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Silva Lorenzo N°.

matricola: 886491

TECNICHE DELLA PITTURA


MEDIEVALE

A un primo sguardo, le molteplici opere pittoriche medievali a noi note sembrano


presentare tecniche così varie tra loro da essere difficilmente riassumibili in un’ottica
generale, ma uno studio più accurato permette di evidenziarne la sostanziale
omogeneità di base.
Questa riscoperta delle tecniche della pittura medievale (e dei materiali impiegati
nella loro messa in pratica) è però relativamente recente, essendo iniziata con
l’Illuminismo per poi prendere piede nel corso dell’Ottocento.
La seconda metà del Novecento ha però segnato un’ennesima
svolta in questo ambito, in particolare nelle attività di restauro,
influenzate dai nuovi media (la televisione) che portano a
concepire l’opera pittorica come bidimensionale e omogenea, al
pari di una fotografia.
Questo approccio porterà a eseguire opere di restauro senza tener
conto della ricchezza estetica intrinseca a ogni materiale e a ogni
tecnica, uniformando le superfici sia dal punto di vista cromatico
che da quello volumetrico (vengono stirate e levigate le
superfici, perdendo così tracce di velature e pennellate necessarie
a restituire l’aspetto originario alle opere).
Occorre quindi acquisire maggior consapevolezza circa le Vetrata raffigurante l'abate Suger
tecniche e i materiali in uso nel Medioevo, così da comprenderne di Saint-Denis, autore di un
resoconto delle opere presenti
meglio l’importanza e il ruolo fondamentale che ricoprivano nella suddetta abbazia, dove è
all’interno delle composizioni. chiara l'attenzione riservata a
materiali e tecniche nel
Medioevo.
I MATERIALI

Innanzitutto, è necessario fare una distinzione tra le possibili strutture portanti di un


manufatto, che possono essere di materiali molto diversi tra loro: una parete (pittura
murale), una tavola di legno (pittura su tavola) oppure una pergamena (pittura
libraria).

Tutti questi supporti necessitano di una preparazione, ovvero di strati intermedi che
si frappongano tra essi e la pellicola pittorica, così da facilitare il processo di pittura e
successiva conservazione, impedendo il ritiro delle sostanze leganti del colore verso
gli strati più interni.
Prima della stesura della preparazione, ogni supporto veniva opportunamente levigato
per eliminarne le irregolarità e in particolare la pergamena (così come l’ancor più
pregiato velino), ottenuta da pelli animali, prima di divenire tale doveva subire bagni
di calce, essicamento e speciale levigatura con pietra pomice.

Ogni supporto richiede una particolare preparazione:

 PARETE: qui consisteva nella stesura di


più intonaci (che poteva essere anticipata
da un vero e proprio rattoppamento in
malta del muro, chiamato rinzaffo), via
via sempre più fini, costituiti
principalmente da sabbia e grassello (calce
spenta).
Così facendo si sfrutta il processo di
carbonatazione della calce, che porta a
una cristallizzazione della stessa insieme ai
pigmenti stesi su di essa al contatto con la CO2 dell’aria.
La stesura di più intonaci (in epoca antica potevano essere anche sei o sette)
permetteva però anche di trattenere l’umidità, rallentando l’indurimento degli
stessi e consentendo migliori rese visive e conservative.
Nel Medioevo però gli intonaci sono quasi sempre solo due, uno grossolano
detto arriccio e un altro più fine che viene steso sopra di esso, detto
tonachino.
Questo influenzerà considerevolmente la resistenza dei manufatti.
 TAVOLA: in questo caso avveniva prima
una stesura di colla animale a caldo, a cui
seguiva l’applicazione di una tela sottile e
infine una spennellatura con gesso o argille
bianche (a seconda delle disponibilità) e
colla a caldo, eseguita su più strati sempre
più sottili.
Questo avrebbe consentito al dipinto di
adattarsi alle modificazioni della tavola che,
in quanto costituita da un materiale vivo
come il legno, era inevitabilmente soggetta
a fenomeni di espansione e contrazione e al
conseguente rischio di formazione di crepe.

“Maestà di Santa Trìnita”, dipinto su tavola


del Cimabue, databile tra il 1280 e il 1300.

 PERGAMENA: per quanto riguarda la pergamena, il processo atto a renderla


tale (descritto precedentemente) forniva una base perfetta per la pittura e non
necessitava quindi di ulteriori preparazioni.

Una volta avvenuta la preparazione del supporto, si poteva procedere alla stesura del
colore, definito in pittura come la miscela di pigmenti e di un opportuno legante posti
in sospensione in un fluido (generalmente acqua nella pittura medievale).
I pigmenti sono sostanzialmente polveri
insolubili nei solventi più comuni (come
appunto l’acqua) di origine organica o
inorganica.
Solitamente i pigmenti inorganici, derivati da
minerali, sono più coprenti, mentre quelli
organici lo sono meno.
Una categoria a parte è occupata dalle
lacche, aventi la particolarità di essere
Alcuni esempi di pigmenti inorganici.
composte da un misto tra pigmenti organici e
inorganici, molto rinomate per la loro resa pittorica ma anche soggette a un facile
deterioramento se esposte alla luce (gli esempi meglio conservati sono infatti visibili
all’interno nei codici miniati).
Per quanto riguarda i leganti, anche qui si dividono in inorganici (un esempio è la già
citata calce) e organici (come l’uovo) e talvolta un particolare pigmento richiede un
particolare legante per essere stabile.
I leganti svolgono molteplici funzioni, infatti generano coesione tra le particelle di
pigmento, permettono adesione al supporto, proteggono il pigmento dall’aria e
conferiscono una differente resa ottica al pigmento, a secondo di come vengono
utilizzati.

Infine, in alcuni casi sembra che venissero applicate vernici per meglio conservare i
dipinti su tavola e su pergamena, le quali andavano dalle più “pesanti”, a base di
resine e gomme, alle più delicate, costituite solamente da albume.
In ogni caso, era ben noto che quest’ultimo passaggio uniformasse eccessivamente le
opere, annullando l’effetto variegato tipico dell’arte medievale, dove l’immagine era
costruita accostando parti dalle differenti caratteristiche ottiche, ed era per questo
motivo procrastinato o direttamente evitato.
LE TECNICHE

Dopo una doverosa introduzione focalizzata sui materiali, ora si possono trattare le
tecniche vere e proprie in cui questi ultimi vengono impiegati.

PITTURA MURALE

L’affresco, usato sovente come sinonimo di dipinto murale, costituisce una tecnica
pittorica ben definita che ha origine nell’antichità classica per poi essere ripresa
interamente solo nel Trecento.
Tra l’VIII e il XIII secolo, invece, l’esecuzione sommaria dell’affresco porta alla
riscoperta di più antiche e laboriose tecniche, ovvero quelle della pittura a calce.

PITTURA A CALCE
Poteva essere sostanzialmente operata in tre modi:

 “Mezzo fresco”: colori sciolti in latte di calce venivano applicati


sull’intonaco già seccato, che per lo scopo veniva bagnato nuovamente,
attivando una leggera carbonatazione che tratteneva i pigmenti sulla superficie
del dipinto.

 Ritocchi a calce: variante del “mezzo


fresco” che veniva adottata per le
rifiniture finali, era apprezzata
particolarmente per la stesura di colori
chiari, in quanto il bianco della calce
donava una certa luminosità naturale alle
scene.
Ovviamente questi ritocchi non
venivano inglobati nell’intonaco,
essendo applicati a secco, e per questo la
loro durabilità nel tempo era
decisamente limitata (sono riconoscibili
come sottili pellicole sovrapposte al
tonachino).
Particolare dell’Ascensione nella chiesa inferiore di
San Clemente a Roma, realizzata con la tecnica dei
ritocchi a calce (IX sec.).
 Pittura su scialbo di calce: questa tecnica si è sviluppata in funzione di un
particolare metodo di stesura
del tonachino, la pontata.
Questo metodo implicava la
stesura di grandi porzioni di
tonachino, spesso
corrispondenti alla
dimensione dei ponteggi
appunto, costringendo quindi
a lavorare in squadra per
poter finire l’opera prima del
seccamento dell’intonaco.
Le pontate venivano allora a
loro volta suddivise in unità
di lavoro più piccole, che
Particolare del sottotetto della cattedrale di Aosta, sul volto del
venivano poi man mano personaggio a destra si intravede la linea verticale della pontata
scialbate, permettendo così di (1050 circa).
operare con più calma e
precisione.

Purtroppo queste tecniche a secco, in molti casi, non hanno resistito all’umidità e al
tempo, cosa molto grave se si pensa che queste finiture erano destinate agli artisti
principali.

PITTURA A FRESCO
In seguito alla stesura dell’arriccio, su di
esso veniva eseguito (non sempre a dire il
vero) un disegno preparatorio in
nerocarbone ripassato a tempera, detto
sinopia, che fungeva da guida per l’intera
composizione, proprio come veniva fatto
per la composizione dei mosaici.
Il tonachino ricopre poi la sinopia, venendo
steso seguendo il sistema delle giornate,
che consiste nell’intonacare porzioni di
arriccio che il pittore era in grado di
Dettaglio di un affresco raffigurante l’Annunciazione e la
Visitazione, in Santa Maria Foris Portas a Castelseprio,
dove il cedimento del tonachino ha rivelato la sinopia
sottostante (X sec.).
terminare
approssimativamente
nell’arco di una
giornata, così da
assicurarsi di lavorare
sempre a fresco.
Questo sistema,
soppiantato dalle
sopracitate pontate nel
corso del Medioevo,
ritorna in uso tra la fine
del Duecento e l’inizio
del Trecento (grazie sia
alla rivoluzione di
Giotto che alla Particolare della Deposizione di Giotto, nella cappella degli Scrovegni a Padova, dove è
riscoperta del mosaico): ben visibile la suddivisione dell’opera in giornate a causa del cedimento delle parti a
secco atte a nasconderla (1303-5).
gli intonaci delle scene
non appaiono più divisi nettamente in grandi campiture rettangolari, bensì seguono i
profili di personaggi e architetture.
Una volta preparata la giornata di tonachino, su di essa veniva tracciato il disegno, o
con una punta metallica, oppure con ocra gialla e rossa.
Preparato il disegno, si poteva procedere all’applicazione del colore vero e proprio,
partendo dalle campiture di base, in generale: grigio per i cieli, blu o bianco per gli
sfondi, ocra o verde chiaro per gli incarnati (i cui contorni venivano poi ripassati con
il verdaccio, composto da bianco, ocra rossa e una punta di nero).
Per finire, era opzionale l’applicazione di una finitura, il cui scopo era quello di
conferire lucentezza e compattezza alle superfici (un metodo talvolta in uso
consisteva nello schiacciare l’intonaco, così da richiamare in superficie l’umidità e
garantendo un’asciugatura più lenta e graduale).

PITTURA A TEMPERA (SU TAVOLA, MURO E PERGAMENA)

La pittura a tempera offre uno spessore quasi nullo sulle superfici su cui viene
applicata, a differenza di quella a calce.
In epoca medievale il termine tempera si riferiva a una miscela da temperare,
ovvero, come accennato in precedenza, a dei pigmenti da diluire in un liquido
legante.
Usata in particolare per la pittura su tavola e su pergamena, la pittura a tempera è
caratterizzata da campiture di colore nette e ben definite.
La tecnica a tempera implicava prima di tutto la realizzazione delle dorature, se
contemplate, secondo uno di questi modi:
 A bolo: usato su tavola per vaste superfici, consisteva nella stesura di
un’argilla molto elastica (il bolo) su cui venivano poi incollate sottili foglie
d’oro.
 A missione: impiegato su muro e in piccole superfici su tavola, consisteva
nell’applicazione di una sostanza oleoresinosa (la missione) su cui veniva fatta
aderire la foglia d’oro.
 A conchiglia: riservato per piccoli dettagli e alla pittura libraria, era
caratterizzata dall’uso di polvere d’oro unita a una sostanza legante, stesa poi a
pennello.
Essendo ovviamente la doratura molto dispendiosa in termini economici, per i
manufatti più grandi veniva impiegata la lamina di stagno dorata, oppure quella
d’argento, la quale però era soggetta a ossidazione nel tempo.
Alla doratura poteva precedere la cosiddetta ingessatura, ovvero l’applicazione di
forme in rilievo in gesso, per aggiungere tridimensionalità e profondità all’opera.

Stesura del colore: le tempere risultano composte da pigmenti più fini rispetto a
quelli utilizzati nelle tecniche dell’affresco.
Il colore poteva essere steso “a corpo”, quindi con impasto più coprente destinato
solitamente alle campiture di base, oppure sotto forma di “velatura”, caratterizzata
da un pigmento meno concentrato e quindi
semitrasparente, adatto a definire luci e ombre (le
lacche erano i pigmenti preferiti per questo scopo).
La pittura a tempera poteva dare il meglio di sé
quando applicata su tavola, in quanto poteva
beneficiare di una gamma di colori più brillanti
rispetto a quelli impiegati nell’affresco e non era
vincolata a esigenze architettoniche tipiche della
pittura murale.
Nella produzione di codici miniati, caratterizzati da
decorazioni pittoriche atte a far risaltare il testo
denominate miniature, il colore veniva diluito
molto e i leganti utilizzati erano molto delicati,
come ad esempio l’albume.

Esempio di miniatura.
Questa varietà di tecniche e composizioni dei colori, applicati su supporti così
differenti tra loro, mostrano la volontà che accompagna gli artisti dall’Alto Medioevo
fino alla fine del Duecento di imitare in particolare i paliotti, le elaborate decorazioni
in oro e avorio degli altari, che presentano incredibili giochi di luce favoriti dalla loro
tridimensionalità.
Dal Trecento in poi sarà però proprio la pittura a identificarsi come tecnica-pilota,
guidando di lì in poi la ricerca artistica con i suoi particolari stili e tecniche.

Paliotto dell’altare di Sant’Ambrogio a Milano, nell’omonima basilica (IX sec.).


I PROCEDIMENTI

Non è sempre facile identificare il confine tra tecnica e procedimento, in quanto


entrambi sono strettamente legati l’uno all’altro , il secondo però può essere definito
come il processo attraverso cui una tecnica viene messa materialmente in pratica.
Attraverso l’osservazione diretta dei manufatti e lo studio comparato delle fonti, si è
in grado di definire quello che, pur non essendo da considerarsi la norma, poteva
verosimilmente essere lo schema tipico dell’esecuzione pittorica in epoca medievale.
Il lavoro era solitamente suddiviso in mansioni, soprattutto nel caso di grandi opere
come potevano essere i cicli di affreschi, e al capocantiere erano destinati compiti
quali la progettazione del disegno, la stesura di particolari campiture considerate più
importanti (ad esempio i volti) e gli eventuali ritocchi e finiture.
Solitamente nella realizzazione di una campata operavano più persone
contemporaneamente, alternandosi e procedendo generalmente da sinistra verso
destra e dall’alto verso il basso (anche se nel caso di manufatti di dimensioni
particolarmente imponenti, si poteva lavorare contemporaneamente da sinistra verso
destra e da destra verso sinistra).

La stesura del colore, indipendentemente da quale fosse la tecnica adottata, avveniva


per sovrapposizione, seguendo uno schema tipico simile a questo:
1. disegno sul tonachino (solitamente in ocra gialla);
2. campitura di base;
3. contorno (solitamente rosso-bruno);
4. prima ombra, costituita dalla continuazione verso l’interno della figura dei
tratti del contorno;
5. mezza tinta, anche detta seconda ombra;
6. prima luce, più chiara della campitura;
7. seconda luce, spesso bianca e realizzata con tecnica a calce;
8. ripasso finale di profili e contorni con colore bruno.

In particolare, a fresco erano stesi generalmente il disegno preparatorio, le campiture


di base e le prime ombre, successivamente a partire dalle seconde ombre era tutto
realizzato a secco o all’occorrenza a tempera.
Via via che ci si sposta verso gli strati più esterni, come già accennato il colore
diventa man mano più deperibile e per questo è difficile che elementi come i contorni
bruni finali giungano intatti fino a noi.
Per questo motivo attualmente tendiamo spesso a sottostimare la varietà di tinte che
dovevano caratterizzare la tavolozza di un pittore medievale, intuibile solamente
attraverso un’accurata osservazione di ciò che resta (e nella maggioranza dei casi
resta ben poco) delle finiture, che insieme gli eventuali trattamenti lucidanti erano
determinanti nella restituzione del messaggio visivo voluto dagli artisti e dai
committenti.

Particolare della Fuga in Egitto di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova,
dove la perdita dello strato di tempera azzurra sul mantello della Vergine ha rivelato
una particolare costruzione delle ombre e dei volumi sottostante (1303-5).

In conclusione, sebbene si possano individuare tecniche e procedimenti


verosimilmente comuni a ogni maestranza, come descritti in questo elaborato,
bisogna tenere presente che ogni scuola e, in particolare, ogni singolo artista ha
sicuramente contribuito con le sue intuizioni e il suo personale stile a plasmare un
panorama pittorico così variegato come quello medievale, che sicuramente non ha
mancherà di riservare ulteriori scoperte in futuro.
Fonti

 S.B.TOSATTI, “Le tecniche della pittura medievale”, in “L’arte medievale nel


contesto (300-1300): funzioni, iconografia, tecniche”, P.PIVA (a cura di),
Milan, 2019.

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