in M.Carlino-F.Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento (1900-1915), Firenze, La Nuova Italia, 1986
La clownerie affascina Palazzeschi, tanto da suggerirgli lo scoppiettio
di «lazzi, frizzi, girigogoli e ghiribizzi» che intitola la raccolta di alcune prove giovanili1. Il clown è spesso alla ribalta. Già mascherato da sal timbanco in Chi sono?, mette da parte qualunque melanconia e sciorina tutto il suo repertorio di trovate in Lasciatemi divertire e in L'antidoto- re, che un po’ frettolosamente sono stati annoverati tra gli omaggi di un sodale convinto al futurismo. Pagliacci e pagliacciate abbondano nelle poesie, in specie quelle intorno agli anni Dieci, e fanno da accompagna mento musicale per II codice di Perelà, l’antiromanzo dell’uomo di fumo. Chi sia il clown di Palazzeschi; se sprigioni il comico in tutta la sua carica rivoluzionaria e liberatoria o se, invece, appartenga a quel carne vale “moderno” che si riconosce effimero e ormai teatralmente ristretto nelle gabbie della finzione; se abbia la leggerezza profetica di uno Zara thustra o se porti sulle spalle, come Enea Anchise, un fagotto drammati co, il cadavere di un passato pregno di sacralità, è questione cruciale e preliminare. Per cercare di dirimerla, non è vano scomodare un altro gioco cir cense, che lo scrittore toscano descrive, attribuendoselo, in Equilibrio 2. Il vero volto del clown, insomma, si dà riflesso anche nello speccfuo del gesto atletico di un funambolo, o meglio di un equilibrista sul filo. Co stui si guarda bene dallo sbilanciare, fino alla caduta, il baricentro; anzi conserva come «punto d’attrazione» il centro di un circolo ideale e solo così fa le sue mosse, percorre i «raggi», le vie indicategli dal desiderio e dal piacere, e se ne ritrae a precipizio, per riguadagnare l’equilibrio. Il poeta-equilibrista non si limita a cullare, occupando il centro, «una na turale pigrizia». Pratica piuttosto, come gli aggrada, esperienze difformi e ne conosce le differenze relative e sa selezionarle e può staccarsene; mentre colui che cammina pericolosamente sulla circonferenza, «se co- desto infelice [...] volesse passare dall’amore all’odio o al disprezzo [...] dovrebbe inoltrarsi nelle cose più disparate che a lui in quel momento non interessano né poco né punto». Duttilità e agilità sono alle basi del 115
gioco d’equilibrio, circense e letterario, che può essere replicato, senza
stancare, «una seconda, una terza, una centesima volta se vogliamo». Palazzeschi, che è solito utilizzare schemi binari, distingue qui due modi di praticare la letteratura: quello dei «camminatori di circonferen ze» e quello degli «equilibristi», il suo. I primi si addentrano, lasciandosi invischiare, nelle cose che volgono in scrittura; i secondi, che pendolano a più non posso, calcolano criticamente («la via è sempre davanti al nostro sguardo») e fanno terreno bruciato delle loro agili conquiste e scansano ogni consequenzialità logica e saltabeccano di qua e di là, a capriccio, e sono sempre come en passant. Gli equilibristi conoscono l’arte di straniare; il centro da cui guardano e a cui si ancorano è il punto d’equilibrio dello straniamento, con tutto ciò che esso comporta: ironia e autoironia, critica e autocritica, leggerezza come investimento libidico e come prassi letteraria sorniona e autodemistifìcante. Che sia fatto proprio così il baricentro di Palazzeschi lo conferma il capitolo di contrappunto ad Equilibrio, Varietà \ Prerogativa di Dio, vi si spiega, è la sua infinita capacità di creazione. Il diverso e il continua- mente nuovo sono il suo do di petto. All’uomo, per contro, non compete altro che l’imitazione e la riproduzione, elette a sistema nella civiltà con temporanea, che tutto fabbrica in serie e dove ogni anomalia, ogni dissi- miglianza come ogni forchetta storta, è un prodotto malriuscito. Per la poesia nessun salvacondotto o privilegio di casta: era già mimesi di na tura, quando cantava una notte «dolce e chiara e senza vento», e ora l’ingranaggio della riproducibilità tecnica l’ha risucchiata e neutralizzata e stritolata. Profanata, la sua sorte è di decadenza piccolo-borghese e di rovina: nessuno domanda «più nulla dai poeti». Senza prescinderne, an zi scontandola, quel che resta da fare è toglierle ogni maschera, volteg giando a mo’ di equilibristi e facendo coincidere il posto in cui «si è stati messi», la miseria della condizione della letteratura, con il centro da cui si irraggia la dinamica dello straniamento. Il disegno ambizioso di restituire alla scrittura ruoli "demiurgici” e funzioni "creatrici” è ormai tramontato definitivamente e, comunque, nulla ha più da spartire con il programma ideologico-letterario di Palaz zeschi, che si struttura, viceversa, sulla coscienza della crisi e sulla pos sibilità di testimoniarla ospitandola, tra frizzi e ghiribizzi demistificanti, nel corpo del testo. Il clown ha dunque un sosia, un’ombra sempre al suo fianco: l’equilibri sta. Questi stabilisce le regole del gioco, lo straniamento, e quello vi recita il suo strabiliante copione di lazzi. Insomma, anche la «varietà» di Palazzeschi ha il suo «equilibrio», la sua strategia unitaria. E il clown vi si assoggetta, investito e relativizzato lui pure da una giusta dose di autoironia.
La filigrana di Equilibrio si può ritrovare, ben leggibile, in quelle tappe
canoniche, in quegli apici che scandiscono, quasi tracciandone diacronica mente le coordinate di poetica, la produzione testuale palazzeschiana. Per tutte una sola matrice: il lieve gesto di attraversamento dell’equilibrista. 116
Chi sono4 segnala una precisa scelta di campo. Lo stereotipo del
l’autoritratto, che scorona il poeta e lo nega, la professione di impoetici tà, con cui la poesia si dichiara, sono di marca crepuscolare e rinviano esplicitamente, quasi citandoli, a Gozzano e Corazzini. Crepuscolare è il binomio di nostalgia e malinconia che, come in una movenza da quadri glia, va ad incrociare il binomio di tavolozza e tastiera, metafore dei paradigmi espressivi della scrittura. E crepuscolare è il sottofondo di ironia, su un registro gozzaniano, che corre lungo tutto il testo, culmi nando nella figura del «saltimbanco dell’anima mia»: ancora il clown che si mette in piazza, il pagliaccio che piange e che ride e che, sotto sotto, fa il verso a se stesso. Tuttavia, se sovrapposto allo schema d’au toritratto d’uso crepuscolare, Chi sono? evidenzia presto la sua alterità ed eccedenza. Per restare agli autoritratti controcorrente, Lucini, con il proprio autoscoronamento e con la denuncia della marginalità storica della funzione del poeta, accende la miccia di un’esplosione verbale che diventa consapevole aggressione, ideologica e politica. Palazzeschi gonfia la parodia, soffio dopo soffio, finché essa produce straniamento, anche dei momentanei prelievi crepuscolari. La follia, una parola chiave del poema, non solo è il cardine semantico delle sequenze frastiche (e la follia, infatti, è l’unico lemma che la penna del poeta-non poeta sappia scrivere: follia come scrittura, dunque), è anche la dominante, straluna ta, sulla quale si intona il linguaggio, iterando ossessivamente quell’«ani- ma mia» e battendo all’esasperazione la stessa rima. Sicché è posta in dubbio, nella lente di una divertita follia, la messa a nudo del cuore («Io metto una lente / davanti al mio cuore / per farlo vedere alla gente») e si sorpassa, smascherandolo, il patetico che aleggia in climi crepuscolari, tra fanciulli che piangono ed enunciano l’impossibilità della poesia. Sic ché è invalidata l’accoppiata nostalgia-malinconia e contraddetta la ten tazione regressiva che potrebbe esalarne; e, mentre riesuma uno stile contaminato e irriso da cadenze prosastiche, come già nell’area dei cre puscolari, la follia lascia in dote all’ironia una verve iconoclasta, matura per misurarsi con più rischiose pratiche d’avanguardia. Eccolo il centro del gioco dell’equilibrista, che percorre il raggio diretto al crepuscolari smo pronto a ritrarsene: in forza di una follia straniata e straniante, parrebbe, aggiustando una celebre definizione, che Palazzeschi qui si erga a quinta colonna di una rivolta avanguardistica in nuce, entro il crepuscolarismo. [...]