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Marcello Carlino Su alcuni principii della poesia vociana (da

Marcello Carlino
Su alcuni principii della poesia "vociana"
da:
Le parole maledette di un musicista mancato (note in margine
ai "Frammenti lirici" di Clemente Rebora)
in "Studi novecenteschi", IX, 23 (giugno 1982)
MARCELLO CARLINO

LE PAROLE MALEDETTE
DI UN MUSICISTA MANCATO
(note in margine ai Frammenti lirici di Clemente Rebora)

L'area della poesia «vociana» consta, si sa, di una evidente


segnaletica perimetrale: a definirla concorrono il rapporto
preferenziale, problematico sempre, con le proposte, cultu-
rali e di organizzazione della cultura, elaborate tendenzial-
mente dalla rivista fiorentina e «un tono di dramma interiore
che a volta a volta increspa o sconvolge, in stilemi inediti e
con un'ansia innovativa di specie non formale, la scrittura»1
e ancora, fenomeno suggestivo quanto denso di significato,
una serie impressionante di concordanze biografiche, siglate,
in limite, dall'interdizione, momentanea o definitiva, della
parola poetica. Altri ha già scandito, coniugandole prospetti-
camente in un destino collettivo2, le tappe di singole tragedie
esistenziali. Dalla morte, per malattia segnatamente «roman-
tica», di Boine al suicidio di Michelstaerdter; dalla
possessione esoterica di Onofri alla latenza di Sbarbaro,
ristrettosi in colloquio solitario con i licheni; dal silenzio di
Rebora prima della conversione (e dal cilicio dell'autocensu-
ra dopo) alla follia di Campana, sembra, in effetti, che la
nemesi si abbatta sui poeti di ambiente vociano, punendo la
ybris di una esasperata ricerca di nuovi sfondi per il discorso
letterario. Per molti di essi la necessità, sintonizzata sul
progetto di Prezzolini, di rinvenire altri spazi per i ruoli
intellettuali (ridotti ed espropriati i vecchi anche dalla
gestione politico-ideologica di Giolitti, in una fase storica-
mente complessa dello sviluppo capitalistico) e l'ansia di

1. A. Romanó, Introduzione , in «La Voce» (1908-1 9 1 4), Torino, Einaudi, 1960,


p. 71. Romano ricicla una considerazione di R. Serra, Le lettere , Roma, La Voce,
1920, p. 27.
2. Il destino, ideologico e stilistico, di un espressionismo italiano. Cfr. E. Sangui-
neti, Introduzione , in Poesia del Novecento y Torino, Einaudi, 1969, pp. LIII-LVI.

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Marcello Carlino

perseguire l'obiettivo dalla specificità della letteratura,


colmandone la separatezza e proiettandola verso una
condizione di piena incidenza sull'esistente (con il risultato
di una forzatura totalizzante delle sue proprietà e di un
contraddittorio assorbimento - o sostituzione - nel testo
della vita) conducono ad una lacerazione delle funzioni della
scrittura e ad una dissipazione, fino alla impraticabilità, dei
suoi istituti. Da quel limite ogni en arrière, riduttivo e
consolatorio, appare impossibile; ed oltre non c'è spazio che
per il silenzio o per una replica, disillusa ed autocritica,
straniata sul versante del gioco, dell'itinerario di quella
disperata ricerca e del suo tragico fallimento. È il farsi di
quell'itinerario, del resto, ad «increspare» la pagina di acre
sperimentalismo, traduzione del dramma storico di una
generazione più che di irrelati «drammi interiori»3.
Proprio dal fondo dell'interdizione della scrittura emergo-
no segnali, volendo intermittenze del rimosso, che fanno
luce retrospettiva e non solo ribadiscono la complemèntarità
sostanziale di atteggiamenti e aspettative, ma ritagliano e
verificano, dentro l'area della poesia vociana, convergenze
specifiche di programmi e di poetiche. Così dal silenzio di
Rebora, coperto da una frenetica missione di educazione
mistica e religiosa, e dal silenzio di Campana, agito nel
manicomio di Castelpulci dal mormorio inesausto dell'inco-
scio, si levano, nemmeno troppo sorprendentemente,
messaggi coincidenti, quasi gli ultimi sprazzi significativi di
un'esperienza di simile matrice. L'uno confida per lettera:
« Urge in me l'esigenza di figliare le cose (attuarle); e le
parole mi servono come l'alfabeto Morse per comunicare a
distanza con simboli intellegibili a chi sa e conosce in termini
di vita le comunicazioni»4; l'altro risponde a Carlo Padani:

3. Ipotesi, l'ultima, largamente dominante presso la critica reboriana e insinuante-


si anche là dove (G. Bàrberi Squarotti, Tre note su Rebora , in Astrazione e
realtà , Milano, Rusconi e Paolazzi, 1960) vengono puntualmente sintetizzate le
destrutturazioni formali e le innovazioni letterarie operate nei Frammenti linci.
4. Lettera di Reborâ a Bice Rusconi citata nella prefazione (di L. Anceschi) a D.
Banfi Malaguzzi, Il primo Rebora, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1964.

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Le parole maledette di un musicista mancato

«Sono occupato in comunicazioni! Sto in comunicazione


con Milano; una specie di grammofono, di telegrafo senza
fili [...] Sono in una trafila suggestiva [...] Con la macchina
dell'introspezione posso rifare l'esistenza del soggetto
stesso, inserire la vita di nuovo nel corpo suggestionato»5.
Medesima è la data, 1926, e medesima è la metafora, di
natura tecnologico-scientifica, a suggerire la pienezza
incontrovertibile della funzione enunciata, che identifica la
parola negata alla letteratura di Rebora e l'io-parola («la mia
vita è di parlare continuamente») di Campana, chiuso ormai
il ciclo dei Canti orf id: sotto la metafora l'anafora di un
attivismo sregolato, tentato finanche da una sorta di volontà
di potenza, in cui l'io (e la memoria sublimata della
condizione intellettuale) riafferma il suo mandato di homo
faber. L'oggetto del desiderio, spostato sull'asse di una
prassi senza determinazione, svela e doppia l'ottativo
d'origine dei Frammenti lirici e dei Canti orfici. «Figliare le
cose» e «rifare l'esistenza del soggetto» (l'individuale e
l'universale) connotano a posteriori il programma di quella
comunicazione senza fili che la scrittura poetica ambisce ad
essere. Di fatto Rebora e Campana tendono a trasferire senza
mediazioni la poesia nel territorio dell'esistenza. In una
scommessa tragica con un universo che sembra assommarsi
nel modo di produzione, essi vogliono la poesia campo di
produzione assoluta, della coscienza e della realtà. E mirano
a rimuovere ogni diaframma (di qui i residui metaforici,
anche futuristi, dell'alfabeto Morse e del telegrafo senza fili)
che separa dalle cose: la poesia, necessariamente eteronoma,
non parla, è la realtà. La consapevolezza dell'ingrommarsi
della parola, comunque e sempre, al di là del tentato
superamento della parola, genera infine il silenzio, screziato
dai rigurgiti urlanti della mancanza.
[...]Un'utopia siffatta comporta, in progress, due disposizioni
peculiari: l'insofferenza per le regole codificate della scrittu-

5. Cfr. C. Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana , Milano, Guanda,


1978 (I ed. 1938, con l'aggiunta della «vita» di Evaristo Boncinelli) pp. 32-35.

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