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PELLE D'OMBRA
Romanzo di fantascienza
Proprietà riservata
Presentazione
Pelle d'ombra
Sori
BIBLIOGRAFIA ITALIANA:
racconti:
— Ecco fatto (Urania n. 316, Mondadori 1963);
— Il rifugio (Urania n. 325/bis, Mondadori 1964);
— L'ultimo (Galassia n. 46, CELT 1964);
— La fine di tutto (Oltre il Cielo n. 132, Gruppo Editoriale Esse
1965);
— Tutta una vita (Galassia n. 59, CELT 1965);
— Il tempo dell'oro (Galassia n. 89, CELT 1968);
— Zucchero (Galassia n. 91, CELT 1968);
— Ombre in uno specchio (Galassia n. 96, CELT 1968);
— Progetto S. Stefano (Oltre il Cielo n. 149, Gruppo Editoriale
Esse 1969);
— Carnevale (Galassia n. 137, CELT 1971);
— L'ultima giga (Galassia n. 165, CELT 1972);
— Cavaliere (Robot Speciale n. 4, Armenia 1977);
— Fiori di cartapesta ho ancora da quell'ultimo carnevale
(nell'antologia Universo e dintorni, Garzanti 1978).
A mio padre, prima di tutto,
poi a Lino Aldani, che è il più bravo di tutti,
poi a Vittorio Curtoni, che m'ha dato consigli essenziali, fin dal
principio,
poi a Gianni Montanari, naturalmente,
poi a Ismaele, Queequeg, Achab, Bildad, Peleg e Starbuck,
all'ammiraglio Benbow, John Silver & C.,
a Jonathan Harker e a sua moglie Mina,
a Hamlet, Ophelia, Horatio, Polonius, Rosencrantz & Guildestern,
a Leo Percepied, Sal Paradise e Ray Smith,
a Leopold Bloom, Stephen Dedalus e Molly,
a Aureliano Buendia, Melquiades, José Arcadio e Ursula,
e a Paperino.
Parte Prima
"È un bel cielo. Non l'avevo mai visto così da vicino. Che ore
sono?" disse Omar, guardando l'orologio che brillava al sottile polso
di lady Mamoudy.
"Mezz'ora, o forse meno, alla mezzanotte."
I fuochi erano accesi sulle rupi e sui colli che circondavano la
città, lunga sulla sabbia: dalle finestre sul picco essa appariva come
una gran tela di ragno, tessuta di strade convergenti verso il circo.
"È difficile decidere, adesso è davvero difficile."
"È proprio il più bel cielo del mondo," ripeté lady Mamoudy, tesa
sul davanzale alto sul gran buio scintillante. Sopra di lei, a meno di
cento metri, la volta di cristallo si curvava sulla città: e le stelle non
erano che i riflessi pallidi dei fuochi al suolo.
"Temo che non sarà mai più così. Mi fa paura il tempo che passa.
È come una bestia feroce che ti morde continuamente, mentre tu non
sai dove colpirla."
La donna reclinò il capo, come stupita. "Davvero hai paura?"
"No. Credo di no." La città gli apparve all'improvviso come un
cimitero ricamato di candele. Posso fare quello che voglio, adesso.
Scegliere le armi e il momento, negare o concedere la grazia come un
dio d'altri tempi, crudele e misericordioso a seconda delle lune.
"Ci sono dentro, ormai," sussurrò chino all'orecchio di lady
Mamoudy. Il corpo di lei era morbido, quando gli si strinse addosso:
Omar sentiva il suo cuore battere dietro ai seni minuti. L'accarezzò.
"Sarà come a teatro, un copione con le parti stabilite e le battute
pronte." Guardò in alto: "Dopo quell'attimo, un attimo solo, le
chiacchiere di oggi non saranno che ricordi stupidi d'una fine di
Carnevale."
Rientrarono, e sedettero con gli altri, intorno a una tavola d'oro.
"Hai una bella casa Valdemaro, e una bella donna," disse Omar.
"Dovresti essere un uomo felice. Perché non lo sei?"
Valdemaro s'incupì, d'improvviso. "Perché dici che non sono
felice?"
"Perché ho visto come ti guardavi intorno, questa sera. Hai paura
di perdere Pat?"
La donna lo guardò, incuriosita e impaurita. Mancava ormai poco
a mezzanotte, e le rughe sul viso da Assassino di Omar s'erano fatte
più profonde. Lei fremette: "Non essere sciocco, Omar," disse.
Valdemaro aveva sorriso, invece. "Considero tutto ciò uno scherzo
poco riuscito," disse. E aggiunse, accennando al costume dell'altro:
"Come quel costume, d'altra parte, è poco felice."
Omar sorrise, a sua volta. Piano, portò la mano destra lungo il
fianco, e sganciò il pugnale dal fodero ricamato. "Sbagli," disse, con
un improvviso gelo nella voce. "Sono vestito da Assassino perché
questa notte sono un Assassino."
"Sciocco,"ripeté Pat N'goa, e batté le mani, uno schiocco soltanto.
I valletti-squalo versarono vino rosato e psicodin in vasi di peltro.
"Brindiamo all'Assassino, allora," disse Valdemaro. Tese le coppe,
scuotendo gli steli sottili. "Pago per questo vino buona parte del mio
reddito, e il prezzo aumenta di giorno in giorno. Forse al Carnevale
dell'anno prossimo brinderemo con lo champagne di alghe." Guardò
negli occhi Omar, poi Pat e lady Mamoudy. "Quelli di noi che
sfuggiranno all'Assassino, naturalmente," e rise.
"C'è tempo per bere," disse Omar. "C'è tempo fino a mezzanotte."
S'allungò in poltrona. "Giochiamo, invece."
C'era un rondò di bambini di moda in città, un antico
divertimento, tutta l'anticaglia del Novecento era di moda in città, in
quei giorni. Un giocatore viene bendato e gira a tentoni, finto cieco, e
cerca nella sua oscurità di arrivare agli altri che lo deridono. Omar
sfilò il pugnale, e ne immerse la lama nella brocca dello psicodin.
Punse il palmo della propria mano. "Nessuno dovrà barare," scherzò,
e porse la lama a lady Mamoudy, quieta accanto a lui. La donna
trafisse piano il proprio polso sinistro: le labbra tinte dell'Assassino
le inviarono un bacio silenzioso. Tese il pugnale a Pat, vestita come
Biancaneve, un'altra maschera vecchia trovata in soffitta.
"Sorteggiamo la mosca cieca," disse.
Pat lo guardò incuriosita. "È il cardine del gioco, un insetto
scomparso. La persona che non vedrà," spiegò Valdemaro. Alzò lo
sguardo a una pendola di cristallo, e disse: "Nove minuti a
mezzanotte. Conta a nove."
"Uno, due, tre, quattro, cinque…"
La sorte indicò lady Mamoudy. "Non ci sarà bisogno di sciarpe, né
di maschere," gridò Valdemaro e si alzò di scatto, traendo dalla
cintura un minuscolo laser d'argento.
Biancaneve si mosse. "Rimani seduta," ordinò l'Assassino, a bassa
voce.
Il raggio di fuoco bruciò le pupille di lady Mamoudy: la donna
urlò, portando le mani al viso. Le iridi cangianti erano due piaghe di
fiamma, adesso. Valdemaro le spinse il tubo d'argento fra le dita, poi
si fece da parte. La donna restò ritta nella sala, accanto alla tavola.
"Questo non rientrava nel copione," mormorò quieto l'Assassino.
"Non nel mio, almeno." Valdemaro rise forte, un riso sonoro. "Gioca,
signora. Manca pochissimo, ormai, a mezzanotte, e dopo dovremo
essere di nuovo saggi e normali, tutti." La donna si volse in direzione
della voce. Sparò: il filo di fiamma sfrigolò e arse l'architrave, sulla
porta del salone.
Valdemaro si girò verso le terrazze. Poi, all'improvviso,
incominciò a correre alla porta-finestra. L'Assassino lanciò il
pugnale: la lama vibrò e andò a piantarsi nella schiena dell'uomo,
all'altezza del cuore. La maschera di rame rotolò al suolo. Portato
dallo slancio l'uomo sì abbatté sulla balaustra e rimase in equilibrio
un solo istante. Precipitò nel vuoto.
L'Assassino si avvicinò a Biancaneve. "Forse ti amo ancora, sai,"
disse, e con la punta delle dita le scompigliò i capelli. Si strinsero
uno all'altra. "Non piangerò, sai, ora che l'hai ucciso. Era lui, dunque,
la vittima scelta per Carnevale… ho avuto paura, prima," mormorò la
donna.
L'Assassino la baciò, poi si volse piano verso lady Mamoudy,
cieca dolente nella sala, stringendo Biancaneve, forte come uno
scudo. "Ti amo!" gridò, e lady Mamoudy sparò verso quell'urlo, nel
suo buio. Il corpo di Biancaneve ebbe un fremito leggero, e ricadde
con un sospiro nelle braccia dell'Assassino. L'uomo la lasciò
scivolare sul pavimento. Uscì dalla stanza.
Sui muri erosi corre una luce purpurea e strana. Lorna non ha mai
visto quella luce, contro i muri della casbah. Guarda in alto, nella
notte: nemmeno quel cielo pieno di punti illuminati l'ha mai visto, né
il pallone bianco e butterato, disegnato sopra i contorni dei
grattacieli, verso l'orizzonte. Prova un'angoscia lieve, come se un dio
sconosciuto l'avesse precipitato attraverso una porta invisibile, dentro
una casbah che somiglia in tutto e per tutto alla sua, ma che —
diavolo — non lo è!
Ricaccia in gola l'inquietudine, e s'affretta: non c'è tempo per
concedersi all'angoscia, nel vicolo, né per gli spilli di luce puntati nel
cielo. Poi il vicolo si apre su una piazza tonda e buia. Lorna va dritto
alla porta che sta di fronte, affondata nel muschio che s'arrampica su
tutta la facciata della casa. Scivola sui lastroni di granito… anche
scivolare a quel modo è una sensazione insolita e strana, per lui. Sale
i gradini, la sua mano destra si alza, preme sulla piastra della
serratura, il computer riconosce la ragnatela delle sue dita e
l'ingranaggio scatta: succede tutto così in fretta che Lorna ne è
stupito.
Entra nella stanza buia, e subito avverte un odore insolito, forse
sandalo, o alghe bruciate, un fumo sottile e aspro contro il palato.
"Ehi. C'è anche lui," squittisce una voce da nano. No, è un nano
davvero, il buio si scioglie in una penombra piena di profumi, il nano
sorride. "Siediti," dice, e indica una panchina lunga e coperta di
cuscini tinti con la porpora, vicina al muro.
Il nano veste da maggiordomo, come i maggiordomi vestivano
una volta, con marsina e sparato bianco d'amido, e somiglia a un
pinguino con le gambe tagliate a metà. Gli porge una coppa di vetro,
piena di liquore latteo, e lo spinge a sedere. "Pazienta ancora un
poco, per favore, altri ospiti devono ancora arrivare…"
E infatti non trascorre che un minuto, poi una lama di luce rosa —
ancora quella luce — si apre nel muro: è la porta che si socchiude, e
un altro ospite entra. "Oh Ismaele, vieni. Ti aspettavamo," dice il
nano, e scivola in quel fumo a colori, verso l'uomo. Ismaele ha l'aria
di un uomo di mare, poggia in terra un sacco da viaggio di canapa
grezza, e sbottona il colletto bianco e tondo della camicia
stropicciata. Ride a bocca aperta, un riso franco, e chiude la porta alle
proprie spalle.
"Quell'uomo mi piace," sussurra una donna. Sta accanto a Lorna,
seduta scomposta, a gambe larghe, scoperte fino a metà coscia, il
seno piccolo e rotondo quasi fuori dall'abito, la faccia di gesso e i
boccoli rossi sciolti sulle spalle e sulla fronte, imperlata di piccole
gocce di sudore.
Lorna vorrebbe — chissà da dove gli viene quell'idea, e perché —
che la donna s'alzasse e andasse a gettarsi fra le braccia di Ismaele.
Tutto ciò che al mondo è proibito, diventa lecito sui tappeti dello
speakeasy, e i desideri si avverano. "Oh, avanti amici miei, facciamo
festa. Carnevale viene soltanto una volta all'anno," pigola il nano.
Così la donna si alza — indossa piccole scarpe di vernice, con i
tacchi alti e fuori moda — e dondola goffa verso il marinaio.
"Ismaele," dice, e si toglie le scarpe per camminare meglio, è ubriaca
e incerta, la spallina dell'abito le scivola lungo il braccio destro,
Lorna vede la sua schiena nuda, forse anche davanti s'è scoperta, quel
petto che lui conosce bene… oh, lo speakeasy. Porta alle labbra la
coppa, beve piano, e vede Ismaele che tende le mani, abbranca la
donna e se la tira addosso, mezza nuda com'è.
La stanza è grande, una specie di immensa cantina con il soffitto a
volta, tinto di calce chiara: c'è gente, certo molta gente, uomini e
donne, e gli pare perfino di scorgere uno squalo a torso nudo — un
grande scandalo — cuscini e tappeti e lame d'ombra proiettate giù dal
soffitto, che tracciano alcove a comando.
"Non c'è luce abbastanza," dice. Il maggiordomo è lì, gli spunta al
fianco. "Eh, questo è uno speakeasy, signor mio. Troppo chiaro non
conviene a nessuno," sussurra, e versa ancora latte finto nel suo
bicchiere.
"Ho un appuntamento, qui," dice Lorna.
"E chi non ne ha?" soffia il nano.
"Con una donna… somigliava a quella che se n'è andata con
Ismaele." Indica nell'ombra, un gesto vago.
"Tutti, qui, hanno un appuntamento con una donna come quella,"
sussurra il nano, e s'impettisce, gira la testa e chiama "Anka", e lei —
proprio la donna dell'appuntamento — sorride, viene avanti e siede
accanto a Lorna. Porta un abito lungo che la copre fino alle caviglie,
una tunica viola e casta, ma quando ella si allunga verso Lorna e gli
sfiora il viso con una mano piena d'anelli, l'abito si apre del tutto,
davanti, dalla gola al ventre.
Lorna la guarda in faccia, i capelli rossoscuro che lei scuote,
ridendo, con un gesto lieve del capo, e vede che è proprio la stessa
donna che se n'è andata con Ismaele… alza di scatto la testa, e il
nano salta ancora fuori da chissà dove. "No signor mio, qui tutte le
donne sono fatte così," spiega, alzando un dito tozzo e sporco.
"Vuoi… intimità?" chiede.
"Sì," sussurra Lorna. Il nano trotta via e un millepiedi di ferro
corre sul soffitto e si ferma sopra di loro: scintilla un istante, come se
andasse a fuoco per un corto circuito, poi due sottili pareti d'ombra
scendono dall'alto, come sipari di velluto, impenetrabili al brusio e al
fumo. La donna scuote le spalle, e l'abito sbottonato scivola a terra, e
la lascia bianca e nuda.
Lorna la guarda incuriosito: ha le gambe lunghe, solo un po'
grosse nelle cosce, il ventre tondo. Le prende il volto fra le mani a
coppa, per sentire la pelle sotto le dita, sentirsela sua ancor prima di
andarle addosso. È soltanto un poco più pallida, rispetto all'ultima
volta che hanno fatto l'amore. "Tuo marito?" dice lui. "Oh, lascia
perdere, perché continui a evocare la sua ombra? Non sei stanco di
trascinarti dietro un fantasma?"
"Non so. Io non ho mai avuto padroni, e quando incontro una
persona che ce l'ha, ho sempre paura che questo padrone si presenti a
pretendere i suoi diritti".
"Non è soltanto una questione di padroni e servi…"
"Perché prima ti sei buttata su quell'Ismaele come una puttana
affamata?"
La donna lo guarda piena di curiosità. "Non sono stata con lui,"
dice. Resta seduta, li davanti, a ginocchia unite e nuda, come se nulla
fosse: il suo petto si solleva piano, i capezzoli ancora duri, come
quando s'è spogliata, così eccitata. Ha la voce bassa ma ferma, e
scolpisce le parole.
"Come… non sei stata con lui. Io t'ho vista."
"Non è possibile." Lei scuote ancora il capo. "Guarda," dice. È
come se il millepiedi meccanico, in alto, le obbedisse: il sipario
d'ombra si schiude, e Lorna vede in un gran divano di pelle chiara,
contro una parete, Ismaele e la donna abbracciati. Non si sono
neppure curati di stendere l'ombra intorno a loro.
"Ma ti somiglia, anzi, è straordinario… è uguale a te."
"Sciocco." Lei gli preme il petto contro il petto. "Ohi" dice
quando i bottoni della camicia di Lorna sfregano contro la pelle del
suo seno, si sposta di nuovo, si inginocchia sul pavimento.
"Ma quella là…" mormora Lorna, ma indica nel buio, perché la
coltre nera è di nuovo discesa dal soffitto, "quella là basta", dice la
donna, e gli straccia dal petto la camicia. Lui vorrebbe ribellarsi a
quella violenza finta, al profumo di donna, e gridare che non è
possibile che tutte le puttane dello speakeasy abbiano la stessa pelle
chiara, la faccia spruzzata d'efelidi, gli occhi verdi e gli stessi riccioli
sul collo. Ma lei gli monta ancora addosso, senza pudori, la sua
bocca è famelica, grande, le labbra rosse come i lembi di una ferita
scendono dal suo petto al suo ventre, gli mandano in ogni parte del
corpo brividi lunghi e violenti, è come la lingua d'un animale alieno
che gli si ficca dentro la carne, e lo svuota, gli tira via tutto.
E mentre resta ad aspettare l'orgasmo che dovrebbe lasciarlo
stanco e pieno di ribrezzo — per sé e per lei — e quei brividi che gli
salgono dalle cosce fin nelle reni, una campanella comincia a trillare,
nell'aria dello speakeasy, forse sono gli squali della Spazzatura che
fanno pulizia nel quartiere, oltre l'uscio blindato, che si portano via
Carnevale, o forse — il nano si affaccia dentro la sua incoscienza e
dice, inaspettatamente, "tutto bene monsieur?" prima di tornare dietro
al sipario — Lorna scrolla il capo, forte, ma il trillo si fa ancora più
acuto, lo speakeasy se ne va, quella bocca che lo riempiva se ne va, e
giù, nell'anca, giù a destra, il richiamo della Cattedrale scaraventa
Lorna fuori dal sogno.
"Cosa c'è lassù, di preciso? Non può essere cascato che da lì, già
morto. Gli hanno messo il coltello nella schiena e l'hanno buttato,
come un pacco di stracci. Il medico dice che forse era già morto,
prima di volare di sotto."
Lorna s'era vestito bene, perché così gli avevano ordinato:
l'uniforme da spazzino era stretta nelle spalle e sui fianchi, i galloni
d'oro brillanti sul velluto granata. Era l'alta uniforme, tutta quella
mascherata.
Guardò le pendici di roccia: in cima al picco i balconi della villa
erano come un soffio rosa, sulla pietra. "Come si fa a salire lassù?"
Aveva al fianco uno squalo anziano, più dimesso nell'uniforme
grigia, ordinaria, e la ronda meccanica, con la faccia di ferro altera.
Lo squalo restò in silenzio. Il robot rispose una cantilena che Lorna
già conosceva: "La villa appartiene a Valdemaro N'goa, uomo.
Possono entrare soltanto gli uomini."
"Se volessi entrarci io?" I soli della città stavano scaldando l'aria
che i ventilatori spingevano da oriente: era giorno avanzato, ma la
strada rimaneva deserta. Due squali spazzini e un robot della guardia
non portavano buone nuove, nella città bassa. Lorna guardò il
compagno grigio, e sorrise: conosceva già anche la nuova risposta
del robot.
"Non è rilevante. Possono entrare soltanto gli uomini."
"Vai. Non ho più bisogno di te."
Ma fu Lorna a doversi tirare da parte. Il robot era rimasto inerte, le
palpebre spente, in attesa di un richiamo dalla Cattedrale. Lo squalo
osservò il disegno di gesso, sull'asfalto: un corpo lungo, a braccia e
gambe spalancate, come un grande uccello. Valdemaro — si
chiamava proprio così? Non gli avevano ancora trasmesso notizie
ufficiali, oltre all'incarico di muovere le prime indagini — era caduto
a faccia in giù come un pupazzo abbattuto.
"Sono sicuro che l'ha ammazzato un altro uomo. O una donna.
Avevo detto novanta probabilità su cento, ieri? Ora direi cento per
cento."
"È pericoloso," mormorò lo squalo grigio.
"Lo so." Quando aveva dovuto indossare quell'uniforme da
pappagallo aveva sudato freddo, per la rabbia. "Fareste bene a
cercare il colpevole da qualche altra parte," aveva sibilato in faccia al
robot che gli aveva portato l'ordine della Cattedrale, sperando che di
là, oltre quel muso di latta, qualcuno sentisse.
"Dobbiamo sapere chi c'è lassù, adesso. E chi c'era l'altra sera,
quando l'hanno ammazzato," disse.
"Non è facile. C'è soltanto un modo…"
"Lo so. Le Ombre."
"Perché perdiamo tempo, Lorna? Nessuno potrà arrivare alla
verità, se dalla verità anche un solo uomo potrà avere qualche rogna."
"C'è sempre un modo, per avere ragione di un uomo. Basta
chiederlo a un altro uomo che sia suo nemico."
"Noi abbiamo solo un cadavere a pezzi, qui. Per trovare i nemici
del suo assassino dovremmo prima trovare lui."
Lorna scoppiò a ridere. "Mi basta sapere chi c'era lassù l'altra sera,
per questo. Poi lo troveremo."
Vide un uomo, anziano e vestito in maniera sgargiante: la coltre
della sua Ombra lo proteggeva come una corazza impenetrabile.
Camminava lentamente, al margine della strada. "Avrà dentro mezzo
litro di psicodin… se la mia uniforme gli sembrasse davvero la veste
di un pappagallo, e lui mi sparasse con il laser, di me non resterebbe
che un mucchio di cenere calda. Ma se io gli tirassi un sasso soltanto,
si ricorderebbero tutti che sono soltanto un pesce, e non uscirei più
dalle loro galere," rifletté. "Quanti di noi lavorano alla centrale delle
Ombre?"
Guardò il compagno. Era ingrugnito. Poi le sue labbra sottili si
distesero. "Quanti ne abbiamo, Kano?"
"Quanti ne bastano."
"E allora falli lavorare. Voglio sapere quante Ombre sono entrate
nella villa, domenica sera, quante ne sono uscite, e dove sono
andate."
"Non sarà facile. Io ho solo qualche amico, laggiù: ma ti farò
sapere."
L'automa lì aveva ascoltati indifferente, come in preda a una
trance metallica, un metro più in là. Si mosse all'improvviso, rollò sul
cuscino d'aria e scivolò via. Qualcuno aveva bisogno di lui altrove.
Lorna guardò la sua sagoma tozza, soltanto vagamente antropoide,
che si allontanava. "Chissà cosa gli frulla, in quelle teste di latta,"
disse. Poi si volse ancora a Kano: "Hai tempo fino a questa sera. Ci
vediamo al Calibano, all'ora di cena. Voglio i nomi: fa' parlare i tuoi
amici, pagali o pianta loro un coltello nella pancia."
Era stato fin troppo semplice, buttare giù la porta. Rame, ferro
nero e battuto, gli stipiti e l'arco di pietra, l'ariete meccanico aveva
infranto tutto al primo colpo. Lorna aveva alzato la mano destra e
Kano, ritto sulla ruspa, aveva avviato il motore.
L'uscio s'era schiantato e le schegge erano volate intorno. Lorna
sperò che l'eco di quel rumore non rotolasse fino in città. Strinse nel
pugno la piastrina sigillata: nel microfilm era registrata
l'autorizzazione a violare l'ingresso della residenza intestata a
Valdemaro N'goa, uomo. Non c'era scritto nulla, di "come" farlo.
Lorna avrebbe potuto fondere i battenti, o inserire nelle serrature a
pressione le mani mozzate di Valdemaro. Avrebbe potuto essere
facile.
Invece c'era voluta mezza giornata, per far salire la ruspa lungo la
strada che si torceva sul pendio. Ma ora la porta stava in terra,
spezzata, sotto gli occhi a 28 millimetri d'un robot che registrava
ogni immagine e non interveniva a fermare quel disastro perché nel
suo cervello un impulso continuava a ripetere soltanto
l'autorizzazione a violare la residenza di Valdemaro N'goa, e non
aggiungeva nulla, di "come" farlo.
"Basta così, Kano."
L'ariete rombò, e trasse indietro la pala d'acciaio. Lorna raccolse
un frammento di rame slabbrato. Era la prima volta che uno spazzino
entrava a quel modo in casa d'uomini. Lo mise in tasca.
"Dentro. Non fate rumore, non rompete niente. Fotografate ogni
cosa. Se trovate in giro bicchieri, nastri dei sogni, altre cose che
abbiano addosso impronte neurodigitali, adoperate le strisce… un
momento, ancora. Lasciate fuori le armi."
Kano ritirò i fulminatori, e i manganelli. Li gettò nella cabina
dell'ariete meccanico, ed entrò nella villa per primo, camminando
curioso e timoroso, chino in avanti come una mantide, Lorna lasciò
che sciamassero dentro tutti: era come profanare una chiesa, e quasi
nessuno se ne accorgeva. Stupidi. Tutti.
Entrò. La casa era graffiata dentro la roccia, proprio sul sommo
del picco più alto. Dall'ingresso, un salone tondo con il pavimento
scalpellato nel granito, si sperdevano i corridoi, lunghi tunnel
d'ombra, i tizzoni di legno profumato ormai spenti nei bracieri, e
ognuno portava a una sala più piccola, in salita e in discesa come in
un grande formicaio.
Lorna udì lo strepito degli squali che si rincorrevano: le torce
elettriche facevano luce sui mosaici dei muri, poi qualcuno scovò gli
interruttori e le lampade si accesero, in ogni angolo.
Lorna sostò davanti a una parete: il granito era smerigliato, e
l'intero corridoio luccicava come un grande specchio concavo.
Guardò il proprio volto riflesso in alto, gli occhi grandi, pieni d'acqua
verde. Quella casa lo riempiva di curiosità. Ma aveva altro da fare,
prima. "Cercate nel guardaroba, e nelle stanze intorno, le cinture
delle Ombre. E armi, se ce ne sono. Voglio sapere se in casa ci sono
armi," gridò.
Gli portarono una manciata di strisce gommate. "Impronte. Di là
ci sono gli avanzi di una festa, coppe, una brocca di psicodin ancora
mezza piena. Vieni."
Seguì Kano nel salone più grande. Il tavolo era stato preparato per
quattro. Ma quanto tempo prima? Piuttosto, quattro erano le coppe, e
le poltrone. "Vediamo," disse, a voce alta. "Una è per il morto. L'altra
per lady Mamoudy… almeno, così dice Mamoudy. Una, immagino,
per l'assassino. E l'ultima?"
Quanto era stupido quel lavoro, e quanto sprecati i suoi timori.
Forse era solo un divertimento crudele, una burla che qualcuno gli
faceva. E, forse, avrebbe dovuto chiamare la fattucchiera: con dadi e
tarocchi, magari, l'assassino gli sarebbe cascato fra le braccia. Ma
c'era il morto là sotto, le piaghe sulla faccia di lady Mamoudy, e
l'Ombra di quell'Omar. Gli uomini volevano una verità: e lui
gliel'avrebbe data. Non importava quale, in fondo.
"Lorna," chiamò una voce da un corridoio.
Alzò la testa.
"Qui, nel guardaroba."
Si volse e tornò nel tunnel degli specchi. Kano teneva in mano due
bandoliere: una d'argento, con le borchie e le fibbie pesanti. L'altra di
filigrana, più leggera, ricamata di bianco, una cinta da donna.
Agganciati a entrambe, i piccoli generatori delle Ombre. Kano aveva
sfilato le bandoliere dai ganci del guardaroba, e le guardava
incuriosito.
Quando Lorna le afferrò, Kano tirò un sospiro. "Se me la infilassi
io, una di queste cinture?" chiese.
"Friggeresti, vivo come sei. Uno sbuffo di fuoco e addio Kano…
non so come funziona, ma è così."
L'Ombra di Valdemaro era quella, dunque. E l'altra, quella da
donna? Sospirò a sua volta, e scosse il capo. Imbecille. Gliel'aveva
ben detto Kano, il giorno prima. Pat N'goa. E dov'era finita, quella
donna.
Una voce gridò ancora, stridula, da una terrazza.
La donna stava là, vicina all'architrave sbrecciato dal laser, morta
a braccia aperte, gli occhi in su. Lorna la rivoltò, spingendola con un
piede: la lama di fuoco le aveva scavato un buco nella schiena, fino
alle ossa. L'abito bianco era pieno di sangue secco.
Rovistarono in tutte le stanze, come topi, frugarono negli angoli,
perfino tra i diari, i nastri e i libri della biblioteca, ma non trovarono
il laser. "Non è in casa, assolutamente," disse Kano, quando tutti se
ne furono andati.
Lorna aveva schermato le lampade, e le luci si erano smorzate.
Rifletteva, le spalle contro una parete e gli occhi fissi sulla città (al
tramonto i soli cambiavano di colore, dal bianco all'arancio, e
s'affievolivano). A chi appartiene l'arma di questo secondo delitto? E
la mano che ha piantato il coltello nella schiena di Valdemaro, è la
stessa che ha sparato con il laser, la stessa che ha ucciso Pat e,
probabilmente, accecato la piccola Mamoudy?
La cintola stretta l'infastidiva e, ora che non c'era più nessuno,
poté sganciarla e gettarla su un cassettone. Sedette. "Vieni qui, Kano.
Cerchiamo di adoperare la testa. Credo che qualcuno voglia servirsi
di noi, come pedine di un gioco che ancora non capisco. Cerchiamo
di evitarlo. Prima troviamo l'assassino, meglio è."
Avevano steso la donna su un'asse lunga e sghemba, le braccia
irrigidite lungo i fianchi, l'abito sporco di polvere e sangue, e
l'avevano portata via. Lorna l'aveva osservata a lungo, il viso pallido
spruzzato di lentiggini piccole e dorate, il naso dritto, i capelli rossi
come una gran fiammata sulle spalle seminude. Le aveva chiuso gli
occhi, passandole le dita sul volto. Occhi opachi ormai, ma ancora
verdi. Di una donna così mi potrei innamorare, aveva pensato. Per un
attimo se l'era immaginata viva, contro il suo ventre rugoso: ma una
donna così l'avrebbe respinto come una bestia piena di rogna.
"Portatela via," aveva gridato.
Ma s'era calmato subito, aveva inghiottito la rabbia e detto a
Kano: "È stato un uomo a sparare. Non c'è dubbio. Nessuno di noi
sarebbe stato ammesso, a Carnevale, a una festa di uomini, tranne
qualche valletto fedele. Forse è stato lo stesso uomo che ha tirato il
coltello. Ma bisogna dimostrarlo, e non mi sembra facile. Voglio
l'elenco di tutti i laser in mano agli squali."
Kano socchiuse gli occhi, con malizia. "Quelli legali…" sorrise.
"Soltanto quelli legali contano, per gli uomini."
"Si può fare" disse Kano. "Non credo che siano molti, in fin dei
conti. Cento, centocinquanta al massimo, compresi quelli più vecchi.
Nella casbah si adopera il coltello, più che il laser."
"Voglio sapere quanti laser, dei nostri, hanno sparato la notte di
Carnevale. E quali. È possibile?"
"Credo di sì," disse Kano. "Il caricatore dovrebbe portare il segno
di ogni scarica, di ogni colpo insomma. Basta sequestrarli tutti, o
chiedere che li portino alla centrale, per un controllo. Chi non ha
niente da temere lo farà subito. Ma ci vorrà un po' di tempo…"
"Voglio dimostrare che qui nessuno squalo ha sparato, la notte di
Carnevale. E che, quindi, possono aver sparato soltanto gli…"
"Come fai a saperlo?"
"Non lo so. Lo spero."
Lorna s'alzò, traversò il salone e uscì sulla terrazza: incominciava
a far freddo, fuori. Sentì l'odore della città: gli squali sentivano gli
odori, e spesso dal sudore, dal sapone e dai cosmetici distinguevano
un uomo da un altro. Distinguevano, a volte, gli uomini a occhi
chiusi. Ora la brezza dei ventilatori spingeva fin sul picco l'odore
della città, salato, aspro come i limoni in fiore sulle terrazze più alte.
Un velo di nebbia s'era avvolto intorno ai grattacieli. Lorna
s'avvicinò al parapetto e guardò sotto, nell'abisso dove Valdemaro era
rotolato come un uccello dalle ali mozzate.
"Nella mia stanza, alla centrale, nel terzo cassetto a sinistra, c'è il
pugnale che abbiamo tirato fuori dalla schiena di quell'uomo. Cerca
le impronte e fammene una copia, per domani. È un coltello da
uomo, ma non vuol dire che sia stato un uomo a usarlo. Se però le
impronte fossero quelle di Omar…"
"E come potrai controllare, poi? Non ti lasceranno mai entrare
nell'archivio degli uomini."
Lorna si volse: la luce dei soli si rifletteva dal cielo sull'alabastro
della terrazza. "Questa è un'indagine piena di illegalità," sorrise. "È
tutto così strano: uno squalo che va a caccia di un uomo… pensaci.
Non ha senso. Eppure è questo il mio vantaggio: posso fare quello
che voglio, tanto sono già nell'inferno e più in basso non possono
cacciarmi. Quelle impronte, ce le prenderemo."
Rientrò e sbarrò le finestre, con cura. Sul pavimento era rimasta
una macchia di sangue secco, grande come il palmo di una mano.
Cercò di raschiarla con la punta d'uno stivaletto. "Fa' pulire qua
dentro, e metti una guardia alla porta," disse a Kano. "Vorrei anche
sapere cos'ha fatto, dopo il… delitto, Omar Khayam. Ora per ora, con
precisione. Sempre che anche la registrazione della sua Ombra non
sia stata alterata."
Mentre scendeva dal picco, nella jeep, ripensò al volto della donna
bianca: aveva visto una faccia come quella, qualche giorno prima, in
un sogno.
Aveva paura, e Kano glielo leggeva in faccia, dentro le guance
infossate e rasate male, e nello sguardo che scivolava continuamente
verso la porta dell'osteria.
Ma Kano era impaziente: aveva già riempito e svuotato il
bicchiere, tante volte, e sentiva il sidro da quattro soldi bollirgli
dentro lo stomaco. "Cerchiamo di fare presto," disse, scuotendo la
caraffa ormai quasi vuota. "Non sono venuto qui per perdere tempo."
"Nessuno deve sapere da dove ti arrivano queste informazioni,"
disse l'altro. "Per nessun motivo."
"Certo, Lo abbiamo già stabilito, questo: ora sbrigati, però."
"Soltanto un tecnico delle Ombre può averti detto queste cose,
sarà facile risalire a noi… a me."
Kano bevve ancora, un sorso breve, e schioccò le labbra.
"Sbrigati, o te ne farò pentire," sibilò.
La voce del tecnico si abbassò, soffiò quasi, come in un gemito.
"L'Ombra di Khayam non è stata manomessa. La registrazione è
integrale. È uscito da quella casa, lassù, ed è tornato subito al suo
appartamento. A piedi. Abbiamo tutto il tempo di accensione
dell'Ombra, dopo la mezzanotte. Non più di un'ora in tutto." Sfilò da
una tasca interna della giacca una scheda di metallo che portava
impressi numeri, in una lunga serie, e simboli che lui non aveva mai
visto. La spinse sul piano del tavolo, verso Kano, nascondendola con
la mano aperta quando l'oste massiccio, la barba arrotolata nella
consueta treccia sul petto, passò accanto a loro. "Questa è la matrice
della registrazione. Stasera deve essere nuovamente al suo posto."
Kano annuì. La prese fra le mani, la rigirò, poi tolse di tasca una
striscia di cartone metallizzato e la schiacciò contro la scheda. Poi la
restituì. "Ecco," disse. Numeri e simboli erano rimasti impressi sul
foglio. "Da questa copia posso tirar fuori tutte le informazioni che mi
servono, senza pericolo per nessuno. È rudimentale… ma funziona."
Negli occhi dell'altro passò una ventata di sollievo. Prese il
bicchiere, fece per riempirlo, ma dalla brocca caddero solo poche
gocce. Kano alzò una mano verso l'oste che li osservava, piegato su
un altro tavolo da sparecchiare. "Un'altra caraffa," disse. Perché li
guardava così? Si rannuvolò. "Ancora una cosa: vorrei che tu
controllassi anche la registrazione dell'Ombra di lady Mamoudy,"
mormorò.
"Be', è più semplice, se non devo portarla fuori di là."
"No, non è semplice, perché non è la registrazione archiviata,
quella che io voglio. Alla Cattedrale ce n'è una copia falsa. Ce l'ha
portata qualcuno, il giorno dopo Carnevale. Io voglio quella vera…
deve pur esserne rimasta una traccia, da qualche parte. Trovala, e
fammi sapere cosa conteneva."
L'altro scosse il capo, attese finché l'oste ebbe versato altro sidro
nei bicchieri, e l'osservò mentre si allontanava ciondolando. Bevve,
sporcandosi di spuma il labbro superiore. "Non posso assicurartelo,
questo. Ma ci proverò." Poi s'alzò, spingendo indietro lo sgabello.
"Resta qui ancora un po'. Meno gente ci vede insieme, meglio è."
Kano sorrise. Sulla sua faccia il riso sembrava inconsueto. "Finirò
di bere, prima. Tu fila via."
D tecnico uscì: la porta della taverna si apriva su un ballatoio al
primo piano, una ringhiera su un vicolo pieno di odori dolciastri e
fumi, soffocata dalle tende di plastica tese da una finestra all'altra,
dalla paglia d'alghe e dai fogli di lamiera che spiovevano dai tetti
rosi. Sopra, l'insegna bianca e rossa, "Calibano", era consumata dalla
ruggine.
Non era semplice lavorare per Kano, ma avere amici fra gli
spazzini gli avrebbe portato buono, prima o poi. Incominciò a
scendere i gradini sconnessi, reggendosi al corrimano.
Il primo colpo lo prese quasi di striscio, sulla tempia. Sentì un
lampo di dolore e d'allarme corrergli lungo la schiena, si volse e il
secondo colpo gli si abbatté sulla faccia, di traverso sullo zigomo
sinistro. Fece in tempo a vedere il profilo scuro del suo assalitore, poi
il mazzuolo lo prese in fronte, le forze lo lasciarono con il suono
delle ossa infrante, le dita scivolarono sulla ringhiera e lui cadde di
sotto, sbattendo la faccia sui gradini della scala di ferro.
"Basta così. Frugalo adesso, e portami su quello che gli trovi
addosso. Dovrebbe esserci una piastra di ferro, o di alluminio, o
quello che diavolo è. Ci serve assolutamente. Poi buttatelo in qualche
vicolo e inzuppatelo di alcool… come un ubriaco pestato in una
rissa," disse l'oste sul ballatoio. Sorrise e tornò dentro, pulendosi le
mani in un cencio chiaro.
"Posso parlare con te? Non ti chiedo che un paio di minuti, del tuo
tempo prezioso." Quelle parole gentili suonavano male, sulla bocca
sguaiata dello squalo. Omar guardò lo specchio che s'era illuminato e
non rifletteva più la sua immagine, ma proiettava quella d'uno
spazzino — almeno così sembrava, dall'uniforme — con le braccia
robuste, e l'impugnatura d'un manganello fra le mani. Non accadeva
spesso che un uomo fosse chiamato al video T da uno squalo. Non
rispose subito, e l'osservò incuriosito: la chiamata veniva dalla
casbah, forse da un posto pubblico. Sfocata, vedeva la forma d'una
panchina stinta, la vernice sfogliata dalla ruggine e dal sale.
"Sei Omar Khayam, immagino, lo scrittore dei sogni…"
Omar annuì. Vedeva bene che l'altro era eccitato. Fece un passo, si
accostò quasi a sfiorare lo specchio: fossero stati in strada, così,
l'Ombra avrebbe bruciato come cartapecora secca la pelle dello
squalo. Ora, invece, erano come due pesci carnivori appena separati
dal vetro d'un acquario.
Era quello, dunque, il fantasma che aveva cominciato a
perseguitarlo, per ordine di chissà chi?
"Ci incontriamo, alla fine," disse Omar. "So che sei stato tu," disse
lo squalo.
Non aveva esitato. Colpiva dritto. Non aveva rispetto. Anche
Lorna fece un passo, andando quasi contro l'obiettivo del video T
pubblico, e Omar vide il suo volto deformato, per un attimo, dalla
lente convessa.
"Forse non mi sarà mai permesso di provarlo. Però ho già qui…"
disse Lorna, e si batté la mano sinistra sul petto. "Le Ombre lasciano
sempre la loro impronta, lo sai. E qui c'è tutta l'ultima sera del tuo
Carnevale."
Omar sentì un brivido morderlo nelle reni. Poi sorrise: poteva
aspettarselo, quello. "Non significa nulla."
"Oh, lo so bene. Però… chi mi ha fatto avere questo, è morto
soltanto due ore fa." La faccia dello squalo era diventata terrea, di
cera, come quella d'una statua. "Forse un morto significa qualcosa di
più."
"Un'Ombra non parla. Tu sai soltanto che io sono andato al picco,
quella notte. E che ne sono uscito, più tardi. Se qualcuno me lo
avesse chiesto, l'avrei spiegato io stesso, forse… A un uomo,
naturalmente."
Lasciò cadere le ultime parole come gocce di veleno. "Io,
piuttosto, conosco molte cose di te." Fece un gesto breve, in tondo,
con la mano destra. "È un piccolo mondo, questo… Lorna." Lo
squalo sussultò, sentendo il proprio nome. Omar sussurrò: "Fino ad
ora ho scherzato. Ho accettato di parlare con te perché era una cosa
nuova, divertente, più o meno un'avventura. Ora basta: so bene che
tu, quasi ogni notte, consumi dei sogni che non ti spettano. Ognuno
ha la sua droga. So perfino dove vai a goderteli, questi sogni…"
Rise: "A ogni scrittore piace conoscere i lettori che lo apprezzano."
La maschera di cera restò muta. "Potrei farti finire nei forni della
Cattedrale. Posso venire nella casbah, e sbattere con la mia Ombra
sui muri, friggere gli intonaci, bruciare tutto… e invece aspetterò,
semplicemente, perché è un gioco che incomincia a divertirmi.
Provaci tu, ad accusarmi."
Finalmente Lorna rise. "Non ho soltanto questa registrazione, con
me," disse.
"Sai che soltanto un uomo può…"
"Certo. Ma io gioco con te a carte scoperte. Ho già il tuo coltello,
sai, l'abbiamo tirato fuori noi dalla schiena di Valdemaro. E poi ho le
tue impronte… in questo momento qualcuno le sta confrontando con
quelle che abbiamo trovato sul pugnale," mentì Lorna, quasi
distaccato, ma teso dentro come il ferro di una balestra. "Se sono
uguali… forse non significherà niente nemmeno questo, ma a forza
di tirare somme qualche totale lo avremo. Anzi, lo avrà chi ce l'ha
ordinato."
Senza accorgersene neppure, Lorna aveva portato di nuovo la
mano al petto: nel palmo, contro la stoffa, sentì la piastra sottile della
registrazione… e si sentì più tranquillo. Era il momento del bluff,
aveva in mano buone carte ma non conosceva quelle dell'avversario.
Forzò il gioco: "E se le tue impronte risultano uguali a quelle
impresse sul coltello…" lasciò il discorso appeso nello specchio,
minaccioso. Se Omar avesse controllato, se soltanto avesse chiesto
una verifica video T alla Cattedrale, sarebbe stata la fine per tutti.
Invece l'uomo si incollerì: "Come hai avuto le mie impronte?" gridò
nello specchio. "Come ti è stato permesso?"
"Non è stato difficile," disse Lorna, e si tirò indietro, come se
Omar avesse potuto balzar fuori dallo specchio, e l'immagine dello
squalo rimpicciolì. Omar batté a palme aperte sui pulsanti, in basso
lungo la cornice, e Lorna diventò un fantasma di luce e svanì.
Lo specchio restò nero, a rimandargli la sua faccia pallida, senza
trucco. Omar l'accese di nuovo, premendo con violenza sulla tastiera,
e il tondo lucido si fece di nuovo chiaro. Era ancora lì, con l'aria di
sfidarlo… Lorna sapeva che lui avrebbe acceso ancora, e l'aveva
aspettato. Puntò la mano verso la sua immagine. "Bada, spazzino,"
sibilò. "Fra dieci minuti sarò lì. Fa' che io non ti trovi."
L'idea, l'idea giusta, gli venne una sera che si sentiva così,
stralunato, e guardava con l'Ombra sulle spalle gli squali grigi che
passavano in strada, quasi sfiorandolo. Mancavano quindici giorni al
Carnevale. Era ubriaco di psicodin, sentiva una specie di valzer
rivoltarglisi nelle budella, e le facce della gente s'erano fatte ovali e
allungate, scure e cupe… era anche quella un'altra realtà, lo psicodin
gliela scavava dentro, ma era comunque una realtà. Avrebbe potuto
scrivere un sogno dell'orrore, guardando quelle facce atroci… e gli
venne quell'idea. Non avrebbe più dovuto immaginarsi ciò che non
era, inventando con fatica occhi e volti e frasi inesistenti. Avrebbe
potuto smettere di correre a quel modo verso il suicidio.
Se un uomo ubriaco di psicodin poteva inventare una realtà,
dentro di sé ma comunque una realtà, un uomo con la testa sgombra
avrebbe creato davvero la realtà, con le sue mani, con tutto il corpo.
E poi l'avrebbe raccontata nei sogni. Avrebbe fatto il diario di se
stesso.
Era scoppiato a ridere, sonoramente, e le facce degli squali s'erano
voltate un istante solo a guardarlo. E quale realtà avrebbe potuto
creare, come un dio d'una volta, capriccioso e crudele, migliore della
morte e della paura? Nelle botteghe dei sogni si vendevano bene gli
incubi, le avventure della paura e della morte. Fu quella sera, che
decise di uccidere.
"Ne ho abbastanza, sai, non voglio più restare con te. Mi sposo."
Lui s'era messo a ridere, sentendo quelle parole. "Tu non mi hai
mai chiesta in moglie," aveva aggiunto Pat, e a lui era passata la
voglia di ridere. Avevano appena finito di far l'amore, e il batticuore
di Omar s'era appena calmato, avevano fatto l'amore con le bambole,
e il manichino della donna era allungato accanto a lui, con la testa
reclinata sulla sua spalla e una mano sul suo petto. Nella casa di Pat,
lontana, sulla cima d'un grattacielo dall'altra parte della città, la
donna era viva di carne, e lungo sul tappeto, accanto a lei, fremeva
ancora il pupazzo di Omar. La guancia di lei, appoggiata contro la
sua spalla, sentiva un calore leggero e un sommesso palpito nel petto,
come se quel manichino fosse stato un uomo vero. Oh, era stato vero,
quando era entrato in lei. Sono così uguali a noi che, a volte, non so
più se siamo noi a guidare i pupazzi, o se sono loro a guidare noi,
pensò Pat.
Sentiva, duro e ingombrante contro la propria nuca, il collare che
le permetteva di guidare da lontano il manichino A-Propria-
Immagine-e-Somiglianza. L'ultimo prodotto dei maghi, nei laboratori
della Cattedrale. Dopo aver allacciato il collare, bastava ordinare con
la mente che il pupazzo parlasse, ridesse o facesse l'amore, e quel
corpo di plastica, gomma, alluminio e carne finta obbediva.
"Non capisco," mormorò l'Omar sintetico e nudo che le stava
accanto. "Non stai bene con me? Anche adesso è andato tutto bene,
no?" disse.
"Per te va bene far l'amore con un aggeggio di plastica, a tre
chilometri di distanza?" gridò lei, e le parve perfino di udire l'eco
lontana della gola artificiale che ripeteva quelle parole, solo un
decimo di secondo più tardi.
"Ma è un gioco. Lo fanno in tanti."
"È un gioco infernale. Ci stiamo abituando a farci sostituire. Prima
gli squali, ora i manichini. Per strada le Ombre ci proteggono. E di
notte i nastri ci fanno sognare. Omar, ho l'impressione che ci stiamo
svuotando, piano piano, e che pupazzi e squali e Ombre stiano
succhiando a poco a poco la nostra esistenza, e diventino loro, vivi. A
volte mi pare di diventare matta…"
S'interruppe e tirò su col naso, e il manichino fece lo stesso,
perché lei s'era scordata di sganciare il collare. "Vedi, anche ora si
mangia una parte di me," aggiunse. "L'ultima volta che sono stata
felice, davvero, di dentro, è stato — è ormai passato tanto tempo —
quando facevamo l'amore sui picchi, senza Ombre e senza manichini,
come… vedi? come animali, mi veniva da dire, e invece avrei dovuto
dire come persone normali." Tacque. Era amaro, dover lasciare
queste confessioni a una copia meccanica.
"Ma possiamo farlo ancora," disse Omar.
"Oh." Lei alzò gli occhi e rise mesta, la faccia improvvisamente
incavata, piena di paura. "Francamente non lo so, quello che
possiamo fare ancora."
Ora il manichino di Omar era immobile, nudo e lungo sul tappeto
folto dove avevano fatto l'amore, a faccia in giù: non lo pilotava più,
dunque, e parlava solo dentro la sua gola di latta, come un telefono
mostruoso. "Ti sposi, hai detto. E con chi?"
"Lo saprai soltanto al momento giusto." Lei gorgogliò un sorriso,
con improvvisa malizia. Certo che lui lo conosceva: era difficile non
conoscersi in città, anche se soltanto alla lontana. "Continueremo a
vederci, se vorrai, e magari… chi lo sa, forse ti lascerò ancora far
l'amore con me. Almeno, con questo manichino…" disse il pupazzo
di lei, che continuava a fremere come se l'aver detto quelle parole gli
avesse dato una forza nuova, e nuova corrente elettrica nelle braccia
e nelle gambe.
"Non voglio," disse Omar.
Lei tacque un istante. "Non vuoi? E cosa vuol dire? Tu non puoi
volere cose che mi riguardano. Tu stai parlando a un manichino, è
vero, ma i suoi comandi li ho in mano io."
E all'improvviso Omar s'accorse di sentire un grande dolore, che
diventava quasi fisico, e gli rodeva dentro lo stomaco, e nel cuore.
Era da un'infinità di tempo che non provava dolore. Fu quella sera,
mentre la bambola di Pat si rivestiva (è brutto vedere le bambole che
si rivestono, è lì che vedi dov'è che mancano d'umanità, quei
manichini coperti di stoffa), fu quella sera che scelse la sua vittima di
Carnevale. Sarebbe stata lei.
Il sogno aveva la forma di un ferro di cavallo, e non era più
grande del palmo delle mani di Omar. L'alzò controluce; era quasi
trasparente, e vide, nitido, il filo magnetico, sottile e torto. Era una
grande magia, anche quella: nella Cattedrale tutto era magico, non
era più un posto per preti, ma per stregoni. Come avrebbe potuto uno
scienziato mettere le mani nei sogni della gente? Sorrise: aveva detto
ad alta voce quella domanda, un giorno in uno speakeasy, e l'avevano
guardato come si guardano i matti. Perché, forse fra scienza e magia
non esisteva quella impalpabile e incommensurabile terra di nessuno
dove le pinze della scienza si incrociano con le bacchette magiche?
Ebbene, i sogni a ferro di cavallo erano figli di quella terra. Non
aveva dubbi.
Inserì il nastro nella cuffia da sonno. Fece un rumore molle, dolce,
ciac, l'estrasse e l'inserì di nuovo, ciac.
Era il suo sogno più bello. Timbrato uno, la prima copia. Era il più
bello anche perché era l'ultimo, in ordine di tempo. Ed era come se
fosse stato il primo. In città, non circolava ancora.
Ciac. Ciac.
L'aveva sognato in fretta, nell'alba livida dopo Carnevale, senza
scrivere. Aveva dettato direttamente nel registratore, senza
correggere, senza pause, come in trance mentre dalla strada veniva il
rumore sordo, i tonfi dei carri automatici che spazzavano le strade, e
il fruscio dei getti d'acido che lavavano dai marciapiedi sangue
rappreso, polvere e peccati.
Anche lui si lavava, di dentro, mentre sognava quel sogno, e
quando aveva fermato il giranastri, s'era trovato stremato e vuoto,
con lo stomaco vuoto e gli occhi vuoti. Ma lavato di tutta la rabbia e
tutta la tensione che gli si erano incrostate dentro, nei giorni e nei
mesi. Riscrivere la notte appena trascorsa era stato come provare un
lungo orgasmo, che montava e montava e non trovava da esaurirsi.
Ora ce l'aveva fatta. Sospirò e andò alla finestra: tirava vento
forte, come ogni volta che un computer, nei fondi della Cattedrale,
decideva di ripulire dai fumi l'aria della città.
Era un sogno perfetto. Professionalità… quel sogno sembrava
traboccarne. Era molto tempo che non sognava così. Si sentiva come
ubriaco.
Ciac. Si baloccò ancora.
Era un sogno pieno di brividi, e di sudori reali. E ora altri brividi
glieli dava la caccia che quello squalo — Lorna!, perfino un nome da
donna — aveva preso a dargli. Era come se la sua vita avesse
incominciato di nuovo ad avere sapore, a mandare odori. S'alzò dal
divano, un perfetto Luigi XIV in vetroresina, fuso apposta per lui da
un artigiano della casbah, e andò verso lo specchio, nudo com'era.
Batté sui tasti, e lo specchio si illuminò. C'era uno squalo grigio,
lontano, nel fondo di un archivio.
"Tu, rispondi," gli disse Omar. Non era Lorna, era più piccolo e
curvo e non aveva, lo vide quando lo squalo s'ingrandì nello
specchio, quell'aria sfrontata in faccia.
"Ho un ordine per Lorna," disse Omar. Lo squalo gli lanciò uno
sguardo grigio anch'esso. Chissà se era così sempre, chissà se uno
squalo cambia faccia quando canta, o beve, o fa l'amore? Alzò la
mano destra verso lo specchio, a palmo aperto, mostrando il piccolo
nastro del sogno. "Farò arrivare lì questo nastro, per Lorna. Entro
questa sera," disse.
Lo squalo annuì.
"E poi…" Omar esitò un istante. "Digli che l'aspetto domani, a
mezzogiorno, all'hangar delle tartarughe. Che non arrivi in ritardo."
Non gli lasciò il tempo d'una risposta. Batté ancora sulla tastiera, e
spense lo specchio. Altri brividi, su e giù per la schiena.
Ciac. Inserì ancora una volta il sogno nella cuffia. L'avrebbe
goduto ancora una volta, prima.
VI
Il cervello della petroliera s'era fatto attento. Vide, con gli obiettivi
delle telecamere mobili, la batt