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Marcello Carlino

[da] Varietà e saltimbanchi

in M.Carlino-F.Muzzioli,
La letteratura italiana del primo
Novecento (1900-1915),
Firenze, La Nuova Italia, 1986

La clownerie affascina Palazzeschi, tanto da suggerirgli lo scoppiettio


di «lazzi, frizzi, girigogoli e ghiribizzi» che intitola la raccolta di alcune
prove giovanili1. Il clown è spesso alla ribalta. Già mascherato da sal­
timbanco in Chi sono?, mette da parte qualunque melanconia e sciorina
tutto il suo repertorio di trovate in Lasciatemi divertire e in L'antidoto-
re, che un po’ frettolosamente sono stati annoverati tra gli omaggi di un
sodale convinto al futurismo. Pagliacci e pagliacciate abbondano nelle
poesie, in specie quelle intorno agli anni Dieci, e fanno da accompagna­
mento musicale per II codice di Perelà, l’antiromanzo dell’uomo di
fumo.
Chi sia il clown di Palazzeschi; se sprigioni il comico in tutta la sua
carica rivoluzionaria e liberatoria o se, invece, appartenga a quel carne­
vale “moderno” che si riconosce effimero e ormai teatralmente ristretto
nelle gabbie della finzione; se abbia la leggerezza profetica di uno Zara­
thustra o se porti sulle spalle, come Enea Anchise, un fagotto drammati­
co, il cadavere di un passato pregno di sacralità, è questione cruciale e
preliminare.
Per cercare di dirimerla, non è vano scomodare un altro gioco cir­
cense, che lo scrittore toscano descrive, attribuendoselo, in Equilibrio 2.
Il vero volto del clown, insomma, si dà riflesso anche nello speccfuo del
gesto atletico di un funambolo, o meglio di un equilibrista sul filo. Co­
stui si guarda bene dallo sbilanciare, fino alla caduta, il baricentro; anzi
conserva come «punto d’attrazione» il centro di un circolo ideale e solo
così fa le sue mosse, percorre i «raggi», le vie indicategli dal desiderio e
dal piacere, e se ne ritrae a precipizio, per riguadagnare l’equilibrio. Il
poeta-equilibrista non si limita a cullare, occupando il centro, «una na­
turale pigrizia». Pratica piuttosto, come gli aggrada, esperienze difformi
e ne conosce le differenze relative e sa selezionarle e può staccarsene;
mentre colui che cammina pericolosamente sulla circonferenza, «se co-
desto infelice [...] volesse passare dall’amore all’odio o al disprezzo [...]
dovrebbe inoltrarsi nelle cose più disparate che a lui in quel momento
non interessano né poco né punto». Duttilità e agilità sono alle basi del
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gioco d’equilibrio, circense e letterario, che può essere replicato, senza


stancare, «una seconda, una terza, una centesima volta se vogliamo».
Palazzeschi, che è solito utilizzare schemi binari, distingue qui due
modi di praticare la letteratura: quello dei «camminatori di circonferen­
ze» e quello degli «equilibristi», il suo. I primi si addentrano, lasciandosi
invischiare, nelle cose che volgono in scrittura; i secondi, che pendolano
a più non posso, calcolano criticamente («la via è sempre davanti al
nostro sguardo») e fanno terreno bruciato delle loro agili conquiste e
scansano ogni consequenzialità logica e saltabeccano di qua e di là, a
capriccio, e sono sempre come en passant. Gli equilibristi conoscono
l’arte di straniare; il centro da cui guardano e a cui si ancorano è il
punto d’equilibrio dello straniamento, con tutto ciò che esso comporta:
ironia e autoironia, critica e autocritica, leggerezza come investimento
libidico e come prassi letteraria sorniona e autodemistifìcante.
Che sia fatto proprio così il baricentro di Palazzeschi lo conferma il
capitolo di contrappunto ad Equilibrio, Varietà \ Prerogativa di Dio, vi
si spiega, è la sua infinita capacità di creazione. Il diverso e il continua-
mente nuovo sono il suo do di petto. All’uomo, per contro, non compete
altro che l’imitazione e la riproduzione, elette a sistema nella civiltà con­
temporanea, che tutto fabbrica in serie e dove ogni anomalia, ogni dissi-
miglianza come ogni forchetta storta, è un prodotto malriuscito. Per la
poesia nessun salvacondotto o privilegio di casta: era già mimesi di na­
tura, quando cantava una notte «dolce e chiara e senza vento», e ora
l’ingranaggio della riproducibilità tecnica l’ha risucchiata e neutralizzata
e stritolata. Profanata, la sua sorte è di decadenza piccolo-borghese e di
rovina: nessuno domanda «più nulla dai poeti». Senza prescinderne, an­
zi scontandola, quel che resta da fare è toglierle ogni maschera, volteg­
giando a mo’ di equilibristi e facendo coincidere il posto in cui «si è
stati messi», la miseria della condizione della letteratura, con il centro
da cui si irraggia la dinamica dello straniamento.
Il disegno ambizioso di restituire alla scrittura ruoli "demiurgici” e
funzioni "creatrici” è ormai tramontato definitivamente e, comunque,
nulla ha più da spartire con il programma ideologico-letterario di Palaz­
zeschi, che si struttura, viceversa, sulla coscienza della crisi e sulla pos­
sibilità di testimoniarla ospitandola, tra frizzi e ghiribizzi demistificanti,
nel corpo del testo.
Il clown ha dunque un sosia, un’ombra sempre al suo fianco: l’equilibri­
sta. Questi stabilisce le regole del gioco, lo straniamento, e quello vi recita il
suo strabiliante copione di lazzi. Insomma, anche la «varietà» di Palazzeschi
ha il suo «equilibrio», la sua strategia unitaria. E il clown vi si assoggetta,
investito e relativizzato lui pure da una giusta dose di autoironia.

La filigrana di Equilibrio si può ritrovare, ben leggibile, in quelle tappe


canoniche, in quegli apici che scandiscono, quasi tracciandone diacronica­
mente le coordinate di poetica, la produzione testuale palazzeschiana. Per
tutte una sola matrice: il lieve gesto di attraversamento dell’equilibrista.
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Chi sono4 segnala una precisa scelta di campo. Lo stereotipo del­


l’autoritratto, che scorona il poeta e lo nega, la professione di impoetici­
tà, con cui la poesia si dichiara, sono di marca crepuscolare e rinviano
esplicitamente, quasi citandoli, a Gozzano e Corazzini. Crepuscolare è il
binomio di nostalgia e malinconia che, come in una movenza da quadri­
glia, va ad incrociare il binomio di tavolozza e tastiera, metafore dei
paradigmi espressivi della scrittura. E crepuscolare è il sottofondo di
ironia, su un registro gozzaniano, che corre lungo tutto il testo, culmi­
nando nella figura del «saltimbanco dell’anima mia»: ancora il clown
che si mette in piazza, il pagliaccio che piange e che ride e che, sotto
sotto, fa il verso a se stesso. Tuttavia, se sovrapposto allo schema d’au­
toritratto d’uso crepuscolare, Chi sono? evidenzia presto la sua alterità
ed eccedenza. Per restare agli autoritratti controcorrente, Lucini, con il
proprio autoscoronamento e con la denuncia della marginalità storica
della funzione del poeta, accende la miccia di un’esplosione verbale che
diventa consapevole aggressione, ideologica e politica. Palazzeschi gonfia
la parodia, soffio dopo soffio, finché essa produce straniamento, anche
dei momentanei prelievi crepuscolari. La follia, una parola chiave del
poema, non solo è il cardine semantico delle sequenze frastiche (e la
follia, infatti, è l’unico lemma che la penna del poeta-non poeta sappia
scrivere: follia come scrittura, dunque), è anche la dominante, straluna­
ta, sulla quale si intona il linguaggio, iterando ossessivamente quell’«ani-
ma mia» e battendo all’esasperazione la stessa rima. Sicché è posta in
dubbio, nella lente di una divertita follia, la messa a nudo del cuore («Io
metto una lente / davanti al mio cuore / per farlo vedere alla gente») e
si sorpassa, smascherandolo, il patetico che aleggia in climi crepuscolari,
tra fanciulli che piangono ed enunciano l’impossibilità della poesia. Sic­
ché è invalidata l’accoppiata nostalgia-malinconia e contraddetta la ten­
tazione regressiva che potrebbe esalarne; e, mentre riesuma uno stile
contaminato e irriso da cadenze prosastiche, come già nell’area dei cre­
puscolari, la follia lascia in dote all’ironia una verve iconoclasta, matura
per misurarsi con più rischiose pratiche d’avanguardia. Eccolo il centro
del gioco dell’equilibrista, che percorre il raggio diretto al crepuscolari­
smo pronto a ritrarsene: in forza di una follia straniata e straniante,
parrebbe, aggiustando una celebre definizione, che Palazzeschi qui si
erga a quinta colonna di una rivolta avanguardistica in nuce, entro il
crepuscolarismo.
[...]

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