribuzioni dei beni
naturali, cioè dei talenti naturali e delle abilità, a seconda che esse
siano sviluppate o meno, e che il loro uso sia stato favorito o
ostacolato nel tempo da circostanze sociali e da contingenze casuali
quali la sfortuna e la buona sorte. L’ingiustizia più evidente del
sistema della libertà naturale sta intuitivamente nel fatto che esso
permette che le quote distributive siano eccessivamente influenzate
da tali fattori così arbitrari da un punto di vista morale.
Ciò che chiamo interpretazione liberale tenta di correggere
questo punto aggiungendo al requisito delle carriere aperte ai
talenti l’ulteriore condizione del principio dell’eguaglianza di
opportunità. L’idea è che le posizioni non devono essere aperte
soltanto in un senso formale, ma che tutti dovrebbero avere
un’equa possibilità di ottenerle. A prima vista non è molto chiaro
ciò che si intende con questa frase, ma si può affermare che coloro
che possiedono abilità e inclinazioni simili dovrebbero avere le
medesime possibilità di vita. Più precisamente, supponendo che
esista una distribuzione delle doti naturali, quelli che hanno lo
stesso grado di abilità e talento e la medesima intenzione di
servirsene, dovrebbero avere le stesse prospettive di riuscita,
indipendentemente dal loro punto di partenza all’interno del
sistema sociale. In ogni settore della società dovrebbero esservi,
approssimativamente, eguali prospettive di cultura e di successo
per tutti coloro che sono dotati e motivati nello stesso modo. Le
aspettative di coloro che hanno le stesse abilità e aspirazioni non
dovrebbero essere influenzate dalla classe sociale di appartenenza.11
Di conseguenza, l’interpretazione liberale dei due principi
cerca di mitigare l’influenza che le contingenze sociali e il caso
naturale hanno sulle quote distributive. Per ottenere questo
risultato è necessario imporre alcune ulteriori condizioni strutturali
fondamentali al sistema sociale. Gli assetti di libero mercato
devono essere posti all’interno di una struttura di istituzioni
politiche e giuridiche che regoli le tendenze globali degli eventi
economici e assicuri le condizioni sociali necessarie per un’equa
eguaglianza di opportunità. Gli elementi di questa struttura sono
piuttosto conosciuti, anche se può valere la pena di ricordare
quanto sia importante prevenire un’eccessiva accumulazione di
proprietà e di ricchezze, e d’altro canto garantire eguali opportunità
di istruzione per tutti. Le possibilità di acquisire conoscenza
culturale e capacità lavorative non dovrebbero dipendere dalla
posizione di classe e, allo stesso modo, il sistema scolastico,
pubblico o privato, non dovrebbe tenere conto delle barriere di
classe.
Anche se appare chiaramente preferibile al sistema della
libertà naturale, la concezione liberale risulta intuitivamente
carente. Infatti, anche se essa serve perfettamente a eliminare
l’influsso delle contingenze sociali, permette tuttavia che la
distribuzione della ricchezza e del reddito sia determinata dalla
distribuzione naturale delle abilità e dei talenti. Entro i limiti
concessi dagli assetti di sfondo, le quote distributive sono decise
dall’esito della lotteria naturale; e questo risultato è arbitrario da un
punto di vista morale. Non vi è ragione di permettere che la
distribuzione del reddito e della ricchezza sia stabilita dalla
distribuzione delle doti naturali piuttosto che dal caso storico o
sociale. Inoltre il principio di equa opportunità può essere
realizzato soltanto in modo imperfetto, almeno fino a quando
esisterà qualche forma di famiglia. Il grado in cui le capacità
naturali si sviluppano e raggiungono il compimento è influenzato
da ogni genere di condizioni sociali e di atteggiamenti di classe.
Persino la volontà di tentare, di impegnarsi, e di essere quindi
meritevoli, come lo si intende normalmente, dipende da una
famiglia felice e dalle circostanze sociali. In pratica è impossibile
assicurare eguali probabilità di riuscita e di cultura a coloro che
possiedono doti simili e possiamo di conseguenza voler adottare un
principio che riconosca questo fatto e tenda anche a mitigare gli
effetti arbitrari della lotteria naturale stessa. Il fatto che la
concezione liberale fallisce su questo punto ci incoraggia a cercare
una diversa interpretazione dei due principi di giustizia.
Prima di passare alla concezione dell’eguaglianza democratica,
occorre soffermarsi su quella dell’aristocrazia naturale. Da questo
punto di vista non si compie alcuno sforzo per regolare le
contingenze sociali al di là di ciò che è richiesto dall’eguaglianza
formale di opportunità; i vantaggi delle persone dotate di maggior
talento naturale devono però essere ristretti a coloro che
migliorano la situazione dei settori più poveri della società. L’ideale
aristocratico si applica a un sistema che, almeno dal punto di vista
giuridico, è aperto, e la situazione vantaggiosa di coloro che sono
favoriti da esso è considerata giusta solo nel caso in cui coloro che
stanno sotto ricevono di meno quando ciò accade anche a coloro
che stanno sopra.12 In questo modo l’idea di noblesse oblige viene
ricondotta alla concezione dell’aristocrazia naturale.
Sia la concezione liberale sia quella dell’aristocrazia naturale
sono instabili. Se infatti ci facciamo influenzare, nella
determinazione delle quote distributive, o dalle contingenze sociali
o dal caso naturale, saremo costretti a preoccuparci, riflettendoci,
dell’influenza dell’altro: da un punto di vista morale essi sembrano
egualmente arbitrari. Così, per quanto ci allontaniamo dal sistema
della libertà naturale, non possiamo essere immediatamente
soddisfatti dalla concezione democratica. Questa concezione deve
ancora essere spiegata; e inoltre, nessuna delle osservazioni
precedenti costituiva un argomento a favore di tale concezione,
poiché in una teoria contrattualista in senso stretto tutti gli
argomenti devono essere posti in termini di ciò su cui sarebbe
razionale accordarsi nella posizione originaria. Ma in questo
momento mi interessa preparare la strada all’interpretazione
favorita dai due principi in modo che questi criteri, e
particolarmente il secondo, non sembrino troppo radicali al lettore.
Ho tentato di mostrare che, se cerchiamo una loro interpretazione
che tratta egualmente ognuno come una persona morale, e che non
valuta la quota che ciascuno ha dei benefici e degli oneri della
cooperazione sociale secondo la propria fortuna sociale o naturale,
l’interpretazione democratica rappresenta la scelta migliore delle
quattro alternative. Con queste considerazioni a mo’ di prefazione,
passo ora a questa concezione.
Il principio di differenza
La connessione a catena
D. Concezioni intuizioniste
1. Confrontare l’utilità totale con il principio della
distribuzione egualitaria
2. Confrontare l’utilità media con il principio di riparazione
3. Valutare un elenco di principi prima facie (come
appropriati).
= c.
Questa conseguenza del principio classico sembra mostrare
che esso verrebbe rifiutato dalle parti, a favore del principio della
media. I due principi sarebbero equivalenti solo nell’ipotesi che il
benessere medio diminuisca sempre in maniera sufficientemente
rapida (al di là di un certo punto), in modo che non vi siano tra di
loro gravi contrasti. Ma questa assunzione sembra discutibile. Dal
punto di vista delle persone nella posizione originaria, sembrerebbe
più razionale accettare una specie di livello minimo per mantenere
un certo benessere medio. Poiché le parti tendono a favorire i
propri interessi, esse non desiderano rendere massima la somma
totale di soddisfazione in ogni occasione. Assumerò quindi che
l’alternativa utilitarista più plausibile rispetto ai due principi di
giustizia è quella della media e non il principio classico.
Intendo ora occuparmi del modo in cui le parti giungono al
principio della media. Il ragionamento è assolutamente generale, e,
nel caso fosse valido, si sottrarrebbe completamente al problema di
come presentare le alternative: il principio della media sarebbe
riconosciuto come l’unico candidato accettabile. Immaginiamo una
situazione in cui un singolo individuo razionale può scegliere la
società di cui entra a far parte.23 Per chiarire le idee, supponiamo
innanzitutto che i membri di queste società abbiano tutti le
medesime preferenze. Facciamo poi l’assunzione che queste
preferenze soddisfino condizioni che ci mettono in grado di
definire una misura cardinale di utilità. Inoltre, ogni società
possiede le stesse risorse, e la medesima distribuzione di doti
naturali. Ciò nonostante, individui con doti differenti hanno redditi
diversi: e ogni società possiede una politica di ridistribuzione che,
se spinta al di là di un certo limite, indebolisce gli incentivi,
diminuendo così la produzione. Supponendo che politiche diverse
siano seguite in queste società, in che modo potrà il singolo
individuo scegliere di quale società far parte? Se conosce con
precisione le proprie capacità e i propri interessi, e se ha
un’informazione particolareggiata su queste società, egli può essere
in grado di prevedere il benessere cui va incontro quasi
sicuramente in ciascuna di esse. Per decidere su questa base, non
ha alcun bisogno di fare calcoli probabilistici.
Questo caso, però, è abbastanza particolare. Modifichiamolo
così gradualmente in modo che assomigli sempre di più a quello di
un individuo nella posizione originaria. Quindi, supponiamo
innanzitutto che l’ipotetico membro non sia sicuro sul genere di
ruolo che le sue doti gli permetteranno di ricoprire nelle diverse
società. Se assume che le sue preferenze sono le stesse di tutti gli
altri, egli può raggiungere una decisione tentando di massimizzare
il proprio benessere atteso. Calcola le sue prospettive in una data
società, considerando come utilità alternative quelle dei membri
rappresentativi della società in questione, e come probabilità di una
posizione la stima delle sue possibilità di raggiungerla. Le sue
aspettative sono quindi definite da una somma di utilità valutate in
base agli individui rappresentativi, vale a dire dall’espressione ∑piui,
dove pi è la probabilità del suo ottenere la posizione i-esima, e ui
l’utilità dell’individuo rappresentativo corrispondente. Egli sceglie
in questo modo la società che offre le prospettive migliori.
Diverse altre modifiche rendono la situazione più simile a
quella della posizione originaria. Assumiamo che il nostro ipotetico
membro non sappia nulla sia riguardo alle sue capacità, sia al posto
che assumerà probabilmente in ognuna delle società. Ciò
nonostante, si può ancora fare l’assunzione che le sue preferenze
siano le stesse delle persone di queste società. Supponiamo ora che
egli continui a ragionare in modo probabilistico, sostenendo di
avere le stesse possibilità di essere un qualunque individuo (cioè
che la sua possibilità di rientrare in un tipo qualsiasi di individuo
rappresentativo corrisponda alla percentuale di società che questo
individuo rappresenta). In questo caso le sue prospettive sono
ancora identiche a quelle dell’utilità media in ogni società. Queste
modifiche hanno reso, infine, i suoi guadagni previsti in ogni
società pari al benessere medio di quest’ultima.
Finora, abbiamo assunto che tutti gli individui abbiano
preferenze simili, che appartengano o meno alla stessa società. Le
loro concezioni del bene sono più o meno le stesse. Se
abbandoniamo questa assunzione molto restrittiva, compiamo il
passo finale che ci conduce a una variazione della situazione
iniziale. Non si sa niente, per così dire, riguardo alle preferenze
particolari dei membri di queste società e della persona che decide.
Vengono esclusi sia questi fatti sia le conoscenze riguardo alla
struttura di queste società. Il velo di ignoranza è ora completo. Si
può però ancora immaginare che l’ipotetico nuovo venuto ragioni
più o meno allo stesso modo di prima. Egli assume che esista una
eguale probabilità di essere chiunque, con le stesse preferenze,
capacità e posizione sociale di quella persona. Ancora una volta, le
sue prospettive sono ottimali nella società che ha la maggiore
utilità media. Possiamo accertarcene nel modo seguente: sia n il
numero di persone in una società. Siano u1, u2,..., un i loro livelli di
benessere. L’utilità totale è allora ∑ui, e quella media ∑ui/n.
Supponendo che un individuo possieda un’uguale probabilità di
essere chiunque, la sua prospettiva è: 1/n u1 + 1/n u2 + ...+ 1/n un o
∑ui/n. Il valore della prospettiva è identico all’utilità media.
Se mettiamo da parte il problema dei confronti interpersonali
di utilità e se le parti sono considerate come individui razionali che
non hanno avversione al rischio e seguono il principio di ragione
insufficiente nel calcolare le probabilità (il principio implicito nei
precedenti calcoli di probabilità), allora l’idea della situazione
iniziale porta naturalmente al principio della media. Scegliendolo,
le parti massimizzano il loro benessere previsto, considerato da
questo punto di vista. La teoria contrattualista, in qualche sua
interpretazione, fornisce quindi un argomento che favorisce il
principio della media rispetto a quello classico. In effetti, in quale
altro modo sarebbe possibile spiegare il principio della media?
Dopotutto, esso non è una dottrina teleologica in senso stretto,
come invece accade al punto di vista classico, e gli manca quindi
buona parte del fascino intuitivo posseduto dall’idea di
massimizzare il bene. Probabilmente, chi sostiene il principio della
media desidera parimenti affidarsi alla teoria contrattualista,
perlomeno entro questi limiti.
Nel corso della discussione precedente ho assunto che l’utilità
sia intesa nel senso tradizionale come soddisfazione di desideri e
che i confronti cardinali interpersonali siano considerati possibili.
Tuttavia questa nozione di utilità è stata in gran parte abbandonata
dalla teoria contemporanea, è stata ritenuta troppo vaga per giocare
un ruolo essenziale nello spiegare il comportamento economico.
Oggi, solitamente, l’utilità viene intesa come un modo per
rappresentare le scelte degli agenti economici e non come una
misura della soddisfazione. Il tipo principale di utilità cardinale
riconosciuta al momento attuale deriva dalla costruzione di
Neumann-Morgenstern che, a sua volta, è basata su scelte tra
prospettive che implicano rischio (§49). Diversamente dalla
nozione tradizionale, questo tipo di misura prende in
considerazione gli atteggiamenti verso il rischio e non tenta di
fornire una base per confronti interpersonali. Nonostante ciò, è
ancora possibile formulare il principio di utilità media usando
questo tipo di misura: si suppone che le parti in posizione
originaria, o qualche variante di questa, abbiano una funzione di
utilità alla Neumann-Morgenstern e che formino le loro prospettive
in accordo con essa.24 Naturalmente, alcune precauzioni vanno
prese: per esempio, queste funzioni di utilità non possono prendere
in considerazione ogni tipo di valutazione ma devono riflettere la
stima delle parti su ciò che promuove il loro bene. Se fossero invece
influenzate da altre ragioni, non saremmo al cospetto di una teoria
teleologica.
Una volta che queste restrizioni siano prese sul serio, tuttavia,
si può formulare una teoria dell’utilità media che tenga in
considerazione l’alto livello di avversione al rischio che, a quanto
sembra, ogni persona normale debba avere in posizione originaria;
e quanto più grande è tale avversione al rischio, tanto più questa
forma di principio di utilità assomiglierà al principio di differenza,
almeno al momento in cui è in discussione la valutazione di
benefici economici. Naturalmente, questi due principi non sono la
stessa cosa, poiché ci sono diverse differenze importanti tra loro.
Ma c’è questa somiglianza: rischio e incertezza da una prospettiva
generale opportunamente definita conducono entrambe le opzioni
teoriche a pesare maggiormente i vantaggi di coloro la cui
situazione è meno fortunata. Di fatto, una ragionevole avversione al
rischio può essere così grande, una volta che i rischi enormi
connessi alla posizione originaria siano pienamente apprezzati, che
la valutazione utilitarista può essere, ai fini pratici, tanto vicina al
principio di differenza da rendere la maggiore semplicità di questo
ultimo come decisiva a suo favore.