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Il Controdolore

Guido Guglielmi
Guido Guglielmi
Il controdolore
in "L'udienza del poeta. Saggi su Palazzeschi e il Futurismo",
Torino, Einaudi, 1979

Nel suo (unico) manifesto del ’i3 1 Palazzeschi fa in­


tervenire, a un certo punto, la natura, in veste di «vecchia
pittrice accademica», che alla fine, terminata la sua opera,
apre il suo studio a un cieco. È un esempio dello stile alle­
gorico e indiretto di Palazzeschi, rispetto a quello pro­
grammatico e affermativo di Marinetti. Il quadro per altro
della bella natura, con le sue «mille spasmodiche sfuma­
ture di luci e colori, coi suoi tramonti e colle sue aurore,
mille toni di verde e di azzurro», non potrebbe essere me­
glio qualificato, in termini futuristi, come accademico e
passatista. Chi vede — chi serba cioè misure convenziona­
li — non vede l’essenziale; chi non vede ha invece «il pri­
vilegio di tutte le viste», dà cioè una solenne smentita al
gioco delle apparenze, al teatro della natura, alle confor-
tevoli rappresentazioni che di essa ci facciamo. Cecità e
bellezza, nella loro contraddizione, danno il senso della
risata della natura (e di Dio), di una verità profonda, come
profonda è l’arguzia, che non si lascia definire positiva-
mente e che perciò può manifestarsi solo attraverso il riso.
La gioia di cui discorre Palazzeschi sta appunto nel carat­
tere incongruo degli aspetti della vita, nel fatto che non
mostrano nessuna convenienza reciproca e che sfidano e
vanificano le immagini culturali e razionali che di essi si
possono dare. Il riso è questo processo di vanificazione:
non tanto un fenomeno delle cose stesse, la manifestazione

. 1 II Controdolore apparve sulla rivista «Lacerba» il 15 gennaio 1914;


j* ? r>:eg.?Fre. ora nel volume Marinetti e il futurismo, antologia a cura
di L. De Maria, Mondadori, Milano 1973.
«IL CONTRODOLORE » 109
della loro casualità, quanto un fenomeno di crisi delle rap­
presentazioni (antropomorfiche o umanistiche) delle cose.
Il dieco « à chiusa in sé la gioia di tutte le luci e di tutti i
colori », cosi come iligobbo porta nella schiena « lo scrigno
del suo tesoro dorsale », perché ci significano le intenzioni
segrete della natura, o meglio la sua mancanza di inten­
zioni, e ci distolgono dal suo aspetto «superficiale», dal­
l’idea di un suo regolato e conseguente procedere.
Bisogna insomma credere nell’armonia e nella verità
della vita per compiangere (o deridere) il cieco e il gobbo
e avere in orrore le infinite varietà del deforme; se non ci
crediamo, sono i ciechi, i gobbi e i deformi in generale che
diventano i beniamini della natura, i suoi prorondi rivela­
tori. Nella novella 1/ gobbo (1912)1, la prima (tra le ac­
colte) che Palazzeschi abbia scritto, assumendo una mate­
ria quotidiana, e anzi provinciale, ma rinnovandola nella
luce dell’allegoria, c*è qualcuno - il gobbo M echeri-che
si dissimula invece «il tesoro della sua giocondità» riden­
do e beffandosi degli altri gobbi, costringendoli a vergo­
gnarsi della loro condizione, a non comparire in pubblico,
a nascondersi in casa. La beffa è qui lo strumento di un
autoinganno. C ’è qualcuno che si traveste da persona di­
ritta, per confondere il proprio riso con quello degli uo­
mini «normali», farsi di esso scudo, escludersi dalla fa­
miglia dei deformi, affermare la superiorità della norma.
Il Mecheri vuole rimuovere la verità di cui, una volta sma­
scherato, non saprà darsi pace. E sarà infatti un travesti­
mento di segno contrario à ricondurlo alla verità. Una con­
trobeffa - ad opera di una persona «normale» che si tra­
veste da gobbo - farà le vendette della natura (e degli altri
gobbi). Proprio mentre il Mecheri ride della sua più pura
risata valendo il falso gobbo, questi si toglie la gobba e la
getta sul prato invitandolo a fare altrettanto. La contro­
beffa evidentemente non è diretta al gobbo, alla sua verità
di gobbo, ma intende colpire il suo travestimento, essere
la contraffazione o la parodia di un travestimento. Il tra­
vestimento di secondo grado agisce come uno svelamento.

1 Pubblicata in «La conquista», Roma, 10 febbraio 1912, la novella


fa parte di Tutte le novelle, in Tutte le opere, voi. I cit.
HO L ’ UDIENZA DEL POETA

L ’errore del gobbo Mecheri - che verrà scontato con un


dolore mortale - è quello di aver voluto fare della sua di­
versità non una forza, la forza della verità, che avrebbe
condotto a ridere di coloro che si reputano normali, ma la
vergogna che occorre obliare per potere sopravvivere. La
finta gobba perciò non fa che rimettergli sulla schiena la
consistente gobba che egli aveva disconosciuto in se stesso
e che non aveva acconsentito a vedere se non negli altri.
Avendo impostato la sua vita su una menzogna, è naturale
che lo smascheramento lo trovi impreparato e lo porti alla
rovina. Il gobbo Mecheri finisce miseramente, colpito a
morte dalla verità. La sua tuttavia è una morte teatrale,
«superficiale», tanto più dolorosa, quanto più teatrale e
superficiale (gli spazzini di una grande città lo raccoglie­
ranno morto tra le spazzature). Profondo sarebbe stato al
contrario ridere dell’ordine della natura, delle regole (sup­
poste) della sua produttività, e sciogliersi dal dogmatismo
del senso comune. La novella è un’allegoria della condizio­
ne normale dell’esistenza, del teatro ddla quotidianità (a
nessuno potendo mancare una gobba), e cioè un’allegoria
della dimenticanza profonda della vita.
La verità palazzeschiana è insieme negativa e «comica».
Già la prima proposizione del Controdolore è una defini­
zione negativa di Dio (della verità): «Dio non à né corpo,
né mani, è un puro e semplicissimo spirito». Ma si tratta
ancora di una citazione dal discorso sociale, di una propo­
sizione ancora «seria». Manca ad essa il compimento co­
mico, senza il quale lo spirito di Dio non può non essere
frainteso. Tant’è vero che Dio continua ad essere rappre­
sentato dal senso comune come «un omone grande gran­
de, o nudo, dalle membra e dai muscoli ciclopici, o con un
magnifico peplo e con sandali, con capelli e barba meravi­
gliosi, con l’indice titanico della mano levata in aria di ter­
ribile comando: luce o tenebra, vita o morte». E il subli­
me, il tragico, il grave (la scenografia del dolore) sono per
Palazzeschi effetti facili. Più difficile sarebbe infatti sce­
gliere una scala di grandezze ordinarie e rappresentarsi
Dio con il «tait» al posto del peplo e con «un comune
paio di scarpe walk-over» al posto del coturno. Il discorso
del Controdolore si apre dunque citando parodicamente e
« IL CONTRODOLORE» III

caricaturalmente il discorso della società e toccando la me­


tafisica implicita (il principio di Dio, dell’assoluto, della
verità) die lo fonda positivamente. Lo spirito del Dio di
Palazzeschi è un altro. E per intenderlo bisogna rileggersi
la definizione che ne dà un matto di Villa Rosa nel Codice
di Perelày il matto che viene guardato a vista perché non
attenti alla propria vita:
Dio è tutto, e è nulla. Giacché la perfezione creata dagli
uomini non può essere che il nulla. Hanno voluto dare un
nome al nulla e lo hanno fatto diventare qualche cosa [...].
Dio, che è nulla, non è più nulla dal momento che è Diol.
Il Dio di Palazzeschi è appunto il tutto-niente, la sfera del
possibile («la perfezione creata dagli uomini non può es­
sere die il nulla»), a cui non si confà nessun simbolo rap­
presentativo non perché sia una positività assoluta, ma
perché è una grandezza negativa (un non essere). Ma chi
ha commercio con il niente, oltre che il matto, sappiamo
essere il poeta; ed ecco allora che il nuovo Dio sarà una
proiezione del poeta, un dio-poeta che, proprio come Pa­
lazzeschi, crea per divertimento, gioca con il sole a pallone
e «per vedervisi nelle più ridicole maniere» fa della luna
«il suo specchio comico dalla luce tutta bitorzoluta». Dio
che spartisce luce e tenebra, vita e morte, Dio come arche­
tipo degli archetipi, dà luogo a un Dio come figura della
contingenza, a un dio-nulla, cui può convenire la forma
più comune, la forma di un piccolo uomo che guarda le
creature «ridendo a crepapelle». E se Dio è il garante del­
le nostre finalità morali, un rango pari, ma rovesciato,
spetterà al piccolo dio-clown. Al prindpio che governa il
cielo stellato e la nostra interiorità succederà il principio
ateleologico, la mancanza di finalità. Dio verrà a signifi­
care la sovrana mobilità delle cose e soprattutto l’assenza
della legge.
Leggerezza contro gravità vuol dire qui metafisica ma­
terialistica contro metafisica spiritualistica o idealistica. Il
mondo del Controdolore ha le sue coordinate metafisiche
(malattia, invecchiamento, morte); e Palazzeschi insegna

1 Cfr. Pa l a z z e s c h i , Opere giovanili c it., p. 388.


112 L ’ UDIENZA DEL POETA

a non fare progetti, né fondare aspettative. Le immagini


della dissoluzione sono la verità delle immagini dell’ordi­
ne (della salute, della giovinezza, della bellezza). Ebbene,
si tratterà di evocare l’orrore nel quotidiano. Le ideologie
innalzano e eludono la realtà: si tratterà di lacerarne il ve­
lo. Il riso sarà imo strumento di smascheramento; la pul­
sione distruttiva sarà posta al servizio di un piacere intel­
lettuale, del gusto della trasgressione e del denudamento:
Combattiamo dunque un’educazione falsa e sbagliata, il
rispetto umano, la compostezza, la linea, la bellezza, la gio­
vinezza, la ricchezza, la pulizia, la libertà! Cioè, approfon­
diamo queste cose e troveremo in esse la loro ultima so­
stanza, il vero.
Se il mondo è baroccamente teatro di inganni, si tratta di
spodestare i miti del mondo, di sostituire alla rappresenta­
zione seria, che sarà quella più facile (come più facile era
un’immagine seria di Dio), la rappresentazione grottesca,
alla dignità della verità la verità dell’arguzia, alla superfi­
cialità e illusorietà del formare, la profondità e crudeltà del
deformare. E, insomma, l’irresponsabilità del Witz alle
ragioni dell’oggettività o delle ideologie collettive. Il pia­
cere sarà gusto della dissonanza, della derisione, della cari­
catura. «Ironia: estrema punta della politica dello spi­
rito» 1 - ha scritto altrove Palazzeschi. E una paradossale
pedagogia prowederà nel Controdolore a iniziare gli uo­
mini all’ironia fin dall’infanzia. Bisognerà infatti educare
i bambini a ridere di «tutte le apparenze funebri e dolo­
rose della loro infanzia», fornendo loro dei giocattoli edu­
cativi come «fantocci gobbi, ciechi, cancrenosi, sciancati,
etici, sifilitici, che meccanicamente piangano, gridino, si la­
mentino, vengano assaliti da epilessia, peste, colera, emor­
ragie, emorroidi, scoli, follia, svengano, rantolino, muoia­
no», giocattoli cioè che siano delle autentiche caricature
di quelle apparenze. Imparando a ridere dell’oggetto, si
imparerà a guardarsi dai fantasmi di sventura che esso ci
rappresenta, dalla pena che induce in noi, dai dogmi della
bellezza e della salute alla cui stregua lo valutiamo. Le ano-

1 Pa l a z z e s c h i , Opere giovanili cit., p. 869.


« IL CONTRODOLORE» 113

malie del mondo (il riso delle cose), guarendoci dalla no­
stalgia di ordini e gerarchie, ci introdurranno nel regno
polimorfo, ambiguo, contraddittorio della vita.
11 teatro palazzeschiano è allora un controteatro che di­
storce violentemente e iperbolicamente gli aspetti abituali
e dommatici della quotidianità. Suo scopo vuol essere quel­
lo che si legge al secondo punto del manifesto: «Combat­
tere il dolore fisico e morale con la loro stessa parodia ». La
sua pratica, privando il teatro del mondo del suo apparato
di solennità e importanza, vuole servire a spassionarci del­
le cose. Al posto di pedagoghi gravi e severi si esibiranno
nella scuola due maestre, una idropica e l’altra secca secca
- la coppia dei contrari è un antico topos comico e basso-mi­
metico - che si tireranno capelli e pizzicotti; oppure un
maestro minuscolo e un maestro gigantesco, ma con una
faccia impubere e voce esilissima, che si lascerà bastonare.
Le «giovani coscienze» e i «teneri cervelli» dovranno di­
sporre di maestri di provata competenza e di «specialissi­
me attitudini». Una mattina il maestro avrà una guancia
fasciata per un mal di denti; un’altra mattina la sua fac­
cia sarà gonfia «come per una patatata ricevuta»; oppure
mostrerà un cranio calvo con bitorzoli e piaghe, avrà ogni
sorta di bubboni, sarà gobbo, guercio, zoppo, nonché ro­
manticamente innamorato delle maestre. Oltre le lezioni
di boccacce, si daranno lezioni di lamenti e di pianti di
ogni tipo. Con un tipico paradosso palazzeschiano, la mor­
te sarà anzi insegnata praticamente: l’idropica spirerà con
tre enormi soffi e l’altra maestra («la giraffa») resterà
con le gambe all’insu, ecc. Le esperienze più dolorose, tra
le quali prima di tutto la morte delle persone care, fini­
ranno per diventare le esperienze più gratificanti se si sarà
stati adeguatamente preparati. Serviranno ottimamente
allo scopo i funerali simulati:
... le bare verranno, dopo l’estrema benedizione del cadave­
re, scoperte e trovate piene di dolciumi e figurine per i più
piccoli, o partiranno da esse centinaia di topolini, prima
bianchi, poi grigi, poi neri, o il cadavere sarà di pasta frolla
per i più grandi, di cioccolata per i più piccoli, ed essi se
ne contenderanno allegramente le membra.
ii4 L ’ UDIENZA DEL POETA

Gli ospedali, abitualmente luoghi di mestizia, si trasforme­


ranno inoltre in luoghi di intenso divertimento:
Pensate alla nostra felicità e a quella dei nostri malati
abituati a vedersi intorno facce tetre che rispecchiano la
morte, quando si vedranno intorno negli appositi palchetti
di osservazione, dame gobbe torte guercie, piene di bubbo­
ni, in décolleté, sbirciarli coi loro occhialini; elegantissimi
giovani intignati, senza naso, gobbi, guerci, guardarli riden­
do a crepapelle, come non si sentiranno essi padroni della
gioia che è in fondo alla loro stessa carne?
E naturalmente sarà in occasione dei funerali, questa volta
veri, e nei cimiteri, debitamente attrezzati e modernizzati
(«mediante buvettes, bars, skating, montagne russe, ba­
gni turchi, palestre») che si giungerà a sfruttare tutto il
grottesco del dolore commutandolo nella gioia più pura.
È da dire che la selezione alla rovescia degli aspetti del
mondo quale è messa in opera da Palazzeschi, risponde
alla tecnica della caricatura. Senonché mentre abbassa le
immagini alte, di norma la caricatura conserva la stima del­
la vera nobiltà. Essa schernisce l’oggetto rappresentato
perché è inadeguato al suo ruolo e può sostenerne solo ri­
dicolmente le pretese, ma non mette radicalmente in di­
scussione i canoni culturali. Palazzeschi, al contrario, usa
le immagini basse per deridere le idealizzazioni della cul­
tura, ed anzi la cultura (la sfera dei valori oggettivi) come
struttura idealizzante. Innalzandosi al punto di vista di
una satira libera e sovrana, egli sospende le categorie nor­
mali dell’esperienza che identificano e distribuiscono gli
oggetti secondo scale di valore e di importanza, e stabili­
sce l’uguaglianza di tutti gli aspetti della vita. Ma l’ugua­
glianza di tutte le disuguaglianze è lucianescamente la mor­
te. E al fondo del discorso di Palazzeschi sta indubbiamen­
te il tema del deperimento e della morte. Si può dire che
non si parli che di esso, in una specie di trionfo barocco del
tempo (ma senza redenzione):
Fissate bene in viso la morte, ed essa vi fornirà tanto da
ridere per tutta la vita.
Giovani, la vostra compagna sarà gobba, orba, sciancata,
calva, sorda, sganasciata, sdentata, puzzolente, avrà gesti
« IL CONTRODOLORE»

da scimmia, voce da pappagallo, ecc. [...]. Non vi attardate


sulla sua bellezza [...]. Non vi attardate sull’ora breve della
vostra e della sua giovinezza, rimarrete per forza a galla
sul dolore umano. Approfonditela e ne avrete la vecchiaia,
verità che altrimenti vi rimarrà sconosciuta quando la pos­
sederete e sarete preda della nostalgia.
Voi godrete di più a veder correre tre carogne, rassicu­
ratevi, che tre puro-sangue. Il puro-sangue à in sé la caro­
gna che sarà; cercatela, scuopritek, non attardatevi sulle
sue linee di fugace splendore. Pensate con gioia alla sua e
alla vostra vecchiaia.
Sganasciate, sdrucite mentalmente il mobilio della vo­
stra casa, rompete mentalmente, le vostre scarpe, i vostri
abiti. Prevedete tra i vostri figli un gobbo, o sappiate ve­
dere imo storpio nel vostro figlio più sano, una vecchia ba­
gascia rauca in una giovinetta dalla voce d’usignolo. Appro­
fondite, approfondite sempre; fissate la vecchiaia.
Crearsi fin da giovani il desiderio della vecchiaia, per
non essere prima turbati dal fantasma di essa, poi da quello
di una giovinezza che non potemmo godere. Sapersi crea­
re la sensazione di tutti i possibili mali fisici e morali nel­
l’ora di maggior salute e di serenità della nostra vita.

Il riso è anzi tanto più clamoroso quanto più ossessivo è il


tema. E davvero II Controdolore sembra insegnare come
andare incontro alle moderne figure del disincanto, della
consunzione e della morte senza abbandonarsi al lamento
del mondo perduto. È significativo che un’allusione tra­
sparente rinvii in esso polemicamente alla figura del Leo­
pardi («Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita
a cantare...»), sia pure di un Leopardi oleografico e di
scuola. Se la morte è la verità, una risposta è la risata in­
fernale sulle immagini e sulle sublimazioni della vita. L ’hu-
mour - secondo la nota definizione di Freud - è pena ri­
sparmiata. Esso non sottrae alla coscienza lo spettacolo
doloroso, ma trasforma il dolore in piacere. E Palazzeschi
pare si diverta a bandire eufemismi, accumulare esempi di
orrore, dar la caccia alle deformità, praticare l’iperbole e
l’eccesso, come per scongiurare il pathos. La regola del
gioco è che non si debba arretrare davanti a nessuna im­
ii 6 L ’ UDIENZA DEL POETA

magine; la sua funzione è la difesa della soggettività. At­


traverso l’inscenamento di casi-limite del mondo (il gusto
della mistificazione) si intende preservare l’iniziativa della
soggettività. Il gioco deve disporre all’esperienza dell’og­
getto e proteggere da esso (i funerali finti debbono prepa­
rare ai funerali veri).
Ridere-piangere resta il binomio fondamentale. Un uo­
mo del resto non può veramente ridere se non ha fatto un
lavoro di scavo nel dolore:
Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire
dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo.

Ciò che deve mutare è il rapporto tra i due termini. Il do­


lore apparterrà all’esperienza immediata, al piano della
realtà abituale, sarà un fenomeno di superficie. «Il solilo­
quio di Amleto, la gelosia di Otello, la pazzia di Lear, le
furie di Oreste, la fine di Margherita Gautier, i gemiti di
Osvaldo», saranno appunto stereotipi culturali, miti della
quotidianità, effetti di rappresentazione. Il piacere appar­
terrà alla deformazione, allo smascheramento, al contro­
teatro, alla profondità. La comicità nascerà dalla svaluta­
zione del senso della serietà e, più precisamente, della se­
rietà del senso. Occorrerà infatti affrontare la dimensione
del senso (attraversare la «fittissima macchia di marruche,
spini, pruni, pungiglioni» che Dio ha messo tra gli uomini
e la gioia) per porsi in grado di annullarla; saltare il muro
dei divieti per disporre della libertà del Dio-nulla; sapere
ridere non del riso stesso, della gioia trovata da altri, ma
di ciò che paralizza il nostro coraggio, per godere la gioia
degli eletti. Il piacere sorgerà non da una rimozione del
dolore (non si farebbe che «galleggiare» sul dolore), ma
da una elevazione sul dolore. L ’ossimoro ridere-piangere
sostituirà sia il riso della tradizionale comicità sia il pianto
dei «poltroni, dei paurosi, dei caduti, dei vili, dei vinti».
Palazzeschi non costruisce dunque un mondo alternati­
vo retto da valori opposti rispetto a quelli dominanti. Si
tratta per lui non di cambiare il mondo, ma il modo di por­
si davanti ad esso; non di modificare l’oggetto, ma la co­
scienza dell’oggetto. « Io mi sono sempre, o quasi sempre,
« IL CONTRODOLORE» 117
sentito solo contro tutti; in guerra con tutti e con me stes­
so» \ Sono sue parole del *15, rivolte agli amici interventi­
sti, che ne riassumono bene la posizione. La sua politica
dello spirito milita in favore della soggettività e della sua
solitaria guerra contro gli altri. Ciò che gli è assolutamen­
te estraneo è un’intenzione oggettiva. Sarà allora interes­
sante chiedersi, a questo punto, quale sia la sua posizio­
ne nel futurismo, e, in particolare, in quale rapporto stia
II Controdolore con il manifesto sul Teatro di varietà di
Marinetti2. I due manifesti sono entrambi del ’i3 e la
loro convergenza va senz’altro sottolineata. Lasciando da
parte la questione del dare e dell’avere tra Palazzeschi
e Marinetti, converrà qui stabilire un sistema di iden­
tità e di differenze, verificare una «dialettica del futuri­
smo». «Caricature del dolore e della nostalgia, fortemen­
te impresse nella sensibilità per mezzo di gesti esasperanti
per la loro lentezza spasmodica esitante e stanca; parole
gravi ridicolizzate da gesti comici, camuffature bizzarre,
parole storpiate, smorfie, buffonate». Ecco, per comincia­
re, un punto programmatico del Teatro di varietà che sta­
rebbe perfettamente al suo posto anche nel Controdolore.
Quando Marinetti indica tra i caratteri del teatro di varie­
tà che il futurismo deve far propri «la scomposizione iro­
nica di tutti i prototipi sciupati del Bello, del Grande, del
Solenne, del Religioso, del Feroce, del Seducente e dello
Spaventevole ed anche l’elaborazione astratta dei nuovi
prototipi che a questi succederanno», non c’è dubbio che
il suo discorso continui a correre parallelamente a quello
di Palazzeschi, salvo però per l’ultima parte. Non c’è in­
fatti in Palazzeschi né elaborazione di prototipi alternati­
vi (astratti), né ottimismo pragmatico. Non c’è pars con-
struens. Ci sono se mai controprototipi, rappresentazioni
rovesciate rispetto alle rappresentazioni normali. È già sin­
tomatico che mentre il programma marinettiano di rappre­
sentare «in una sola serata tutte le tragedie greche, fran­
cesi, italiane, condensate e comicamente mescolate», trova

1 Cfr. «Lacerba» «La V o c e » (1914-1916), a cura di G. Scalia, Einaudi,


Torino 1961, p. 353-
2 Per i testi dei manifesti futuristi si rimanda al volume Marinetti e
il futurismo cit.
! x8 L ’ UDIENZA DEL POETA

un riscontro puntuale nel programma palazzeschiano di


volgere tutto il patetico del teatro (Amleto, Otello, Lear,
ecc.) in riso, solo Palazzeschi faccia espressamente appel­
lo al «pubblico intelligente», solleciti cioè un’iniziativa
critica dello spettatore, laddove Marinetti ha in mente una
azione intesa, al di là dello stravolgimento parodico dei
canoni, a generare una fruizione dell’inverosimile e del­
l’assurdo, a coinvolgere il pubblico in una pratica del teatro
materiale e positiva. Di fatto la «pedagogia» di Palaz­
zeschi è subordinata a un programma di verità: il suo di­
scorso ha per fine un sapere («il vero»). Per contro il tea­
tro di Marinetti è subordinato a un programma vitalistico:
il suo discorso ha per fine un fare. Per l’uno si tratta di
spogliare (pirandelHanamente) la vita dei suoi miti, di ini­
ziarsi filosoficamente ad essa (Il Controdolore è anche una
cosmogonia parodica); per l’altro si tratta di agire, secondo
prototipi «astratti», sulla velocità e sull’intensità della
vita, di potenziarne il tenore emozionale.
Palazzeschi vede nelle deformità l’anticanone per eccel­
lenza, ciò che meglio rappresenta la infinità della vita
(«Non vi fermate a nessun grado del deforme, del vecchio,
essi non hanno come il bello e il giovane un limite; essi
sono infiniti»): il riso si esercita sul limite e sul bello, sul­
l’idea stessa di prototipo. Il piacere è innanzitutto piacere
evocato, piacere che si realizza per segni e simboli (disso­
nanza bello/brutto, giovane/vecchio, vita/morte), feno­
meno «spiritoso» (la splendida vita del principe Zarlino
non era anche «sommamente e unicamente cerebrale»? 1).
Nel manifesto di Marinetti, invece, la vita è colta nei mo­
menti di massima tensione e realizzazione materiale, cioè
nella sua fase espansiva, secondo un nuovo ideale di bel­
lezza che è quello della «fisicofollia». La pars destruens (il
piacere della dissonanza o della simultaneità) dà luogo a
ima pars eonstruens. Il teatro di varietà è una scena cosmo-
politica dove sono concentrati (si veda il punto 17 del ma­
nifesto) tutti i massimi record di bravura raggiunti (acro­
batismi, esibizioni muscolari, intelligenza degli animali,
virtuosismi melodici, raffinatezze parigine, prove di forza

1 Cfr. Pa l a z z e s c h i , Opere giovanili cit., p. 592.


« IL CONTRODOLORE » 119

e di abilità, mostruosità e bellezza), tutti insomma quei


valori dell’azione, della destrezza, dell’istinto e dell’intui­
zione che Marinetti vuole istituire positivamente nella vi­
ta. I miti sono quelli della giovinezza e della salute (i futu­
risti sono «giovani artiglieri in baldoria»), e il riso si eser­
cita su ciò che non risponde ad essi. Si tratta di trar «per
forza le anime più lente dal loro torpore»: invenzione e
artificio sono in funzione del «meraviglioso futurista» da
intendersi non solo come pratica sensibile, ma - con evi­
dente anticipazione di tematiche surrealiste - come prati­
ca sociale di vita. Giacché la dimensione del manifesto di
Marinetti è epica e politica: l ’uomo contemporaneo è am­
malato di passatismo e occorre portarlo a disfarsi delle sue
maschere storiche e a realizzare il nuovo (tecnologico-in-
dustriale). Se l ’arte non si sopprime nella politica, ed anzi
la sua funzione di avanguardia e di progettazione - come
verrà precisato nel Manifesto del partito futurista italiano
(1918)— resta indispensabile, la politica (il sociale) è però
il luogo della sua verifica e realizzazione. L ’artista speri­
menta un nuovo da socializzare. La promesse de bonheur,
rappresentata dall’arte, può essere, hic et nunc, adem­
piuta1.
Il mondo va cioè praticamente ricostruito non attra­
verso modelli storici - secondo la direzione dannunziana - ,
ma secondo modelli d’invenzione e d’attualità. Proprio in
un manifesto del ’i j che porta come titolo Ricostruzione
futurista dell’universo, Balla e Depero attribuiscono a
Marinetti un’importante affermazione:
Il parolibero Marinetti, al quale noi mostrammo i nostri
primi complessi plastici ci disse con entusiasmo: «L’arte,
prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un
Oggetto perduto (felicità, amore, paesaggio) perciò nostal­
gia, statica, dolore, lontananza. Col Futurismo invece, l’ar­
te diventa arte-azione, cioè volontà, ottimismo, aggressio­
ne, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale nell’arte
(Es.: onomatopee.-Es.: Intonarumori - motori), splendo­
re geometrico delle forze, proiezione in avanti. Dunque l’ar­
te diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà creata

1 Cfr. p . f o s s a t i , La realtà attrezzata, Einaudi, Torino 1977, in parti­


colare pp. 4 e 35-56.
120 L ’ UDIENZA DEL POETA

cogli elementi astratti dell’universo. Le mani dell’artista


passatista soffrivano per l’Oggetto perduto; le nostre mani
spasimavano per un nuovo Oggetto da creare. Ecco perché
il nuovo Oggetto (complesso plastico) appare miracolosa­
mente fra le vostre».
Nostalgica viene qui detta la vita che ritarda su se stessa,
che cristallizza immagini del tempo, che si rifiuta al suo de­
corso. E da questo punto di vista la poetica della nostal­
gia doveva essere un obiettivo polemico sia per Marinet­
ti che per Palazzeschi. Ma per Palazzeschi liberarsi della
hantise simbolistica dell’oggetto perduto significa liberar­
si della hantise dell’oggetto tout court, fare del perdersi e
del consumarsi la sostanza dell’esperienza attuale. Signifi­
ca non ignorare la morte, non estrapolare e idealizzare
frammenti e istanti di vita. Marinetti segue un’altra stra­
da. Se si sottrae alla nostalgia, è per trasferire al presente
l’incanto che si ascrive al passato, per fare del meraviglio­
so un meraviglioso dell’attualità. Nella sua poetica gli og­
getti perduti possono essere vantaggiosamente sostituiti
da prototipi o da oggetti da costruire; il chiaro di luna può
essere sostituito dalle lune elettriche. La temporalità è
scongiurata con il mito di una eternamente rinnovabile
presenza. Di modo che il futuro è meno un tempo che l’a­
bolizione del tempo. Ancora una volta Marinetti prelude,
su un registro modernistico, a quelle che saranno le solu­
zioni di un Breton che, togliendo il confine tra realtà e im­
maginazione, rovescerà il passato nel futuro e vedrà nel­
l’oggetto onirico non più (freudianamente) la traccia di
una perdita o di una rinuncia, ma la promessa di un in­
contro, un oroscopo da verificare, lo schema di un oggetto
da trovare sulla strada o in qualche bottega di cianfrusa­
glie, o comunque da costruire e presentificare.
Dove, senza dubbio, convergono Marinetti e Palazze­
schi è nella cosiddetta distruzione dell’io o della psicolo­
gia. Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista Mari­
netti scrive:
Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani
[...]. Non si tratta di rendere i drammi della materia uma­
nizzata...
La materia fu sempre contemplata da un io distratto,
« IL CONTRODOLORE» 121

freddo, troppo preoccupato di se stesso, pieno di pregiu­


dizi di saggezza e di ossessioni umane.
Luomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del
suo dolore vecchio la materia...
Distruggere l’io importa non più assimilare il mondo del-
1 esperienza all’io («La nostra nuova coscienza non ci fa
più considerare l’uomo come centro della vita universale»,
— affermava Boccioni), ma scegliere il partito dello sperdi­
mento nella esperienza, assumendosi i rischi dell’avventu­
ra e della metamorfosi. Anche per Palazzeschi (e il discor­
so vale per tutte le avanguardie) si tratta di non tener fer­
ma nessuna identità e di mettersi ogni volta in gioco nel
rapporto con il mondo. Alla « ossessione lirica della mate­
ria» di Marinetti può essere fatta corrispondere la «gioia»
di Palazzeschi, cosi come alla satira, per parte di Marinet­
ti, dell’uomo «completamente avariato dalla biblioteca e
dal museo», può essere fatta corrispondere la satira, per
parte di Palazzeschi, di coloro che si ostinano a restare al
di qua della gioia. A entrambi appartiene infine il senso
antiumanistico della vita come apertura, esperimento,
spossessamento del sé irrigidito. Ma qui scatta anche la
differenza: Marinetti procede all’identificazione opposta
dell’io con il mondo, a prendere il partito della durezza
della materia (un tema nel quale si riassume l’altro tema,
quello della guerra come « sola igiene del mondo»), a rom­
pere le maschere storiche per cadere in servitù di altre ma­
schere. Marinetti passa insomma da un’alienazione nei fe­
ticci della memoria e della storia a un’alienazione in altri
feticci (ideologizzazione della macchina, della forza, del­
l ’innovazione, dei record, del dominio e della positività in
generale), compromettendo con una chiusura ideologica,
e con quanto il suo discorso conteneva di inanalizzato,
l’apertura della sua poetica. Palazzeschi si preoccupa in­
vece di non chiudersi in figure determinate, di restar libe­
ro sia dal passato che da progetti e programmi di vita. La
sua è una poetica della mobilità, della disponibilità e del
disimpegno permanente. L ’uno si sposta dalla parte del-
l’oggettività, l’altro sta dalla parte della soggettività. L ’uno
punta sull’impegno, sul volontarismo, sul coraggio, sul
massimo dispendio di investimento vitale. L ’altro punta
122 L ’ UDIENZA DEL POETA

su record rovesciati, sulla paura, sul massimo risparmio


di energia («L’uomo non può essere considerato seria­
mente che quando ride»). Massima serietà, dal punto di
vista della soggettività, coinciderà con mancanza di serietà
dal punto di vista sociale (è - sappiamo - l’indegnità - la
«corbelleria» - a dar prova di verità, la non importanza
- sociale - della poesia a fame l’importanza).
La falsa coscienza reifica la vita, le impone delle forme
(in senso pirandelliano), le comanda l’oblio di se stessa;
l’iniziativa del soggetto (il comico), nella poetica di Pa­
lazzeschi, la richiama al senso del suo passare. La rimo­
zione sociale della morte porta a una idealizzazione del­
l’esistente e dà alle maschere la rigidità delle cose. Per af­
fermare un’indipendenza dagli interessi della positività
occorre perciò passare attraverso le rappresentazioni della
morte. E ancora una volta conviene richiamarsi a Villa
Rosa laddove si dice (per bocca dello stesso mancato sui­
cida) che gli uomini proiettano nei cadaveri la propria
mortalità e così pretendono di mettersi in salvo dalla ve­
rità:
La verità è che sentono dalla nascita nel loro corpo il
lezzo del cadavere, e gli si stringono addosso mostrandolo
all'universo, per assicurarsi e assicurarne gli altri che il gran
puzzo che c’è viene soltanto da lui, è tutto suo, e pare di­
cano con l’aria della massima soddisfazione: «sentite que­
sto fetore orrendo che ammorba l’aria? Sentite che cosa
riprovevole? Ebbene non siamo mica noi, sappiate, non
siamo noi per nulla, è questo che abbiamo sopra le spalle,
qui davanti, qui dietro, è lui il porco che fa tanto puzzo,
il fetente è lui soltanto, lui e non altri» \
La vita idealizzata comporta la dimenticanza della verità:
la rappresentazione della morte sospende le false ideologie
della vita e restituisce il valore d’uso del mondo. In una
Spazzatura del ’ 14 Palazzeschi scriveva:
Mi offrite una guerra che à per mezzo la morte e per fine
la vita, io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita
e per fine la morte2.

1 Cfr. P a l a z z e s c h i , Opere giovanili cit., p. 389.


2 Cfr. «Lacerba» « La V oce» cit., p. 352.
« IL CONTRODOLORE» 12 3

Fare della morte un mezzo della vita equivale qui a sa­


crificare la vita reale a una vita ideale; fare della vita un
mezzo della morte equivale a voler vivere lucidamente la
vita, liberandola dai valori che pretendono dominarla e
assumendola nella prospettiva del suo passare.
Uno scrittore come Pirandello conserva in parte una ten­
sione ontologica, la nostalgia dell’altro dalla società e dal
linguaggio, l’idea di una latenza delle cose e di una verità
prima di ogni verità: la manifestazione (la maschera) è un
necessario fraintendimento dell’essere. Palazzeschi dissol­
ve la profondità in superficie, la cosa in possibilità e con­
tingenza, il ristagno interiore in leggerezza. La vita è casua­
lità; e il riso una specie di iniziazione filosofica a una vita
spogliata da imperativi e finalismi che le sono estranei. Il
futurismo marinettiano, a sua volta, progetta nuove e so­
lide realtà aventi i connotati dell’attualità, della velocità,
del dinamismo e di tutto ciò che cade sotto l’ideologia di
modernità. I giocattoli di Palazzeschi sono per conseguen­
za macchine allegoriche, arguzie figurate che debbono edu­
care ad avere un rapporto di vicinanza e di lontananza con
gli oggetti, a vivere le cose nella loro trasmutabilità (l’e­
sperienza della cosa è l’esperienza del suo franare), men­
tre gli oggetti e i giocattoli di Balla sono macchine energe­
tiche che debbono innalzare la temperatura della vita e
promuovere stati di pienezza assoluti (appunto di «fisico­
follia»). La soggettività è ora (negativamente) libertà da
coazioni; ora (positivamente) libertà di produrre il nuovo
(anche se al limite il nuovo non fu, per quanto attiene a
Marinetti, se non sensazionalistico-pubblicitario, da ima
parte, e gravemente tributario delle ideologie correnti, dal­
l’altra). Considerando il futurismo come un fenomeno
complesso, si può perciò dire che Palzzeschi appartiene al
suo polo nichilista (che si svilupperà nel dadaismo) e Ma­
rinetti al suo polo tecnologico-costruttivo ed epico (che
avrà anch’esso una parte importante nelle avanguardie no­
vecentesche).

È noto (e Asor Rosa vi ha insistito recentemente) che in


Due imperi... mancati, pubblicati nel ’20, all’indomani del
124 L ’ UDIENZA DEL POETA

conflitto mondiale, c’è da parte di Palazzeschi un’aperta


sconfessione della sua poetica d’avanguardia. In effetti
l’impero mancato del poeta non è altro che la definitiva
scomparsa (un tardo recupero si avrà soprattutto con II
Doge) di Sua Altezza Perelà. Ma se ci chiediamo che cosa
sia realmente accaduto, dobbiamo guardarci da semplifica­
zioni. La guerra coincide per Palazzeschi con un’uscita non
solo dall’avanguardia ma anche, in qualche modo, dalla let­
teratura. E nella nuova opera (tanto significativa quanto
strutturalmente dissociata e contraddittoria) c’è infatti più
una dissoluzione dell’avanguardia, che può ancora istruir­
ci sul suo funzionamento e tornare utile al nostro discorso,
che non un deciso dislocamento o mutamento di rotta, che
sarebbe venuto a maturazione e si sarebbe consolidato, tra
le due guerre, in condizioni culturali e politiche non più
favorevoli nel nostro paese allo sperimentalismo avanguar-
distico. I Due imperi... mancati sono una riflessione sulla
guerra, e non c’è dubbio che in presenza di un’esperienza
così radicalmente estranea, e anzi sotto la sua coazione,
Palazzeschi dove verificare insieme con l’insufficienza di
una risposta come quella dello sberleffo, della buffoneria,
della irresponsabilità, anche l’impraticabilità di qualun­
que risposta. La guerra sembra aver prodotto su di lui una
reazione di panico. Vedendosi in uno specchio in divisa
militare, «nell’abito misero e goffo del forzato e la testa
chiusa nella busta come quella di un pazzo», Palazzeschi
racconta di aver ricevuto un urto così violento e sconvol­
gente da tradursi in malessere fisico:
Il più complesso giocattolo, il cui ordigno, il cui princi­
pio era rimasto miracolosamente nascosto, la cui molla nes­
suno aveva mai saputo trovare, in un istante era stata toc­
cata, col più abile e semplice colpo di spillo, si era infranto *.
La maschera coatta segna ora la fine della mobilità delle
maschere. La bustina militare è la rivelazione derisoria
della perdita di quella capacità di travestimento e di tra­
scendimento che era alla base della sua poetica. Obbligan­
do a sottomettersi a una disciplina senza ragione, a dispor­
1 Cfr. a . p a l a z z e s c h i, Due imperi... mancati, Vallecchi, Firenze 1920,
p. 80.
« IL CONTRODOLORE» 12 5

si a una violenza esterna e non compresa, la guerra ha mes­


so in luce l’impotenza dei singoli, e tanto più se l’hanno
strenuamente avversata. Palazzeschi sembra appunto esse­
re stato colpito da un trauma dal quale tenti invano di ria­
versi:
Dalla Francia invasa da questa follia omicida più acuta­
mente della stessa Germania, giunge un debole grido «au
dessus de la mèlée! » Romain Rolland, mette in salvo la pro­
pria coscienza, salva dal naufragio la sua grande e bella ani­
ma e si rifugia in Svizzera stomacato, a lenire qualche do­
lore come un piccolo essere impotente. E più nulla.
Ma dunque non c’è chi possa, chi osi infrangere l’orribi­
le cerchio di fuoco che ci serra la gola? \
Ed è inutile aggiungere che la sua opera, per quanto im­
portante nella sua storia di scrittore e come documento di
una straordinaria, immediata e disarmata espressività, do­
veva registrare il trauma al livello di scrittura. L ’oggetto
che il poeta aveva saputo trattare con «leggerezza», ades­
so lo domina, lo tiene saldamente, lo piega con la sua bru­
talità assoluta, non gli permette di infrangere il «cerchio
di fuoco». La malattia (Palazzeschi viene trattenuto in os­
servazione presso un ospedale militare e quindi dispen­
sato dal servizio attivo) pare avere investito lo scrittore.
La crisi è della scrittura. Il meccanismo del controdolore
sembra aver preso a funzionare in direzione inversa.
Certo Palazzeschi reagisce alla guerra diseroicizzandola
e liberandola dai veli ideologici. Compare nella sua opera
la figura di un soldato2, un artigliere in licenza per atti di
coraggio compiuti in guerra, di cui, messa da parte la leg­
genda (insofferenza di ogni disciplina, incredibile ardimen­
to, sprezzo della vita, ecc.), viene data l’umile e paradig­
matica storia. Il soldato non ha infatti difficoltà a raccon­
tare come sia divenuto ardito: dopo aver disertato, essere
stato in carcere, essersi fatta un’iniezione di petrolio ed
essere ricorso a ogni pericoloso stratagemma per evitare il
fronte. La realtà della guerra non è solo rifiutata, ma ri­
fiutata da un punto di vista basso-mimetico. È questa la

1 p a l a z z e s c h i , Due imperi... mancati cit., p. 38.


2 Ibid ., pp. 31 sgg.
12 6 L ’ UDIENZA DEL POETA

novità più consistente dell’opera. Palazzeschi si identifica


con la paura primordiale del popolo:
... c’erano quelli che morivano all’idea di essere mobilitati,
il pensiero di quel giorno li inorridiva, mentre ce n’erano
dei meglio rassegnati o indifferenti, e si raccomandavano
cogli occhi gonfi di terrore per quella naturale bestiale pau­
ra che ora diveniva ima colpa imperdonabile. Oh! Quello
che io soffrivo per essi...1.
Per un Jahier la guerra giusta, autentica, vera è quella ac­
cettata e vissuta dal popolo contadino. È il popolo contadi­
no che rappresenta «l’onore d’Italia». Palazzeschi solida­
rizza invece con chi non vuole combattere, con chi accam­
pa ogni sorta di sordide ragioni per avere anche solo un
rinvio, con l’irrassegnato che sa tuttavia di non potere
neppure sperare di sfuggire alla condanna, con l’animale
preso al laccio. È il «disonore d’Italia», l’«indegnità» (an­
cora una volta) del combattente, la sua creaturalità che lo
interessa. Il soldato di cui fa storia è quello che esulta da­
vanti a ogni malattia - e tanto meglio se grave — perché
sa che malattia vuol dire licenza; o quello che prima appa­
re in chiave tragico-patetica perché non ha avuto in tempo
il permesso di visitare il figlio morente, e poi appare in
chiave comica rallegrato e ridente (« con una gabbana lercia
di unto, di carbone, di pomodoro, di verdure, e la faccia e
le mani sbafiate e malconcie d’ogni ben di Dio...»)2 per
aver ottenuto un posto da cuoco. Palazzeschi scopre una
fraternità con il popolo, ma sotto il segno del comune ter­
rore e della comune passività. L ’avvenimento che lo coin­
volge non solo infatti non può essere giustificato, ma non
può essere neppure razionalizzato (non se ne può fare
esperienza). Nel ’i^ (ipijr In quest'anno futurista) Mari­
netti dichiarava: « La guerra attuale è il più bel poema fu­
turista apparso finora»; e l’anno precedente, in un mani­
festo teorico (Lo splendore geometrico e meccanico e la
sensibilità numerica) con riferimento alla guerra balcani­
ca, aveva annotato estetisticamente «come la volata lucen­
te e aggressiva di un cannone arroventato dal sole e dal

1 Pa l a z z e s c h i , Due imperi... mancati cit., p. 106.


2 I b id ., p. 97.
« IL CONTRODOLORE» 127
fuoco accelerato renda quasi trascurabile lo spettacolo del­
la carne umana straziata e morente». L ’identificazione con
l’aggressore (o con i mezzi dell’aggressione) porta in Mari­
netti a una rimozione della sofferenza. La guerra è un esem­
pio cruciale di nuova percezione (sensazionalistica e asin­
tattica) della realtà; e ì ’estetizzazione è lo strumento della
rimozione. La risposta di Palazzeschi è naturalmente in­
versa. Ma essa non è più quella del controllo e del distan­
ziamento dell’oggetto (attraverso la serietà del gioco); non
è più quella del controdolore. L ’oggetto angoscioso provo­
ca reazioni di impotenza. L ’aggressore paralizza la vittima.
La siepe che promette emancipazione dal dolore non può
essere attraversata. Benché non persuasa, la vittima resta
inattiva.
Palazzeschi toglie alla guerra ogni dignità e verità, ma la
sua capacità di straniamento (Perelà era una potenza stra­
niarne) non lo soccorre più. Il realismo smascherante e de­
formante si degrada e, a ogni momento, si decompone e
scade nel patetico. La scrittura è indecisa e turbata: punta
a un effetto di denudamento e ne resta confusa. La realtà
che viene disoccultata non può più fare a meno della fun­
zione consolatoria dell’ideologia. E sul piano immaginario
viene infatti a disegnarsi un paese utopico. Palazzeschi
pensa a una vita e a una società rigenerate, dove tutte le
istituzioni (matrimonio, famiglia, capitalismo) sarebbero
finalmente abolite. Soppressa la famiglia, i bambini cre­
sceranno come «diletti figli della terra» in luoghi di salute
e di libertà. Solo a diciotto o a vent’anni verrebbe loro dato
un nome. Il loro allevamento e la loro educazione sarebbe
a carico della società, fuori delle differenze di condizione
e delle nevrosi familiari. Le donne partorirebbero tra gio­
chi e risa in apposite comunità («Dovranno di continuo
reggersi la pancia nella maniera più scandalosa per non
dar fuori la creatura anzitempo dalle matte risate...»)1.
Rabelaisianamente sarebbero proprio «le risa incontenu­
te», in mezzo al festoso frastuono, a favorire il parto felice
e la nascita gioiosa. Abbiamo qui un netto rovesciamento
del Controdolore. L ’idea della morte che provocava un ri­

1 P a la z z e s c h i, Due imperi... mancati cit., p. 1^9.


12 8 L ’ UDIENZA DEL POETA

so filosofico non c’è più; c’è invece un trionfo della vita e


del piacere. Al tema del consumo e delle rovine, si contrap­
pone il tema della nascita e della crescita. Palazzeschi scen­
de ora sul piano del positivo. Nel Controdolore l’ugua­
glianza della morte rendeva comiche le disuguaglianze; nel
paese dell’utopia non dovranno esserci disuguaglianze so­
ciali:
Sarà dottore chi mostrerà di poterlo essere degnamente,
non chi avrà i denari da sciupare in una qualsiasi universi­
tà, e insegneremo la bellezza di tutti i mestieri, di tutti i
lavori, e specialmente di quelli più vicini alla grande madre
nostra terra. E non sarà il lavoro del maschio superiore a
quello della femmina, solamente consono alle possibilità
fisiche dell’uno e dell’altra, e sarà l’amore per tutti la coro­
na di una vita semplice, sana, laboriosa \
Una moralità evangelica, sensuale e gioiosa («una creatu­
ra sensuale, un palpito libero nell’aria», si era definito Pa­
lazzeschi) dominerà nella società, dove non ci saranno altre
leggi se non quelle della solidarietà e della reciprocità.
Compare dunque qui, in chiave edificante, quella positi­
vità che già era stata schernita. La speranza della felicità e
della conciliazione dell’uomo con se stesso si carica di ca­
ratteri non più negativi - irreali, aerei, di fumo - , ma pla­
stici e corposi, mentre il linguaggio già ambiguo e arguto
si fa diretto e morale. Senonché è evidente che si tratta del
mite rovescio della disperazione, di una visione scoperta-
mente consolatoria in cui si fondono ideologie socialisti-
che, anarchiche e cristiane. Essendo caduta l’arma della
derisione, su cui si fondava la capacità di resistenza del
soggetto, la speranza è che sia il mondo dell’esperienza a
poter cambiare. Palazzeschi si abbandona a una fantasia
di renovatio perché non è più in grado di gestire la pro­
pria libertà.
Nei Due imperi... mancati alla guerra come inferno - in
altre parole - fa da contrappunto il mondo riplasmato dal
desiderio. Nel momento che il peggio (l’immenso dolore
scatenato dalla guerra) trova la sua effettuazione, il singo­
lo cerca e trova un’illusoria tregua alla sofferenza e una

1 P a la z z e s c h i, Due imperi... mancati cit., p. 161.


« IL CONTRODOLORE» 129

compensazione alla debolezza nei mondi miti del sogno.


Sorge e quasi si impone coercitivamente all'io, per sfuggi­
re alla propria disgregazione, l'immagine di un mondo li­
berato e senza sventura. L'intollerabilità dell'angoscia si
placa per un momento nel sogno della conciliazione. Un
sogno del resto ci viene offerto \ Un gregge di pecore pa­
scola quietamente in un'immensa prateria. Sopravvengono
d'un tratto quattro apaches neri, da café chantant, che,
come eseguendo una danza, aprono la pancia alle pecore
«con un pugnale fine e lucente». Gridando a squarciagola
l’io del sogno che si identifica con le pecore morte tenta
inutilmente di richiamare il guardiano. Si avvicina allora
alla scena dell’eccidio ed ecco che si opera una metamor­
fosi. « Quasi si muovessero nel sonno », proprio come il so­
gnatore, le pecore danno segni di vita. Delle piccole ali
spuntano sulla loro schiena ed esse prendono ad ascendere
verso il cielo «quasi vesciche piene di gas leggero». Resta
al suolo una macchia nera (il guardiano) che è invece risuc­
chiata come una ventosa dalla terra. La vescica piena di
gas leggero rimanda a Perelà, ma la resurrezione è ora so­
lo consolatoria. Qui la realtà non è negata con un’energica
contrapposizione io/altri, con un uso produttivo dell'im­
maginazione, ma patita fino ai limiti dell'insoffribilità e
sostituita magicamente. Il cielo verso cui veleggiano le
pecore è il cielo mitigato della speranza; l'immaginazio­
ne sopravvive, ma solo per fingersi allucinatoriamente e
quindi positivamente una miracolosa trasformazione. Ci
si identifica con le vittime e ci si abbandona (quia absur-
dum) a una visione di riscatto e di salvazione.
È il sogno cosi che finisce per opporsi al gioco. Quanto
questo reagiva attivamente al mondo, tanto quello lo re­
gistra traumaticamente, implica violenza subita, sottomis­
sione coatta alla necessità, arrendevolezza forzata. Nei Due
imperi... mancati l'elemento basso mimetico, con la sua
carica potenzialmente aggressiva, parodica, antideologica,
riconduce ancora a un contesto sperimentale (e lascia in-
travvedere possibilità romanzesche che non avranno modo
di svilupparsi), mentre l'elemento patetico segna l’attestar­

1 P a la z z e s c h i, Due imperi... mancati cit., pp. 122-23.


130 L ’ UDIENZA DEL POETA

si nei limiti di una quotidianità media e un'adesione ai


suoi contenuti. Il lavoro maturo di Palazzeschi consisterà
nella mediazione, e quindi nella classicizzazione, dei due
elementi che nell’opera del '20 si erano imposti coattiva­
mente e piuttosto che produrre un nuovo testo, avevano
agito su una poetica preesistente (la poetica del controdo­
lore) sovvertendola e rendendola inoperante.

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