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Secondo John Dewey, gli alunni sono in grado di imparare meglio quando hanno l’occasione di
sperimentare e di essere protagonisti attivi. L’attivismo pedagogico è un approccio pedagogico che
stimola l’apprendimento attraverso il fare. Dewey in sostanza dice che la conoscenza è importante,
ma il nostro rapporto con il mondo è anzitutto un rapporto pratico.
La funzione del linguaggio per Vygotskij, è la comunicazione sia nei bambini che negli adulti, e
quindi anche il linguaggio del bambino è sociale. All'inizio il linguaggio assolve solo una funzione
sociale, ma progressivamente si sviluppa anche una funzione intrapersonale. All'inizio
il linguaggio ha solo una funzione sociale, ma poi si sviluppa anche una funzione intrapersonale.
Per Vygotskij, lo sviluppo del linguaggio, è il risultato di un'azione di promozione sul bambino da
parte dell'adulto.
La scuola di Dewey
La scuola di Dewey è chiamata anche progressiva in quanto l'attività che si svolge al suo interno,
presuppone uno sviluppo progressivo. La scuola deve rappresentare per il bambino un luogo di vita: quella
vita sociale che deve svilupparsi per gradi, partendo dall'esperienza acquisita in famiglia e nell'ambiente
sociale in cui egli vive. La scuola è attiva e progressista. Si studiano i metodi e non solo i contenuti. Non le
nozioni, ma la ricerca.
Anche Dewey come la maggior parte dei pedagogisti moderni divide l'età evolutiva in tre fasi:
Dai 4 agli 8 anni prevalgono nel bambino gli istinti e i bisogni in modo spontaneo che si manifestano con il
gioco e l'attività ludica.
Dai 9 ai 12 anni il bambino frequenta la scuola primaria che è basata sul lavoro per permettere al soggetto
di acquisire le abitudini culturali della società in cui vive.
Dai 12 ai 14 anni all'alunno viene data la possibilità di ampliare le sue conoscenze astratte attraverso lo
studio in biblioteca e laboratorio all'interno della scuola media.
1) Il principale compito della scuola è educare i ragazzi a una vita di cooperazione e di reciproco aiuto, a
promuovere in loro consapevolezza dell’interdipendenza e ad aiutarli praticamente a compiere quegli
adattamenti che tradurranno tale spirito in atti espliciti.
2) La radice principale di ogni attività educativa è riposta nelle attività istintive e impulsive del fanciullo;
dunque il gioco, ma anche ogni altra attività istintiva possono essere considerate educative
strategie dove si lascia al discente il compito di dare un senso ai contenuti che il formatore
ha cercato di trasmettere;
strategie chiamate learner centred, dove l’interesse del discente deve facilitare
l’apprendimento.
lavori individuali;
interventi individualizzanti;
lavori di gruppo;
ricerche guidate;
attività progettuali;
esercizi differenziati;
partecipazione a concorsi;
attività laboratoriali in classe o all’esterno;
attività di recupero;
attività di consolidamento;
attività di sviluppo;
iniziative di sostegno;
visite e viaggi d’istruzione;
visite aziendali;
interventi di esperti su specifici argomenti;
partecipazione a cineforum, spettacoli, manifestazioni sportive.
La funzione dell’insegnante di sostegno quale mediatore è dunque quella di garantire che tutte le
informazioni che giungono al soggetto disabile
diventinomateriale di conoscenza e comprensione grazie all#attivazione in lui di schemi elaborativi
di natura organizzativa ed interpretativa.
23) Quale valenza ha la metodologia didattica per un docente?
Sono tutte le procedure per conseguire un obiettivo prefissato. Prima di scegliere quale o quali
adottare il docente è obbligato a individuare le abilità di base dei propri alunni; ciò garantisce
l’insegnamento e lo sviluppo delle capacità di tutti. Il consiglio generale di tutte le istituzioni
scolastiche è quello di condividere le proprie metodologie con gli altri insegnanti per non disorientare
gli allievi e di valorizzare l’attività ludica. L’insegnamento viene processato attraverso le metodologie
della comunicazione:
iconica = disegni, immagini, audiovisivi;
verbale = lezioni espositive, letture, conversazioni, discussioni;
grafica = relazioni, test liberi, composizioni, rielaborazioni, interpretazioni;
La scelta del metodo e degli strumenti dipende:
dagli obiettivi prestabiliti;
dai contenuti che si intendono proporre;
dalla realtà della classe;
dai ritmi d’apprendimento dei singoli allievi
Osservazione. Rappresenta una risorsa preziosa per acquisire elementi informativi sugli alunni, sul
contesto scolastico, sull’ambiente territoriale dai quali muovere per progettare il proprio intervento;
questa attività conoscitiva poggia su procedure osservative rigorose improntate alla trasparenza dei
protocolli e al confronto intersoggettivo.
Progettazione. Il docente non può non progettare pena il venir meno del senso della sua azione poiché
l’educazione si fonda sulla progettualità; la sua attività progettuale assume caratteristiche specifiche
in funzione del luogo (micro, meso e macro), dell’oggetto di riferimento e dei soggetti coinvolti ma
implica sempre una proiezione verso il futuro a partire dall’esperienza e dal significato che le si
attribuisce nel presente. Una concezione non riduttiva della progettazione la interpreta come tensione
euristica che muove da una conoscenza approfondita della realtà per poter individuare pratiche di
intervento rispondenti alle caratteristiche degli ambienti e delle persone; per progettare è pertanto
indispensabile disporre di competenze metodologiche che si traducono nelle capacità di definire
finalità e obiettivi, costruire piani di azione coerenti, finalizzare le risorse disponibili, dotarsi di
strumenti rigorosi per valutare la qualità del processo e del prodotto. In tal senso, risalta la stretta
contiguità fra il modo di procedere tipico della ricerca e l’assunzione della progettazione come stile
di lavoro che informa l’agire del docente.
Documentazione. Molto spesso in ambito scolastico la documentazione è interpretata come
adempimento formale; in realtà, essa rappresenta un processo strategico che permette sul fronte
interno al docente di tracciare e rendere visibili i percorsi di lavoro attivati e agli alunni e alle famiglie
di apprezzare i progressi compiuti; sul fronte esterno, rende l’esperienza comunicabile nel tempo e
nello spazio e costituisce pertanto il presupposto per facilitare la trasferibilità di una buona pratica
fuori dal suo contesto di origine e per estendere il valore della conoscenza locale prodotta. Per
guardarsi dal rischio di procedere ad una raccolta casuale di materiali e documenti occorre progettare
in modo intenzionale, sistematico e mirato l’attività di documentazione la qual cosa richiede il
possesso di abilità e capacità metodologiche strettamente legate alla competenza di ricerca.
Valutazione. Il compito valutativo, per sua natura, è complesso e attiva meccanismi non sempre
facilmente governabili, a motivo anche del forte carico emotivo implicito sia quando si agisce la
valutazione sia quando se ne è destinatari. Il docente può esercitare la sua funzione valutativa in modi
diversi: a livello di classe progetta e implementa strategie per valutare gli apprendimenti (conoscenze,
abilità, competenze) degli alunni, a livello di istituto partecipa ai processi (auto)valutativi
dell’organizzazione, a livello di territorio valuta i progetti e le azioni attivate in rete. Di là dalla spe-
cificità di ciascun compito, la valutazione si configura come un processo costituito da azioni che
vanno intenzionalmente progettate e realizzate secondo procedure rigorose per formulare un giudizio
argomentato, contestualizzato e motivato sull’oggetto d’analisi al fine di guidare la presa di decisione.
In tal senso, la qualità dei processi valutativi dipende anche dal possesso di competenze
metodologiche.
26) La documentazione quale ruolo riveste nella scuola di oggi?
In ambito scolastico spesso la documentazione viene interpretata come adempimento formale; in
realtà, essa rappresenta un processo strategico che permette sul fronte interno al docente di tracciare
e rendere visibili i percorsi di lavoro attivati e agli alunni e alle famiglie di apprezzare i progressi
compiuti; sul fronte esterno, rende l’esperienza comunicabile nel tempo e nello spazio e costituisce
pertanto il presupposto per facilitare la trasferibilità di una buona pratica fuori dal suo contesto di
origine e per estendere il valore della conoscenza locale prodotta.
27) Quale ruolo riveste la valutazione?
Il compito valutativo, per sua natura, è complesso e attiva meccanismi non sempre facilmente
governabili, a motivo anche del forte carico emotivo implicito sia quando si agisce la valutazione sia
quando se ne è destinatari. Il docente può esercitare la sua funzione valutativa in modi diversi: a
livello di classe progetta e implementa strategie per valutare gli apprendimenti (conoscenze, abilità,
competenze) degli alunni, a livello di istituto partecipa ai processi (auto)valutativi
dell’organizzazione, a livello di territorio valuta i progetti e le azioni attivate in rete. Di là dalla spe-
cificità di ciascun compito, la valutazione si configura come un processo costituito da azioni che
vanno intenzionalmente progettate e realizzate secondo procedure rigorose per formulare un giudizio
argomentato, contestualizzato e motivato sull’oggetto d’analisi al fine di guidare la presa di decisione.
In tal senso, la qualità dei processi valutativi dipende anche dal possesso di competenze
metodologiche.
28) Che cosa si intende per ricerca -formazione?
L’idea principale è che la ricerca deve informare l’intero insegnamento e il processo di
apprendimento “da dentro” e non “accanto”. In questa prospettiva, la ricerca rappresenta non solo
un’attività (da fare), ma anche una dimensione dell’identità professionale dell’insegnante (da essere).
Per rendere possibile e sostenibile la ricerca dell’insegnante, è necessario agire non solo sul percorso
formativo del docente e sulla sua attività professionale, ma anche sulle condizioni organizzative della
pratica scolastica.
Tale competenza non può svilupparsi senza un raccordo stretto e del tutto nuovo con l’università. La
professione dell’insegnante non deve essere assunta come giustapposizione e sommatoria
schizofrenica di tante professioni, se così fosse si perderebbe nella sostanza la centralità del processo
di insegnamento-apprendimento al cui miglioramento va invece finalizzata l’attivazione di qualunque
nuova figura.
33) Perché la relazione insegnante alunno è fondamentale?
Si crea un contesto di apprendimento favorevole ad un incontro tra pensieri, conoscenze ed esperienze
in cui insegnante e alunno con le rispettive differenze sono entrambi soggetti della relazione
educativa.
Tale relazione è importante per realizzare una positiva comunicazione didattica, una proficua
relazione educativa; per riconoscere i problemi tipici delle varie fasi di età, le dinamiche e i conflitti
che nascono all’interno della classe, tra gli alunni o tra alunno e insegnante; per riconoscere i problemi
e saperli gestire.
34) Cosa si intende per relazione d’aiuto?
Una relazione d'aiuto potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca
di favorire in una o ambedue le parti una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto
e una maggiore possibilità di espressione
La relazione educativa, che è una forma di relazione di aiuto, richiede oltre un importante
coinvolgimento da parte degli insegnanti anche una serie di abilità e competenze relazionali e
comunicative. Un punto fermo della relazione di aiuto è la presenza di una relazione dove l’altro non
è visto come un oggetto di intervento ma riconosciuto come persona, con la quale elaborare una
progettualità per affrontare il problema, avvalendosi delle risorse di cui dispone, cercando di fargli
raggiungere dei risultati in tempi brevi. La relazione di aiuto, circolare, interattiva, contestualizzata e
finalizzata ad attivare le risorse del cliente per risolvere il problema, rappresenta il momento iniziale
per l’avvio del processo di cambiamento.
· A CANNE D’ORGANO;
· ORIZZONTALE;
· DEMOCRTATICA;
Le caratteristiche essenziali della riforma Gentile sono: il sistema dualistico, l’ obbligo scolastico elevato al
quattordicesimo anno di età, la scuola materna facoltativa dai 3 ai 6 anni, la durata di 5 anni della scuola
elementare divisa in due gradi. Per quanto riguarda la funzione del docente questi è paragonato a una sorta
di ufficiale statale, autoritario, che ha il compito di padroneggiare la materia e insegnare agli allievi la
gerarchia autoritaria.
64. SULLA BASE DELLA LETTURA DELL’INTRODUZIONE DEL TESTO IDEE PER LA FORMAZIONE DEGLI
INSEGNANTI, SI EVIDENZI L’INFLUENZA CHE ANCORA OGGI GENTILE ESERCITA SULLA CONCEZIONE DELLA
FORMAZIONE E DELLA PROFESSIONALITA’ DEI DOCENTI.
Ancora oggi ci sono docenti secondo i quali l’insegnamento si può riassumere nella frase “chi sa, sa anche
insegnare”, in altre parole ritenere l’insegnamento la sola trasmissione dei saperi.
Inoltre, al giorno d’oggi, molti insegnanti ritengono ancora di ricoprire un ruolo autoritario e si pongono in
una posizione di superiorità nei confronti dei propri alunni.
65. In che modo il docente può allestire ambienti di apprendimento innovativi, motivanti ed inclusivi?
Quali metodi dovrà privilegiare?
- Il docente deve innanzitutto partire dalle precononoscenze degli studenti; all’inizio della lezione,
attraverso la metodologia del brainstorming, che consente di motivare gli studenti, in quanto
sentirsi coinvolti nell’esprimere le proprie conoscenze e condividerle ben predispone
all’apprendimento (Maria Papa).
- Durante le attività didattiche, inoltre, il docente può presentare dei casi reali (studio di casi o case
analysis) da analizzare, anche in gruppi (cooperative learning) o in coppia (peer tutoring o peer to
peer), per promuovere forme di apprendimento cooperativo, che favoriscano l’inclusione, a partire
dalla scelta di argomenti realistici, e per questo, maggiormente attraenti ovvero motivanti.
(Arianna Patanè)
- Una questione fondamentale nell’insegnamento riguarda la scelta della forma comunicativa. In
particolare, l’utilizzo delle immagini, attraverso le presentazioni, appare maggiormente
coinvolgente dimostrando quanto l’uso competente delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della
Comunicazione) consenta una facilitazione nell’apprendimento, grazie ad un maggiore
coinvolgimento da parte degli studenti che, essendo dei “nativi digitali”, provano maggiore
interesse quando la presentazione di un argomento si avvale di strumenti digitali (Alessandro
Pappalardo).
- Utile per motivare gli studenti è anche utilizzare strategie ludiche e competitive. Ad esempio,
l’impiego di Kahoot consente di esercitarsi su qualsiasi argomento all’interno di una gara che
prevede tra vincitori: terzo, secondo e primo posto. Nei contesti didattici odierni la gamification
appare una strategie metodologico-didattica particolarmente innovativa, motivante ed inclusiva.
(Francesco Saverio Palomba).
66) Che cosa si intende per “progettazione a ritroso”? Perché questo tipo di progettazione favorisce lo
sviluppo delle competenze? Cosa vuol dire “Non è importante quanto un alunno sa, ma che cosa sa fare con
quello che sa” (Wiggins)?
67) 1) Riflettere e commentare la seguente affermazione messa in risalto dalla pedagogia Marxista:
"L'educazione è condizione indispensabile per la realizzazione di una nuova società".
68) Quali dei paradigmi pedagogici analizzati dal punto di vista didattico e metodologico ti ha interessato di
più e perché: Illuminismo, Romanticismo, Positivismo, Attivismo, Pedagogia come scienza
69) 1) Rifletti sul concetto di emergenza educativa: quali sono le cause, le conseguenze e quali le
caratteristiche dei nuovi bisogni educativi.
70) Spiega e rifletti sui concetti di: apprendimento formale, apprendimento informale, apprendimento non
formale, con esempi anche riferiti alla tua esperienza personale
Vincenzo Rega
Essere umani
Corso di psicologia e pedagogia
FORMAZIONE
ISTRUZIONE EDUCAZIONE
apprendimento di potenziamento di
contenuti qualità e
competenze
PROCESSO
TEORICA PRATICA EDUCATIVO
ISTITUZIONE
SCOLASTICA
ART. 34 IN ANTICIPO
COSTITUZIONE DICHIARAZIONE UNIVERSALE
ITALIANA DEI DIRITTI UMANI (1948)
(1946)
Essere umani
Corso di psicologia e pedagogia
MOTIVAZIONE
PROCESSO DI ATTIVAZIONE
DELL’ORGANISMO
ORIENTAMENTO MOTIVAZIONALE
CENTRATO SULL’AZIONE
O SULLA SITUAZIONE
SUGGERIMENTI CARATTERISTICHE
COMINCIARE AD AVERE FIDUCIA NELLA “Rimettersi in gioco” subito dopo ad una situazione negativa, facendo
POSSIBILITÀ DIMIGLIORARE tesoro dell’esperienza passata
AVERE UNA PERCEZIONE REALISTICA DI SÉ Non considerare accertata e veritiera l’immagine negativa di noi stessi
variano per
intensità e durata
EMOZIONI
fanno capo
all’emotività
(capacità di provare
emozioni)
RUOLO IMPORTANTE
FUNZIONI
EMOZIONI MOTIVAZIONI
INTELLETTIVE
PIACEVOLI SPIACEVOLI
MIGLIORANO PEGGIORANO
ATTENZIONE E
MEMORIZZAZIONE
ALUNNO
IMPARARE A IMPARARE
https://collezioni.scuola.zanichelli.it
CRITERI STILE
LEGISLATIVO
ESECUTIVO
IN BASE ALLE FUNZIONI
GIUDIZIARIO
MONARCHICO
GERARCHICO
IN BASE ALLE FORME OLIGARCHICO
ANARCHICO
GLOBALE
IN BASE AI LIVELLI
LOCALE O ANALITICO
INTERNO
IN BASE AGLI SCOPI
ESTERNO
LIBERALE
IN BASE ALLE INCLINAZIONI
CONSERVATORE
Essere umani
Corso di psicologia e pedagogia
La teoria
CARL ROGERS
umanistica
TERAPIA NON-DIRETTIVA
O CENTRATA SUL CLIENTE
EDUCATORE
TEORIA SISTEMICA
EDUCATORE
ABILITÀ
RELAZIONARI riorganizzazione individuare le
interna della classe persone-chiave
(equilibrio)
stabilità dinamica
equilibrio tra tenere sotto controllo
parte e totalità l’ansia
e di stimolare l’attenzione
(stabilità dinamica)
FORMAZIONE
METACOMUNICAZIONE
INSEGNANTE PARTECIPAZIONE
= ATTIVA INSEGNANTE
FACILITATORE ALLIEVO
AMBITI
EDUCATIVI
COMPETENZE
PEDAGOGICHE E
PSICOLOGICHE SOCIOLOGICHE
DIDATTICHE
Essere umani
Corso di psicologia e pedagogia
ORALITÀ
SCRITTURA
APPRENDIMENTO
LETTURA/SCRITTURA
SCUOLA
ISTRUZIONE SCUOLE
SACERDOTI SCRIBI
INIZIALMENTE POI LOCALI
NEI TEMPLI SEPARATI
1880 47,5 55 2 2 17 1 22 14 17 29
1990 2,9 2,8 0,2 0,2 0,3 0,3 0,3 0,3 0,5 0,2
1861
LA LEGGE CASATI
DECRETO LEGGE 13 NOVEMBRE 1859
•Rapidità. (4 mesi)
PRINCIPIO ISPIRATORE:
ACCENTRAMENTO DECENTRAMENTO
(BELGIO) (INGHILTERRA)
LA LEGGE CASATI
MINISTRO
CENTRO:
• Direttori generali dell’Istruzione
(elementare, classica, tecnica, ecc.)
PERIFERIA:
• Provveditori
• Capi di istituto
• Docenti
LA LEGGE CASATI
art. 1
La pubblica istruzione si divide in tre rami, al
primo dei quali appartiene l'istruzione superiore; al
secondo l'istruzione secondaria classica; al terzo la
tecnica e la primaria.
art. 47
L'istruzione superiore ha per fine di indirizzare nelle
carriere sia pubbliche che private in cui si richiede la
preparazione di accurati studj speciali e di mantenere ed
accrescere nelle diverse parti dello Stato la cultura
scientifica e letteraria.
LA LEGGE CASATI
art. 148
L'istruzione secondaria ha per fine di ammaestrare i
giovani in quegli studi mediante i quali si acquista una
cultura letteraria e filosofica che apre l'adito agli studi
speciali che menano al conseguimento dei gradi accademici
nelle Università dello Stato.
LA LEGGE CASATI
art. 193
L'istruzione religiosa sarà data da un Direttore spirituale nominato
dal Ministro […]
art. 195
I Ginnasi sono di tre classi […]
art. 199
L'istruzione di secondo grado è data in stabilimenti […] denominati
Licei.
art. 200
I Licei sono di tre classi […]
LA LEGGE CASATI
art. 272
L'istruzione tecnica ha per fine di dare ai giovani che
intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico
servizio, alle industrie, ai commerci, e alla condotta delle
cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale.
LA LEGGE CASATI
art. 315
L'istruzione elementare è di due gradi, inferiore e superiore […]
art. 316
Il corso inferiore e il corso superiore si compiono ciascuno in due
anni; ognuno di essi si divide in due classi distinte.
LA LEGGE CASATI
Scuola complementare
Scuola normale
Anni: 1-2-3E
Anni: 1-2-3E
università
Corso magistr.
Anni: 1-2E
Ginnasio super.
moderno Liceo moderno
Anni: 1-2E Anni: 1-2-3E
Scuola tecnica comune Ist. tecnico industriale
Anni: 1-2-3-4E
Anni: 1-2-3E Ist. tecnico agrimensura
Scuola tecnica agraria Anni: 1-2-3-4E
Ist. tecnico agronomia
Anni: 1-2-3E Anni: 1-2-3-4E
Scuola tecnica industr. Ist. tecnico commerciale
Anni: 1-2-3E Anni: 1-2-3-4E
Scuola tecnica comm. Ist. tecnico fisico-matem.
Anni: 1-2-3-4E
Anni: 1-2-3E
Scuola ed educazione
E' assente nei Programmi qualsiasi riferimento all'insegnamento della religione nella
scuola elementare.
Nelle scuole normali l'insegnamento della pedagogia è abbinato a quello della religione
Provvedimenti legislativi
dei governi della Sinistra:
Anche nelle stesse classi povere sono molti a non vedere di buon occhio
l'obbligo scolastico, specialmente là dove il misero guadagno del lavoro
minorile è di fatto un elemento indispensabile dell'economia di
sopravvivenza delle famiglie.
Tranne casi veramente eccezionali, gli aspiranti al diploma d’insegnante, conseguibile colla
scorciatoia della abilitazione, non avrebbero oggi dì alcuna onesta e valevole ragione, per
giustificare la loro mancanza di studi regolari, fatti, cioè, a tempo e luogo.
Molte ragioni di tornaconto, troppo facili a comprendersi, fanno preferire a molti la via spicciativa
dell’esame di abilitazione alla via lunga della laurea e del corso universitario.
L’esame di abilitazione, appare a chi bene consideri un vero privilegio conceduto ai mediocri ed ai
negligenti a scapito dei giovani d’ingegno e volenterosi, che si sobbarcano a non lievi sacrifizi per
compiere convenevolmente i loro studi universitari.
Estratto dalla
Relazione sui programmi per gli esami di abilitazione (1877)
Una rivista del tempo, "La scuola nazionale", rileva che il commento
non illustra, ma pietosamente vela, scusa, migliora, interpretando
largamente e pietosamente il testo dei programmi.
I PROGRAMMI GABELLI
- 1888 -
riassumibile nell'affermazione:
Quasi tutti i fanciulli sopra i 6 anni frequentano le scuole. Nelle città i pochi che
non frequentano le scuole diurne, si inscrivono nelle serali. Quelli che crescono
senza istruzione sono rarissimi, massimamente nella campagna. Ciò per forza di
abitudine, non per costringimento o timore. […] La popolazione è raccolta nei
villaggi talché è facile e comodo l’accesso alla scuola. La scuola non dura se non
5 o 6 mesi all’anno. E’ sempre ben riscaldata a spese del comune, il quale
somministra agli alunni poveri, non solamente i libri e la carta, ma spesso anche
vesti e scarpe.
Più di tutti però a far nascere l’abitudine di frequentare la scuole contribuì il
clero, al quale la legge anteriore a quella del 1869 affidava ogni cosa. I parroci
decani erano ispettori delle scuole elementari.
La riforma Baccelli - 1894
fa prevalere il principio di
istruire il popolo quanto basta, educarlo più che
si può.
-1-
La legge Nasi del febbraio del 1903 introduce una normativa che
riduce il margine di arbitrio delle autorità comunali nella nomina e
nel licenziamento dei maestri. Riconosce il diritto delle maestre,
sia pure limitatamente all'insegnamento nelle classi maschili e
miste, a percepire lo stesso stipendio dei maestri.
Le istituzioni educative nell'età di
Giolitti
-2-
La legge Orlando del luglio del 1904 riordina i corsi
dell'insegnamento elementare, riporta la durata a quattro anni per
gli alunni che intendono continuare gli studi, e istituisce per gli altri
una V e una VI classe.
Estende l'obbligo scolastico fino a dodici anni di età, stabilendo per
gli evasori nuove sanzioni. Istituisce corsi serali e festivi per gli
adulti (di fatto questi corsi funzionarono in modo inadeguato).
Le istituzioni educative nell'età di
Giolitti
-3-
La legge Daneo-Credaro del 1911 stabilisce nuovi stanziamenti
a favore dell'edilizia scolastica e aumenti dei minimi di stipendio
dei maestri e dei direttori.
Riordina la struttura amministrativa e dei ruoli scolastici. Le
scuole elementari vengono avocate allo Stato
Le istituzioni educative nell'età di
Giolitti
L'industrializzazione richiedeva un
minimo di istruzione
generalizzata
La politica di Giolitti vista da
Gramsci
Bisognava per Giolitti, che rappresentava il Nord, spezzare la
forza retriva dei proprietari terrieri, per dare alla borghesia più
largo spazio nello Stato.
Giolitti ottenne questo colle leggi liberali sulla libertà di sciopero
e di associazione: egli "capì" che occorreva concedere a tempo
per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del
Paese, e ci riuscì. [...]
E' Giolitti che ha creato la struttura contemporanea dello Stato
italiano e tutti i suoi successori non hanno fatto altro che
continuare l'opera sua, accentuando questo o quell'elemento
subordinato.
Le istituzioni educative
Dai primi del Novecento alla seconda
guerra mondiale
1908
Giovanni Gentile scrive:
•elevazione dell'obbligo;
•lotta analfabetismo;
•società umanitarie;
•Università popolari.
Benito Mussolini parla agli universitari
fascisti (dicembre 1923):
•disciplina;
•gerarchia;
•sottomissione
all'autorità.
LA RIFORMA GENTILE
Ogni forza è forza morale in quanto si rivolge
alla volontà e qualunque sia l'argomento
adoperato, dalla predica al manganello, la sua
efficacia non può essere che quella che sollecita
interiormente l'uomo e lo persuade a consentire.
Ogni educatore sa quale mezzo concreto
(predica o manganello) usare, secondo le
circostanze.
(G. Gentile, 1924)
LA RIFORMA GENTILE
"Una pioggia di
regi decreti"
Il motto del Ministro è:
12 regi decreti:
10 sulla scuola elementare.
la scuola materna è istituita facoltativamente dai
3 ai 6 anni.
sistema dualistico:
•scuola •studi preparatori a
disinteressata mestieri (scuole
(ginnasio/liceo) tecniche e
professionali)
indirizzi
scolastici
chiusi:
le canne
d'organo.
LA RIFORMA GENTILE
Il metodo d'insegnamento
è secondario rispetto ai contenuti e alle
regole da impartire mediante la pratica
della imitazione (la pedagogia del
modello).
LA RIFORMA GENTILE
Ist. Magistrale Ist. Magistrale
inferiore superiore Istituto
Anni: E1-2-3-4E Anni: 1-2-3E Superiore
Magistero
Ist. Tecnico superiore
Ist. Tecnico (agrimensura o
inferiore commerciale)
Anni: E1-2-3-4 Anni: E1-2-3-4E
Corso
integrativo Liceo scientifico
Grado Anni: 1-2-3E (dopo 4 anni di
preparatorio Scuola elementare scuola media)
università
Scuola Anni: E1-2-3-4E
Anni: 1-2-3 Anni: 1-2-3E-4-5E
complementare
Anni: E1-2-3E Liceo femminile
(dopo 4 anni di
scuola media)
Anni: E1-2-3E
Ginnasio Ginnasio
inferiore superiore Liceo Classico
Anni: E1-2-3E Anni: 1-2 Anni: 1-2-3E
La scuola media (1923)
Regio Decreto 6 maggio 1923, n. 1054
1) l’ammonizione;
2) la censura;
3) la sospensione dallo stipendio fino ad un mese;
4) la sospensione dallo stipendio e dall’ufficio fino ad un mese;
5) la sospensione dall’ufficio e dallo stipendio da oltre un mese a un
anno;
6) la destituzione dall’ufficio senza perdita del diritto a pensione o
ad assegni;
7) la destituzione con perdita del diritto a pensione o ad assegni.
Il preside, al quale sia inflitta una punizione più grave che la
censura, è restituito, senz’altro, al ruolo a cui apparteneva all’atto
della nomina.
Riordinamento dell'istruzione industriale
(1923)
R. D. 31 Ottobre 1923, N. 2523
n. 2185
I programmi di studio, che qui si descrivono, vogliono avere, più che altro, un
carattere indicativo.
Si addita al maestro il risultato che lo Stato si attende dal suo lavoro, in ciascun
anno di scuola, pur lasciandolo libero di usare, per ottenerlo, i mezzi opportuni. I
quali per molte ragioni, sono sempre vari e mutevoli, in rapporto alla situazione
concreta nella quale il maestro si trova, in un dato ambiente scolastico, ed in
rapporto con la personale cultura del maestro e con la particolare tempra che egli
sarà riuscito a dare, attraverso una vigile esperienza, al proprio spirito di
educatore.
I programmi che seguono sono delineati in guisa da fare, per se stessi, obbligo al
maestro di rinnovare continuamente la propria cultura, attingendo non a
manualetti in cui si raccolgono le briciole del sapere, ma alle vive fonti della vera
cultura del popolo.
Dai: PROGRAMMI DI STUDIO E PRESCRIZIONI
DIDATTICHE PER LE SCUOLE ELEMENTARI (1923)
7 gennaio 1929:
introduzione nelle scuole elementari del libro unico di
Stato. La legge pone fine ad un periodo di notevoli
progressi dell'editoria scolastica
I volumi per le scuole elementari erano tre:
•Il libro di lettura;
•Un libro di religione, storia, grammatica, aritmetica, geografia;
•I libri del fascista (il secondo volume per esempio era incentrato sulla
razza).
PREMESSA
Art. 1. A partire dall’anno scolastico 1934-35 è istituito per gli alunni maschi delle
scuole medie governative, pareggiate e parificate, delle università e degli istituti
superiori l’insegna mento di «cultura militare».
Tale insegnamento sarà integrato da escursioni ed esercitazioni pratiche.
Art. 1. A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche
e private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di
razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorsi anteriormente
al presente decreto; nè possono essere ammesse al conseguimento dell'abilitazione
alla libera docenza. Agli uffici ed impieghi anzidetti sono equiparati quelli relativi
agli istituti di educazione, pubblici e privati, per alunni italiani, e quelli per la
vigilanza nelle scuole elementari.
La scuola italiana liberata dagli
ebrei
Art. 3. Alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private,
frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza
ebraica.
Art. 4. Nelle scuole d'istruzione media frequentate da alunni italiani è vietata
l’adozione di libri di testo di autori di razza ebraica. Il divieto si estende anche
ai libri che siano frutto della collaborazione di più autori, uno dei quali sia di
razza ebraica; nonché alle opere che siano commentate o rivedute da persone
di razza ebraica.
Art. 5. Per i fanciulli di razza ebraica sono istituite, a spese dello Stato, speciali
sezioni di scuola elementare nelle località in cui il numero di essi non sia inferiore
a dieci.
Art. 6. Scuole d'istruzione media per alunni di razza ebraica potranno essere
istituiti dalle comunità israelitiche o da persone di razza ebraica.
La scuola italiana liberata dagli
ebrei
Art. 8. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto il personale di razza
ebraica appartenente ai ruoli per gli uffici e gli impieghi di cui al precedente
art.1 è dispensato dal servizio, ed ammesso a far valere i titoli per l'eventuale
trattamento di quiescenza ai sensi delle disposizioni generali per la difesa della
razza italiana. Al personale stesso per il periodo di sospensione di cui all'art.3
del R. decreto legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1390, vengono integralmente
corrisposti i normali emolumenti spettanti ai funzionari in servizio. Dalla data
di entrata in vigore del presente decreto i liberi docenti di razza ebraica
decadono dall'abilitazione.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto
nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando
a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a San Rossore, addì 15 novembre 1938 - XVII
Vittorio Emanuele, Mussolini, Bottai, Di Revel
1939-40: La Carta della Scuola di
Bottai
E’ stata definita “la riforma della Riforma Gentile”.
Rimase senza seguito a causa della guerra.
La Carta della scuola manteneva la scuola materna biennale
seguita dalla scuola elementare (3 anni più 2 di “scuola del
lavoro”).
Poi si aprivano 3 possibilità:
VII DICHIARAZIONE
Scuola e famiglia, naturalmente solidali, collaborano, in intimo e continuo
rapporto, ai fini dell’educazione e dell’orientamento degli alunni. Genitori e parenti
partecipano alla vita della Scuola e vi apprendono quella comunione di intenti e di
metodi che sorregge le forze dell’infanzia e dell’adolescenza sulle vie della
ragione dei padri e dei destini d’Italia.
XXVII DICHIARAZIONE
Lo Stato provvede di propri testi tutte le scuole dell’ordine elementare. I libri di
testo dell’ordine medio e superiore, che costituiscono l’espressione diretta e
concreta dei programmi di studio, non possono essere stampati senza la
preventiva approvazione, sul manoscritto o sulle bozze, del Ministero
dell’Educazione Nazionale.
XXVIII DICHIARAZIONE
L’anno scolastico e l’anno accademico sono costituiti da periodi di lezioni alternati
con periodi di vacanze. Durante i periodi di vacanze sono indetti i turni di lavoro.
Le istituzioni
educative
Dal 1943 al 1963
I programmi del 1943
Carleton Walsey Washburne
è nominato membro della
Commissione alleata di
Controllo in Italia e consigliere
per la politica scolastica
presso il nostro governo
PREMESSA GENERALE
SUGGERIMENTI GENERALI
Si consiglia:
Conferenza Stampa
Mercoledì 6 Marzo 2013
MIUR- Sala della Comunicazione
Ore 15:00-17:00
#InScuola
#InScuola
2
#InScuola
Un metodo partecipato
3
#InScuola
Lingua inglese
Italiano Seconda lingua
Storia Geografia comunitaria
7
#InScuola
9
#InScuola
Linea Orizzontale:
formativa la scuola si apre alle famiglie e al
territorio e collabora con gli attori
extrascolastici con funzioni educative.
Verticale:
formazione che Scuola è comunità educante:
può continuare -Interazione e integrazione culture
lungo tutto diverse;
l’arco della vita. -Forma cittadini in grado di
partecipare consapevolmente.
10
#InScuola
11
#InScuola
2) Finalità generali
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#InScuola
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#InScuola
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#InScuola
16
#InScuola
4) Scuola dell’infanzia
Campi di esperienza:
- Il sé e l’altro
- Il corpo e il movimento
- Immagini, suoni, colori
- I discorsi e le parole
- La conoscenza del mondo:
- Oggetti, fenomeni, viventi
- Numero e spazio
17
#InScuola
Discipline:
– Introduzione alla disciplina
– Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola
primaria
– Obiettivi di apprendimento
Al termine della classe terza della scuola primaria
Al termine della classe quinta della scuola primaria
– Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola
secondaria di primo grado
– Obiettivi di apprendimento al termine della classe terza
18
PEDAGOGIA
GENERALE
a.a. 2010-11
Corso di Laurea in
Scienze dell’Educazione
PROGRAMMA 2014/2015
• S. Kanizsa e S. Tramma (a cura di), Introduzione alla
pedagogia e al lavoro educativo, Roma, Carocci.
• F. Cambi, Pedagogie del Novecento, Roma-Bari,
Laterza.
• E. Corbi, S. Oliverio (a cura di), Oltre la Bildung
postmoderna? La pedagogia tra istanze costruttiviste
e orizzonti post-costruttivisti, Pensa Multimedia,
Lecce-Brescia, 2013. .
• F. Cambi, Abitare il disincanto, Torino, Utet
Università.
IPOTESI di GRIGLIA DI
COMPARAZIONE DELLE CORRENTI
PEDAGOGICHE
• Contesto storico:…
• Corrente:…
• Esponenti:…
• Finalità educativa:…
• Metodi:…
• Mezzi/attività:…
• Contenuti:…
• Altre scienze con cui di identifica o a cui si rapporta la
pedagogia:…
Una disciplina può definirsi
autonoma quando possiede
determinati requisiti
requisiti
1. Linguaggi
1. Ermeneutica
1. Contenuti
Metodologia:
Storica;
Teoretica;
Comparativa
i requisiti: qualche dettaglio
Generatività:
passaggio al Novecento.
pedagogia dell'attivismo
Nel '900 tre sono state le
innovazioni più significative:
Inoltre, lo sviluppo:
1. puerocentrismo
2. valorizzazione del fare: attività manuali, gioco e
lavoro
3. motivazione: ogni apprendimento deve essere
collegato ad un interesse
4. studio dell'ambiente
5. socializzazione
6. anti-autoritarismo
7. anti-intellettualismo
L’ATTIVISMO dice NO:
alla pedagogia tradizionale che svaluta gli
aspetti attivi e produttivi del bambino;
all’insegnamento come momento separato
dall’esperienza dell’apprendimento;
ad un apprendimento meccanico, ripetitivo,
solitario e non creativo.
L’ATTIVISMO:
valorizza l’attività manuale, il gioco (come
conoscenza), il lavoro
rispetta della natura globale del bambino,
senza separare la conoscenza dall’azione
sottolinea l’importanza della motivazione:
ogni apprendimento deve essere collegato
agli interessi e ai bisogni del soggetto in
formazione
L’ATTIVISMO:
valorizza l’ambiente: dall’ambiente il bambino
riceve gli stimoli all’apprendimento
dà rilievo alla socializzazione
evidenzia la necessità di non centrare l’azione
educativa sull’autoritarismo (anti-autoritarismo)
come supremazia della volontà dell’adulto-
educatore su quella dell’alunno
è contrario allo spontaneismo educativo (non tutto
educa)
John Dewey (1859-1952)
La teoria di D. si articola intorno a una
“teoria dell’esperienza”, vista come
l’ambito dello scambio tra soggetto e
natura, scambio attivo, che trasforma
entrambi i fattori e che resta
costantemente aperto.
In particolare:
nella scuola dovranno trovare spazio i quattro
interessi fondamentali:
La scuola deve:
diventare la dimora del ragazzo, dove egli
impara vivendo, invece di ridursi ad un
luogo dove si apprendono lezioni, che hanno
un’astratta e remota relazione con qualche
possibile vita che gli toccherà di vivere in
futuro. Essa ha la possibilità di diventare una
comunità in miniatura, una società
embrionale
“Scuola e società”, 1899
Da qui:
Ma
attenzione:
Learning by doing
il Piano Dalton:
individualizzazione dell'insegnamento
e libera scelta del lavoro scolastico;
le fasi della giornata scolastica:
laboratorio, organizzazione,
conferenze.
L'avventura dell'attivismo:
Washburne (1889-1968)
Le scuole di Winnetka:
individualizzazione e autocorrezione;
attività creative a libera scelta per
sviluppare le attitudini e le vocazioni
individuali.
L'avventura dell'attivismo:
Cousinet (1882-1973)
agire, istruirsi e educarsi da se stessi
con il tutoraggio di un insegnante;
l'apprendimento avviene attraverso attività
di gruppo;
importanza del "lavoro storico": muove
dalla storia delle cose per arrivare alla
storia della civiltà mediante l'utilizzo dei
"documenti" (schedari per materie non
sistemati).
L'avventura dell'attivismo:
Freinet (1896-1966)
due principi:
1) il superamento della dualità di educatore ed
educando nella dialettica dell'atto educativo
Documentario su Gentile
Gentiliani o Deweyani?
Ciò implica:
Repubblica:
12.717.923 voti
Nel secondo dopoguerra:
Una
particolare
configurazione
assunta dal
sistema delle
relazioni
internazionali
che vedeva il
mondo diviso
in due blocchi:
quello
orientale,
egemonizzato
dall'Urss, e
quello
occidentale,
dominato dagli
Stati Uniti.
Gli anni Cinquanta
IN ITALIA
Governo
De Gasperi con
esclusione della sinistra.
Gli anni Cinquanta
ha determinato verso la fine degli anni ’50 e negli anni ’60 una Questa
sinergia di fenomeni sociologici ed economici che ha comune
comportato finalità
una scolarizzazione di massa caratterizzata da:
Infatti:
la scuola mai riformata ha finito per
ospitare permanentemente un discorso
ideologico sulla scuola di domani:
così, la scuola è stata vissuta per ciò che
avrebbe dovuto essere e mai per ciò che era
Nella sostanza ha operato una
scuola:
IN SOSTANZA:
Le “intelligenze multiple”:
Logico-matematica
Corporeo-cinestetica
Spaziale
Linguistica
Musicale
Intrapersonale
Interpersonale
Howard Gardner
Queste intelligenze attivano diversi stili di pensiero e
varie formae mentis le quali in educazione devono
integrarsi coordinandosi e personalizzandosi.
Muta, quindi, l’idea stessa di intelligenza:
non è più “facoltà”
ma “fascio” di abilità che si contrastano e si
equilibrano, che sono dotate ciascuna di caratteri
specifici e formalmente distinti.
Le intelligenze multiple vanno tutte educate,
socializzate coltivate.
LA CONTESTAZIONE - 1968
La scuola:
sequestra l’infanzia
regola l’apprendimento secondo
l’insegnamento
si fa “ambiente sacro” dove il maestro è un
profeta
è “rito di iniziazione” a una società del
progresso e produce una “nuova religione
universale”
Ivan Illich:
descolarizzare la società
Quindi:
Lorenzo Milani in
Lettera a una professoressa:
settore psicologico
settore sociologico
settore metodologico-didattico
settore dei contenuti
VISALBERGHI
1. il problematicismo,
2. il razionalismo critico,
3. tutti quei movimenti che sottolineano
i limiti intrinseci della razionalità
formale, strumentale e tecnologica.
Prende forma un nuovo tipo di razionalità attenta
alle categorie del:
Caos
Disordine
Non linearità
Squilibrio
Da tutto ciò ne consegue:
La realtà educativa è
sempre immersa nella realtà:
• sociale
• storica
Allora:
Le scienze dell’educazione: si
occupano in modo empirico
dell’apprendimento e della formazione
La pedagogia generale: riflette sulle
scienze dell’educazione coordinandole
relativamente agli aspetti generali e
trasversali della formazione
La filosofia dell’educazione: si occupa
degli aspetti epistemologici e assiologici
(i valori, l’etica) della formazione.
CAMBI
La pedagogia si è decostruita più volte ed ha
stabilito contatti critici al proprio interno ed
all’esterno
si è accreditata come sapere legato “al paradigma
della critica attestandosi sempre più come teoria
e pratica critiche rispetto ad ogni aspetto
dell’educazione”(Le pedagogie del Novecento,
prefazione, p. X.)
La pedagogia critica è:
una modalità di riflessione attenta alla
polisemia sempre presente nell’esperienza
formativa, da indagare sempre con la
preoccupazione di non sovrapporre un punto
di vista aprioristico, dogmatico, univoco, per
la capacità di leggere al di sotto del dato le
dinamiche che l’hanno posto in essere.
Oggi: le pedagogie critiche
Cambi, pag.183-184.
Su questi argomenti vedi anche il Capitolo 9 di “Abitare il disincanto”
Quindi:
Ricostruzione formativa del soggetto mediante un
impegno su se stessi, sulla propria “cura e
coltivazione”
• L’emergenza al femminile
• L’emergenza ecologica
• L’emergenza multiculturale
• L’emergenza degli anziani
Nuove emergenze educative
• Il femminismo critica i modelli formativi
imperanti come sessisti, violenti, astratti e
repressivi della dimensione istintuale.
• Modello di natura trasmissiva che prevede un’acquisizione di informazioni (metafora dalla brocca la bicchiere)
• Sono centrali l’insegnante e l’ambiente di apprendimento. L’insegnante è responsabile della situazione e della relazione formativa
• Nasce all’inizio del Novecento dagli studi behaviouristi in opposizione alle indagini sulla mente attraverso intuizione personale e introspezione
• La mente non può essere conosciuta: black box, ciò che si studia è l’insieme dei comportamenti direttamente osservabili.
• apprendimento: risposta ad uno stimolo, associare degli stimoli a delle riposte (un incentivo a un’abitudine condizionata), non riguarda la mente.
È detto anche apprendimento associativo. L’apprendimento è una forma di condizionamento, ossia l’insegnante fa apprendere delle abitudini
attraverso le associazioni tra stimoli/risposte e la ripetizione
• il comportamento viene acquisito. Lo studente apprende attraverso il learning by doing
• ricetta applicativa: lo studente viene valutato attraverso la ripetizione delle nozioni acquisite. Si cerca di verificare la quantità di nozioni apprese
nel processo trasmissivo dell’apprendimento. Lo studente viene interrogato subito dopo la spiegazione
• nozionismo: le nozioni devono essere quantitativamente rilevanti e non vengono rielaborate dallo studente
• insegnamento: stimolazione esterna; apprendimento: varia in base alle reazioni individuali allo stimolo, alle abitudini condizionate
• ambiente esterno: condiziona i processi di apprendimento, le condizioni e le opportunità per imparare. L’individuo è una spugna che assorbe
dall’ambiente. Situazione didattica ambientalizzata
• motivazione: si sviluppa in conseguenza di stimolazioni esterne, è estrinseca perché il vero motivo è il riconoscimento da parte dell’insegnante.
Senza la variabile ambientale il soggetto non sarebbe da sé motivato
• processo di apprendimento: cumulativo e lineare, ogni unità didattica ha lo stesso valore della precedente e veicola la stessa quantità di
informazioni. Si tratta di una sequenza del tipo 1+1+1…
• chi apprende usa procedure imitative, la conoscenza procedurale know how è simile alla conoscenza proposizionale know that
• aspettativa di risultato comune a tutti gli studenti, c’è uno standard di mastery performance
• chi insegna trasmette informazioni nozionistiche da imparare senza rielaborazione critica. L’insegnamento è una modalità di controllo
• è prevista la valutazione dei docenti da colleghi e superiori, la valutazione è eterodiretta
• gli stati emotivi giocano a favore dell’apprendimento, compreso l’ansia e dunque la tensione emotiva (interrogazione alla cattedra)
• gli studenti devono comunque mirare al raggiungimento dell’autonomia nello studio
• la didattica deve essere programmata attraverso indicatori espliciti predefiniti all’inizio del percorso di formazione. Programmazione didattica
statica (conoscenze pregresse, obiettivi, modalità di valutazione)
• Introduzione del concetto di mente, c’è la variabile organismica dalla quale dipende l’elaborazione della conoscenza. Stimolo-organismo-risposta.
Il modello di paragone è il computer
• apprendimento: elaborazione individuale delle informazioni volta a risolvere compiti cognitivi, si sottolinea il ruolo dello studente
• l’informazione viene acquisita attraverso specifiche strategie ed è oggetto di modifica personale, il soggetto traduce le informazioni che riceve
dall’esterno utilizzando i propri codici interpretativi. La mente crea delle rappresentazioni soggettive, mentali e astratte
• Studente isolato dall’ambiente di apprendimento per favorirne la concentrazione, è task oriented
• apprendimento cumulativo con complessità crescente. Considerazione sequenziale del processo di apprendimento che è inoltre significativo
• due memorie, a breve e a lungo termine. Attraverso l’archivio delle memorie il sistema cognitivo può rispondere al compito richiesto. La mente
ha una capacità limitata, può contenere un numero predefinito di informazioni
• apprendimento come processo ascensionale sequenziale lineare
• lo studente ha compreso quando produce domande attinenti
• lo studente viene messo alla prova nel lungo periodo (non subito dopo la lezione come nel modello comportamentista) interrogazioni
programmate
• la rielaborazione avviene attraverso il linguaggio che produce delle rappresentazioni mentali. Si considera come uno studente può essere
intelligente e non c’è una modalità di insegnamento univoca
• l’insegnamento è multimodale a livello percettivo ed elaborativo. La situazione didattica viene osservata in vitro, è definita quindi acontestuale,
fa esclusivo riferimento al soggetto che apprende e allo svolgimento del compito in oggetto in modo avulso dall’ambiente
• ripensamento del concetto di mente; rimane però la concezione dell’insegnamento come processo asimmetrico. Punto di snodo tra ricette
tradizionali e attuali della formazione
• il lavoro metariflessivo si applica in classe all’apprendimento implicito
• Modalità che regolano gli apprendimenti, specifici processi di monitoraggio e di controllo del sistema cognitivo
• Lo studente deve conoscere le proprie strategie di acquisizione dei contenuti e saper gestire i propri apprendimenti
• L’insegnante metariflessivo valuta la consapevolezza individuale delle modalità di utilizzo delle strategie, cognitive ed emotive, attraverso le
quali i contenuti stessi sono appresi. Capacità di gestire le informazioni
• Conoscenza consapevole del funzionamento del proprio sistema cognitivo; riflessione. In questo contesto l’insegnante costituisce il migliore
esempio
• La metariflessione viene utilizzata per rendere esplicite conoscenze di natura implicita che possono innestarsi nelle acquisizioni. Gli apprendimenti
impliciti riguardano sia il corpo che la mente. La conoscenza implicita non è verbalizzabile
• Ogni studente deve imparare a gestire il proprio sistema cognitivo riflettendo sul proprio funzionamento cognitivo individuale
• Tra i processi di controllo del sistema cognitivo abbiamo l’Ease of Learning (EOL) che si riferisce alla facilità di apprendimento del materiale
proposto dall’offerta formativa, valutata prima dell’acquisizione degli argomenti
• Judgment of learning (JOL) ossia la valutazione circa la probabilità di ricordare un’informazione appresa. Un errato JOL esclude lo studente dalla
relazione di apprendimento e di insegnamento
• Feeling of knowing (FOK) ossia la misura della sensazione di conoscere un’informazione appresa ma che non si riesce a ricordare
• Prediction of total recall (PTR) previsione della quantità del ricordo finale rispetto ad una sessione di apprendimento
• Il modello metariflessivo viene applicato dall’insegnante anche a se stesso
Le ricette attuali
POSTCOGNITIVISTA
• La cognizione è considerata anche nei suoi aspetti emozionali, corporei e organismici. Insieme di funzioni che investono anche la dimensione
percettiva e adattiva e vanno a costruire la complessità interpretativa del concetto di contesto
• La relazione formativa è simmetrica, conoscenza condivisa e co-costruita, negoziata all’interno della comunità di apprendimento. L’insegnante è
un mediatore, facilita gli apprendimenti senza versare la conoscenza
• La conoscenza è:
Distribuita, downloaded nell’ambiente, è intersoggettiva, distribuita negli artefatti cognitivi (libro, film, video…), e poi ci sono i congegni
periferici ossia le molteplici forme della tecnologia che interagiscono con l’apprendimento. (modello CONTESTUALISTA)
Situata, si dà in un contesto spazio-temporale determinato, la conoscenza è inculturata ma non è prevedibile, è in continua relazione con i contesti,
è embodied, incorporata. (modello CULTURALISTA)
Incorporata, anche nell’organismo, è organismica e l’ambiente è inteso come un organismo collettivo più grande. (modelli
SPERIMENTALI)
• Il modello COSTRUTTIVISTA rimanda sia alla conoscenza distribuita che situata, in particolare nelle sue versioni di sociocostruttivismo e
co-costruzione degli apprendimenti.
• La relazione formativa è simmetrica, ossia anche lo studente viene considerato portatore di un patrimonio di informazioni
• I modelli costruttivista, culturalista e cognitivista emergono in modo parallelo e reciprocamente interagente e sono difficili da distinguere
• La principale critica del postcognitivismo al cognitivismo è la concezione secondo cui la conoscenza possa avvenire in modo astratto e
decontestualizzato. Si passa da uno studio della mente in vitro a uno studio della mente in vivo
• Non c’è più separazione tra dimensione emotiva e cognitiva, la mente non è più intesa in modo separato dal corpo
• L’apprendimento è un processo incorporato situato distribuito
• La conoscenza è un processo distribuito e situato, distribuzione della mente e della conoscenza. La mente viene considerata al di là dei confini
dell’individualità perché si distribuisce tra più soggetti
• Lavoro di condivisione, socializzazione e negoziazione della conoscenza. La classe è una comunità di apprendimento in cui le conoscenze
vengono negoziate, vendute, rivendute, comprate e contrattate
• È centrale l’intersoggettività, la distanza cognitiva tra l’insegnante e l’alunno risiede nel fatto che il primo facilita e organizza la condivisione
della conoscenza svolgendo un ruolo mediativo, mentre lo studente esprime la propria personale interpretazione e la propria opinione sugli
argomenti da approfondire
• Valutazione: viene valutata la capacità di esprimere il proprio punto di vista e di sapersi relazionare agli altri
• La classe diviene contesto della relazione di apprendimento
• Sistemi simbolici e pratiche conversazionali
• Artefatti cognitivi, libri, film, appunti, sms; tutte le possibili espressioni di conoscenza in ogni forma che essa può assumere
• Consegni periferici, le possibili espressioni culturali interagiscono attraverso i congegni periferici, cioè gli strumenti che la tecnologia offre per
la conoscenza
• Gli artefatti cognitivi e i congegni periferici sono contingenti rispetto a particolari situazioni spaziotemporalmente definite e sono quindi
culturalmente specifici, vengono cioè a identificare i periodi storicamente individuabili e dunque culturalmente caratterizzabili
• La mente è per questo situata, embodied, radicata nel contesto di riferimento. Situatività della conoscenza
• Ci sono insiemi di ambiti di conoscenza dinamici
• Questo modello si chiama esempio-responsabilità perché il docente si pone come esempio per l’identificazione dei propri studenti, mentre lo
studente assume la responsabilità culturale del proprio patrimonio cognitivo
• La concezione della cultura è come la tradizione per Gadamer
• Identità cognitiva, consapevolezza che deriva dalla conoscenza approfondita del patrimonio cognitivo personale, ma c’è comunque sempre un
punto di riferimento che permette a chi apprende di identificarsi. C’è per questo la responsabilità cognitiva, così come l’insegnante lo è divenuto
a suo tempo, anche lo studente diviene gradualmente responsabile delle proprie conoscenze
• L’identità cognitiva è la consapevolezza del proprio potenziale di apprendimento
• Nella comunità di apprendimento si sottolinea maggiormente il senso di appartenenza alla comunità stessa
• Intercultura, ogni cultura ha il proprio modo di produrre conoscenza e di insegnarla, l’intercultura approfondisce le relazioni tra evoluzione
genetica e culturale
• La cultura si apprende attraverso processi di apprendistato; i saperi esperienziali sono quel tipo di conoscenze di cui lo studente si sente
responsabile
• Nel modello costruttivista l’implicito ha un proprio statuto conoscitivo, autonomo rispetto alla sfera dell’esplicito, in continua interazione con essa
e forse mai completamente risolvibile in essa
• Apprendere significa costruire processi di conoscenza
• Si parla di formazione delle strutture della conoscenza non più di processi di apprendimento, ogni informazione si struttura perché viene condivisa
• La conoscenza in questo modo è sempre più oggettiva (non soggettiva), sempre più legata ai contesti di riferimento, situata in uno spazio e in un
tempo specifici
• Nel modello costruttivista si mette a fuoco il ruolo della dimensione individuale del soggetto epistemico, soggetto in formazione, costruttore, che
organizza in modo autonomo le proprie conoscenze
• Attività del soggetto che apprende e reciproco scambio con l’ambiente attraverso l’esperienza. La realtà trasforma l’individuo, il quale a sua volta
contribuisce a costruirla, l’individuo costruisce quella realtà che lo trasforma
• Agli studenti viene richiesto di essere lavoratori nell’ambito della conoscenza knowledge working, devono affrontare e risolvere problemi non
prevedibili e non insegnabili a priori
• Il soggetto che apprende dà un ordine al proprio sistema cognitivo con la guida dell’insegnante (esplicita ed implicita); sviluppa delle modalità
adattive di relazionarsi all’ambiente. La guida interviene solo su richiesta on demand
• Teorie ingenue, teorie di senso comune che ciascun individuo costruisce in modo automatico e non consapevole quando entra in relazione con la
realtà circostante attraverso l’esperienza. Le teorie ingenue restano implicite e possono essere anche dette conoscenze folk
• L’azione formativa avviene in modo più funzionale rispetto alle esigenze dello studente. Il formatore è come “la guida in un museo”
• La pedagogia riguarda le teorie e le pratiche dell’educazione e ha una matrice epistemologica particolare perché riguarda sia le relazioni
pluridisciplinari con le altre scienze dell’educazione e della formazione, perché ha una doppia identità di scienza e filosofia e perché c’è un
continuo coinvolgimento circolare della teoria e della prassi nelle sue dinamiche
• La pedagogia ha un modello epistemologico ipercomplesso, caratterizzato da pluralismo e dialetticità
• Il pluralismo si esprime nelle diverse discipline che la compongono e nella molteplicità dei soggetti, degli oggetti e dei metodi della ricerca
• La dialetticità pedagogica è evidente nel rapporto antinomico con le scienze pedagogiche, dell’educazione e della formazione; nel suo duplice
aspetto di scienza e filosofia; nel suo porsi in modo continuamente interagente tra teoria e prassi
• La pedagogia si è configurata prima come disciplina, nel senso di sapere rigoroso di natura generale; poi come scienza, con propri oggetti e metodi
di ricerca (scienza dell’educazione e della formazione)
• La pedagogia viene detta olistica perché non corrisponde alla somma delle parti che la compongono perché svolge un ruolo di secondo livello che
media tra le parti in gioco
• Le scienze pedagogiche sono quelle più vicine alla pedagogia, ma ad ogni modo la pedagogia a volte rischia di essere confusa con le altre discipline
a causa della complessità delle relazioni tra la pedagogia stessa e gli altri saperi
• La pedagogia è una scienza applicata, empirica e sperimentale, non una scienza pura. Molte discipline possono collaborare in senso pedagogico
qualora se ne veda la funzionalità nella concretezza dell’agire formativo
• La pedagogia ha un’epistemologia solida e debole, si concentra sul fatto che sia dinamica e sempre mutevole ed è questo il suo punto di forza
• La pedagogia viene associata alla scienza con l’emergere del paradigma scientifico nel 1600; la pedagogia ha una natura antinomica perché è sia
descrittiva che normativa
• La pedagogia può avere un metodo scientifico rigoroso che non sia necessariamente sistematico; la tensione filosofica della pedagogia si esprime
nel concetto di intenzionalità, cioè la pedagogia può intenzionare le altre scienze in direzione educativa
• La pedagogia ha inoltre un approccio ermeneutico nella comprensione della realtà nel suo svolgersi dinamico ed è anche punto di intersezione di
una molteplicità di discipline che rimandano all’educazione e alla formazione
• Crisi d’identità della pedagogia: avviene dopo che le scienze dell’educazione si configurano come scienze a se stanti.
• lo statuto epistemologico della pedagogia risiede nella sua intenzionalità riflessiva che va a determinare i rapporti regolativi tra la pedagogia e le
altre scienze
• è la filosofia dell’educazione che svolge un ruolo critico e riesce a riunire la pedagogia e le varie scienze
• la pedagogia è una scienza utopica, è una scienza del costruire ma anche del decostruire, e ciò è testimoniato dall’andamento ciclico delle sue
teorie
Le ricette sperimentali
• fanno riferimento alle influenze delle neuroscienze e delle scienze biologiche. Rimandano ad una comprensione globale e olistica del sistema
uomo come fenomeno complesso che unisca la dimensione del mentale a quella organismica
• le conoscenze scientifiche vengono unite alle problematiche formative, si parla di scienze bioeducative. L’approccio delle scienze bioeducative è
correlativo, studio delle possibili relazioni tra mente e cervello, organismo e ambiente
interazionista, coniuga insieme una pluralità di prospettive: individuale, sociale, naturale, contestuale, biologica, culturale
integrativo, carattere dato dal riconoscimento della natura non solo compresente e interattiva, ma anche di continua sovrapposizione e quindi
reciproca influenza emergente nell’attivarsi delle differenti sinergie
• la mente deve essere studiata in vivo e non in vitro. Nei modelli sperimentali si analizza la correlazione tra mente e cervello, come la mente si
relazione all’organismo inteso come corporeità e come ambiente, un organismo maggiore che include la molteplicità degli organismi minori
• i contesti vengono detti adattivi perché non sono prevedibili e quindi richiedono un adattamento. In questi modelli l’apprendimento è interpretato
come un processo adattivo, dinamico e trasformativo, un processo che riguarda l’educabilità della mente
• si tratta in effetti di un modello classico, inconsapevolmente utilizzato forse da sempre; si basa sull’idea che l’ambiente di apprendimento debba
essere arricchito, progettato e predisposto per stimolare gli studenti
• l’insegnante deve stimolare pienamente le potenzialità degli studenti affinché possano esprimersi; fase di progettazione dell’ambiente di
apprendimento
• questo modello può essere definito classico perché fa leva su una caratteristica propria della mente umana, la disponibilità ad apprendere. Questa
a sua volta si collega alla plasticità cerebrale, cioè i possibili collegamenti tra i neuroni e le cellule cerebrali
• viene ripreso il ruolo della soggettività, il suo formarsi individuale in relazione alla variabilità contestuale e alla modificabilità singolare. Ad ogni
modo vengono studiati sia i caratteri generali che la specifica unicità delle strutture della conoscenza
• l’ambiente ha una responsabilità formativa, ambienti diversi formano individui differenti
• questo modello viene utilizzato prevalentemente nelle classi primarie e si serve di una metodologia multimodale
• il piano dell’implicito concorre alla strutturazione degli apprendimenti; il livello esplicito interagisce con quello implicito e spesso si attivano
entrambi
• il sistema cognitivo svolge alcune attività in modo automatico
• poiché non si può separare la mente dal cervello e dall’organismo non si possono scindere nemmeno esplicito ed implicito
• acquisizione automatica non intenzionale di conoscenze; ripetizione selettiva delle strategie di maggiore successo
• l’ambiente di apprendimento è progettato sia in modo esplicito che implicito; l’insegnante deve stabilire relazioni empatiche. Si presta attenzione
alle emozioni di chi apprende anche attraverso la corporeità, la quale viene utilizzata per creare un ambiente di apprendimento reciproco e
coinvolgente
• il linguaggio del corpo viene considerato come una possibile alternativa alla comunicazione verbale di informazioni
• diversità dei tempi di apprendimento e possibilità per l’attenzione di non essere costante e di variare relativamente ad alcuni fattori (nutrizione)
• è probabile che l’apprendimento implicito possa rappresentare un antecedente cognitivo rispetto all’apprendimento esplicito
• teoria ombra dell’apprendimento implicito: ipotesi dell’autonomia dell’apprendimento implicito, che viene inteso come estraneo alla mente
razionale (di stampo cognitivista)
• si valuta la possibilità che l’apprendimento implicito abbia delle proprie regole operative; la diversità tra implicito ed esplicito potrebbe essere
rappresentata a questo punto dalla diversità del grado di consapevolezza che li caratterizza
Uno dei vari argomenti del programma riguarda l’espistemologia professionale dell’insegnante.
L’epistemologia indica la teoria della conoscenza professionale e del rapporto fra conoscenza e pratica
professionale.
L’autore di riferimento è Donald Shon che distingue 2 tipi di razionalità che si possono trovare all’interno
del sistema scolastico, la razionalità tecnica e la razionalità riflessiva. La prima è la forma prevalente
nel sistema scolastico ma secondo Shon è un fattore di crisi, in questo tipo di razionalità esistono
problemi già definiti che i vari professionisti devono affrontare con risposte già definite e affermate nella
teoria. l’altra invece è qualcosa che Shon raccomanda di sviluppare, si basa
Secondo Shon, nella pratica professionale è impossibile che tutti i problemi siano situazione già definite,
ma nella realtà ci sono delle situazioni indeterminate, uniche e conflittuali. Per rifondare la conoscenza
professionale è l’abilità artistica intesa come capacità di intraprendere un’indagine, una riflessione, una
conversazione riflessiva con la situazione.
Il metodo dell’indagine, secondo Dewey, è articolato in 5 fasi:
1. Fase Indeterminata
2. Osservazione della situazione che mi permette di identificare il problema, capire qual è il
problema
3. Ipotesi, dove si fanno delle ipotesi di soluzioni del problema
4. Ragionamento
5. Attuazione, se la situazione viene ristruttura con degli esiti desiderabili allora è stata una
soluzione di successo.
Ma che cos’è il Tirocinio riflessivo? A cosa serve il Tirocinio?
Il Tirocinio secondo Shon è uno spazio protetto, per essere un bravo professionista devo sviluppare
l’abilità artistica cioè sviluppare la capacità riflessiva nelle situazioni difficili. Questa abilità artistica non
la posso sviluppare solo con le basi teoriche. Il motivo del Tirocinio è farci avere questa pratica ma dove
noi non siamo i diretti responsabili degli eventi perché c’è il docente che seguiamo e da cui apprendiamo
che è il diretto responsabile. Il Tirocinio Riflessivo aiuta a sviluppare l’abilità artistica cioè la razionalità
riflessiva e si basa su due principi: - apprendere facendo, cioè io imparo DALLA pratica non sulla pratica
- essere introdotto in alcune tradizioni della pratica: “fare bottega”, essere introdotto alla pratica
gradualmente, a livelli sempre maggiori. Entrare all’interno di una pratica professionale.
[ Quindi il Tirocinio riflessivo insegna a sviluppare un repertorio di mosse con cui avviare le conversazioni
riflessive con le situazioni e fornisce le coordinate per valutare qual è un intervento professionale
competente. Insegna quindi quali sono i modi in cui i professionisti competenti valutano una determinata
situazione. Il Tirocinio permette l’apprendimento tramite la PARTECIPAZIONE diretta con un
professionista competente. ]
Perché è importante entrare all’interno di una pratica professionale?
1) Perché mi insegna una serie di mosse, e amplierò sempre più il mio repertorio di mosse, con cui
avremo conversazioni riflessive con le situazioni.
2) Perché (elemento nuovo): è la tradizione di una pratica che mi dà le coordinate per valutare qual
è un intervento professionale competente! Per la razionalità tecnica, questo lo raggiungo semplicemente
con degli “standard ”: unità di valutazione della pratica esterna alla pratica stessa, in quanto deve essere
“massimamente generalizzato”, prescinde dalle situazioni contestuali. Esempio: per valutare il successo
scolastico e la qualità delle scuole, si seguono degli standard che sono uguali per tutto il paese: non
tengono conto dei punti di partenza ma solo dei punti di arrivo, quindi non valutano l’effettivo
miglioramento che c’è stato in uno specifico territorio, valutano solo a quale punto si è arrivati!
Conseguenza: le regioni del sud, che partono da situazioni svantaggiate, possono avere un grande
miglioramento ma arrivare comunque ultimi rispetto agli standard. Secondo la razionalità riflessiva
invece: “sistemi di apprezzamento”: professionisti esperti valutano la pratica dei “novizi” dall’interno ,
partecipando a quella pratica, tenendo quindi conto delle situazioni contestuali e delle specificità.
Esempio: quando in aula uno studente che non ha mai partecipato alle lezioni si interessa ad un
particolare tema e fa un intervento, anche se questo intervento fosse molto stupido l’insegnante deve
comunque apprezzare e valorizzare il miglioramento che quello studente ha avuto rispetto a prima, deve
tenere conto della specificità.
Domanda: questo metodo di valutazione non è soggettivo? Risposta: c’è un livello psicologico in cui forse
c’è una dimensione soggettiva, che riguarda la personalità del docente… ed è per questo che noi
abbiamo anche l’insegnamento di Psicologia. Nell’ambito pedagogico, invece, mi interessa l’elemento
epistemologico: non è soggettivo nella misura in cui se l’insegnante fa una valutazione fondata nella
pratica, deriva da una certa idea di scuola, dagli orizzonti di attesa di un intervento educativo all’interno
di un determinato contesto sociale, una certa idea della funzione educativa, che non sono personali del
docente, sono condivise o codificate da tutta la comunità di professionisti. Somiglia al concetto di
standard ma non lo è perché quest’ultimo è staccato dalla pratica professionale, mentre l’altro invece
emerge dalla pratica.
Facciamo un’analogia: immaginiamo il cucinare. Semplificando, ci sono due possibilità. Gli inetti che si
affidano a internet e seguono precisamente i numeri della ricetta, quei numeri sono gli standard. Allora
se uso più acqua, mi chiedo: quanto sale dovrò mettere? Allora poi ci sono quelli che sanno cucinare, i
quali a quella domanda rispondono: “quanto basta”, “vai ad occhio”. Queste risposte non sono soggettive:
sono fondate sulla pratica, sono il deposito di una tradizione condivisa.
Quello che interessa non è l’oggettività, quella è degli standard, quello che interessa è la
RICONOSCIBILITA’ all’interno di un contesto della pratica. L’oggettività serve, non è che gli standard
non servano, servono per altre cose, ma non per valutare le prestazioni professionali “in situazione”! Per
familiarizzare con un orizzonte di significati che fanno capire cos’è considerato valido all’interno di una
tradizione, bisogna entrare nella pratica.
(Per tradizione non si intende tradizionalismo, ripetizione pappagallesca di quello che si è fatto: si intende
imparare da persone che sono state esperte, e non replicando automaticamente, ma familiarizzando col
campo della pratica, senza negare l’inventiva, il talento, e tutto ciò che è soggettivo).
Gli standard si rifanno alla pedagogia ingenua: si ritiene che uno studente è brillante e di successo se
dà risposte brillanti alle domande. In questa pedagogia implicita, la funzione del docente è vista solo dal
punto di vista didattico-conoscitivo, non educativo! Il che va bene solo in alcuni contesti. Io docente non
devo pensarmi solo come un didatta o esperto della disciplina, parlando alla stessa maniera nei convegni
e in aula, senza modulare il modo di parlare a seconda della platea. Dobbiamo essere educatori ,
valutando anche altri aspetti.
Magari gli attuali docenti hanno anche assistito a lezioni in cui si è parlato di questo, ed è stato concepito
come un’ovvietà, gli studenti devono partecipare alla lezione, è ovvio. Poi quando si trovano “in
situazione”, emerge la reale epistemologia, quella profonda... Ed è per questo che è meglio quando si
dimentica un esame fatto, perché quello che davvero deve rimanerci è semplicemente l’idea che quando
saremo in aula ci porremo il problema delle nostre epistemologie!
In conclusione, essere introdotti in una tradizione della pratica vuol dire anche imparare a valutarla
dall’interno, non dall’esterno. Il tirocinio riflessivo fa questo, è una via di mezzo fra la frontalità della
lezione e la totale limitatezza della pratica (faccio pratica e che dio me la mandi buona). Allo stesso
tempo, quello che si dovrebbe imparare è l’abilità artistica, continuo scambio confrontandosi con problemi
reali che però vengono affrontati insieme al tutor esperto, al quale ricorro per il suo repertorio, seguendo
il principio della somiglianza.
Inoltre, Shon distingue due forme di riflessione:
1. Riflessione NEL corso dell’azione = Reflection IN Action
L’insieme di mosse che il professionista fa difronte la “sorpresa o la nuova situazione” senza sospendere
l’azione ma ricalibrando la sua azione rispetto alla sorpresa. Questo è un atteggiamento riflessivo e
sperimentale allo stesso tempo, ovviamente quanto più un professionista è esperto tanto più la sua
ricalibratura è efficace.
2. Riflessione SUL corso dell’azione = Reflection ON Action Quando si
pensa e si riflette su ciò che si sta facendo.
Dewy dice che per fare questo abbiamo bisogno della scienza dell’educazione.
Dice che secondo lui tra le altre scienza non c’è tutta grande differenza.
Relazione arte-scienza per lui non c’è differenza, perchè un fare artistico che non diventa acquiribile si
avvantaggia delle risorse dell’indagine scientifica.
Arte è anche medicina, ingegneria.
fare in modo che questo fare non sia affidato alla casualità, alla routine, ma sia sostenuto da un
atteggiamento scientifico.
Dewy è molto attento e dice attenzione→ riferirsi alla scienze non significa applicare la scienza al canone
educativo.
Infatti, c’è tutta una parte della ricerca che pensa che dalla scienza derivano le ricette per l’educazione.
Ma per lui non è così, dal principio.
Le legge della scienza non possono diventare le regole della pratica.
cioè le legge della scienza si muovono a un livello di generalità e astrazione che non possono
immediatamente essere tradotte in regole specifiche.
Dewey nasce come psicologo. Esempio→ scoperta che le ragazze intorno ai 14 anni maturano più
velocemente dei ragazzi. questo non può diventare immediatamente una regola specifica.
La funzione della scoperta scientifica è quella di aiutare l’osservazione, la capacità critica e la riflessione
dei professionisti nel campo della pratica.
L’approccio deve essere scientifico, non traducibile in pratica ma che aiuta alla pratica.
Logica delle fonti: Lui distingue due tipi di fonti:
3. fonte primaria di una scienza dell’educazione: tematiche educative e solo la fonte primaria
perdura perchè danno i problemi che sono propri della scienza dell’educazione e offrono il campo di
verifica delle possibili ipotesi. enfasi sulla priorità→ se ci deve essere una scienza dell’educazione
diversa da un’altra disciplina la sua caratteristica è che partirà dalle fonti educative.
4. fonti speciali: ne menziona tre, filosofia, psico, peda dell’educazione perchè sono quelle più
accreditate nella nostra tradizione. Sono qualsiasi disciplina che possa aiutare a comprendere quella
soluzione e a darvi degli strumenti di verifica. Sono tutte le altre discipline nella misura in cui possono
intervenire come fonti per un approccio sperimentale all’educazione.
La risposta che dewy da è che la scienza dell’educazione è un atteggiamento che parte dalla pratiche
emotive e che rispetto alle quali, le altre discipline servono come repertorio di ipotesi con cui leggere
meglio la situazione.
Negli anni 70 si sviluppa un dibattito sulle scienze dell’educazione, in francia e in italia.
Il punto qualificante è l’idea che dal momento che ci sono diverse discipline che si occupano educazione
e lo fanno a un grande livello di sofisticazione e di scoperte non ha più senso una pedagogia che le
disciplinava. cioè il modello delle scienze dell’educazione interviene a smantellare il modello stesso della
pedagogia come scienza.
Ci sono dei professionisti esperti nell’educazione che non sono psicologi, non sono antropologi e non
sono filosofi.
La pedagogia si pone come quesito il valore educativo giusto. Cioè che tipo di persona un determinato
sapere forma.
Si inizia a vedere tutto in termini di formazione, poi questa formazione si può declinare in vari modi→
formazione dell’individuo, formazione del cittadino, ecc.
Nella logica delle fonti diventa→ per costruire i programmi ho bisogno di persone che conoscono i
programmi.
La pedagogia della formazione è diventata centrale negli anni 90 in italia.
Da una parte è vero che c’è una grande sovrapponibilità di concetti, ma dall’altra sono diversi.
buildung→ parola tedesca che significa formazione.
Et è da build→ immagine. Probabilmente l’origine è che io mi devo formare e trasformare per arrivare a
coincidere con l’immagine di Dio dentro di me.
Diventa il processo attraverso il quale i soggetti si formano, da un lato entrando a far parte di una cultura,
dall’altro interiorizzando questa cultura. cioè l’idea di buildung è che la formazione sia un processo
storico-culturale cioè che fa molto riferimento alla dimensione della cultura. Da un punto di vista
scolastico la formazione della buildung è tendenzialmente la definizione il liceo classico in italia, cioè un
certo tipo di cultura che ci permette di attingere un certo livello di universalità.
Un’altra parte è quella che intende la formazione→ processo formativo. processo bio-psicosociale.
questa visione la formazione ha un forte riconoscimento della componente biologica per cui è veramente
l’apprendimento durante lungo tutto l’arco della vita. Perchè la buildung non inizia con il bambino appena
nato, inizia quando entra a far parte di interazioni.
l’idea di questo processo biopsicosociale prende in considerazione anche questo aspetto biologico.
Aspetto comune è che se la pedagogia ha una sua autonomia è perchè fa riferimento alla formazione.
Il primo elemento di distinzione è che gli autori della pedagogia insistono che la pedagogia è una scienza
empirica, mentre altri prendono la pedagogia come una scienza teorica
Seconda differenza è che non è un caso che la tematica dell’apprendimento faccia riferimento al
processo formativo, perché l’apprendimento in prima e ultima istanza è un processo biologico che
riguardano le interazioni di un organismo con un ambiente, non necessariamente un ambiente culturale.
I teorici del processo formativo sono stati anche i più ricettivi all’idea del ?(NON RIESCO A CAPIRE).
Il punto comune è questo → La pedagogia conserva un suo stato se recupera e enfatizza l’idea di
formazione.
La scuola rimane l’agenzia principale, ma deve entrare in rete con le altre agenzie perchè chi è il soggetto
della formazione lo è sempre e quindi gli interessa sia il livello formale sia quello più informale.
Frase di Morin: «I problemi importanti sono sempre complessi e vanno affrontati globalmente. Se voglio
comprendere la personalità di un individuo, non posso ridurla a pochi tratti schematici. Devo
necessariamente tenere conto di molte sfumature, spesso contraddittorie. Lo stesso vale per la
situazione del pianeta, per comprendere la quale si devono tener presenti molti parametri. Insomma, la
realtà è complessa e piena di contraddizioni che sono una vera sfida alla conoscenza. Per affrontare tale
complessità, non basta semplicemente giustapporre frammenti di saperi diversi. Occorre trovare il modo
per farli interagire all’interno di una nuova prospettiva»
Il compito della pedagogia è il principio di complessità: ciò che le altre discipline vedono in maniera
separata, i pedagogisti la devono vedere in maniera integrata e interdipendente. Questo non vuol dire
che gli psicologi non sono scienziati complessi, ma i pedagogisti dovrebbero tener conto di tutte le
interazioni e le relazioni esistenti. La risposta è simile a quella di Cambi, ma si innesta sull’ambito
scientifico. La pedagogia può essere una disciplina di sintesi, ma deve essere sempre intesa come
disciplina empirica cioè che sta sul terreno dell’indagabilità empirica.
Cambi distingue la pedagogia dalla filosofia dell’educazione: La pedagogia è critica e riflessione sui
diversi risultati delle scienze dell’educazione, mentre la filosofia dell’educazione (come dice Cambi) è
una disciplina di metà livello (indaga i presupposti con cui noi indaghiamo il reale). Cambi ne fa una
disciplina troppo teoretica … rischiando di dire che la pedagogia non fa parte delle scienze!
Il discorso di Cambi rischia di non far capire che la pedagogia è una scienza perché la colloca in un
ambiente troppo teoretico. Essa invece è scienza empirica. L’oggetto d’indagine della pedagogia è
empirico cioè che si può indagare con metodi empirici.
Una pedagogista (di cui il prof non fa nome) descrive due paradigmi: positivista ed ecologico. Essi sono
alternativi l’uno all’altro. La tesi di fondo è che la pedagogia può essere scienza e non può esserlo
nell’accezione positivistica, ma nell’accezione ecologica. La pedagogia è una scienza complessa che si
occupa della formazione dell’individuo. Quando facciamo ricerca pedagogica dobbiamo stare attenti a
capire a quale paradigma ci rifacciamo (paradigma: teoria di massimo livello che organizza il campo
d’indagine). L’idea predominante fino agli inizi del 900 il paradigma è stato positivistico (approccio
analitico), l’autrice invece sostiene quello ecologico (approccio complesso). Se noi facciamo ricerca
empirica, noi la facciamo dentro il paradigma ecologico che ha delle specificità rispetto a quello
positivistico. Lei distingue diversi livelli di differenziazione: uno è rispetto ai presupposti ontologici (come
intendiamo il reale), uno è rispetto a come pensiamo la conoscenza.
● Positivistico: vi sono delle leggi universali, per fare scienza io devo avere un oggetto in cui
identificare le leggi universali ed eterne (atomismo: scindere le cose nelle parti semplici). Il positivismo
pensa la realtà come una macchina, per poterla separare in parti semplici devo per forza pensarla come
macchina. Si ha vera conoscenza se il soggetto è esterno alla situazione da conoscere (io posso
conoscere qualcosa se non faccio parte del sistema relativo alla cosa da conoscere).
● Ecologico: La realtà è in continua evoluzione, l’evoluzione è un aspetto costitutivo della realtà. Le
leggi emergono quando emergono nuovi fenomeni. Sotto questo aspetto è importante la relazionalità,
cioè pensare che gli enti sono tali nella misura in cui sono in relazione tra loro. La metafora relativa al
paradigma ecologico è quella dell’organismo (tutto è maggiore delle parti, e tali parti sono in relazione
tra loro e posso fare scienza di qualcosa che evolve).
L’idea analitica (paradigma positivistico) è quella che, per studiare bene l’oggetto d’indagine, io debba
separarlo da tutte le variabili che possono interferire con esso. Questa cosa, nell’ambito dell’educazione,
non lo posso fare mai! Ma se ho una visione di pedagogia come scienza allora riesco a fare delle analisi
e delle indagini scientifiche (paradigma ecologico). La conoscenza, secondo il paradigma ecologico, si
struttura nella relazione con l’oggetto.
Nel primo caso (positivistico), per conoscere, devo rispecchiare la realtà, la mia conoscenza è una mia
immagine della realtà, nella seconda (ecologico) conoscere è un modo di raggiungere un equilibrio solido
con la realtà. La differenza è tra una conoscenza oggettiva e una conoscenza che permette relazioni più
ricche con la realtà (si contamina con la realtà).
Ci sono tre prospettive d’indagine nell’ambito della ricerca educativa e si dividono in:
1. Empirico - analitiche: Indago un fenomeno negli aspetti quantitativi. Raccogliendo dati che hanno
una solidità oggettiva (raccolgo dati numerici).
2. Ermeneutico - fenomenologica: Sono interessato al modo in cui i soggetti interpretano e fanno
esperienza del fenomeno indagato (mi chiedo quali sono le idee di bullismo che hanno i soggetti
d’indagine).
3. Critico - dialettica: La conoscenza è intervenire e trasformare una determinata situazione
(intervengo nel contesto con dei progetti per modificare la situazione “problematica” da indagare).
Bisogna trovare un modo di fare scienza/conoscenza empirica senza essere legati all’oggettività, pur
preservando il rigore e la validità delle nostre analisi (forme di rigore e validità che hanno tutte le scienze
oggettive che conosciamo)! Questa è la sfida!
È complicato fare scienza pedagogica oggettiva pur modificando il contesto e mantenendo una certa
significatività dei fenomeni: il nostro ruolo è quello di raccogliere dati non oggettivi pur facendo scienza
pedagogica oggettiva. Dobbiamo quindi essere professionisti riflessivi che si interrogano sul fenomeno,
senza per forza rimanerne distaccato, voglio capire quali sono le variabili significative del contesto e del
fenomeno che vado ad analizzare.
Il livello di ricerca pedagogico, che riassume tutte e tre le prospettive, consente di fare pedagogia come
scienza oggettiva. Noi, in quanto docenti, possiamo fare un’indagine di questo tipo nelle scuole, non
limitandoci solo ad un’indagine volta alla conoscenza del fenomeno, ma anche alla realizzazione di
progetti per modificarlo e risolverlo.
(Dewey parla di docente - ricercatore: il docente analizza il problema e lo indaga in quanto ricercatore)
Esempio: Quando parleremo di bullismo vedremo che non c’è un solo bullo, ma ci sono una serie di
attori senza i quali non posso spiegare il fenomeno del bullismo! La conoscenza in quel caso è
l’interazione con l’oggetto e non solo la visione oggettiva della situazione analizzata.
Presupposto etico del paradigma positivista: Io non faccio scienza per migliorare la vita! Ma devo fare
scienza per fare buona scienza.
Presupposti politici: una scienza deve porsi il significato etico delle sue scoperte (cit). Se io indago
l’intelligenza e dalla mia indagine emerge che un popolo è meno intelligente di un altro..io devo pormi il
problema delle implicazioni etiche delle mie ricerche. La ricerca per essere significativa, deve essere
significativa dal punto di vista sociale.
Fino ad adesso ci siamo concentrati sulla questione della pedagogia della scienza e qual è il suo
significato per un docente. La chiave del significato del legame è l’idea del docente ricercatore, cioè un
docente che ha un atteggiamento scientifico, ossia istituisce percorsi di indagine quando si trova di fronte
a dei problemi e non reagisce solamente in maniera routinaria o impulsiva.
Abbiamo anche fatto riferimento nella lezione precedente, al modo in cui il dibattito pedagogico ha
cercato di rispondere alle sfide delle scienze dell’educazione, ossia l’idea che le singole scienze fossero
sufficienti a trattare le questioni pedagogiche e che quindi una disciplina di pedagogia autonoma fosse
inutile. In quel caso, abbiamo detto che ci sono stati diversi tentativi di soluzioni, che essenzialmente non
si escludono a vicenda:
● Una è la soluzione per cui la pedagogia prende dalle alte scienze, ma indirizza i risultati delle
altre scienze alla questione della formazione dei soggetti= pedagogia come scienza della
formazione.
● Una seconda variante di questo discorso è la pedagogia come scienza del processo
formativo, in quanto processo bio-psico-sociale oppure, come scritto nelle slide bio-socio-
antropologico, in cui la cosa rilevante è che si cerca un modo scientifico di studiare il processo
formativo. Ossia si cerca di accreditare la pedagogia come scienza empirica.
Questa seconda opzione che punta sulla pedagogia come scienza empirica, e attenzione non
è separata completamente dalla prima, tesaurizza la svolta della complessità, cioè l’idea che
emerge negli anni ‘70 ‘80 di passare da un certo modo di intendere la ricerca scientifica
(analitica, riduzionistica, in cui quindi i fenomeni complessi devono essere ridotti nelle loro
parti e si deve cercare il fondamento ultimo indagabile in maniera univoca), ad una idea in
cui i fenomeni devono essere studiati empiricamente nella loro complessità, quindi secondo:
-il principio di ricorsività→ essendo attenti non solo alle questioni di causa ed effetto ma anche
ai circuiti di feedback;
-il principio ologrammatico→ il tutto non è solo la somma delle parti.
Questa seconda risposta comunque ha al centro la formazione, ma non come nella tradizione della
bildung, ma come oggetto indagabile scientificamente. In quanto oggetto complesso però ha bisogno di
una razionalità complessa, che non scompone in elementi semplici ed è attenta anche ai feedback
ricorsivi.
[ATTENZIONE: IL PROF. DICE CHE NON METTERA’ DOMANDE NEL QUESTIONARIO FINALE SUL
FEEDBACK RICORSIVO. LETTERARMENTE “DOVRANNO PASSARE SUL SUO CADAVERE PER
METTERE DOMANDE AL RIGUARDO]
Perché i teorici di questa seconda parte si agganciano alla complessità?
Per mantenere lo statuto scientifico come scienza empirica e non solo scienza teoretica, ma anche
perché la complessità fu un quadro di riferimento che ha consentito loro di affrontare in maniera
strategicamente intelligente la sfida delle scienze dell’educazione. Ossia, la pedagogia ha ragione di
esistere in quanto ha come oggetto non singoli settori (che appartengono alle altre scienze) ma uno
complesso.
● Terzo modello (anche questo non è alternativo) in cui la pedagogia è una scienza
empirica nella misura in cui c’è un passaggio, nella discussione scientifica, da un
paradigma positivistico ad un paradigma ecologico con caratteristiche che sono state
spiegate nella lezione precedente. Quindi la ricerca pedagogica, come ricerca empirica,
rientra in quella nuova concezione della scienza e degli oggetti della scienza che è
proprio il paradigma ecologico.
Sia nelle slide che a lezione, si è sempre parlato di pedagogia come “scienza empirica” e mai di
pedagogia come “scienza sperimentale”.
Se volessimo distinguere questi due livelli, potremmo dire, in un certo qual modo, che la ricerca empirica
ritiene di essere scientifica, ha questa idea complessa ed ecologica per cui la conoscenza non è una
raffermazione oggettiva, non è necessariamente legata a strumenti quantitativa, anzi si dota di metodi
qualitativi e cioè quei metodi che in narrativa sono i metodi narrativi, i metodi fenomenologici, la grammar
theory(?), ossia metodi che riguardano l’interpretazione dei fenomeni, i significati e non i dati, i numeri e
le quantità.
La ricerca sperimentale, invece, va più nell’indirizzo della quantificazione e della identificazione di
regolarità numericamente identificabili. Cioè se utilizzo questo tipo di approccio è statisticamente
probabile che il miglioramento degli studenti sia maggiore che se utilizzo questo altro tipo di approccio.
Questo tipo di approccio si fa con numeri ( campioni) enormi! Questo tipo di ricerca viene solo accennata
nelle slide.
E’ bene quindi non confondere il piano della ricerca empirica, con quello della ricerca sperimentale.
La pedagogia come disciplina si costituisce all’incrocio di tre vettori:
1. L’ideologia
2. La scienza
3. L’utopia
Come educatori e come docenti, dobbiamo avere la consapevolezza del fatto che la riflessione della
pedagogia non può prescindere anche dalle altre due e non può supplire alle altre due.
Un discorso pedagogico ha in sé anche una costituzione ideologica e un’apertura utopica.
Ma cosa si intende per ideologia? una concezione generale del mondo.
DUE ESEMPI:
L’altro vettore indicato è l’utopia. Si tratta di un’idea molto profonda del discorso pedagogico: se si è
educatori non dobbiamo educare gli studenti a conformarsi all’ordine esistente, ma dobbiamo cercare di
immaginare le possibilità di un ordine ulteriore, diverso. Oppure, ad un livello ancora più radicare, l’utopia
non è un progetto che si può realizzare, ma è un’immagine di un futuro possibile che serve per criticare
l’esistente. E’ un modo per non accettare l’esistente, perché uno dei rischi delle pratiche educative è
l’inerzialità.
[Ideologia e utopia non saranno domande di esame]
Altro tema affrontato del corso online è la questione della centralità della categoria di esperienza in
pedagogia (slide 7), così come la legge John Dewey.
La grande rivoluzione di Dewey è stata che il docente deve partire dagli interessi degli allievi. Per interessi
si intendono le attività spontanee degli allievi, così da non rischiare che il polo diventi la “Disciplina”.
E’ lo scalzare dal piedistallo la priorità della conoscenza, cioè l’idea che il nostro rapporto con il mondo
sia soprattutto un rapporto di conoscenza. Dice Dewey che il nostro rapporto con il mondo è invece
anzitutto un fascio di esperienza, quindi affettiva e non cognitiva (cioè faccio qualcosa non perché sto
cercando di conoscerla, ma perché si sono strutturate alcune “abitudini”, cioè modi organizzati di agire.
Vi è una differenza tra conoscenza e sapere.
Molti dei nostri saperi, in realtà non sono saperi razionali e cioè oggetto di conoscenza compiuta (es.
voler andare in bicicletta avendo in mente quali sono le leggi della fisica), sono invece dei saperi taciti
che hanno a che fare con l’esperienza che noi abbiamo del mondo. Dove per esperienza si intende la
nostra relazione costruttiva con il mondo. Es. come spiegare ad uno straniero come attraversare a Napoli
(noi di Napoli sappiamo come farlo, è un sapere che non è formalizzabile, e cioè non è che se la macchina
va a 40 km/h e noi siamo ad una distanza di 5 metri non possiamo attraversare o possiamo buttarci, non
funziona in questo modo, noi abbiamo un sapere, nella pratica, che è quello che ci fa capire quando
possiamo attraversare).
Dewey in sostanza dice che la conoscenza è importante, ma il nostro rapporto con il mondo è anzitutto
un rapporto pratico.
Un altro es. = la conoscenza sono le istruzioni d’uso di uno smartphone, chi le ha mai lette? Il sapere
come si usa lo acquisisci smanettando ed avendo una persona che te lo spiega.
Le scuole che partono dal privilegio della conoscenza sono destinate a risultare estranee.
Questa è parte dell’idea di Dewey, mentre i suoi allievi hanno sintetizzato il tutto con il concetto di
“imparare facendo”, ma Dewey non ha mai detto questo.
Dewey ha solamente detto che come nella nostra vita, quando le cose non ci vanno bene, allora attiviamo
processi di conoscenza e cioè “metodi di indagine” e allora lì la conoscenza è significativa. Alla stessa
maniera nella scuola la conoscenza deve essere presentata sotto forma di indagine. Riprendiamo l’es.
del telefonino. Nessuno di noi ha letto le istruzioni, ma se succede qualcosa al cellulare e non abbiamo
nessuno a cui chiedere che facciamo? È allora che andiamo a studiarci le istruzioni. E le studiamo come
si deve, non come le slide per un esame ad es, le studiamo bene perché partiamo da un nostro problema
e le studiamo attraverso un’indagine per capire come risolvere un problema. Quindi ovvio che per Dewey
le conoscenze sono importanti, ma dove le piantiamo?
La scuola tradizionale pensa che le conoscenze così come sono importanti e che l’unico problema sia:
come adatto quelle conoscenze allo studente?
La questione di Dewey invece è: come ristrutturo la pratica educativa in maniera tale che lo studente
senta l’esigenza di andarsi a studiare quella cosa? la sua soluzione è stata la→ SCUOLA
LABORATORIO.
Il problema è che Dewey si è concentrato sulla scuola primaria, sulla secondaria ha scritto poco e quindi
non c’è niente sulla questione delle discipline.
Ma l’idea fondamentale di Dewey è partire da un laboratorio pratico per arrivare alla teoria. Es. laboratorio
di chimica, qualcosa non è andato bene nell’esperimento, come mai? Ecco che la teoria interveniva per
risolvere il problema.
La conoscenza per Dewey è quindi un MEZZO nella doppia accezione:
● Associazione
● Cumulatività
● Sequenzialità
● Programmazione
● Analiticità
Partiamo dall’analiticità-> per riuscire ad essere un insegnante che non insegna solo parlando (telling is
not teaching) si deve essere in grado di poter smontare e semplificare delle cose complesse in unità
semplici. Si inventa un’UNITA’ DIDATTICA. Adesso sembra scontato, ma è stato geniale.
Ad. Esempio, devo spiegare Manzoni->
Studiamo: LA VITA - LA POETICA – INNI SACRI – LE TRAGEDIE – I ROMANZI
Qual è la conoscenza di Manzoni in quest’ottica? La somma di tutte queste unità→ Principio di
cumulatività.
La forza di questo modello è che il tutto non fosse altro che la somma delle parti e che le parti erano
relativamente autonome.
Sequenzialità: non solo il tutto viene sciolto nelle parti, ma deve essere fatto in sequenza, secondo una
determinata organizzazione.
Il che vuol dire che il mio insegnamento viene Programmato.
Secondo i principi del comportamentismo cos’è che aiuta l’apprendimento? Una sorta di rinforzo positivo
o negativo. Quello negativo era la penna che scorreva sul registro: interroghiamo oggi.
Il rinforzo positivo è: “fate come lui, lui sì che ha studiato”. Bisogna sempre ricordare che la nostra mente
è una black box, la motivazione è attivata da quell’intervento sull’ambiente esterno, sotto forma di
ricompensa o meccanismo di ansia.
Cos’è imparare nei modelli comportamentisti? Ripetere, ripetere, ripetere. Perché come sviluppo i
comportamenti? Attraverso una ripetizione di uno stesso comportamento. Questo a livello
dell’insegnamento si traduce con delle ripetizioni di parti del programma, con complicate scacchiere di
ripetizioni in modo molto rigoroso che si ripetono in maniera irrelata (sono arrivato a Verga e ripeto
Foscolo, c’è un collegamento in questo? Nessuno, ma non importa perché sono parti a se stanti,
indipendenti).
Che cos’è la verifica, la valutazione? E’ il monitoraggio sulle modificazioni stabili del comportamento.
E’ una verifica dell’apprendimento delle singole unità. L’insegnante deve organizzare le interrogazioni in
maniera tale da valutare che lo studente abbia imparato tutto il programma.
L’errore, in quest’ottica, è uno strumento di monitoraggio per valutare se e dove re-intervenire (non sai
Manzoni? La prossima volta lo ripeti).
I comportamenti non hanno mai privilegiato i rinforzi negativi, anzi loro credevano che i rinforzi negativi
tendevano a consolidare le risposte avversive, loro erano sempre per i rinforzi positivi.
Più che puntare sulla motivazione degli studenti e partire da questi, si puntava sull’organizzazione e
strutturazione delle condizioni ambientali in maniera tale da attivare delle risposte degli studenti.
Questo era in un certo senso rivoluzionario e non possiamo sottovalutarne la portata. Primo perché molti
di noi continuano ad essere comportamentisti, prima che nei loro modelli di insegnamento, nei loro
modelli di apprendimento (“sono alla quarta ripetizione del programma prima di andare all’esame”, tipica
logica comportamentista).
Perché il modello comportamentista è stato così vincente?
Perché riduce la complessità e in contesti eterogenei, difficili ridurre la complessità è una risorsa
straordinaria, a volte anche fallacea, ma da una sensazione di successo.
Dal momento che considera il comportamento manifesto e non considera le specificità individuali in una
classe molto eterogenea, l’insegnante può organizzare la propria didattica in maniera abbastanza
uniforme.
Quando nacque il comportamentismo, aveva una potenzialità democratica immensa, perché l’idea era
che tutti possono imparare tutto magari in tempi diversi, purché l’apprendimento sia organizzato e in
maniera scientifica, purché si analizzino i pre-requisiti per capire in maniera organizzata quali sono gli
standard a cui li vogliamo portare-> INNOVATIVITA’ STRAORDINARIA.
Questi modelli si chiamano TRASMISSIVO IMITATIVI-> insegnante trasmette e l’allievo impara nella
misura in cui imita la trasmissione dell’insegnante. Ricordate sempre che la mente è una black box, non
c’è una rielabolazione delle nozioni.
Es. l’insegnante spiega e l’alunno deve ripetere esattamente quello che ha detto l’insegnante.
Allora trasmissivo-imitativi indicano sia un aspetto di descrizione, cioè il comportamentista usa quindi il
monitoraggio ossia la verifica in itinere, poi la verifica finale e quindi ripetizioni fino a che non si arriva al
risultato dell’alunno che sa in maniera competente o adeguata, quello che il docente ha spiegato.
Questi modelli sono dei veri e propri modelli dell’insegnamento, c’è un’idea anche dell’apprendimento
ma il protagonista assoluto qui è la figura dell’insegnante. E’ l’insegnante che programma, organizza
l’ambiente (come insieme di stimoli e rinforzi) e a quel punto cerca di ottenere un modellamento del
comportamento.
Che cosa succede negli anni '40? Succede che ci sono, per una serie di ragioni, alcune drammatiche (
cioè la seconda guerra mondiale) , delle potenti innovazioni scientifiche e teoriche. La 2 guerra mondiale
porta alla scoperta dei sistemi cibernetici, quindi che si autoregolano. Tante persone che ritornano dalla
guerra con gravi lesioni, che permette quindi di studiare in maniera differente gli aspetti del
comportamento e come alcune lesioni cerebrali potevano portare a qualcosa. Poi il comportamentismo
è arrivato al limite, cioè quando si va sul pensiero e soprattutto sul linguaggio, le spiegazioni
comportamentiste diventano sempre più pesanti, involute, controllate. Nel 1957 c'è una recensione che
Noiciosky fa sul volume di Skinner, che è il più importante comportamentista dell'epoca, sul linguaggio,
e in questa recensione dice che Skinner non ha capito nulla del linguaggio perchè il comportamentismo
non può spiegare il linguaggio. Questa data rappresenta l'inizio della scienza cognitiva (la scienza della
mente, il cognitivismo). In questi stessi anni nasce quella che è la metafora per antonomasia che
permette di studiare la mente che è paragonata ad un computer. Quindi se il pensiero diventa incarnabile
in qualcosa di fisico (computer) , allora può essere studiato esattamente in quella maniera oggettiva che
secondo Watson poteva essere utilizzata esclusivamente per il comportamento .... (non si capisce al 2'
45 "). Quindi cambia lo scenario e la mente rientra in gioco e la possiamo studiare. Se lo schema dei
comportamentisti era che allo stimolo segue una risposta, con la scienza della mente invece lo schema
prevede input sensoriale che viene conservato dalla memoria a breve termine per essere codificato ed
elaborato, quindi elaborazione attraverso un codice, segue poi l'output. Cioè in mezzo c'è l'elaborazione
da parte della mente che diventa il cuore di ciò che accade. Allora l'apprendimento non ha più a che fare
con il modellaggio di comportamenti manifesti; l’apprendimento ha a che fare con l'elaborazione di
informazioni. Qual è il fine dell'apprendimento?? La memorizzazione a lungo termine ma questa
memorizzazione a lungo termine non è sostenuta da meccanismi di ripetizione perchè altrimenti decade;
è sostenuta dal fatto che la memorizzazione deve essere significativa (io avrò appreso qualcosa quando
l'avrò capita, non solo ripetendola). I modelli della didattica vengono definiti modelli significativo-
elaborativi, ossia modelli in cui ciò che conta è l'apprendimento che abbia un significato in quanto è il
risultato di un'elaborazione. Badate bene che l'impalcatura della didattica, anche di quella cognitivista,
rimane quella del comportamentismo, cioè unità didattiche, una certa sequenzialità, ma cambia
totalmente il modo di intenderla. L'insegnante cognitivista è quello che vuole che tu abbia capito, cioè
che tu sappia fare i collegamenti fra gli argomenti in modo tale da apprendere in modo sofisticato i
contenuti, senza raccontare le cose a pappardella. L'insegnante cognitivista vuole per lo studente una
memorizzazione che non sia solo autonoma (a pappardella) ma anche significativa, cioè devi dimostrare
che hai capito, attribuendo un significato altrimenti non memorizzi nulla. In base a questa logica, il
docente cognitivista valuta la capacità dell'allievo di fare i collegamenti, è interessato alle strategie
conoscitive che lo studente ha per appropriarsi dei contenuti. L'insegnante cognitivista introduce
l'elemento dell'elaborazione significativa dell'informazione, cioè colui che è interessato al modo in cui
l'informazione viene memorizzata e conservarla in maniera significativa. Negli anni '80 del 1900 ( UN
CERTO TIZIO DI CUI NON CAPISCO IL NOME) afferma che le scuole americane hanno sempre più
studenti a cui mancano le nozioni più elementari ( per esempio, il significato delle parole, conoscenza
delle tabelline) e qui fa un'argomentazione molto interessante perchè attinge dalla letteratura cognitivista
e allo schema input- elaborazione con codice- output (risposta) e dice quanto più gli studenti avranno un
repertorio di nozioni ampi, tanto meno ingolfano la memoria a breve termine e tanto più potranno avere
performance cognitive migliori. Voglio portare alla vostra attenzione una cosa degli anni '80: le
intelligenze multiple. Negli anni '80 uno psicologo di Harward, Gardner, studioso della mente, quindi
all'interno dell'ondata cognitivista, scrive un libro " Friends of mind" in cui afferma che non c'è un solo
tipo di mente ma ci sono diversi tipi di mente che organizzano la conoscenza in maniera diversa.
Ciascuno di noi tendenzialmente è più portato per certe cose (cioè ad avere un certo tipo di mente) e
meno per altre. L'obiettivo polemico che si attuava a diversi livelli (sociale, politico ecc..) dello psicologo
era che il quoziente di intelligenza che misura solo un certo tipo di intelligenza ma in realtà ci sono altri
tipi di intelligenza che hanno gli stessi diritti ed elaborano la conoscenza in modo diverso (lui parla di 9
intelligenze: intelligenza logico-matematica, intelligenza verbale, intelligenza spaziale, intell.
naturalistica...ecc). Tanto il comportamentismo quanto il cognitivismo sono i modelli dell'insegnamento,
cioè nonostante tutte le differenze, sono modelli che hanno comunque la centralità dell'insegnamento,
ossia è l'insegnante che progetta, che programma, che insegna, che valuta sulla base di come lui ha
organizzato la didattica, è l'insegnante che si pone il problema delle strategie da usare. In ogni caso c'è
la centralità del soggetto che apprende e il docente diventa un facilitatore dell'apprendimento.
La svolta del costruttivismo deriva dalla differente teoria dell'apprendimento radicata in una diversa teoria
della conoscenza, a sua volta radicata in una differente teoria del rapporto con il reale. Uno degli autori
costruttivisti ha distinto due modalità di intendere la conoscenza e il rapporto con il reale: quello esogeno
è l'idea per la quale il reale è una realtà che sta là fuori e che la conoscenza consiste nel raffigurare
adeguatamente questo reale. Quindi io conosco qualcosa quando ho un'immagine, un'idea che
corrisponde alla realtà ( es. questa è una lezione se si sta facendo realmente lezione). Quindi le
conoscenze valide sono le conoscenze vere, cioè quelle che corrispondo alla realtà. Ne deriva quindi,
secondo il costruttivismo, che il vettore va dalla realtà all'apprendimento, cioè io apprendo quando
conosco cose vere. Ne deriva che questa impostazione favorisce una didattica trasmissiva, cioè
l'apprendimento conta solo se ci sono conoscenze vere, ciò che conta è che ci sia qualcuno che
trasmette in maniera adeguata ed efficace le conoscenze vere. Che cos’è allora l’apprendimento?
L’apprendimento è quello che avviene quando una conoscenza.
La nostra conoscenza è quella che ci permette di andare avanti in maniera adeguata con il mondo.
Truman non vive nella falsità ma nel suo mondo; nel film ? Truman si rende conto che la sua conoscenza
è inadeguata a ciò che lui percepisce in quel momento nella realtà, cioè c’è un momento in cui si crea
un’incrinatura e si rende conto che quello che lui dava per scontato non è che non è vero ma non è più
adeguato a quella realtà, quindi è ora che comincia il processo di apprendimento. Tutto questo per dire
che il criterio nel costruttivismo non è la verità ma la funzionalità della “mia” conoscenza per l’interazione
con il mondo e che l’apprendimento si innesta ogni qual volta quella conoscenza non ha più una funzione
positiva nella mia relazione con il mondo. (ho un forte dubbio su questa parte)
Perché allora questa visione della conoscenza è stata così importante nell’educazione? Perché la
posizione del costruttivismo è stata: tutte le pratiche educative si sono modellate su una visione esogena
della conoscenza, cioè sul fatto che la conoscenza derivasse da fuori e proprio per questo hanno
legittimato delle pratiche didattiche trasgressive in cui ciò che era importante era riversare negli studenti
le conoscenze vere; poi si potevano mettere in campo delle didattiche più o meno passivizzanti (come
didattiche di ripetitività) ma l’idea fondamentale è che così come l’apprendimento è derivato rispetto alla
realtà così lo studente non è il protagonista, lo studente è il destinatario di una trasmissione didattica, lo
studente non viene riconosciuto come agente epistemico? cioè persona che agisce e costruisce
conoscenza ma come persona che riceve conoscenza. Dice il costruttivismo: noi dobbiamo rovesciare
questa cosa e dobbiamo riconoscere che visto che la conoscenza è una costruzione della realtà
(costruzione di ipotesi sulla realtà) e che quindi non c’è una realtà che è uguale per tutti perché ciascuno
la interpreta a partire dalle cornici con cui la legge, proprio per questo visto che la conoscenza non si
struttura attraverso trasmissioni ma attraverso costruzione, la scuola deve essere l’ambiente in cui si
costruisce conoscenza, la scuola deve essere un ambiente di apprendimento. La scuola non è più
“tramandamento di conoscenza” (cioè l’insegnamento come spazio in cui una persona più esperta e più
competente in certe discipline introduceva le nuove generazioni a quei saperi che una determinata
società riteneva importanti) ma è un ambiente di apprendimento, ciò vuol dire che il motore dell’attività
didattica è l’apprendimento degli studenti, la scuola deve essere una palestra in cui i soggetti imparano
ad apprendere e in cui tutte le conoscenze che si sviluppano siano il risultato di processi di costruzione
di conoscenza e non di trasmissione di conoscenza.
Un ri-orientamento copernicano della visione della scuola che è entrato nella lingua comune, nel sentire
comune, a parte quelli che sono ancora tradizionalisti (professore-cattedra) rispetto al costruttivismo.
Il costruttivismo ha dei suoi limiti (cooperating learning, classe capovolta, tutte strategie che hanno senso
solo nella pratica costruttivista, sono opzioni metodologiche molto importanti ma che hanno una precisa
idea della didattica); il costruttivismo è stata la grande cornice di un rinnovamento complessivo del
linguaggio e del modo di pensare della didattica.
(Li troveremo nei documenti all’interno dei file)
Il costruttivismo è diventato un elemento molto forte del linguaggio pedagogico. Uno dei punti di forza
del c. è che nell’epoca delle nuove tecnologie e quindi di un diverso accesso alla conoscenza da parte
delle nuove generazioni e nell’epoca di una maggiore autonomia nell’accesso, il rapporto alla
conoscenza è cambiato nelle pratiche di vita comune; l’idea che persone che fino alla soglia della classe
si sentono protagonisti consapevoli o no di accedere all’informazione (es. smartphone) nella classe
possano essere riconsegnati al ruolo di destinatari della conoscenza è obiettivamente un’attesa molto
difficile da sostenere. La logica costruttivista non solo è logica che presiede a gran parte del discorso
sull’uso delle nuove tecnologie ma prima ancora obiettivamente la rivendicazione dell’autonomia e del
potere epistemico degli studenti era tanto più necessario quanto più era intonata con i tempi, tutto questo
nel gergo della scuola si traduce in “tu li devi interessare, li devi coinvolgere”, ma il punto di forza è stato
quello di rivendicare il fatto che è un’illusione pensare che le persone possano apprendere senza
costruire loro la propria conoscenza. Il costruttivismo ha avuto un enorme successo nella didattica delle
scienze della matematica, cioè ci sono molti studi in cui autori costruttivisti mostrano come una didattica
costruttivista, che parte da un apprendimento come costruzione di conoscenza e non come acquisizione
di conoscenza, porta gli studenti a risultati in termini di apprendimento molto maggiori sia nel senso che
sanno applicare meglio le conoscenze e inoltre le ricordano meglio perché è stato il risultato di propri
processi di costruzione della conoscenza.
In questi campi il costruttivismo è stato fortissimo (ambienti laboratoriali permettono l’uso di modalità
costruttiviste di insegnamento) ma anche le altre discipline possono essere alimentate dal costruttivismo.
Un insegnante di latino e greco può avere più difficoltà ad immaginare una didattica costruttivista ma
tendenzialmente tutto ciò ha veramente cambiato il modo di intendere. Il maggiore cambiamento è quello
di aver cancellato la parola insegnamento, perché chi è l’insegnante per il costruttivista? E un facilitatore
dell’apprendimento, cioè non è colui il quale eroga delle conoscenze secondo diverse modalità ma
l’insegante è colui il quale sostiene gli studenti nel loro percorso di apprendimento; da una parte creando
le occasioni con le quali le loro conoscenze vengono messe in crisi creando un setting educativo in cui
l’insegnante dimostra che quella teoria è inadeguata e a quel punto bisogna ricostruire la conoscenza e
quindi l’insegnante supporta nel modo in cui si ricostruisce la conoscenza. L’insegnante non è più
l’esperto che mi dà istruzione ma è l’esperto che mi accompagna nel mio percorso di costruzione della
conoscenza e di apprendimento. Quindi il principio del costruttivismo nella retorica pedagogica è
diventato quasi un qualcosa di ovvio.
(Ultimo modello che spiega il prof, è una variante del costruttivismo) I modelli culturalisti
dell’apprendimento sono legati all’opera di una grande figura del pensiero psico-padagogico del secondo
novecento, cioè G. Bruner (ha scritto “la mente ha più dimensioni” e“la cultura dell’educazione”). Nasce
come psicologo cognitivista e quindi è un grande scienziato della mente che senza rinnegare il … (25:00)
si rende conto di un limite e cioè che la scienza della mente avendo come immagine orientativa quella
della … (25:38) rischiava di non rendersi conto di come questi codici simbolici fossero legati alla cultura
cui si appartenevano, cioè i codici simbolici non sono tutti codici innati appartenenti al funzionamento del
nostro cervello, ma gran parte derivano da quei sistemi di simboli che sono i codici di una cultura. In
secondo luogo Bruner distingue due tipi di pensiero cioè due modi di dare senso alla propria esperienza:
pensiero paradigmatico e narrativo. Il pensiero paradigmatico è quello che organizza l’esperienza per
nessi causali o nessi logici di implicazione (se…allora); il pensiero narrativo è quel tipo di pensiero che
organizza e da senso all’esperienza identificando o attribuendo intenzioni e scopi e quindi creando delle
storie (per esempio: un esperimento di psicologia degli anni ’50 in cui fanno vedere un filmato in cui c’è
un quadrato aperto, un triangolino che esce e un cerchietto, sono figure geometriche che fanno dei
movimenti, e si chiede ai soggetti cosa hanno visto, questi soggetti nel dover descrivere nella maniera
più fedele possibile creano una storia “il triangolino scappa dal cerchio” o “il cerchio lo insegue” poiché
questo è il loro modo di descrivere, questa è la modalità narrativa di dar senso all’esperienza). Le
modalità logiche e di causa-effetto sono le modalità delle istruzioni, noi cresciamo sin da piccoli con adulti
che per introdurci a regole e condotte ci raccontano delle microstorie ed è così che diamo senso al
mondo (es. istruzioni smartphone).
Gran parte dell’organizzazione della cultura è stata molto ipotecata dall’idea che i programmi/curricoli
fossero costruiti in maniera paradigmatica cioè con logica e anche la didattica poiché facciamo
spiegazioni. La spiegazione è un fatto di identificare un nesso di causa ed effetto. Dagli anni ’80 invece
la spiegazione è una narrazione, cioè è tanto profondo raccontare delle storie che è uno dei consigli
migliori che si possa dare ai futuri docenti. Bruner ha dato straordinaria attenzione al principio della
narrazione, a quello dell’interpretazione (simboli culturali, cioè noi introduciamo le nuove generazioni a
prendere parte alla creazione di cultura del proprio gruppo o di più gruppi di riferimento) e al principio del
costruttivismo; Bruner non è un costruttivista forte ma anche per lui la conoscenza è costruzione di
conoscenza e quindi l’insegnante deve essere un facilitatore dell’apprendimento, quindi l’enfasi sulla
cultura non è nell’accezione della mera trasmissione ma dell’introduzione attraverso diverse modalità dei
soggetti in formazione a una gestione competente dei simboli della propria cultura.
Prof Oliverio – Lezione 4 (19/02/2018) – Sbobinatura Parte 1
Oggi rovescerò l’ordine del Syllabus per ragioni tematiche. Faremo l’inclusione, toccherò rapidamente la
questione DSA e dei BES, e ?? (minuto 3:16).
Prima definizione importante: che cosa si intende per inclusione? E prima precisazione (? Min. 3.30).
Nella più avanzata teoria della logica, la nozione importante è quella di inclusione, ossia la stragrande
maggioranza dei pedagogisti contemporanei, che si occupano di come includere gli studenti per ogni
tipo di diasgio (poi vedremo) preferiscono parlare di INCLUSIONE, distinguendola da INTEGRAZIONE.
Quindi per molti di noi non possiamo che l’inclusione è il “bravo ragazzo” e l’integrazione è il “cattivo
ragazzo”, ma sicuramente per molti di noi l’integrazione è un concetto più arretrato di quello
dell’inclusione. Preciso questo fatto di molti di noi, quindi anche per noi che facciamo questo corso,
perché il nostro orizzonte, l’orizzonte in cui ci muoviamo è quello dell’inclusione e non dell’integrazione.
Ma i documenti legislativi sono un tutti po' caotici, derivando non solo da fatto che hanno una cronologia
diversa rispetto a quella del dibattito scientifico, ma perché proprio sono caotici in sé. La questione
inclusione/integrazione (? Min. 5.10) . Nonostante anche al Ministero ormai operino persone di
riferimento come i pedagogisti, che fanno riferimento al costrutto di inclusione, su cui oggi ci
soffermeremo molto, voi trovate molto spesso che si parla di integrazione. Questo (? Min.5.35) la legge
che disciplina la questione dell’inclusione nella scuola è la 104 /92 e allora si parla di integrazione. Per
ragioni contingenti, per esempio, nel caso dell’intercultura si parla sempre di integrazione, perché in
sociologia si parla di integrazione dei migranti nella società, quindi si usa un concetto sociologico di
integrazione. A volte semplicemente per confusione, trovate che in uno stesso documento a volte si parla
di inclusione e a volte di integrazione. Quindi la cosa da tenere a mente è questa: nella prospettiva
pedagogica l’inclusione è il concetto più avanzato, per ragioni che vedremo, l’integrazione è un concetto
che ha fatto la sua storia, sia in senso positivo che negativo. In senso positivo che quando fu introdotta
aveva le sue ragioni d’essere, ma adesso è superata. Se voi andate su internet trovate, non so digitando
quali parole su Google, una bella immagine, capendo la quale potete rispondere a tutte le domande
sull’inclusione. Immaginiamola. Dovete immaginare tre persone, un padre e due figli che stanno a bordo
di un campo ad assistere ad una partita. C’è il padre, il figlio adolescente o pre-adolescente, quindi più
basso di lui, e infine un bambino, quindi ancora più basso. C’è una staccionata. Nella prima immagine
c’è il padre che può vedere tutto, e i due figli che hanno lo stesso numero di cassette su cui mettersi,
quindi uno può vedere e l’altro no. Nella seconda immagine, c’è il padre che vede sempre, il figlio
adolescente che ha una cassetta e il figlio piccolo che ha due cassette: in questa maniera tutti e tre
hanno lo sguardo sopra la staccionata. Nella terza immagine non c’è la staccionata, quindi tutti possono
vedere. Ebbene, semplificando, non andando troppo lontano dal vero, la prima tipologia è
l’INSERIMENTO, la seconda è l’INTEGRAZIONE, la terza è l’INCLUSIONE. Perché questo? Cosa vuol
dire? Perché la prima tipologia (INSERIMENTO) prevede semplicemente che un soggetto,
potenzialmente escluso o già escluso, venga introdotto in un contesto da cui era escluso, senza
modificare niente del contesto. Quindi, la logica dell’inserimento è quella logica per la quale, per esempio,
io promulgo una legge dicendo che alcune persone possono accedere a certe cose, ma non mi
preoccupo poi della loro accessibilità. Badate bene, noi pensiamo sempre, per ragioni che adesso
vedremo, ai soggetti in condizioni di disabilità ma, se fossimo negli Stati Uniti, molti direbbero che una
delle questioni molto importanti è stata quella della razza, ossia che leggi antidiscriminatorie, in alcune
parti, erano molto precoci, ma non nel Sud degli Stati Uniti, ma di fatto non c’erano politiche che
permettevano un reale inserimento, quindi era un inserimento formale. Nella seconda immagine, quella
dell’INTEGRAZIONE, tutti quanto sono messi in condizione di vedere e questo è l’aspetto positivo
dell’integrazione. Qual è fondamentalmente l’idea di integrazione? Che io non solo ti inserisco in un
contesto, ma rimuovo le barriere, di qualsiasi tipo esse siano, perché tu possa in qualche maniera
partecipare alla vita del contesto. Quindi l’integrazione non è del tutto negativa, perché si poneva il
problema che non basta inserire ma si deve dare al soggetto la possibilità di prendere parte a quello che
capita nel contesto, nell’esempio che dicevo, vedere la partita. Allora io metto diversi tipi di cassette a
seconda della diversa altezza, perché tutti possano vedere. Qual è il limite dell’approccio integrazionista?
L’approccio integrazionista elimina alcune barriere ma non elimina le dinamiche di fondo del contesto
che hanno portato a quelle barriere. Cioè, l’integrazione, se volessimo dirla con un’espressione
quotidiana, ma che ci fa capire la cosa, fa un intervento puntuale, ma non fa un intervento sul contesto
complessivo. Interviene, per usare un’espressione medica, sul sintomo , ma non su quello che ha
prodotto il sintomo. La logica dell’INCLUSIONE, invece, è diversa. In uno dei testi che dovete studiare,
scritto da me, inizio a dare una definizione dell’inclusione apparentemente banale, ma che in realtà è
tutto quello che si deve capire dell’inclusione. L’inclusione è la non esclusione. In cui, però, il non non
indica semplicemente l’eliminazione della barriera, indica un movimento molto più complesso, e cioè
che, i soggetti esclusi da un determinato contesto richiamano l’attenzione di quelli già dentro al contesto
sui limiti del contesto stesso. E quindi esigono una ricostruzione, una riconfigurazione del contesto, che
chi deve fare? Non possono farla solamente quelli all’interno, ma deve essere negoziata tra chi era
all’interno e che era escluso. Il non è un non transitivo, attivo, cioè indica un’azione sull’esclusione. Indica
innanzitutto che in questo contesto c’è qualcosa che non funziona, cioè l’esclusione, l’escluso, non è più
un soggetto mancante (tu sei un bambino piccolo è ovvio che non riesci a vedere). Il problema non è il
bambino piccolo. La questione del bambino piccolo, nell’esempio della staccionata, diventa la spia che
qualcosa non va nel contesto, cioè indica un’esigenza di cambiamento nel contesto. Quindi, l’inclusione
parte sempre da una protesta di chi è fuori, perché si ricostruiscano i contesti, negoziando, arrivando ad
un accordo tra chi è dentro il contesto e chi era fuori. Quindi non “mi dai le cassette” ma “rimuovi la
staccionata”. Qual è la differenza di fondo della logica dell’inclusione? La differenza di fondo pratico-
teorica è che uno dei principi è il seguente: che gli interventi inclusivi, cioè non integrazionisti, (quelli di
inserimento non li prendo neanche in considerazione) alla fine vanno a beneficio di TUTTI quelli presenti
nel contesto. Nella mia pratica, proprio con i vostri immediati cugini adulti, cioè i frequentanti del TFA,
quindi generazione precedente, ho un esempio straordinario, perché ci capitò per un fortunato caso di
dover spiegare questa cosa in una situazione che permise un’immediata chiarificazione di quello che
stavo dicendo. In quel caso, sempre per la mancanza di aule, dovevamo fare lezione a Vittorio Emanuele.
Io entro in quest’aula e rimango agghiacciato perché c’erano i banchetti e la cattedra. Ora visto che erano
tutte persone già laureate, era una riscolarizzazione delle persone e allora dissi: “cambiamo il setting
perché mi viene un’angoscia”, pensando di fare una cosa potentemente democratica. Quindi ci mettiamo
in circolo e iniziamo a parlare in circolo, evitando questo setting scolastico. Inizio a spiegare questa cosa
e inizio a vedere i più improbabili contorsionismi delle persone che volevano prendere appunti, per cui
gente che li prendeva attaccati al muro, gente che li prendeva sulle spalle di colleghi… allora colsi
l’opportunità per dire: “Ecco questa è la logica dell’INCLUSIONE! Immaginate che tra di voi ci fosse una
persona sorda, quindi lettrice del labiale. A quel punto non avrei potuto riconfigurare tutto questo, perché
lui avrebbe richiesto una frontalità per poter meglio leggere il labiale. Ora quell’intervento per lui sarebbe
stato un intervento di cui avreste beneficato tutti quanti voi. Oppure, pensate persone che hanno difficoltà
con la lingua pedagogica uditiva, e quindi io, se fossi un miglior docente, usassi anche delle slides, o se
ci fosse una persona non udente per cui io dovrei usare delle slides, ne avreste beneficato tutti quanti ”
Allora questa è la logica dell’INCLUSIONE, cioè la scommessa dell’inclusione, verificate ogni volta, è
che, non solo dal punto di vista teorico, tu intervieni sul contesto complessivo e lo rinegozi con tutti gli
attori del contesto, inclusi ed esclusi, non dicendo “ah c’è questo problema allora faccio così!”, ma alla
fine questa cosa è un processo che va a beneficio di tutti i partecipanti. Da questa differenza
fondamentale, seguono altre due differenze. La prima: che tendenzialmente l’integrazione è un
procedimento STATICO (interviene sul sintomo), cioè interviene sul problema specifico. Invece
l’inclusione ha un carattere PROCESSUALE, o dovrebbe averlo, cioè, essendo una ricostruzione
complessiva delle dinamiche di un determinato ambiente, non si limita a ovviare a carenza di un contesto,
ma dovrebbe ambire ad una ricostruzione complessiva di tutto il contesto. La conseguenza di questo
fatto è che non c’è mai un’inclusione finale. La conseguenza, che può essere vista stimolante o avvilente,
di questa impostazione, è che non si può mai dire di aver creato un ambiente inclusivo, nel senso che
nella logica dell’inclusione, la questione diventa: quali sono le voci degli esclusi che sono così fioche che
non riesco neanche ad avvertire? Perché il problema dell’inclusione, se è vero che si parte dal difuori, è
una protesta di chi è escluso, io potrei essere convinto di stare facendo la migliore didattica di questo
mondo, di aver creato un ambiente più inclusivo, e non rendermi conto di stare creando altre sacche di
esclusione. Non si può pensare: “ok, chiavi in mano, questa è la classe inclusiva!”. Perché se io vi do
questa chiave, do per scontato che io posso identificare a priori quali sono i motivi di esclusione. Questo
si lega alla terza differenza, che ci permette di recuperare uno dei temi che abbiamo trattato e che sta
anche sulle slides di Federica: la differenza tra razionalità tecnica e razionalità riflessiva.
Tendenzialmente, l’integrazione è all’insegna della razionalità tecnica, l’inclusione è all’insegna della
razionalità riflessiva. Cioè, l’integrazione, l’approccio integrazionista, in un certo senso ha
un’epistemologia professionale, secondo la quale ciò in cui noi come professionisti incappiamo sono
problemi già definiti. Nell’approccio inclusivo, invece, si ha la consapevolezza che ciò in cui incappiamo
sono problemi all’inizio indeterminati, cioè sappiamo solo che c’è qualcuno che ci dice che il contesto
così com’è non è inclusivo, ma non sappiamo ancora in che senso non sia inclusivo. Esempio fatto nelle
lezioni precedenti della collega con la persona con DSA, per la quale, nessuno degli strumenti
compensativi stabiliti dalla legge, e quindi recepiti dal dibattito scientifico, andava bene. In una logica
integrazionista, tu hai questo problema, queste sono le risposte. Nella logica inclusiva la questione non
è che tu hai un problema perché sei una persona con DSA, quella può essere una chiave di lettura, ma
tu hai un problema perché mi vieni a dire, a me soggetto deputato, nel caso del centro Sinapsi, a
promuovere contesti inclusivi, che così com’è adesso il contesto, paradossalmente compreso ciò che
stabilisce il Ministero con una legge avanzatissima, non ti permette di partecipare alla vita universitaria,
non ti permette di studiare. Allora io debbo riconfigurare il contesto e quindi in quel caso scopro (l’altra
volta lo vedemmo in riferimento al repertorio del professionista, all’abilità artistica del professionista) che
il contesto Federico II che si è dotato di una struttura, un centro di (? Min. 27.27 ), che fa dell’inclusione
la sua bandiera, si dota di una nuova idea di come fare inclusione. Questo vuol dire che abbiamo finito?
No, perché ci saranno nuovi problemi che solleciteranno nuove soluzioni. La questione è da riprendere
quando parleremo dei BES. Ma un’altra differenza considerevole fra inclusione ed integrazione è che
l’inclusione privilegia l’attività, o l’agentività (dall’inglese agency), cioè la capacità delle persone di agire,
dei soggetti potenzialmente esclusi. Abbiamo già detto che la logica dell’inclusione è la non-esclusione,
dove il non è transitivo, attivo, cioè l’escluso dice “c’è qualcosa che non va”. Quindi l’inclusione non può
essere mai paternalistica, non sono io che ti do qualcosa. Anche qui il modo migliore per far capire che
stiamo parlando di cose concrete e non di massimi sistemi (o meglio stiamo parlando di massimi sistemi
che si incardinano nella realtà, perché come diceva un grande psicologo “Non c’è niente di più concreto
di una buona teoria), vi faccio un esempio dalla pratica del centro Sinapsi. Nel centro Sinapsi ci sono dei
volontari del Servizio Civile che collaborano con lo staff tecnico, che poi accompagnano gli studenti,
qualora gli studenti ne abbiano bisogno. Sei o sette anni fa fummo fortunati con un gruppo veramente
motivato. E soprattutto ce ne era uno che si prese una rampogna, una reprimenda, una critica feroce
dallo staff rimanendo esterrefatto, perché lui pensava di aver fatto bene, e allora gli spiegammo che
aveva agito nella logica della integrazione e non nella logica dell’inclusione. Che cosa è successo? Tanti
anni fa c’erano ancora i dipartimenti che usavano il vecchio sistema per prenotare gli esami, che era un
foglio in dipartimento su cui si firmava. Uno di questi dipartimenti era quello di uno studente su sedia a
ruote. A quel punto il volontario di Servizio Civile accompagna lo studente su sedia a ruote perché poteva
esserci sempre qualche caso di inaccessibilità. Questo foglio era alla fine di un corridoio non accessibile.
Parlano e a un certo punto il volontario va a firmare al suo posto. E quindi viene rimproverato, perché in
quella maniera aveva operato in senso dell’integrazione, perché aveva operato un intervento puntuale
che non aveva cambiato la logica del contesto. E allora lui chiese che cosa avrebbe dovuto fare. Non
avrebbe dovuto firmare, avrebbe dovuto avvertire il centro Sinapsi, e il centro avrebbe detto al corso di
studi che c’era uno studente che non poteva firmare e di mettere il foglio dove tutti avrebbero potuto
firmare. Questa è l’inclusione che premia l’agentività, cioè in linea tendenziale, l soggetto deve essere
autonomo nella sua attività nel suo ambiente di vita. E quindi creare contesti inclusivi non è
semplicemente scavallare il problema, anche qualora sia un agente del contesto a farlo, cioè il volontario
di Servizio Civile, poiché in quel caso si poteva pensare che l’Ateneo aveva risposto tramite l’aiuto del
volontario. Invece non ha risposto, perché non ha permesso allo studente di essere autonomo. Allora,
nonostante per le ragioni che vi ho accennato, in molti documenti si continui a parlare di integrazione,
sia perché i documenti risentono ancora di una fase del dibattito precedente alla nuova riflessione
sull’inclusione, che grosso modo si sviluppa intorno al 2000, sia perché, nel caso dei documenti che voi
avete riguardanti l’intercultura, perché in qul caso il termine integrazione proviene dalla sociologia,
adesso nella riflessione pedagogica l’orizzonte è quello della inclusione. E l’inclusione si distingue dalla
integrazione nella misura in cui ha un carattere processuale, richiede una professionalità (? Min. 34.50)
e tutto ciò si radica nell’idea di fondo: l’inclusione non è la semplice rimozione della barriera, ma è una
riconfigurazione complessiva del contesto attivata da qualcuno che da quel contesto è escluso, nella
misura in cui segnala una difficoltà nel contesto stesso. Io ho iniziato a lavorare nel campo dell’inclusione
solo 10 anni fa, nel 2008, nel centro Sinapsi e per me è stata un’esperienza formativa straordinaria,
perché se uno inizia a frequentare questa logica, inizia a rendersi conto che vuol dire nella vita quotidiana,
cioè se io parcheggio o tengo ingombri i marciapiedi, il danno non è solo per le persone su sedia a ruote,
ma anche per le mamme con le carrozzine, per le persone non vedenti,…. Allora l’intervento sul contesto
è una cosa di cui beneficiano tutti, non una ristretta categoria di persone. Insisto su questo fatto perché
molto spesso, soprattutto in questo periodo, pensate a quel liceo romano che si faceva pubblicità perché
lì non c’erano persone con disabilità o immigrati, e quindi questo diventa il modello della scuola, questo
vi serve per come vedere i contesti educativi (e non solo per il questionario). L’inclusione non è buonismo,
ma la questione è concreta. Quando mi hanno assegnato questa aula, ho sperato che non ci fosse
nessun studente su sedia a ruote, ma il primo pensiero è stato che non ci fosse nessuno studente con
una slogatura, o ipovedente, perché questa aula è inaccessibile in maniera irredimibile. Allora, uno può
dire di aver fatto una ricognizione ed essersi assicurato che non c’erano persone con invalidità, ma se io
docente mi sono rotto il piede il giorno prima? In questo senso non stiamo parlando di buonismo, ma di
una logica capace di vedere in che senso operare nel campo dell’inclusione. (parla anche del fatto che i
corsi FIT si accavallano come orari, e se si pensa all’università che deve dare la possibilità a tutti di
seguire, si può dire che si tratta di una certa forma di esclusione, anche se l’inclusione di solito si riferisce
a impedimenti un po' più “concreti”. In questo caso l’intervento di inclusione potevano essere le lezioni in
streaming). esempio di come l’inclusione appella ad una razionalità riflessiva, cioè ad una creatività
continua per risolvere questioni non immediatamente risolvibili.
Allora, nell’ambito della storia italiana, quelle per praticità chiamerò politiche inclusive sono, all’inizio, nel
sistema scolastico, in chiave prevalentemente per persone con disabilità. Peraltro, l’inclusione di persone
con disabilità all’interno dell’università è un bell’esempio di inclusione, perché la legge che istituisce il
servizio (? Min 42.55) specializzato, è una legge del 1999, ed è stata fatta dopo che uno studente fece
notare che gli studenti con disabilità erano tutelati fino alla scuola ma non all’università: dall’esterno dice
qualcosa che non va nel contesto e si fa un’ottima legge, la 17/99. Allora, senza entrare nei dettagli della
pedagogia speciale, do alcune coordinate su quello che riguarda la disabilità. Perché quattro anni fa c’è
stata la normativa sui BES (Bisogni Educativi Speciali). Questa normativa (nel materiale d’esame)
all’inizio creò un po' di confusione, e nella pratica (linguaggio quotidiano) delle scuola la confusione molto
spesso è rimasta, per cui potreste sentire molti docenti che fanno la domanda: “Quanti disabili avete in
aula?” (e poi dirò perché non si dovrebbe dire disabili). O: “Quanti DSA hai in aula?” “Quanti BES?” . cioè
nel linguaggio quotidiano di molte scuole sembra che i BES sono una terza categoria accanto a disabilità
e DSA. In realtà BES è una nozione ombrello, che riguarda tutti i soggetti che per diverse ragioni
incontrano difficoltà nei processi di apprendimento nella scuola (non dico università perché noi del centro
Sinapsi ci poniamo la questione dei BES a 360° ma non c’è nessuna legge che obbliga). In realtà però
c’è una ragione per la quale i nostri colleghi della scuola (? Min 46.04), perché, nonostante BES sia una
categoria ombrello e quindi la dizione che loro dovrebbero utilizzare è “Hai studenti con altro tipo di
bisogni educativi speciali?”, c’è una differenza di fondo che crea enormi problemi alla scuola. Nel caso
della disabilità e nel caso del DSA ci sono leggi che stabiliscono gli interventi che la scuola DEVE attuare.
Cioè, se io sono uno studente con disabilità, o con DSA, in presenza di una certificazione, io ho il diritto
di avere determinate misure. In un caso, studente con disabilità, si può arrivare all’assegnazione del
docente di sostegno, e si farà quello che è chiamato PEI, Piano Educativo Individualizzato. Nel caso
dello studente con DSA, si procederà a fare un Piano Didattico Personalizzato. Allora:
Disabilità PEI
Entrambe sono forme di BES
DSA PDP
(altro caso di casino totale nella terminologia, perché come vedremo quando discuteremo di
Personalizzazione e Individualizzazione in senso tecnico, in un certo senso, il PEI è più verso la
personalizzazione e il PDP è più verso l’individualizzazione. Tendenzialmente, l’individualizzazione
implica dei percorsi centrati sull’individuo, ma avendo obiettivi comuni al curriculum. Invece, la
personalizzazione è una strategia didattica che mira a coltivare i talenti individuali, l’eccellenza cognitiva.
Poi dipende anche da come vedo la scuola: se io vedo la scuola in un’accezione democratica, per cui
tutti devono avere una base comune, vado più verso l’individualizzazione, se invece penso che la scuola
debba potenziare i talenti di ciascuno, vado verso la personalizzazione)
Che cosa succede tra il 2013 e 2014? Che il Ministero accoglie le teorie di un grande pedagogista italiano
contemporaneo, Dario Ianes, il quale pone questo problema: non è che ci sono solo queste due ragioni
per le quali si possono incontrare difficoltà nel proprio processo di apprendimento, ma possono esserci
altre tipologie di bisogni educativi speciali. Gli esempi classici che si fanno sono disagio psicologico, per
esempio uno studente, che nonostante fosse uno studente diligente, risente della separazione dei
genitori, con un disagio circostanziato, forse anche certificabile da uno psicologo, ma che è
effettivamente una ragione che potrebbe invocare la necessità di un intervento specifico per non lasciarlo
indietro. Altro esempio sono gli studenti immigrati arrivati da poco, che vengono tendenzialmente inseriti
nelle classi di persone con la loro stessa età, anche se non conoscono l’italiano. O ancora, lo svantaggio
socio-economico, forte situazione di deprivazione; a me è capitato alla primaria, in una classe in cui una
bambina che era sempre appassionata a quello che facevamo, mentre per due settimane di seguito era
sempre distratta perché, abitando a Scampia in una casa occupata da un boss ucciso, li hanno sfrattati
da un giorno all’altro, e lei e i suoi fratelli vennero divisi tra gli zii e i genitori vivevano in auto. Allora Ianes
dice che sono tutte situazioni reali, identificabili, e che i professionisti dell’educazione competenti sanno
individuare, e per le quali però non c’è nessuno strumento normativo con cui il docente è legittimato ad
agire. Tutto è rimesso alla sensibilità del docente: me ne rendo conto e in questo periodo non ti interrogo,
oppure, sapendo che sei particolarmente amico di una persona, chiamo questa persona e le dico aiutalo
nei compiti, studiate insieme. Allora Ianes propone di dotare il docente della possibilità di intervenire in
una forma più codificata. Nasce così la categoria di tutti gli altri BES, e lo strumento messo a disposizione
è mutuato, preso da quello dei DSA, cioè il PDP, e in questo caso il termine personalizzazione va
benissimo. Nel senso che, il consiglio di classe, e non il singolo docente, può decidere che gli studenti
che stiano sperimentando in maniera contingente una qualche difficoltà nel loro processo di
apprendimento, e il consiglio di classe riconosce che ci sono delle ragioni per le quali ciò accade, il
consiglio di classe elabora un PDP in favore di questi studenti, un PDP che può prevedere alcune misure
dispensative (poi vediamo cosa sono), può prevedere la riconfigurazione di parte della didattica per
venire incontro i questo momento di disagio.
Perché i docenti fanno una differenza tra disabili, DSA e BES? Perché, nel caso di tutti questi altri BES
non c’è una legge, ma una circolare del Ministero, cioè non c’è una certificazione. Quindi, è in capo al
Consiglio di classe l’assunzione di responsabilità della identificazione di un BES e della codificazione di
un intervento. Ovviamente, appena emanata questa normativa, le scuole si riempirono di file di genitori
per cui tutti i figli avevano bisogno di un PDP. D’altra parte dal lato delle dirigenze, ci fu chi disse che in
base alla normative tutti avevano dei BES e si dovevano fare tanti PDP, o altri che dissero che per evitare
ricorsi chi chiedeva il PDP lo facevano. La logica di Ianes era di dare una forma a ciò che si faceva in
maniera informale, era buonsenso, che però all’inizio esplose in maniera eccessiva.
Domanda fatta in aula: nel caso di disabili o DSA non certificati per volere delle famiglie che rifiutano la
diagnosi, può il docente richiedere la certificazione per poter poi intervenire? Risposta: NO, ed è un punto
cruciale che mette in evidenza l’arretratezza culturale. In questo caso i docenti hanno le mani legate,
anche se poi a volte intervengono ma non ufficialmente.
Altra domanda in aula al min. 1.03.30 ma non capisco bene perché fatta da lontano. Risposta: se il
docente se ne accorge e mette in atto un intervento, ad esempio l’uso di cellulare o tablet in aula per
aiutare lo studente, il problema poi si ripropone nel momento dell’esame, dove lo studente non è
autorizzato ad usare uno strumento compensativo, per lui fondamentale. Quindi il docente risolve il
problema in itinere, ma ne crea uno più grande. Il docente può mediare, però ha difficoltà che incontra
in alcuni caso con famiglie che negano il problema. Nella codifica del DSA, molte famiglie dicono ai
docenti “ma mio figlio mica è scemo?”. Nessuno lo dice, anzi uno dei presupposti della diagnosi di DSA
è un funzionamento cognitivo normale, a volte superiore alla media. La legge 170 del 2010, che riguarda
il DSA, è una legge che vale sia per la scuola primaria e secondaria, sia per l’università. Il centro Sinapsi
ha in carico la questione dei DSA. Ovviamente si sta un po' diffondendo la cultura, il centro Sinapsi è
riconosciuto nella sua funzione, ma a volte è difficile perché molti docenti non se ne accorgono perché
dicono che lo studente sta bene, o ancora che lo studente non si impegna. Ma provate a vedere su
Internet come un testo viene visto da una persona con DSA e ditemi se riuscite a leggere, non è un
problema visivo.
C’è un secondo problema sui BES, più teorico, che però si è tradotto anche in un movimento: soprattutto
in Nord Italia, c’è un movimento anti-BES, che dice che questa normativa, per quanto fossero buone le
intenzioni, di fatto era un arretramento rispetto alla logica dell’inclusione, perché spezzettando gli
interventi ed etichettando le persone non si poneva la questione di una riconfigurazione complessiva dei
contesti per evitare un certo tipo di disagio. Quindi, una parte della pedagogia italiana ha contestato lo
strumento BES, perché rischia di creare sacche di etichettamento laddove non ce n’era bisogno. Ecco
perché vi ho parlato di come parlano i docenti, perché per loro il BES è un alunno a parte, il BES è uno
dei problemi. Vi dico solo che nella mia classe ho due disabili, tre DSA e cinque BES, ma è un modo
allucinante di esporre la cosa. La logica dei BES che voleva, nelle intenzioni di Ianes, dotare i docenti di
uno strumento in più, ha creato alla fine un rischio di etichettamento. L’altro problema è quello che vi ho
detto della pratica quotidiana, cioè che il Consiglio di classe deve decidere senza avere (? Min. 1.11.42),
soprattutto in un momento in cui il patto tra famiglie e scuola è rotto, per cui i genitori sono meno propensi
a riconoscere la funzione educativa della scuola per cui vanno a negoziare voti,…(o cose più violente).
Assumersi questa responsabilità che alle altre famiglie può apparire come una facilitazione, senza avere
nessuna legge di riferimento e nessuna certificazione, ha creato un problema.
PDP = Piano Didattico Personalizzato; BES = Bisogni Educativi Sociali; DSA = Disturbi Specifici
dell’Apprendimento
Nel caso delle prime due tipologie di BES (disabilità e DSA) il PDP viene attivato dietro una certificazione.
Questa certificazione è una diagnosi che deve essere fatta dall’ASL o da una struttura riconosciuta. La
scuola non può attivare un PDP per studenti con DSA se non c’è una diagnosi di una struttura
riconosciuta.
DSA
Nella normativa sui BES, la seconda tipologia è relativa ai DSA, gli interventi in favore dei quali sono
normati dalla legge 170/2010. Questa è una legge eccellente ma tardiva. Eccellente perché fatta dopo
una serie di confronti e discussioni in unione con la associazione dislessia Italia. Tardiva perché per
lungo tempo la questione dei disturbi specifici dell’apprendimento non è stata riconosciuta, e in questo
periodo, proprio per la tipologia di questi disturbi, le persone con DSA sono state vittime del sistema
scolastico. Leggiamo la definizione di DSA che sta nelle ICD10 cioè nella classificazione internazionale
delle malattie: “Disturbi nei quali le modalità normali di acquisizione delle abilità scolastiche sono alterate
già dalle fasi iniziali dello sviluppo. Essi non sono semplicemente una conseguenza di una mancanza
delle opportunità di apprendere, e non sono dovuti ad un trauma o ad una malattia celebrale acquisita”.
In una persona non affetta da DSA le abilità linguistiche di lettura, scrittura e calcolo sono, una volta
acquisite, dopo breve tempo automatizzate. Se c’è una “D” su un foglio, le persone non affette da DSA
non devono pensare se quel carattere è una “D” oppure no. Una persona con dislessia ha problemi
nell’esecuzione di questo compito, e questo non deriva da una educazione insufficiente o da un
quoziente intellettivo basso, ma deriva da un disturbo neurobiologico. Questo disturbo è molto specifico
ed è misurabile mediante una serie di test accurati. Per avere infatti una diagnosi di DSA un soggetto
deve: i) avere un funzionamento cognitivo almeno normale, ovvero un quoziente di intelligenza di almeno
85 (ma molte persone affette da DSA hanno quozienti intellettivi superiori a tale valore); ii) essere, nello
svolgimento di un determinato compito, al di sotto di due variazioni standard rispetto a quella che è la
media di performance in quel determinato compito per quella classe di età e per quella classe di
formazione.
I disturbi specifici dell’apprendimento sono dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia.
La dislessia riguarda le abilità di lettura, in diversi modi e a diversi gradi di severità. Per esempio la
discriminazione di grafeni diversamene orientati nello spazio (p e d) o grafeni relativi a fonemi simili (t e
d). Una persona con dislessia potrebbe confondere tali grafeni e ciò non sarebbe dovuto ad una
questione di problemi di visione. Questa persona ha problemi nella decodifica di questi grafeni. C’è poi
la difficoltà a discriminare l’aspetto sequenziale, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso. In una
lezione precedente si è parlato di modelli cognitivisti e si parlò della questione della memoria a breve
termine, che non può essere ingolfata perché altrimenti il compito di gestione per chi ha problemi cognitivi
diventa difficile. Se una persona impegna tutte le sue risorse a dover decodificare se un carattere è una
d o una t, allora poi quella persona avrà difficoltà a capire il testo. Per cui una delle misure dispensative
(vedremo poi cosa sono, questo è un tema importante) è quello di evitare i compiti doppi, leggere e
spiegare o fare il riassunto ad esempio. In questi casi si verifica un ingombro enorme della memoria a
breve termine.
Questo tipo di disturbo (come gli altri disturbi DSA) sono “invisibili”, non si notano clamorosamente. Per
molti anni a scuola si diceva “il ragazzo non si impegna”, deve leggere di più, si deve esercitare di più.
Questo è assolutamente mostruoso, perché, ad esempio, sarebbe come dire che una persona con
miopia fortissima mette gli occhiali per andare in bagno solo per pigrizia e allora deve toglierli e a furia di
sbattere contro le porte impara la strada. L’incidenza statistica del DSA è il 3% (che non è poco, significa
circa 1 in una classe di 30) e pare che sia legato alle lingue. Per l’inglese la percentuale è più alto perché
il rapporto tra grafene e fonema non è lineare come nell’italiano. In Inghilterra però le legislazioni sulle
learning disabilities ci sono da 25 anni!! Noi siamo arrivarti tardissimo.
La disgrafia è relativa alla scrittura, per esempio problemi a mantenersi nei margini. Problemi a gestire
lo spazio in cui scrivere. Una certa disomogeneità, forma incerta della scrittura. Tute cose per le quali un
docente non preparato potrebbe incolpare lo studente di essere troppo disordinato e di non impegnarsi.
La disortografia è la difficoltà nella scrittura corretta delle parole. Confusione fra grafeni simili, omissioni
di parti delle parole (le doppie). Ancora sottolineiamo che questo è un disturbo di natura neurobiologica,
la doppia non è che non la si mette perché lo studente non si è impegnato! Ci può essere confusione
nelle sillabe, semaforo diventa semarofo, campalinismo anziché campanilismo.
Infine la discalculia è la difficoltà nelle abilità di calcolo. Ma non parliamo di problemi nelle addizioni.
Parliamo di difficoltà nel riconoscimento e nella discriminazione dei numeri. Per esempio si confondono
32 e 23. 536 e 563. I numeri doppi sono confusi, l’orientamento sequenziale manca. Molti discalculici
sono anche dislessici. A volte inoltre non si riconosce il valore dello zero. Non riescono a distinguere tra
5036 e 536. Ma attenzione, non è che manca il concetto. Queste persone conoscono e capiscono la
differenza tra 536 e 5036 ma nella lettura non riescono a decodificare l’informazione, e non perché sono
sbadati. Nei casi più gravi una della misure dispensative è evitare gli scritti.
Come si fa ad intervenire nella didattica? La legge, e indica due modalità: gli strumenti compensativi
e le misure dispensative. Gli strumenti compensativi sono quei mezzi di apprendimento, o anche
quelle tecnologie informatiche, che permettono ai soggetti di compensare il loro disturbo, di sostenere
l’apprendimento. Se io sono un disortografico, ma mi è concesso di utilizzare il computer con il correttore
ortografico, a quel punto non avrò problemi perché il correttore mi segnala sbaglio. E a volte (dipende
dai casi) queste persone riescono anche a correggere da sole dove hanno sbagliato, ed infatti si
preferisce il correttore ortografico che segnala e non quello che corregge. Lo strumento compensativo
non viene a sostituire, ma è importante. In alcuni casi addirittura si arriva ad usare il lettore, è meglio che
qualcun altro legge il testo, un dispositivo elettronico. Sottolineiamo che gli strumenti compensativi non
sono sono le tecnologie, sono i mezzi di apprendimento e le tecnologie informatiche che fanno riferimento
al disturbo del soggetto. Non facciamo l’errore di pensare: il computer risolve il problema.
Le misure dispensative invece consistono essenzialmente nella esenzione da alcuni compiti, per
esempio non fare il dettato a scuola. Oppure, se ad esempio si è all’università, concedono dei tempi
aggiuntivi, fino al 30% in più, per svolgere determinati compiti o test. Ciascun docente può gestire in
modo proprio la situazione: prima bisogna capire qual è il problema, e poi cercare di intervenire. In un
test finale un docente può creare per la persona affetta da DSA un test con 2 quesiti anziché 3.
Sottolineiamo che questa è legge e gli studenti privi di tale “vantaggio” non potrebbero protestare. I tempi
aggiuntivi non sono generalmente raccomandabili dal punto di vista pedagogico perché non sono un
aiuto, in quel tempo in più lo studente non avrà un vantaggio, ma avrà le prestazioni cognitive che gli
studenti hanno invece nel tempo non aumentato. Non è un favoritismo. Il problema del tempo maggiore
è che si nota e può diventare una sorta di etichettamento della persona e questo deve essere evitato.
Il docente deve sempre cercare di usare una politica inclusiva ed evitare di creare barrire. Se ad esempio
durane un test finale il docente dice apertamente: questa persona farà solo due esercizi invece che tre
perché è affetto da DSA, e magari lo fa per salvaguardarsi da critiche, sta in questo modo creando una
barriera anziché facilitare l’inclusione, sta usando un atteggiamento non adatto. Il docente può ad
esempio parlare privatamente con la persona affetta da DSA per decidere insieme a lui come gestire
questa situazione e quale strada anche il ragazzo ritiene più opportuna (parlare lui alla classe, far parlare
il ragazzo, far venire un esperto del centro sinapsi a spiegare il problema). È bene sottolineare che non
esiste in questi casi una regola unica, la filosofia generale è sempre quella dell’inclusione e della
sensibilizzazione. Teoricamente un buon professore dovrebbe anche avere una didattica che non crei
problemi. Un esempio banale è che un docente, nella preparazione di materiale, dovrebbe prediligere il
font Arial perché questo è quello che crea meno problemi ai soggetti dislessici.
Domanda di una persona: ma perché l’università non indirizza gli studenti in modo che evitino certe
facoltà? Una persona discalculica forse è meglio che non faccia studi scientifici. Risposta del prof:
1) Non dobbiamo pensare che tutti i discalcuilici confondano 536 e 563. Ci sono vari livelli di gravità.
Inoltre mano a mano queste persone nella vita perfezioneranno strumenti e strategie di compensazione
per cui riusciranno a rendere l’ostacolo non impossibile da superare. Se la persona con discalculia decide
di fare un percorso scientifico sta poi ai docenti stabilire se quella persona che laureano è una persona
in grado.
2) Il tema dell’orientamento è fondamentale. In fase di orientamento si può chiedere alla persona affetta
da DSA se la scelta che fa è quella giusta e informarla che avrà più o meno difficoltà. Non si può però
dire ad una persona affetta da DSA tu questo non lo puoi fare, anche perché non sarebbe vero! (Einstein
era dislessico!) Le persone affette da DSA hanno un funzionamento cognitivo molto elevato. Alcune
persone che hanno problemi in questa cosa hanno poi una intelligenza spaziale elevatissima. Non è
assolutamente automatica dire: sei discalculico, tutto il comparto scientifico ti è precluso o avrai serie
difficoltà. Il discalculico capisce la matematica. Se invece le difficoltà di questa persona nel comparto
scientifico derivano da altro e sono solo aggravate dalla discalculia allora l’orientamento diventa
strategico.
La DSA non si cura, non è una malattia. Qualcuno in aula menziona cure dai logopedisti. Un logopedista
non potrebbe fare niente perché il logopedista risolve problemi percettivo sensoriale. Invece la DSA non
è questo. È un problema di politica celebrale.
Una visione alternativa è che in un modo senza scrittura non ci sarebbero DSA. C’è un filone della ricerca
più radicale che sostiene sarebbe più opportuno parlare di neurodiversità. Non c’è un disturbo, è un
diverso stile cognitivo. Senza divagare però, noi abbiamo presentato la situazione com’è in base alla
legge: in base alla legge c’è il riconoscimento del DSA, sebbene una fazione della ricerca sostiene che
si dovrebbe parlare di neurodiversità e non di disturbo.
I DSA vengono diagnosticati da specialisti medici, ci sono diagnosi nette cioè si somministrano test
standardizzati. E’ su questa diagnosi che si costruisce tutto il percorso educativo. Senza questa diagnosi
non si può fare niente. questa diagnosi all’inizio c’erano anche dei medici di base che le facevano.
Ovviamente non è così, la deve fare l’ ASL, centri competenti perché si somministrano batterie di test
accuratissimi. Uno dei centri migliori d’Italia, a Modena diretto da Giacomo Stella, ha fatto una dispensa
di 13 pagine in cui sono riportati sia tutti i risultati dei test, sia quali sono gli strumenti compensativi
raccomandate, ovviamente si parla di diagnosi certe. Inoltre uno dei consigli che si da è quello di
formulare una diagnosi quanto prima possibile, ovviamente dopo l’inizio del primo ciclo di istruzione in
quanto si ha a che fare con strumenti di lettura e scrittura quindi intorno ai 7/8 anni di età. Quanto più è
precoce la diagnosi, tanto meno troverà difficoltà a scuola. Ci sono dei segnali, anche se non sufficienti
a determinare la diagnosi, tipo difficoltà ad allacciarsi le scarpe, difficoltà a riconoscere destra e sinistra,
che possono iniziare a far sorgere il dubbio prima della scolarizzazione. Una delle grandi tragedie in Italia
è che ci sono pochi centri per la diagnosi e inoltre la diagnosi è in età adulta.
Sull’inclusione abbiamo già detto molto, distinguendola dall’integrazione e calandola sulla questione
della disabilità dsa ma soprattutto sull’idea di un approccio bio-psico-sociale.
in uno dei testi che portiamo all’esame, la questione viene affrontata anche da un altro punto di vista,
che si ricollega a una delle tematiche dell’ultima unità didattica: educazione alla comunicazione.Young,
l’autrice del testo( se ne parla nel testo “l’inclusione interculturale come frontiera educativa”) dice che
l’inclusione è il modo in cui dobbiamo intendere il funzionamento delle nostre società, nel senso che in
un’autentica democrazia le decisioni che si prendono dovrebbero coinvolgere tutti quelli che sono
coinvolti dalle conseguenze di quelle decisioni. Ovvero le decisioni non dovrebbero provenire da un polo
(politica, amministrazioni, esperti) e poi i soggetti si assoggettano alle decisioni. L’inclusione è che le
persone che sono coinvolte dalle conseguenze di alcune decisioni debbono partecipare a quelle
decisioni. La logica è che se uno prende una decisione, il soggetto deve prendere parte al processo della
decisone stessa, in qualche modo deve essere coinvolto. Questo è il nucleo del concetto di inclusione
ma in quel determinato testo sono altri due concetti che interessano perché sono propedeuci alla
discussione sull’ intercultura. Questi 2 concetti sono quelle che Young chiama 1- le strategie
dell’inclusione e 2) il concetto di solidarietà differenziata. Fra le strategie di inclusione, la Young cita 3
dimensioni che servono principalmente per la questione dell’intercultura. La Young dice che l’inclusione
ha che fare con 1) saluto 2) retorica e 3) narrazione.
1)Saluto: vuol dire che l’inclusione ha come suo livello primo inteso soprattutto come fondamentale, una
dinamica per cui ti riconosco e quindi ti saluto, ti accolgo e ti riconosco in una dinamica, anche se minima,
relazionale. Rapportiamola ai contesti educativi: il centro sinapsi ha seguito una studentessa che non
poteva muovere nulla del suo corpo a parte le palpebre e che era iscritta a matematica. Una parte degli
interventi sinapsi riguardava la didattica in quanto la studentessa non aveva problemi ad apprendere ma
c’era bisogno delle prove in modo tale che le risposte dovevano essere si/no e i docenti dovevano essere
addestrati per capire come relazionarsi in modo tale da non creare disorientamento. Il più grosso
insuccesso che si è avuto è stato quando la studentessa durante un esame non faceva nessun gesto
quindi né si né no, allora l’assistente alla comunicazione disse al professore se la prova andava bene e
alla fine si resero conto che la studentessa aveva ragione, c’era un errore nel testo. Ovviamente questo
è un errore di didattica, l’errore dell’inclusione è che i professori ne erano intimoriti e quindi non
salutavano. Nel terzo anno del corso di studio gli amici le avevano organizzato una festa di compleanno
e la studentessa era emozionatissima, quindi il saluto non è una questione politica ma una questione
sociale, relazionale, di inclusione.
Secondo livello, quella della retorica intesa come il modo in cui noi parliamo delle cose e cioè un esempio
banale è il fatto che noi consideriamo come extra-comunitari solo le persone provenienti dall’ Africa e
non gli americani. La retorica quindi è come presentiamo i fenomeni nei discorsi pubblici ma anche,
rapportandolo alla pedagogia scolastica come presentiamo i fenomeni all’interno delle nostre pratiche
educative. Se io conto quanti bes o dsa ho in una classe, sto già pensando la loro condizione a partire
dai loro problemi, non sto pensando alla didattica nel suo complesso, quindi non è una questione di
correttezza politica ma è il modo in cui certi discorsi ci conducono a vedere i fenomeni in una maniera
piuttosto che in un’altra.
Il terzo livello, quello della narrazione che è uno strumento privilegiato per entrare in contatto con mondi
diversi, che possono essere mondi degli immigrati, il mondo di una persona vittima di bullismo, narrazioni
di una persona con dsa. La narrazione è uno strumento di inclusione utilissimo e potentissimo, di
ricostruzione del modo in cui noi organizziamo le nostre dinamiche, le persone escluse hanno un tipo di
esperienza che non viene capita, la narrazione, restituisce la sofferenza, il dolore o semplicemente la
volontà di partecipare, è un modo per favorire l’inclusione. Per questo si organizzano laboratori di
scrittura autobiografica in cui si impara a dire la propria esperienza e che serve anche a capire punti di
vista differenti. Le narrazioni sono un modo per accedere al campo di esperienza di chi è stato escluso.
Un altro concetto fondamentale è quello di solidarietà differenziata perché unisce insieme i due poli senza
cui non c’è una dinamica inclusiva. Un polo è il fatto che si creano relazioni di cooperazione (solidarietà)
nel senso che facciamo le cose insieme perché facciamo parte dello stesso contesto di vita, in modo che
nessuno venga messo da parte per nessuno motivo. Quindi il primo polo è che l’inclusione è interessata
alla partecipazione di tutti alle attività. L’altro polo è quella della differenziazione, intesa come il
riconoscimento e il rispetto della diversità. Cioè non è che tuti partecipano perché sono uguali e sono
tutti la stessa cosa, si partecipa perché tutti hanno gli stessi diritti ma ciascuno nel proprio modo
partecipa. (Sono stati accennati questi argomenti perché se ne parlerà nella prossima lezione)
Questo concetto domani tornerà in almeno due momenti nella lezione quando si parlerà di
personalizzazione/individualizzazione e multicultura /intercultura. Personalizzazione e
individualizzazione sono molto diverse tra di loro ma hanno una cosa in comune: l’attenzione agli stili
cognitivi individuali cioè la differenza è che in un caso è molto attento alle mete comuni e in un secondo
caso ai talenti individuali ma anche nell’individualizzazioni le mete comuni, predisponendo ove
necessario percorsi didattici differenziati a seconda degli stili cioè sia la personalizzazione che
l’individualizzazione sono attenti a quelle che sono le culture delle differenze. Così quando parleremo di
multicultura e intercultura avranno anche loro un elemento in comune e cioè il riconoscimento delle
differenze culturali.
Nell’inclusione ci sono questi due poli che vanno strettamente a braccetto, ossia una convergenza su
una partecipazione, un movimento convergente.
L’altro polo è la differenziazione, dove per differenziazione si intende che all’interno di questo movimento
convergente, di cui noi siamo delle unità, le differenze vengono riconosciute. Questo è un altro modo di
dire quello che abbiamo detto all’inizio sull’inclusione, inclusione era la riorganizzazione di un contesto
che si produce attraverso la negoziazione fra chi è dentro e chi è fuori. Adesso purtroppo c’è una certa
“pedagogia dell’esclusione” che va nella direzione di una differenziazione senza solidarietà, infatti negli
anni 70 c’erano classi differenziate per chi aveva disabilità (classi per persone non vedenti, classi per
sordi) questo ovviamente era differenziazione senza inclusione, differenziazione senza solidarietà e
questo movimento sta diventando prepotente e sta riemergendo. La più grande teorica dei bisogni
educativi speciali (la madre di tutto) nell’ultimo suo testo difende le classi differenziate cioè si può arrivare
alla differenziazione dicendo che è meglio per il loro apprendimento.
Un altro modo in cui si sta creando differenziazione è per gli alunni geniali, è un filone che dice che le
menti eccelse non le possiamo tenere in classi normali altrimenti creiamo differenziazione.
Tutto ciò è stato detto per far capire la differenza tra solidarietà differenziata e differenziazione e per far
capire quella che è la differenza tra una prospettiva didattica e una differenza pedagogica. Ci possono
essere interventi che posso essere ottimi da un punto di vista didattico ma pessimo dal punto di vista
pedagogico. Da un punto di vista didattico le classi differenziate potrebbero essere giuste ma da un punto
di vista pedagogico, nell’accezione della democrazia, è giustificabile? Non è possibile una risposta netta!
Dipende dai singoli contesti. L’inclusione è quindi una logica non solo di didattica ma ha una valenza
pedagogica.
Il Ministero dà priorità alla soluzione di questi pregiudizi, ma un’altra sua priorità è la questione
dell’apprendimento della lingua da parte degli stranieri. Per gli stranieri non nati in Italia l’italiano
è seconda lingua (L2). Ci sono due livelli di conoscenza della lingua: conoscenza comunicativa
e conoscenza per studio. Se si vuole mettere i soggetti nella condizione di avere un successo
scolastico (quindi di non avere ritardi, ripetenze o dispersioni) non basta il primo livello
linguistico, ossia quello comunicativo.
La comunicazione della lingua si ha in tutti i contesti (formali, informali e non formali) ma questa
competenza comunicativa, per quanto importante, non è garanzia di successo scolastico per il
quale serve una lingua astratta, colta e specialistica (conoscenza linguistica per studio). È ovvio
che la base è la lingua di comunicazion (primo livello), ma poi arriva la base più delicata (fase
ponte) in cui si deve familiarizzare con l’italiano più elevato e settoriale che permette di leggere
libri per entrare in tutto e per tutto nel gruppo classe. La questione della seconda lingua (L2)
non va sottovalutata perché sempre più studenti stranieri accedono alla scuola secondaria e
così il Ministero dà alcune indicazioni a riguardo:
- non fate solo lezioni frontali;
- i docenti devono essere dei facilitatori che facciano un surplus di attenzione
all’aspetto linguistico;
- solidarietà differenziata mettere in condizione non solo di comunicare, ma
anche di apprendere la lingua di studio.
Bisogna al tempo stesso riconoscere anche la lingua degli studenti stranieri nella quale sono
loro gli esperti, al fine anche di un ampliamento linguistico per noi.
Altra questione ministeriale è l’orientamento;
una delle caratteristiche e dei problemi dell’Italia è la dispersione scolastica, soprattutto nelle
scuole secondarie superiori e nelle università, dovuta a scelte sbagliate dell’indirizzo e allora le
scuole dovrebbero farsi carico di supportare gli studenti nella scelta della scuola. In tal senso
possiamo identificare due modi di intervento:
1) progetti o servizi specifici (nella scuola o nell’università vi è uno sportello che si occupa di
orientare i soggetti e l’orientamento deve essere anche all’interno della didattica nel senso
che i docenti dovrebbero aiutare gli studenti a diventare consapevoli di determinate loro
competenze (mentre insegno la mia disciplina, devo far capire cosa viene richiesto in termini
di abilità da essa e questa didattica è veramente orientante);
2) tendenzialmente si pensa l’orientamento solo in termini informativi (se scelgo questi indirizzi,
quali sono le materie da studiare e gli sbocchi lavorativi? ), ma il vero orientamento è
formativo, cioè dovrebbe far capire allo studente il suo modo di funzionare dal punto di vista
dell’apprendimento e della conoscenza;
C’è poi una specificità della tematica dell’orientamento, ossia la scelta di percorsi tecnici rischia
di essere uno spreco, se i soggetti la vivono come la loro unica opzione e invece la scuola
deve aiutare a prendere consapevolezza di tutte le opzioni facendo notare inclinazioni che
cono almeno potenziali.
Parte terza (sbobb. da Matilde Esposito)
Personalizzazione e Individualizzazione . Per l’esame bisogna studiare due articoli (Baldacci
M. per l’Individualizzazione e Chiosso G. per la Personalizzazione).
Il prof non spiegherà questi due articoli bensì farà riferimento al libro di Baldacci (Trattato di
pedagogia generale). Ci sono tre presupposti che designano il campo di forza della scuola del
nostro tempo. Il nostro tempo è definito come “società della conoscenza” (facendo riferimento
al Memorandum di Lisbona del 2000) e questo concetto è stato esplicitato nel Consiglio
d’Europa di Bruxell 2004. Essere una società della conoscenza significa aver bisogno di
iniziative “lifelong learning”: quindi l’Europa deve essere uno spazio di conoscenza permanete
al fine di creare una economia competitiva rispetto ai Paesi leader mondiali. Per ottenere ciò è
necessario: costruire l’Europa dell’istruzione e della formazione, concentrare riforme ed
investimenti in settori chiave, fare dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita una realtà
concreta. Dunque tutti i lavoratori hanno bisogno di competenze che riguardano la sfera
intellettuale perché è necessaria l’innovazione tecnologica. Per ottenere tutto ciò i tre
presupposti di Baldacci M. sono:
Qualità dell’istruzione.
L’obiettivo della scuola deve essere la qualità dell’istruzione che è di alto livello se permette di
formare cittadini consapevoli, se consente di trovare un lavoro, se conferisce la possibilità
di accedere a consumi culturali più sofisticati (libri, cinema, teatri, musei).
Uguaglianza di opportunità formative.
In una società democratica, tutti i soggetti che hanno studiato hanno competenze fondamentali
che permette loro di condurre una vita adeguata nella società di riferimento.
Quindi non più come succedeva con la Riforma Gentile in cui chi frequentava i licei diventava
classe dirigente, mentre chi frequentava gli istituti tecnici era destinata ad un lavoro manuale
(cioè economicamente subordinati).
Valorizzazione delle differenze.
Dal momento che si sono forti pressioni sociali per l’omologazione, la scuola può essere lo
spazio in cui le differenze sono rispettate e valorizzate. Inoltre, bisogna anche considerare
“esplosione” della soggettività cioè ognuno crede di essere protagonista ed unico. Quindi la
scuola si appropria pedagogicamente dell’invito della società moderna ad essere se stessi.
L’Individualizzazione è la qualità dell’istruzione unita all’uguaglianza delle opportunità
formative, mentre la Personalizzazione è la qualità dell’istruzione in riferimento alla
valorizzazione delle differenze.
In pratica l’Individualizzazione è più attenta alle opportunità formative, mentre la
Personalizzazione è più attenta alla valorizzazione delle differenze.
L’Individualizzazione può essere anche inteso come criterio generale dell’educazione, infatti un
concetto assodato nella pedagogia scientifica è che quando si fa educazione non si può
prescindere dal riferimento al soggetto da educare. Cioè in passato l’educando doveva essere
istruito bene per divenire adulto, quindi si dava molto importanza al maestro mentre oggi si dà
importanza anche discente. Quindi c’è una attenzione alle specificità individuali (questo concetto
c’è anche nella Personalizzazione).
Ricapitolando:
“L’Individualizzazione è la qualità dell’istruzione unita all’uguaglianza delle opportunità
formative” pur rispettando la differenza dei meccanismi cognitivi, mentre “la
Personalizzazione è la qualità dell’istruzione in riferimento alla valorizzazione delle
differenze” perché è la massima considerazione delle differenze. Cioè qual è il fulcro della
scuola? Non i “campi del sapere” ma i talenti dei soggetti (la scuola al servizio dei talenti del
soggetto).
Quindi, se si considera la strategia didattica possono essere considerate, in tempi diversi, sia
l’Individualizzazione che la Personalizzazione ma forse come orizzonte …. (min 1.09.30) la
prevalenza bisogna darla all’Individualizzazione.
Anche nel caso dell’intercultura potremmo distinguere un livello descrittivo e un livello prescrittivo.
Il livello descrittivo è il fatto che comunque le culture entrano in relazione fra di loro, ci sono scambi, non
è possibile elevare delle parti stagne in cui uno rimane nella propria bolla culturale.
Ciò che è più interessante è il livello prescrittivo, progettuale. C’è tutto un certo filone della pedagogia
interculturale arriva a dire che l’elemento squisitamente pedagogico è nel fatto dell’”inter”, dello
“scambio”: è vero che le culture e i soggetti possono scambiarsi tra loro, ma questo non è ancora
pedagogico. Il compito pedagogico è creare occasioni di dialogo che portino (ed è qui il punto
squisitamente pedagogico e culturale) a quello che il libro del Dialogo interculturale (mi pare si chiami
così, e che trovate citato in uno dei testi che portate nel questionario) chiama la relativizzazione dei
propri punti di vista culturali. Cioè l’idea dell’intercultura è l’idea che: entrando i soggetti in contatto
con soggetti di altre culture, si apprendano i confini, i limiti della propria cultura, dove “limite” non ha
accezione negativa: vuol dire “to’, non ci aveva pensato, le cose possono vedersi anche da quest’altro
punto di vista”. Se il multiculturalismo prescrittivo diceva: “noi dobbiamo conservare l’originalità e la
specificità delle nostre culture nella loro purezza”, l’intercultura dice: “ciò che dobbiamo favorire è la
consapevolezza dei limiti delle proprie culture, dobbiamo relativizzare i nostri punti di vista. Attenzione,
per non fare confusione: ciò non vuol dire che l’intercultura sia relativistica, è proprio il contrario,
l’intercultura non è relativistica, è dialogica! Perché il Relativismo è la posizione per la quale ciascuno
vede le cose a modo suo (ossia a partire dalla sua cultura) e non può vederlo in modo diverso. Invece
l’Intercultura che è dialogica dice: “io, entrando in dialogo con l’altro, imparo anche a vedere la mia stessa
cultura, a non essere più incapace di vedere fuori dalla mia cultura”. Insomma, l’intercultura mira a creare
quello che due grandi studiosi italiani hanno chiamato lo spazio del dialogo: in cui il dialogo non è
semplicemente il fatto di incontrarsi, ma è il fatto di condividere esperienze e attraverso questa
condivisione:
conoscere meglio l’altro punto di vista,
conoscere meglio il proprio punto di vista,
e poi costruire nuovi orizzonti comuni.
Affinché possiate ricordarlo, anche se l’esempio è pedestre, non è molto diverso dal fatto che molti di noi
pensano di conoscersi bene, che è una delle più grosse fallacie che ci sono, e invece è importante
quando una persona di cui ci fidiamo ci fa vedere parti di noi che non avevamo capito e che eravamo
troppo legati alla nostra prospettiva per non capirlo, e allora vedendo con gli occhi dell’altro vedo me da
un altro punto di vista che altrimenti non avrei saputo vedere. A quel punto quindi io posso dire: “ah io
sono così, allora posso anche cambiare”.
Mentre il multiculturalismo arriva a una separazione di fatto di isole e monadi culturali, l’intercultura non
arriva al Melting Pot, cioè a una mescolanza indifferenziata, bensì arriva a una maggiore consapevolezza
delle differenze culturali all’interno però della possibilità di scambi.
Si arriva alla solidarietà differenziata! L’intercultura ha l’idea della solidarietà differenziata. C’è la
solidarietà: spazi di incontro non solo per ragioni funzionali (vado al negozio cinese, il cinese va al
negozio italiano ecc.) ma l’incontro è anche culturale: “to’, questa festa mi ha fatto capire meglio il
meccanismo della mia tradizione”. E poi potrebbe arrivare alla costruzione di orizzonti condivisi, comuni.
Questo dovrebbe anche far capire altre due cose che abbiamo già visto.
Primo, ieri abbiamo detto che l’intercultura è tendenzialmente più inclusiva della multicultura, perché
l’intercultura è la costruzione di questi spazi di incontro, quindi non è solamente “ah è arrivato il ragazzo
straniero, come risolvo il problema?”, ma teoricamente quello che ci consigliano di fare in questi
documenti ministeriali è di riconfigurare l’intero sistema in modo tale che si possa pensare in una nuova
ottica. E ritorniamo alla giusta osservazione sul liceo classico: una delle attuali sfide è che (e fra un po’
il ministero manderà delle indicazioni) anche in quelle scuole più legate alla nostra tradizione culturale,
dovremmo iniziare a utilizzare le discipline che tradizionalmente sembrano radicate nella nostra cultura
(perché noi italiani siamo un po’ presuntuosi per cui siamo i figli dei figli di Giulio Cesare, e poi noi del
meridione siamo anche eredi della magna Grecia) iniziare invece a dire: attenzione, la cultura greco-
romana era a sua volta fortemente influenzata da altre culture, Platone prese molto dall’Egitto, e
Sant’Agostino, difensore del Cristianesimo, era africano! E ciò influisce sul modo in cui traduceva il latino,
innova la lingua latina! Allora l’idea è: anche quelle che sono le tradizioni (liceo classico, che con la
riforma Gentile è stato il perno della tradizione), anche quello deve essere rivisitato in maniera
interculturale! L’inclusione è questo. Gli stranieri che si iscrivono alla scuola secondaria, si iscrivono
sempre a percorsi professionali o tecnici, alcuni allo scientifico, il classico veramente pochi. La questione
però che adesso il ministero sta dicendo è che l’educazione civica in chiave culturale fatta in un’ora del
programma non serve a niente: dobbiamo ricostruire i curricoli, i programmi, le pratiche didattiche
rivisitandoli in chiave interculturale. Si può fare solo con un’opzione interculturale: le culture devono
essere riconosciute nelle loro differenze, però le culture dialogano fra loro (solidarietà differenziata).
Quando la multicultura dice: le culture devono essere salvate, è come se dicesse (perdonate la maniera
un po’ bruta): “ok, noi italiani tenetevi il vostro liceo classico ma dateci la possibilità di un liceo in cui si
studiano altre culture”, a quel punto l’idea di una ricostruzione globale dei curricoli è quasi impossibile da
fare. Allora in questo senso l’intercultura è un’opzione più inclusiva (nell’accezione di inclusione che
abbiamo studiato ieri) della multicultura. Di fatto, la scuola italiana (e per scuola italiana adesso sto
intendendo le indicazioni che arrivano dal Ministero), sono tutte nella direzione dell’intercultura.
Ora: i documenti del Ministero (che sono d’indirizzo, non sono testi scientifici) sono discretamente fatti
(?), ma noi pedagogisti nella nostra benevolenza vi abbiamo dato solo pezzettini da studiare, e quindi
oggi a lezione non parlerò di tutti i documenti, ma accennerò solo alle parti che porterete al questionario.
In generale però, vi consiglierei di studiarli in modo più approfonditi per la preparazione al concorso,
anche perché è il modo più rapido per familiarizzare con temi che altrimenti non sarebbero semplici.
Allora. Diciamo due appunti singoli, due concetti che servono per capire la questione multiculturale
interculturale che molti docenti della scuola secondaria […?...].
1. Abbiamo detto, all’inizio, che c’è frangia molto avanzata del dibattito scientifico che dice: si va be’,
intercultura e multicultura hanno tutte le differenze di questo mondo, ma in realtà hanno un
presupposto comune: la centralità della cultura. Questo filone della ricerca pedagogico-interculturale
italiana (con uno degli studiosi che forse è il più brillante attualmente) dice: stiamo attenti, noi diamo
per scontata la centralità della cultura, diamo per scontato che ciascun soggetto è anzitutto
caratterizzato dalla sua cultura di provenienza, per cui noi siamo prima italiani e poi tutto il resto. In
realtà soprattutto con i fenomeni migratori si creano i “contesti eterogenei”, in cui quello che
dovremmo studiare non sono tanto le culture: esattamente come per i dsa, ieri dicevo, non ci sono “i
dsa”, ma Stefano Giuseppe che hanno questo tra le altre cose, allo stesso modo io non ho “12 cinesi”,
ma ho X Y Z che hanno ciascuno le proprie caratteristiche. Questo filone dice: state attenti che questa
parte del discorso interculturale, compresi i documenti, rischia di essere poco attenta alle
caratteristiche dei soggetti, a schiacciare i soggetti sulla loro cultura di appartenenza, come se nella
scuola ci fosse (non lo scontro, ma) l’incontro “tra culture”… non è che si incontra la cultura italiana
con quella cinese: si incontra un docente e alcuni studenti che hanno nazionalità italiana con altri
studenti che hanno un’altra nazionalità. Quindi questa enfasi sulla cultura rischia di offuscare le nostre
capacità di azione nella pratica.
Questo ve lo volevo accennare per capire qual è il dibattito in corso, però i documenti per il momento
preservano l’opzione interculturale.
2. Le persone che avrete come studenti, alcuni saranno stranieri appena arrivati, e visto che voi
insegnerete nelle scuole secondarie, molti in quelle superiori, questo è molto problematico, cioè
quando si arriva in un paese a 14-15 anni, senza conoscere la lingua, e essere immesso in una
scuola, per un docente (e anche per lo studente) è molto problematico. Poi avrete una serie di altri
studenti figli di genitori stranieri immigrati. La dizione con cui vengono chiamate è “seconda
generazione”, che è uno di quei termini che sembra neutro, sensato, ragionevole e che però ha tante
trappole, perché implica una doppia esclusione:
a. dalla famiglia: nessuno di noi si pensa come seconda generazione! “seconda
generazione” è come se ci fosse stato un azzeramento della storia familiare, è come un
ricominciare;
b. dal contesto: anche se sono cresciuto in Italia, ho fatto le scuole italiane, non sono italiano,
sono seconda generazione. Tant’è vero che una parte del dibattito ha proposto un’altra opzione:
“nuovi italiani”. Non è una semplice questione terminologica, perché le questioni terminologiche
non sono mai solo terminologiche. “Nuovi italiani” indica il modo di vedere il fenomeno. Se lo vedo
come “seconda generazione”, nonostante la persona parli perfettamente italiano, e sia cresciuto
in Italia, e si senta italiano (non ha la cittadinanza, ma questo è un altro problema che non si
discute qua), lo rischiaccio solamente sulla sua […?...]. Se io lo chiamo “nuovo italiano”, gli
riconosco le potenzialità e le risorse della sua posizione, non la mancanza! “Seconda
generazione” è una doppia mancanza: la tua situazione familiare ha avuto un nuovo inizio, magari
drammatico, nel senso neutro cioè secondo una cesura, e tu sei escluso pure dalla scuola. Invece
“nuovo italiano” vuol dire: ti riconosco l’italianità, ma perché è nei fatti, parli perfettamente la
lingua, sei cresciuto tra i tuoi coetanei, e però ti riconosco anche il potenziale che tu hai:
mediazione interculturale.
Una tesista che stava con me studiò la mediazione interculturale nella zona di Terzigno dove c’è
forte comunità cinese: la cosa più interessante è che c’erano queste giovani studentesse cinesi
(12 e 13 anni) che essendo perfettamente padrone della lingua italiana, fungevano da mediatori
culturali fra tutta la comunità cinese, le famiglie, ed erano in tutto e per tutto nuove italiane, una
risorsa per stabilire il dialogo di cui parlavamo.
Questi due punti fanno capire che anche nel contesto dell’intercultura si stanno sviluppando un dibattito
per affinare i concetti e cogliere i fenomeni in maniera più precisa e meno dozzinale.
[In aula una ragazza ha fatto osservazione sui programmi tipo “Italiani in Cina”] Risposta del prof: È
chiaro, ma è questa la tendenza. Tra 600 anni, racconteranno dei nostri decenni esattamente come i
nostri libri di storia italiano-centriche raccontano delle “invasioni barbariche”: non erano barbari, nella
storiografia seria si chiamano “migrazioni di popoli”, in cui la cultura romana non è stata devastata, è
stata innervata da nuovi aspetti. Tra 600 anni avremo un altro tipo di cultura che sarà semplicemente
evoluta. Ovviamente l’atteggiamento che prevale adesso è quello della paura, per cui “dobbiamo
preservare i nostri valori”, il che cosa vuol dire? In Gran Bretagna si sono posti questo problema,
soprattutto con tutti gli attentati da parte di cittadini inglesi di religione islamica che non si riconoscevano),
due o tre anni fa il ministero avviò dei progetti sulla “britishness” sull’essere “britannici”: ovviamente
suona molto bene, ma nel concreto cosa vuol dire essere britannici? Per cui c’era uno spettro ampissimo:
scuole che si ponevano il problema “impero britannico, ci sono state pagine molto oscure ma anche
occasione di legame col mondo e concezione cosmopolitica” e altri che facevano progetti di
alfabetizzazione tipo “fish and chips”, questa roba qua! Allora in realtà noi dovremmo imparare a vedere
le cose con un po’ più di prospettiva.
I documenti, in questo senso, in parte aiutano, anche perché recepiscono alcune delle urgenze del
momento. Uno di questi documenti, che portate all’esame, è quello di combattere stereotipi e
pregiudizi, rispetto alle altre culture.
Lo stereotipo è un cliché, una sorte di idea fissa;
Il pregiudizio è un’idea preconcetta su un determinato gruppo, che può essere etnico, sessuale o
altro, non supportata da evidenze scientifiche.
Qualche giorno fa il candidato della Lega in Lombardia ha parlato di “razza bianca”, e non è un infortunio:
c’è tutto un filone degli studi francesi conservatori che parla di una sorta di piano per rimpiazzare una
razza con un'altra. La questione delle razze è sempre molto scivolosa, ma non per un motivo moralistico.
Non so se conoscete, io lo racconto sempre perché è significativo, il processo Rollins contro lo stato
dell’Alabama, nel 1922: l’imputato era afroamericano ed era imputato per aver fatto mescolanza delle
razze, perché aveva consumato rapporti sessuali con una donna bianca. Ora, non ricordo come è finito,
ma la cosa divertente è che l’unico modo in cui si poteva difendere era dimostrare che non c’era
mescolanze delle razze, perché ovviamente in Alabama non potevi dire “ma questo è razzismo!”, non lo
puoi dire adesso, figurati, quindi dovevi dire o che Rollins non era afroamericano, cosa che era, oppure
dovevi dire che in realtà la donna era di colore, e questa fu la linea: la donna non era di comunità bianca,
era di colore perché era un’immigrata siciliana! Che nell’America del ’22 era più vicina agli afroamericani
che non al ceppo britannico. Allora a scuola anche queste storie si dovrebbero raccontare, nel senso
che è molto facile sparare delle cose e poi non rendersi conto di come è complessa la storia.
Allora in riferimento alla storia dei pregiudizi e degli stereotipi, ovviamente adesso il Ministero è allarmato
per gli episodi di razzismo, allora come disarticolare i pregiudizi e gli stereotipi? Il ministero indica due
livelli:
1. Cognitivo
2. Affettivo.
Cognitivo vuol dire: “l’ampiamento del campo cognitivo”, sapere più cose. Anche stavolta non si tratta
(è fondamentale per capire qual è la logica, secondo me molto corretta, del ministero) di farlo in un’ora
a parte, ma all’interno delle discipline! Se si insegna scienze, si può far capire come non ci siano razze,
è un concetto che la scienza non accetta più, perché Cavalli Sforza dice: “la differenza genetica tra le
razze è inferiore alla differenza genetica che c’è tra due individui di due gruppi dello stesso gruppo”! È
un’occasione per smontare una nozione che ha grosso corso nel dibattito pubblico. Può essere
raccontato ovviamente nella storia e nella geografia episodi come questo, quando noi eravamo stranieri,
e lo eravamo perché la razza è una costruzione culturale, una persona siciliana ha i connotati più scuri,
ma anche una questione di cultura, ci sono delle pagine di italoamericani, vennero anni in cui eravamo
immigrati negli Stati Uniti ed eravamo considerati la feccia della feccia, perché puzzavamo, vivevamo in
condizioni proibitive… Raccontare queste storie, questo è l’allargamento del campo cognitivo.
Però, dice giustamente il ministero, il pregiudizio molto spesso non ha a che fare con la conoscenza dei
fatti (che è importante, poi vedremo, sempre riferendosi al ministero, a quali aspetti), ma ha anche a che
fare con una dimensione emotiva. Noi siamo abbarbicati ad un pregiudizio perché tocca corde profonde
di noi, e allora il creare occasioni per smontare questi legami affettivi con certe nozioni, è fondamentale!
Lavorare anche sullo stato emotivo. Questa storia di Rollins io non la conosco perché sono un raffinato
conoscitore della giurisprudenza statunitense, ma perché l’ho sentita in TV dal più grande drammaturgo
italiano vivente: Stefano Massini, che l’ha raccontata anche con un forte impatto emotivo, con forte
sapienza nel creare la suspense, con un effetto di sorpresa che aiuta a smontare. Un altro esempio che
è quella che una grande pensatrice americana chiamava la “Pedagogia della perplessità e del disagio”
è mettere le persone in una condizione in cui scoprano i propri presupposti, però una condizione che sia
emotivamente coinvolgente. Questo esempio della pedagogia della complessità e del disconforto (di cui
non parla il ministero, ma lo dico per far capire cos’è il valore affettivo), lo cito molto spesso in riferimento
alla disabilità, cioè dico: […?...] è controverso però alcune associazioni di non vedenti organizzano le
cene al buio, in cui tu ti devi affidare, e darti questa sensazione molto forte di cosa vuol dire.
Allora il Ministero giustamente dice: il combattere contro il pregiudizio e gli stereotipi si muove su questo
doppio livello. E indica anche, in un certo senso (il documento è del 2014, probabilmente con i nuovi
documenti aggiorneranno), 3 grandi aree di rischi di pregiudizio (non sono solo questi, ma queste sono,
al momento del documento, particolarmente allarmanti):
1) L’antisemitismo, per cui il ministero insiste molto sull’importanza di organizzare, che la Giornata
della Memoria tra le altre cose e lo studio della Shoà, non siano sacrificati e non siano solo ritualistici,
ma siano un’occasione per riflettere a fondo su questo problema.
2) L’islam-fobia: paura della cultura islamica. Perché lo mette nell’ambito dei pregiudizi, cosa
consiglia al campo cognitivo: per esempio andare più a fondo nelle differenze nel mondo islamico,
che non è unitario, c’è il filone preponderante sunnita, e quello secondario sciita, che hanno anche
differenze culturali, per cui per esempio studiosi di geopolitica direbbero che non è tanto una guerra
di islamici contro di noi ma è una guerra fra di loro, come in Europa c’è stata la Guerra dei cent’anni
tra cattolici e protestanti. Allora aiutare le nuove generazioni a vedere il mondo non come “tutti gli
islamici sono buoni” (perché poi quando uno inizia a fare un discorso ti dicono “ah allora tu vuoi dire
che noi siamo inferiori!...), no, stiamo solo dicendo di attrezzare le nuove generazioni ad ampliare il
campo cognitivo, e quindi a:
a) vedere le cose con maggiore complessità,
b) stemperare alcuni automatismi emotivi imposti da discorso mediatico. Io per il lavoro che
faccio devo essere anche attento agli aspetti educativi o diseducativi del discorso mediatico! Ci
sono trasmissioni televisive che sono agghiaccianti da questo punto di vista. Una delle tesi che
ho dato è (ieri parlavamo della retorica) “lo studio della retorica sui giornali e TV”, per cui se una
donna viene stuprata da uno straniero è stata stuprata da uno straniero, se è stata stuprata da
un italiano è una vittima, punto. È successo a distanza di 2 giorni: della povera Pamela sappiamo
tutto della nazionalità di lui, l’italiano che ha maciullato l’altra a Milano non sappiamo niente, cose
atroci tutte e due. Allora il Ministero dice dobbiamo intervenire su questo.
3) Anti tziganismo: le popolazioni rom. In aula abbiamo risposto “gli zingari”, il prof dice che è
impreciso e troppo connotato; una ragazza osserva che la parola zingaro ha assunto connotati
negativi col tempo, il prof risponde: certo, ormai è diventato un insulto, è una di quelle parole che non
so se in futuro saranno redimibili e ritorneranno al significato neutro, attualmente è una parola
fortemente connotata, quindi forse ecco un approccio anti-ziganista sta attento a un uso del
linguaggio che va anche a ricostruire il senso originario ma anche perché è diventato così. Purtroppo
un grande filosofo diceva che il significato di una parola è dato dall’uso , se una parola ormai è usata
con una certa connotazione non è più redimibile, è come se dire “mafioso” in antico dialetto siciliano
voleva dire bello, se io do del mafioso a qualcuno dicendo “guarda però volevo dire che sono un
raffinato cultore del siciliano, nessuno di voi la prenderebbe… Una ragazza fa l’esempio di negro:
voleva essere neutro ma ormai ha assunto connotati negativi, adesso forse sta tornando all’uso più
neutro, il prof dice: è un ottimo esempio, e non sta diventando neutro: negli Stati Uniti è letteralmente
indicibile, la possono usare solo tra di loro, è sdoganata, ma perché è all’interno del gruppo etnico,
ma se una persona di un’altra etnia dice nigger è indicibile, è la cosa più grave da fare, sei bollato
immediatamente come un razzista in una trasmissione la chiamavano “N word”, “la parola con la N”,
proprio per non dirla. In Italia non c’è ancora questa sensibilità, però ovviamente è una delle parole
che non si usano, si deve dire “afroamericano”.
Dunque lo tziganismo è l’insieme dei pregiudizi verso la cultura rom, per caratteristiche culturali legate
alla […?...]: il fatto che non accettano lavori stabili e così via, non considerano disdicevole il vivere
nella carità e così via.
Da questo punto di vista, il Ministero considera una priorità la lotta contro pregiudizi e stereotipi.
Ovviamente è una priorità che deve passare per il curriculum scolastico.
L’altra grande priorità (ed è una delle ragioni per cui noi abbiamo selezionato questo articolo) è la
questione dell’apprendimento della lingua. È una delle vexate quaestiones attuale.
Per gli stranieri non nati in Italia, l’italiano è L2, seconda lingua. Ci sono due livelli di conoscenza della
lingua:
conoscenza della lingua per comunicazione
conoscenza della lingua per studio.
Il problema è (ed è diventato sempre più urgente, in riferimento a quella che è la scuola secondaria,
soprattutto superiore) che non ci si può minimamente accontentare del livello di conoscenza
comunicativa, se si vuole mettere i soggetti nelle condizioni di avere un successo scolastico, dove per
successo scolastico si intende qui il non avere ritardi e ripetenze o dispersioni. Uno dei rischi è quello di
pensare: “no va be lui lo parla italiano”. Il Ministero fa un focus lungo su questa cosa: la questione della
comunicazione, guardate dopo 3 4 mesi il ragazzo lo risolve il problema della lingua, perché
l’apprendimento della lingua comunicativa si ha in tutti i contesti di apprendimento, formali non formali e
informali! Un ragazzo non frequenta solo la scuola: sente la TV, sta in mezzo la strada, ha varie occasioni
di utilizzare e familiarizzare la lingua della comunicazione. Questa competenza comunicativa non è
minimamente una garanzia di successo scolastico, perché la lingua che serve per il successo scolastico
è una lingua più specialistica, astratta, settoriale, lingua di studio. Per pura analogia, quindi con tutte le
cautele del caso, immaginate la vostra condizione di persone italiane colte laureate che potreste
scoppiare a piangere vedendo alcune slide del corso di formazione di pedagogia, o leggendo il mio
articolo, e non per commozione sulla bellezza dell’articolo ma sulla stravaganza del linguaggio usato!
Immaginate una persona che ha acquistato alcune competenze linguistiche per comprare cose, se va in
un ospedale chiarire se pur in maniera elementare che cosa gli fa male, ecc, ma che deve studiare una
disciplina. Allora il ministero ha detto: guardate, questo è un elemento smodale delicatissimo su cui le
scuole devono lavorare. È ovvio che la base è la lingua di comunicazione, quindi siccome rimaniamo
ancora un paese civile, quindi se arriva un bambino straniero ha il diritto di andare a scuola, e se non sa
una parola di italiano non è che gli faccio imparare la lingua di studio, quindi il primo livello dice è la lingua
di comunicazione; poi arriva la fase più delicata: quella che il Ministero chiama la “fase ponte” in cui deve
familiarizzare con un italiano di livello più complesso. Perché fase delicata? Perché anche da un punto
di vista teorico ed epistemologico c’è un problema: la persona, immaginate 12 anni, che riesce anche a
scherzare coi compagni, quindi è superato la fase di comunicazione, e deve raggiungere quella di studio,
non è che deve imparare l’italiano come noi lo impariamo a scuola con la grammatica, perché non è
quella la sua lingua materna, e però non deve impararlo nemmeno come noi impariamo l’inglese, perché
noi impariamo l’inglese come lingua ulteriore e al livello in cui lo parliamo nelle scuole è più lingua di
comunicazione che di studio! Allora lo deve imparare in forme diverse da queste due, e peraltro lo deve
imparare con un intervento iperspecifico, un certo tipo di italiano, cioè quello settoriale che gli permetta
di leggere i libri, col fine però di entrare, alla fine, in tutto e per tutto all’interno del gruppo classe, quindi
iperspecialistico, e che però per la sua ragion d’essere deve essere “a tempo”, ed ecco perché di
transizione!
Ovviamente il Ministero dà delle indicazioni, ma soprattutto solleva il problema! Perché dice: “ovviamente
sarebbe opportuno fare dei laboratori linguistici, non fate semplicemente delle lezioni frontali in cui
insegnate la grammatica italiana, ma se fosse solo questo ve li perdete”. Secondo, dice: “i docenti delle
singole discipline devono essere dei facilitatori, supporti in cui anche all’interno dei laboratori o addirittura
delle loro lezioni facciano un surplus di attenzione allo aspetto linguistico nello spiegare i concetti”; ma,
ancora una volta con molta analogia, se voi venite qua, e io so che alcuni testi sono incomprensibili per
chi non ha un certo background, io dico allora ve li “traduco in italiano”, è esattamente questo. Ora però
una delle misure poi, immagino, man mano che gli interventi andranno a regime, ci saranno buone prassi
condivise e ci saranno docenti innovativi per inventare nuovi percorsi, sapremo meglio come fare, ma
quello che fa il Ministero è dire guardate questa questione dell’italiano come L2 non va sottovalutata, nel
momento in cui sempre più studenti stranieri accedono alla secondaria. Finora non c’era stata questa
urgenza, innanzitutto perché non c’era questa grande popolazione studentesca, e poi perché non c’era
così tanti stranieri nella secondaria superiore. Allora queste è una delle emergenze.
Però, sulla questione della lingua, il Ministero la prende anche da un altro lato, e in questo è
autenticamente interculturale. Se pensate per esempio alla logica della solidarietà differenziata, questa
cosa che ho detto riguarda l’elemento della solidarietà: io ti metto nelle condizioni di parlare la lingua
italiana e anche di studiare cose più complesse, poi magari continuerai a decidere di andare all’istituto
tecnico professionale (perché non c’è niente di male, o perché molti di loro lo scelgono per due ragioni:
primo, è più facile immettersi nel mondo del lavoro, soprattutto nelle zone del meridione, e secondo,
essendoci più laboratori tecnici sentono di essere meno sguarniti di conoscenze rispetto ad un liceo, ma
ovviamente una scuola che vuole includere dovrebbe mettere ciascuna persona nelle condizioni di
scegliere quello per cui si sente portato, magari ci sono persone tra questi ragazzi che sarebbero degli
eccellenti letterati, scienziati, perché perderseli?), però questo è l’elemento della solidarietà, qual è
l’elemento della differenziata? (Ovviamente il Ministero non dice questo, io vi riporto questi esempi per
far capire che il programma non è questa polverizzazione, c’è un’unità e alcuni concetti servono a
qualcosa). L’enfasi nel documento ministeriale è sul plurilinguismo: noi dobbiamo fare questo lavoro,
loro vivranno in Italia, diamogli un insegnamento di italiano che si ponga […?...], ma allo stesso tempo
cogliamo l’opportunità della loro presenza per porci la questione di valorizzare il loro livello di […?...], il
loro […?...], cioè di conoscere il loro linguaggio. Ovviamente non vuol dire che nella scuola dobbiamo
fare tutto: organizziamo dei progetti in cui certe parole, certe storie e espressioni come vengono dette
nelle loro lingue! Così gli studenti stranieri non si sentono solo ospiti nell’accezione negativa del termine,
ma si sentano protagonisti, e che gli studenti italiani abbiano un’occasione di ampliamento cognitivo per
cui non è l’italiano solamente l’unica lingua! Una delle strategie, c'è ne sono tante, questa vale forse per
i livelli più primari, è quella delle “storie plurilingue”: possono esserci storie molto simili in due tradizioni
culturali, la stessa storia in due lingue. Per cui avrete tutte queste indicazioni su come favorire anche
all’inizio il plurilinguismo.
Ultima cosa da dire sui documenti ministeriali che portate: la questione dell’orientamento. LA voglio dire
per due motivi: primo, la portate, due perché in realtà è una delle cose che è nel programma del decreto
ministeriale. La questione è cruciale e ha delle specificità: se il tema dell’orientamento è un tema sempre
più centrale nelle politiche educative italiane in generale, nel tagliato sulla questione dell’interculturalità
mantiene le caratteristiche generali e in più ha delle specificità.
CARATTERISTICHE GENERALI:
PRIMA: Ci si è resi conto che uno dei problemi italiani è la mortalità scolastica e universitaria (abbandono,
dispersione) che, per un paese che vuole essere competitivo a livello mondiale e per altre ragioni che
dopo vedremo su individualizzazione e personalizzazione, è uno spreco enorme. E allora una delle
questioni è questa: questa dispersione e mortalità è uno degli elementi, soprattutto nella scuola
secondaria superiore e nell’università, deriva da scelte sbagliate fatte al momento della scelta della
scuola secondaria superiore e dell’università. Quindi la questione emergente è: le scuole e le università
dovrebbero farsi carico di supportare gli studenti nella scelta della scuola secondaria superiore
dell’università. Come? Possiamo identificare due modi:
1) progetti e servizi specifici. Ossia nella scuola o nell’università vi è uno sportello, staff, che si
occupa di orientare le persone.
2) Farlo all’interno delle discipline. Questo è uno dei mantra che a volte viene agitato: nella didattica
stessa (ovviamente nella scuola secondaria di primo grado e per la scuola secondaria di secondo
grado) i docenti dovrebbero aiutare gli studenti a diventare consapevoli dei tipi di competenze e abilità
che sono legate allo studio di quei campi del sapere. Mentre insegno, non solo insegno la mia
disciplina, ma anche che cosa vuol dire iniziare un percorso di studi che ha come suo asse quella
disciplina. Che cosa ti viene richiesto in termini di abilità? Che cosa ti viene richiesto in termini di
modi di organizzare la conoscenza che devono essere mobilitati? In questo modo la didattica può
essere in qualche modo orientante. Esempio pedestre: se mi piace la geografia, non è che dico
solamente “posso diventare geografo, o geopolitico”, ma posso utilizzare la geografia per farti capire
che se tu vuoi lavorare nel campo del turismo è una risorsa importante. Allora qual è il livello di studio
della geografia che riguarda il campo del turismo? Magari a te non piace la geografia per quello che
riguarda gli aspetti che potrebbero interessare a un buon economista, ma potrebbero essere molto
utili per il turismo; oppure viceversa scoprire che a te ragioneria non piace per niente ma mi piace
moltissimo la geografia, ma forse questo non esclude il fatto che tu possa studiare aspetti
dell’economia applicati alla geografia. Allora è la didattica stessa che diventa orientativa.
SECONDA: Tendenzialmente, per molto tempo e tuttora continua, si pensa all’orientamento solo in termini
informativi: “Se mi iscrivo a questa cosa, poi che sbocchi lavorativi ho? Quali sono le materie da
studiare?”. È utilissimo, ma se io mi fossi iscritto a ingegneria perché ero bravo in matematica, non mi
sarei mai laureato. Il vero orientamento è formativo: dovrebbe servire a comprendere quali sono i suoi
modi di funzionare dal punto di vista dell’apprendimento e della conoscenza. Io ho lavorato a progetti di
orientamento nelle scuole, e gli studenti mi chiedevano sempre: “ma se mi iscrivo a questo?”, e io davo
queste informazioni, ma mi dicevo: “ci sono le bacheche universitarie, i siti universitari…”. E invece
somministravo dei questionari e attività in cui chiedevo loro di riflettere su quali esperienze di
apprendimento avessero avuto nella loro vita, non solo nel settore formale (cioè non mi interessava dove
“andavano bene”), ma anche nei contesti informali. Quindi era un test molto semplice che piaceva, un
questionario aperto, una raccolta di narrazioni, in cui chiedevo loro di pensare: “Quand’è che ho imparato
qualcosa? Chi è che mi ha veramente insegnato qualcosa e perché? Se tu dovessi descrivere il tuo
modo di funzionare conoscitivamente, come lo descriveresti? Com’è che impari meglio?”. L’orientamento
è più sul settore formativo: come funzioniamo noi dal punto di vista di soggetti che apprendono.
Questo per la massima generalità, su un tema sempre più emergente, sicuramente nei prossimi anni
usciranno indicazioni su come i docenti debbano fare la loro didattica in senso orientativo, perché poi ci
sono due grandi studiosi che hanno parlato della “Pedagogizzazione dei problemi sociali”: se c’è un
problema sociale, la risposta è della scuola, ed è scaricato sui docenti.
PRIMA: È quello che ho accennato: la preponderanza di scelta di percorsi professionali e tecnici da parte
di studenti figli di genitori immigrati non è un male in sé, ma rischia di essere uno spreco se i soggetti la
vivono come l’unica opzione loro offerta. Allora è l’idea che una scuola interculturale aiuti i soggetti a
prendere consapevolezza di opzioni che sono loro aperti, non dicendo “c’è il liceo classico”, ma dire:
“guarda, a te sembra che non sei portato perché non parli italiano fluente ancora come i tuoi colleghi, ma
in realtà io noto una creatività culturale, un’operatività di lingua, un interesse per le altre culture, che ti
potrebbe aiutare nell’affrontare il latino e il greco, in cui parti dallo stesso livello dei tuoi colleghi.” È l’idea
di squarciare questo senso di destinazione che in genere i giovani figli di immigrati hanno.
SECONDA: Questa cosa è sorprendente. Potrà essere una mia ignoranza, ma io non avevo mai sentito
in tutti i libri che ho letto sull’orientamento, l’orientamento in riferimento alla scuola dell’infanzia! Cioè
tendenzialmente quando parliamo di orientamento, ne parliamo in riferimento alle due grosse cesure che
vi ho detto: il passaggio alla scuola superiore, e il passaggio all’università. Nel caso invece […?...], nei
documenti che leggerete, c’è la scuola dell’infanzia. Non viene detto come farlo, però viene detto (ed è
importante) perché farlo. Perché dice: mentre nella cultura italiana, tranne alcune sacche, la scuola
dell’infanzia è vissuta come il primo segmento (per intenderci, è quella che prima si chiamava asilo, e si
chiama “scuola dell’infanzia” ancora una volta non perché si vuole dare un’aria più figa, ma perché è
considerato il primo segmento della formazione del soggetto, sempre perché – lezione 1 – la pedagogia
non si occupa solo della fase educativa ma riguarda la formazione del soggetto lungo tutto l’arco della
vita, quindi anche la pedagogia scolastica non si occupa solo che il bambino entri in prima elementare a
scrivere le letterine, ma si occupa anche di tutta la formazione del soggetto, quindi anche prima), nella
scuola italiana è ormai consolidata, invece per molte comunità di stranieri potrebbe non essere così, e
la cosa è tanto più grave (è questa la raffinatezza della riflessione sull’orientamento, per cui ci deve
essere un forte orientamento per mandare i figli alla scuola dell’infanzia) perché è l’epoca in cui i bambini
possono avere una fase di socializzazione molto precoce e all’apprendimento della lingua italiana!
Domanda in aula: perché non renderla obbligatoria? Risposta del prof: sono ragioni politiche che qui non
trattiamo. Comunque, visto che non è obbligatoria, c’è l’importanza dell’orientamento verso la scuola
dell’infanzia, che permetta una socializzazione precoce e un apprendimento della lingua. Uno dei miei
più cari amici vive in Germania, il loro figlio è figlio di lui italiano e la moglie francese, il loro figlio è
originariamente bilingue, parlava francese e italiano: pur vivendo a Berlino, non parlava tedesco, però è
stato iscritto immediatamente alla scuola dell’infanzia, e dopo 2 anni parla tedesco molto meglio dei
genitori e adesso (ha 8 anni) per lui il tedesco è la prima lingua! Per questo bambino che non aveva mai
parlato tedesco, è entrato nella scuola senza parlare il tedesco.
Questo è il significato della questione sull’orientamento che non riguarda solo i due momenti cardine in
cui facciamo orientamento. Poi è ovvio, adesso ho semplificato dicendo che l’orientamento deve essere
legato alla vita reale, è ovvio che ciascuno di noi sente di aver fatto una scelta educativa quando ha
scelto la scuola superiore e non quando ha scelto la scuola elementare. È ovvio però che, nella logica
L.L.L., se l’orientamento è formativo allora riguarda tutto, non è che oibò si sono inventati qualcosa. Però
nell’intercultura quello che poteva sembrare un concetto astratto, diventa molto concreto! E cioè noi
penderemmo meno questi studenti (non solo nel senso, come troverete, del rischio di abbandoni e
ripetenze), ma anche nel senso che, familiarizzando presto con la lingua, tutta la discussione che
abbiamo fatto si porrà in maniera completamente diversa.
Lezione 6
1. tutorato, cioè una forma di assistenza educativa che, sviluppandosi nell'ambito del rapporto
personalizzato, mira ad aiutare l'allievo ad assumersi la responsabilità della propria formazione e al
tempo stesso a risolvere i problemi ad essa connessi. Insomma il tutor è qualcosa di diverso perfino
dal FACILITATORE COSTRUTTIVISTA che abbiamo visto, nel senso che abbiamo detto quando
abbiamo parlato dei modelli, se c'è una cesura rappresentata dai modelli post.... è il passaggio
dall'enfasi sull'insegnamento all'enfasi sull'apprendimento. E' l'idea che il protagonista dei processi è
il soggetto che apprende e che il docente è il supporto/facilitatore dell'apprendimento dei soggetti. ma
allo stesso modo abbiamo detto il docente comunque non programma, crea occasioni attraverso le
quali, le conoscenze reificate del soggetto si dimostrano non più viabili e così lui è portato alla
ricostruzione delle conoscenze.
Qui però ci si basa su un'idea di continua relazione. Il tutoraggio o tutorato invece è l'idea che ti
affianco non per tanti percorsi di conoscenza ma ti affianco per supportarti nella scoperta dei tuoi
obiettivi formativi, cioè nella personalizzazione, se l'obiettivo formativo con le parole di Baldacci lo
abbiamo definito l'eccellenza cognitiva sulla base dei parametri, è centrato sui soggetti (sarebbe un
po'strano se lo scelgono gli altri); è ovvio che il soggetto che è il soggetto che deve lodevole e
riconoscerli. La figura del tutor ha questa funzione: supportare il soggetto nel riconoscimento dei suoi
obiettivi formativi e nell'assunzione di responsabilità della sua formazione.
2. altro strumento che cita è il portfolio di competenza, cioè un documento redatto insieme da
famiglia, soggetto in formazione e docenti che in un certo senso documenta e quindi ha una funzione
di monitoraggio, sia di scostante supervisione del proprio percorso formativo, in alcuni casi può
perfino avere funzione di CERTIFICAZIONE, ma non è questa la cosa importante. Quella importante
è l'idea del portfolio, cioè un documento che riguarda il soggetto nel suo personale percorso
formativo. Questo tipo di documento è completamente diverso dalla pagella, non solo perchè la
pagella è uno strumento di valutazione, mentre il portfolio non lo è, ma la vera differenza è un'altra,
ovvero che tutto sommato la pagella è un documento pubblico che riguarda una dinamica
d'insegnamento e apprendimento che mette in gioco tutt e 2 gli attori. La pagella quindi diventa un
modo di descrivere un percorso formativo in riferimento ai campi del sapere e quindi come io sia
numericamente, sia con un giudizio, ho acquisito in misura diversa o non, alcune competenze e
conoscenze. Il portfolio è una sorta di descrizione del profilo e della storia formativa( storia in senso
metaforico) del soggetto nella sua personalità (NON è UN CURRICULUM perchè quest ultimo
riguarda anche le esperienze che uno ha fatto, mentre il portfolio riguarda conoscenze e
competenze).
Il portfolio dice: io sono questo, il mio percorso formativo mi ha portato a questo. vi ho riassunto molto,
vi ho tolto la parte sull'esperienza francese della pedagogia differenziata, però vi voglio leggere un elenco
che Chiosso fa molto significativo sulle ragioni di fondo della differenziazione. Dice, questo è molto utile
per:
- rispondere alle nuove ed accresciute esigenze legate al mondo adulto e delle professioni.
-valorizzare l'insieme delle opportunità formative che la società civile mette in campo in forme diverse e
spesso anche non istituzionalizzata;
-evitare di sovraccaricare la scuola di responsabilità educative;
-favorire la differenziazione dei percorsi formativi personali.
Perchè vi ho letto questo elenco? perchè come vi ho detto molte volte ci sta sempre una parte più
scientifica e una parte più ideologica, dove l'ideologia è la visione del modo che io ho sulle cose; quella
scientifica è il fatto che si condividono una stessa idea di individualizzazione come un oggetto sovra-
ordinario perchè fa parte della scuola; si condivide la consapevolezza che c'è stata una ricerca
pedagogica didattica che è data da alcune strumentazioni; si condivide il tipo di lettura degli strumenti
didattici a disposizione, la loro distribuzione, poi però a seconda che uno metta un accento sulla
personalizzazione e sull'individualizzazione mutano un po'la veremia con cui io suono questi strumenti,
perchè ieri come abbiamo detto con Baldacci: proprio perchè l'ex scuola si occupa molto e quasi
esclusivamente dei talenti personali, la scuola dovrebbe rimanere un campo della coltivazione di
competenze e conoscenze fondamentali. I 2 profili hanno gli stessi stimoli sensoriali( immagine bistabile,
profilo della vecchia e della giovane), poi si parla di organizzazione gestaltica, percettiva. Gli elementi
sono gli stessi, solo che nella personalizzazione sono organizzati diversamente; se Baldacci aveva detto:
proprio perchè fuori ci sta molta attenzione ai talenti, dentro la scuola allora facciamo qualcosa che
riguarda le competenze di base. Chiosso dice: proprio perchè fuori ci sta molta attenzione ai talenti, la
scuola deve avere gli strumenti per anticipare il 1°contatto con questo fuori. valorizzare l'insieme delle
opportunità formative che la società civile mette in campo in forme diverse spesso anche non
istituzionalizzanti. Dice: io come scuola non è che devo fare qualcosa di diverso, ma ci stanno tutte
queste opportunità? Animazione sociale, cerchi giovanili (io penso sopratutto alla Lombardia ci sta tutto
questo) e la scuola si vuole perdere tutto questo bagaglio? Dei percorsi personalizzati permettono alla
scuola di entrare in sintonia con questo. Baldacci diceva anche: è importante questa enfasi
dell'individualizzazione sulle competenze fondamentali pur nella differenziazione dei percorsi a seconda
delle caratteristiche individuali, quindi nella PLURALITà DIDATTICA, perchè diceva sopratutto nel
passaggio dobbiamo tenere in mente dalla scuola secondaria di 1°grado a quella secondaria di 2°grado,
dove tende ad esserci una specializzazione che rischia di unilateralizzare i percorsi formativi. Dice:
invece noi in una prospettiva di individualizzazione dobbiamo essere sempre attenti a quelle che sono le
conoscenze e le competenze fondamentali anche là; se ci stanno esigenze del mondo adulto e professori
che è ciò in cui poi la scuola sfocia, non sovraccarichiamo la scuola di compiti che sono poi distonici,
cioè non stanno in sontonia con quello, raccordiamoli con quello. La didattica personalizzata aiuta a fare
questo (l'orientamento è lo strumento, cioè quello che si fa è attrezzare le persone per poi essere attive
fuori). Ora anche Baldacci dice questo, però lui dice: il territorio (ha molte fabbriche ecc.) richiede queste
cose? Allora creiamo percorsi personalizzati che vanno in quella direzione. Allora questi 4 punti sono
interessanti (che sono sulla questione della differenziazione didattica) perchè mostra poi come alcune
descrizioni che sono scientifiche non nell'accezione alla scienza sperimentale ma nell'accezione p.e. in
questo caso della storia della pedagogia e della teoria pedagogica, cioè descrivono come si è arrivati a
certe idee, vedrete Chiosso è molto attento in questo e come funziona; poi però si tirano delle
conseguenze che non sono da buttare e ancora una volta non sto dicendo che persone o Chiosso dicano:
c'è un autorizzazione diversa del modo di vedere le cose. La personalizzazione si fa più carico di questi
aspetti di raccordo forte, p.e. con il mondo delle riflessioni, con le possibilità educative dell'ex scuola,
cioè proprio perchè ci sono, la scuola deve entrare in dialogo con esso e lo fa anche all'insegna di una
questione che Chiosso introduce ben presto nel suo articolo, che è la DISPERSIONE SCOLASTICA,
cioè uno degli argomenti forti dell'enfasi di una didattica personalizzata; è la necessità di conservare i
soggetti in formazione all'interno del sistema formativo.
Una delle emergenze che soprattutto le aree ricche e avanzate hanno economicamente è avere soggetti
che abbiano una formazione di qualità per essere competitivi sul mercato evolutivo ed evitare quella
tipologia di adolescenti e giovani che non sono nè formati, nè sono in formazione, nè lavorano. Una delle
idee forti dei fautori della didattica personalizzata è: guardate la chiave di volta intrascolastica è la
capacità di fare leva sul coinvolgimento dei soggetti, sulle loro dotazioni, sui loro interessi, cioè sul fatto
che sentano la scuola come qualcosa che li riguarda (scuola intesa come sistema informativo), aiutare
le persone ad individuare i propri obiettivi formativi, cioè uno degli allarmi è: noi rischiamo di avere nuove
generazioni che abbandonano la scuola perchè la trovano inutile, non cercano lavoro e quindi divorziano
completamente da ogni esigenza formativa. Questo è un argomento forte che ci introduce alla questione
della dispersione scolastica. Ora, il concetto di dispersione scolastica appare in forma codificata per la
prima volta nel 1972, non che prima non ci fosse il fenomeno o non ci fosse qualche definizione, ma nel
1972 l'UNESCO (agenzia ONU che si occupa di educazione, cultura e scienza) emana un documento in
cui si parla e temarizza della dispersione scolastica, cioè come se il mondo in maniera consapevole dice:
se noi vogliamo contrastare tante piaghe sociali, dobbiamo partire dalla alfabetizzazione e
scolarizzazione per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica. Per lungo tempo la lettura della
disp.scolastica è stata prevalentemente socio-economica, cioè dove c'è l'abbandono scolastico? Dove
c'è povertà o svantaggi socio-economici. Invece la più moderna riflessione sulla disp.scolastica p.e. in
Italia si dice : noi dobbiamo considerare la multifattorialità del fenomeno di disp.scolastica e ovviamente
ci sono molti modi in cui declinare la molteplicità dei fattori. Il primo più elementare, più basilare è un
versante socio-economico ma c'è un altro versante che è il soggetto che si disperde.
Se la disp.scolastica ha a che fare con l'aspetto economico nelle regioni più ricche non ci dovrebbe
essere disp.scolastica (esempio), il che in parte è vero, cioè che i tassi di disp.scolastica sono più bassi,
ma non è vero che si annulla e sopratutto non è vero che alla fine i soggetti arrivano a obiettivi formativi
di qualità adeguati a quelle che sono le potenzialità del territorio: se io sono in un territorio ricco, lavoro
natio e il mio partner di riferimento non è la Campania, noi come Italia abbiamo il Nord Italia che è più
veloce della Germania e il Sud Italia che è più lento della Grecia, noi abbiamo il meglio del peggio
dell'Europa, se io sono in Lombardia e devo competere con l'abbandono con la Germania non mi posso
permettere di avere persone che hanno solo la 3a media, perchè il mio problema non è semplicemente
di avere la manodopera ( quella manodopera sono spesso immigrati, il che piace molto a Salvini), il mio
problema è che c'ho una forma di dispersione scolastica. Allora se fosse solo l'asse socio-economico,
basterebbe che nelle regioni ricche non ci sarebbe disp.scolastica, allora si dice no, c'è un altro os, che
è quello del soggetto che si disperde, cioè il soggetto che non si riconosce nei percorsi formativi che gli
vengono offerti (questo fra parentesi lega il discorso della questione di personalizzazione che abbiamo
fatto con cui ho aperto), perchè ovvio che se il soggetto che si disperde è uno degli elementi a partire dal
quale leggere il fenomeno della dispersione scolastica , il mio problema diventa: come fare in modo che
gli ambienti scolastici, gli ambienti formativi ed educativi desaurizzino al max le potenzialità del soggetto?
Una risposta è la DIDATTICA PERSONALIZZATA e anche l'INDIVIDUALIZZATA. Ovviamente questo
dicevo è il 1°grosso elemento di mutifattorialità, ma poi vanno spacchettati; fra gli elementi socio-
economici poi ci si è resi conto che non è solo una questione di ricchezza, ma è una questione che ha a
che fare con le culture familiari, ha a che fare se c'è ancora, il rapporto tra scuola ed ex scuola, ha a che
fare con i valori diffusi all'interno di una cultura. io mi sono sempre chiesto, tutti i miei amici che
insegnano, insegnano al Nord, ma al Nord non si laureano? e invece non è così, è che c'è un fabbisogno
di insegnanti molto maggiore perchè molti vanno al di là dei percorsi formativi. Mi dicevano i miei colleghi
che il num. di licei e di studenti del liceo è vistosissimo in % rispetto a quelli che capitano al Sud Italia,
questo è il motivo per cui ci sta questa sorta di osmosi dal Sud verso il Nord, che ha altre
controindicazioni. Quando si dice culture dominanti e scuola ed ex scuola, ancora una volta faccio
l'esempio brutale: se io penso che in un territorio dominante la cultura serva ad avere un operaio
specializzato e metto un liceo classico, è ovvio che mi disperdo, cioè è ovvio che il soggetto dice a me
non serve a niente iscrivermi a questa scuola se nel mio territorio non c'è una scuola professionale-
tecnica e d'altra parte neanche il tessuto produttivo ha interesse ad interagire con quella scuola. Il
dipartimento di educazione ad Arezzo (dove ho lavorato per un paio di anni), non aveva mai avuto
finanziamenti dal territorio; cambiando direttore , la cui sostituta era anche una brillante pedagogista, è
andata a parlare con la Conf-commercio/Conf-industria locale e ha detto: scusate ma noi facciamo
un'università che non vi serviamo a niente; loro dissero che effettivamente a loro non serviva, per cui la
direttrice rispose: diteci allora cosa vi serve. e loro: a noi servirebbero più corsi di cultura cinese. Ok, se
io mi attivo, voi mi finanziate? Loro: si! e finanziarono infatti borse di studio enormi per questa cosa.
Questo dipartimento è così diventato quello con tassi di iscrizione più alti dell'Ateneo (+40%). Vi ho detto
questo non per lodare l'iniziativa della direttrice, carissima amica, ma per dire qual è la logica che
presiede. I soggetti potrebbero anche disperdersi perchè non trovano senso ad andare in certe istituzioni.
Poi ovviamente un modo di spacchettare la fattorialità è distinguere i fattori esogeni dai fattori endogeni,
dove i fattori esogeni sono i fattori sociali nell'accezione ampia che abbiamo detto; i fattori endogeni sono
quelli interni al sistema scolastico, al suo modo di funzionare. Ovviamente a seconda dei modi di
analisi,possono essere diversi, c'è tutto un filone che dice che uno dei fattori endogeni della dispersione
scolastica attuale è il fatto che la scuola rimane una scuola tipografica, cioè basata sull'intelligenza legata
alla stampa, al libro, mentre le nuove generazioni sono cresciute in diverso ambiente mediatico e che
quindi questo filone argomenta che uno dei modi per saldare questa divaricazione fra l'utenza e la scuola
è quella di creare una scuola più in linea con le modalità comunicative e cognitive dei nuovi studenti delle
nuove generazioni. Anche quiper capire cosa significa fattore endogeno, intendiamo: (ricapitolo) -> la
dispersione scolastica è un fenomeno lungo, ovviamente ce ne si accorge abbastanza tardi, 45/46 aa fa,
anche perchè la disp.scolastica diventa un problema quando la scuola diventa di massa, allora diventa
un'esigenza, cioè quando le si pongono il problema: vogliamo debellare l'analfabetismo e vogliamo che
quanti più dei nostri cittadini abbiano una qualche forma di formazione. All'inizio si dà una lettura socio-
economica, ossia la disp.scolastica è la manifestazione, l'epifenomeno di fattori esterni, socio-economici.
Risolviamo i fattori socio economici e vedrete che non avremo disp.scolastica. L'idea è con una massiccia
ricostruzione sociale in termini economici, dare lavoro alle persone e aumentare gli investimenti. Poi
invece si capisce che la disp.scolastica è un fenomeno più complesso, ma anche perchè la questione
non è più solamente l'analfabetismo, quindi la scolarizzazione di massa, ma diventa una questione di
scolarizzazione di qualità , cioè la questione non è solo se i giovani non vanno a scuola, ma anche che
abbandonano precocemente il sistema scolastico, rispetto a quelle che sono le ambizioni della società a
cui appartengono. Insomma tutto gira intorno al fatto che l'Italia c'ha pochi laureati. Questa è una delle
questioni. essendo cambiato, ci sono 2 aspetti, non più solo l'aspetto socio-economico ma anche quello
del soggetto che si disperde, cioè c'è una variabile: i soggetti abbandonano la scuola non solo perchè
devono lavorare, ma anche perchè non ha senso fare, per loro, quello che fanno andando a scuola. a
loro volta, i fattori socio-economici vengono analizzati da molteplici aspetti, quindi i familiari, i rapporti tra
scuola ed ex scuola (cioè se i tipi di scuola che sono su l territorio hanno senso in quel territorio ecc, data
la struttura economica del territorio). E poi ancora un altro modo di leggere il fenomeno è la differenza
tra fattori esogeni (sono la gran parte di quelli che abbiamo detto fino ad adesso) e quelli endogeni, cioè
c'è qualcosa nel modo di funzionamento della scuola che non va? è ovvio che i tropici della
personalizzazione, quando dicono che la personalizzazione serve per contrastare la dispersione
scolastica, si riferiscono ai fattori endogeni, cioè dicono: guardate c'è qualcosa nel modo di
organizzazione delle pratiche didattiche che non è che non favorisce o produce dispersione scolastica,
ma non è abbastanza adeguato per contrastarla, forse se cambiamo l'approccio e l'impostazione
didattica, riusciremo ad avere tassi più bassi di dispersione scolastica.
Un autore che non portiamo, Un pedagogista importante italiano (Riccardo Massa) ha detto che bisogna
considerare la scuola come il dispositivo pedagogico: Un dispositivo è un sistema incorporeo di
procedure in atto. Cosa vuole dire? Che ciò che identifica la scuola non è difficile, ciò che è difficile è
l’organizzazione dei tempi, degli spazi, il disciplinamento dei corpi, il sistema di relazioni …l’idea dei
fattori endogeni è che la scuola come dispositivo pedagogico possa essere una delle ragioni della
dispersione scolastica, ossia che il il tipo di organizzazione dei tempi, degli spazi, che nel linguaggio
tecnico(?) è chiamato “scuola a cartone delle uova”, perché c’è (non si capisce). queste scuole sono
inadatte come dispositivo (cioè sistema incorporeo di procedure in atto), a coinvolgere gli studenti nel
progetto formativo.
L’altra cosa da tener conto è una progressiva dequalificazione del ruolo della scuola agli occhi della
società nel suo complesso, del ruolo della scuola e dei docenti. Allora l‘dea è che, oltre a intervenire sui
fattori esogeni, dovremmo anche intervenire sui fattori endogeni: dobbiamo ripensare ALLA SCUOLA.
Facile a dirsi complicato a farsi, perché anche le visioni sono diverse.
es ( legge un passo dalla relazione finale della VII commissione sulla dispersione scolastica stilata
nell’ultima legislatura del 2014. Aggiungo il link per chi fosse interessato:
http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=49700
È ricca ed è un segnale come la dispersione scolastica sia visto come un problema fondamentale.
“Una più ampia apertura delle scuole potrebbe essere sia orizzontale, nel periodo di giugno-luglio, sia
verticale, cioè allungando gli orari di funzionamento degli istituti nei giorni di lezione. Ciò non significa
però perpetuare la distinzione tra saperi e discipline «ufficiali» di tipo teorici e le attività «pratiche» – in
un certo senso «extra-scolastiche – in subordine. Le attività non possono essere messe in gerarchia, ma
tutte devono concorrere alla qualità del modello pedagogico-didattico.
La scuola, allungando i suoi tempi, deve rendere ordinario ciò che ora è frutto di esperienze casuali,
soprattutto nelle zone ad elevata esclusione sociale.”
cosa dicono è che per contrastare la dispersione scolastica, soprattutto nelle zone ad elevata esclusione
sociale, dobbiamo cambiare la scuola, che deve rimanere aperta più a lungo e fare attività che in genere
non si fanno. Non vuol dire che a giugno e luglio i ragazzi devono andare a scuola a fare solo cose
divertenti, che fino a giugno seguono i corsi “pallosi” e poi in estate quelli divertenti, ma che la scuola
deve divenire un ambito dove coltivare in maniera intenzionale e sistematica interessi diversi e fare
esperienze di questo tipo, che fino ad adesso sono affidate alla casualità. Quindi sistema formativo
integrato. Questo può contrastare la dispersione scolastica.
“Sul punto, peraltro, vi sono diversità di opinioni fra gli esperti: secondo alcuni, infatti, non è detto che
migliori la situazione allungare la giornata scolastica, aumentare le ore di lezione – soprattutto nel caso
di insegnanti che contribuiscono ad alimentare il disagio – perché il tempo scolastico è una variabile che
influisce nella misura in cui si traduce, poi, in un tempo di apprendimento, di concentrazione e di studio.”
Insomma, una commissione parlamentare sente esperti e cerca di capire che direzione adottare. Il punto
sopracitato dice in poche parole che se gli insegnanti li fanno fuggire perché li mettono a disagio, è
peggio.
“ Occorre però considerare che almeno nelle zone a rischio di emarginazione socio-economica un
prolungato orario scolastico permetterebbe ai giovani socialmente svantaggiati di poter far riferimento
nella scuola come centro di formazione e aggregazione sociale. In questo senso non si può immaginare
che il contrasto alla dispersione possa essere realizzato unicamente all’interno del sistema scolastico.”
Leggere questo serve a farvi vedere la difficoltà: perché hanno idee confuse? Per la logica di dover
intervenire sulle singole situazione. L’ idea di fondo però è che, in primo luogo, la dispersione scolastica
esige ANCHE un ripensamento della scuola nel suo complesso; all’inizio, quando si pensava solo alla
variabile socio- economica, la scuola era la vittima perché, se pur era considerato bello andarci, molti
non potevano permetterselo, perché dovevano lavorare ecc. la scuola, con la dispersione scolastica, era
la prima vittima. Nel nuovo paradigma del nuovo modo di intendere la scuola, la scuola stessa è una
delle cause della dispersione scolastica, ma anche una delle soluzioni solo che alcuni modi di
organizzazione della vita scolastica contribuiscono a favorire, a fomentare meccanismi di dispersione e
quindi dobbiamo intervenire su questi. E d’altra parte, la seconda lezione che ne traiamo, è il non fare
solo scuola. Non può essere considerato solo il sistema scolastico. La scuola non è l’unico problema:
non possiamo occuparci solo di essa e non del resto, occupiamoci anche del nesso tra la scuola e le
altre agenzie educative. Cioè, per spiegarlo meglio, la scuola può contrastare tanto meglio la dispersione
scolastica se si entra nella logica del sistema formativo integrato. Ovviamente prima, sull’ onda della
spiegazione della personalizzazione fatta da autori del nord Italia, ho enfatizzato l’aspetto economico del
rapporto col territorio e delle agenzie di collocamento del territorio, ma posso immaginare a tante
associazioni che fanno teatro ed altre attività, e che entrano come educatori nella scuola con progetti, e
come associazioni private per fare delle scuole dei “centri sociali”. Chiaramente, a seconda delle tipologie
di dispersioni, diverse saranno le soluzioni.
In definitiva non risolveremo la dispersione se pensiamo che la scuola non c’entri o c’entri solo lei, la
risolviamo modificando la scuola in una logica di sistema formativo integrato.
(Nel report di materiale di preparazione al questionario (10 pag) paragrafo 5 dove si parla di soluzioni è
Importante l’impostazione del discorso). È interessate come il report affronti la questione della
dispersione scolastica denunciando un rischio reazionario, cioè l’incipit dei paragrafi hanno un tono
militante, dicono che rispetto alle problematiche scolastiche c’ è una strana area di nostalgia del passato.
L’idea che non avevamo questi problemi quando c’era una scuola selettiva e di élite, prende posizione
contro coloro i quali rivalutano la professoressa contro Don Milani e contro i critici di
(toughedò/toguedò???) .
[NON MATERIA D’ESAME, SOLO SPIEGAZIONE PER CONTESTUALIZZARE] don milani era un
sacerdote di famiglia benestante che scopre la formazione, si trasferisce in un paesino del Mugello poco
servito, e inizia una scuola. E lì scrive “lettera ad una professoressa” (siamo negli anni ’60) che è un testo
divenuto una delle bandiere della contestazione italiana. La teoria di fondo è che la scuola italiana è fatta
per coloro i quali non ne hanno bisogno. È costruita in modo che coloro che hanno genitori che parlano
italiano (parliamo di un contesto di bassi tassi di alfabetizzazione e di molti che parlano dialetto) e hanno
libri, vanno bene a scuola mentre i perdenti, gli ultimi, quelli vengono selezionati. La sua è una denuncia
alla professoressa E le dice che “la tua pratica didattica non accoglie e include quelli che senza la scuola
rimarrebbero indietro, ma crea le condizioni perché rimangano indietro”. Testo molto forte e bello e
controverso. Tempo fa sull’ inserto del sole 24 ore, c’era un articolo in ci l’autore dice: “io prendo
posizione per la prof contro don milani” anche con ragioni che avevano il suo perché (don milani è
divenuta una figura mitologica e quasi sembra che non sia possibile contestarlo).]
in questo report (quello sul fallimento formativo par 5 e 6) la cosa sorprendente è che ci sempre più
difensori della prof e sempre meno di don milani. Ovviamente non si critica la figura di don milani ma la
questione di cui parlava: il suo era un pensiero radicale non diceva che la scuola fallisce nel dare un
futuro migliore a questi alunni, ma che per come era costruita li respingeva nella loro condizione di
segregazione.
nel report che portiamo vediamo che c’ è una tendenza per cui gli ideali che ci vengono da don milani, l’
ideale per cui l’obiettivo di una scuola in una società democratica, che deve essere accogliente e
inclusiva, vengono messi in discussione e viene detto “noi eravamo più forti come paese quando
eravamo molto più selettivi” questo è il panorama in cui dobbiamo collegarci. Conclude Tullio De Mauro,
che da studioso della lingua italiana, fu uno dei primi a capire che c’era una emergenza di analfabetismo
funzionale in italia. Molti parlano di fallimento, ma dal ‘62 i tassi di analfabetismo erano crollati grazie
alla legge sulla scuola media unica, per cui non si può dire che ci sia stato fallimento de Mauro invece
vide che una prima forma di analfabetismo l’avevamo debellata ma ora ne è comparsa una nuova:
persone che non capiscono il testo che leggono. Questa è un’emergenza della scuola.
L’altra emergenza messa in luce da De Mauro, che pur venendo da studi umanistici, aveva sempre
percepito una scuola troppo verbalistica, diceva che la scuola era troppo e poco attenta agli aspetti
laboratoriali, poco attenta e alle dimensioni molteplici del saper e del fare l’ idea di una scuola italiana
troppo centrata sul sapere umanistico (perché se uno non sa citare Cicerone è non colta ma se non
capisce ad es la teoria della relatività non è considerato tale?). Questo documento inquadra in questo
contesto, le sue posizioni affermando che la battaglia contro la dispersione scolastica non può essere
fatta tornando alla scuola tantani, ma riconoscendo le vere emergenze e, dopo questo incipit legato alle
polemiche, slarga alle dimensioni europee e onu.
La battaglia contro la dispersione scolastica si muove attraverso tre strategie: di prevenzione, di
intervento e di compensazione. Cioè la dispersione scolastica, non è una cosa che si risolve solo in una
dimensione.
PREVENZIONE vuol dire che la dispersione scolastica la si combatte ben prima che gli studenti entrino
in classe ma anche già ad es negli asili nido; c’è una politica favorevole al sostegno dell’educazione negli
asili nido e nella scuola dell’infanzia. se diciamo che la pedagogia è il soggetto informazione lungo tutto
l’arco della vita, è ovvio che un problema come la dispersione scolastica la combatto non solo nel
segmento in cui avviene, ma fin dall’inizio. Ovviamente le strategie d’intervento sono più legate al
momento in cui c’ è dispersione effettuate ad esempio con un’innovazione, un cambiamento nella
didattica e nei percorsi formativa.
COMPENSAZIONE: ossia, nel momento in cui c è stato abbandono scolastico, io questi soggetti riesco
a recuperarli? gli do altre occasioni formative, come società, riesco a fornire loro opportunità di formarsi
se per x ragioni sono o si sono espulsi dal percorso formativo? Non è necessariamente come ritornare
a scuola ma come raggiungere una formazione che gli permetta di avere un lavoro, essere cittadini,
consumatori.
se tanti abbandona la scuola quali percorsi formativi hanno per lavorare? es scuole serali
molte volte sono figli di migranti, e ciò non è positivo perché si rischia marginalizzazione culturale.
Ovviamente parliamo di soluzioni di massima ma poi ci sono diversi casi specifici. Anche fare volontariato
ad es per insegnare la lingua agli stranieri, è bellissimo ma deve esserci lo stato a pensarci, il
volontarismo di gruppi sostituisce azioni di sistema. Es studenti lavoratori. L’ uni tende a non essere tanto
aperta a loro, per configurazione, perché lo studente lavoratore non riesce a frequentare e fare esami
regolarmente, così ha risultati sempre più scarsi e si ha abbandono; quindi le strategie di compensazione
devono riguardare tutto ciò.
(I care è un’espressione di don milani.. una ragazza parla di un intervento del sist formativo integrato in cui
un’associazione del territorio erogava un servizio educativo, una non formale ma intenzionale e strutturata
(associazione) che lavorava con i ragazzi- non si sentiva bene la sua voce quindi questa parte non si capisce a
pieno-
Non devono intervenire per forza scuola o ministero, ma le risorse del territorio ( associazioni, centri vari)
stratificazione di intervento, non compensazione però
Quindi riusciamo a trovare dei modi (con educatori esterni) in cui gli studenti si riconoscano in un percorso
formativo? arriviamo così alla personalizzazione degli interventi, personalizzazione dei soggetti che è per aree,
attività non fisse che si studiavano in base ai bisogni del territorio.)
Tornando alla relazione della VII commissione, questa indica 5 priorità per combattere la dispersione
scolastica.
Sulla base di tale documento, è possibile individuare le seguenti cinque priorità che dovrebbero
caratterizzare una efficace strategia di lotta alla dispersione scolastica in Italia:
1) l’incremento dell’accesso agli asili nido e alla scuola dell’infanzia, soprattutto nelle regioni del Sud
d’Italia e nelle Isole;
2) la qualificazione di percorsi di istruzione e formazione professionale, con l’applicazione rigorosa in
ogni regione italiana dell’ordinamento relativo all’ampliamento dell’offerta formativa;
3) la creazione di idonei ambienti di apprendimento, (non solo una questione di allestimenti) con la
realizzazione di un piano di formazione dei docenti in servizio e di sperimentazione di princìpi educativi
e pratiche didattiche centrati sui fattori d’influenza dell’apprendimento;
4) l’organizzazione e la strutturazione di un sistema di monitoraggio, con un’anagrafe nazionale dello
studente basata sui dati delle rilevazioni del Sistema nazionale di valutazione (che si avvale dell’attività
dell’INVALSI), per valutare un rischio basso, medio o alto di abbandono precoce degli studi;
(se io voglio contrastare la dispersione scolastica devo avere dati attendibili quindi valutazione costante)
5) interventi in molteplici dimensioni nei confronti delle famiglie degli studenti a rischio, potenziandone i
compiti e le capacità educative.
(sono tutti endogeni)
a pag 42 trovate un lungo elenco di ragioni che spiegano , secondo questa analisi, il riemergere di questa
urgenza e del problema. Emergenza per l’analfabetismo funzionale e al fatto che in Italia sempre meno
persone vanno a scuola e/o conseguono un titolo di studio. (Leggetelo guardando ai fattori esogeni ed
endogeni, il riferimento ad aspetti economici, di finanziamento del settore scolastico e del modello
scolastico troppo standardizzato). Anche se non si parla di personalizzazione questo è il contrario di
standardizzazione. O meglio di individualizzazione in cui se non teniamo conto di una scuola che non
tiene conto delle esigenze degli studenti, li perdiamo e quindi avremo dispersione scolastica.
__________________
PERDURANTE E SISTEMATICO: ossia c’è il bullismo non se io per un paio di giorni sfogo la mia
inquietudine facendo scherzi atroci o battute umilianti, comportamento spregevole ma non sono un bullo.
Se ti prendo di mira, continuativamente, ti vittimizzo… (le vittime hanno enormi problemi ad andare a
scuola, perchè non riesce ad evitare il bullo in quanto lui è insistente)
ASIMMETRIA RELAZIONALE: cioè il bullo ha una qualche posizione di forza, di prestigio, di prevalenza.
Es nelle serie americane sono sempre i ragazz*più pregistiosi e belli, popolari, figure di riferimento, a
prendere di mira lo sfigato (es cicciottell0/a, nerd, ecc)
Tra le caratteristiche psicologiche del bullo ne troviamo varie (sono statistiche, non tutti hanno queste
caratteristiche ma sono quelle più frequenti) Quando episodio singolo, si deve intervenire e non
banalizzare, vuol dire che c’è un disagio, ma bullismo è diverso, devono esserci queste tre cause
insieme:
L’IMPULSIVITà: è una scarsa attitudine a pensare alle conseguenze delle proprie azioni. Anna arent
diceva che si fa del male per assenza di pensiero. Io non mi rendo conto, empaticamente, del peso delle
mie azioni. Voglio e mi rendo conto di fare del male, mi diverto, ma ho questa tendenza ad essere
irruente, impulsivo; L’ IPERATTIVISMO; SCARSA INTELLIGENZA NON VERBALE cioè scarsa capacità
di immedesimarsi, scarsa intelligenza emotiva. Io posso essere scarsamente empatico ma non essere
un bullo, deve essere un’azione deliberata. Lo sa ma non lo sente. BASSA TOLLERANZA ALLE
FRUSTRAZIONI COMPORTAMENTO AD ALTO RISCHIO come la tendenza a bere o drogarsi, UN’
ACCETAZIONE DELLA VIOLENZA COME STRUMENTO DI RISOLUZIONE DEI CONFLITTI sempre in
queste indagini si è visto quali sono le caratteristiche del background esistenziale come uno stile
genitoriale caratterizzato da forte autoritarismo, un’ambiente familiare spesso conflittuale e talora il fatto
che può essere stato lui stesso vittima di abuso o violenza nel suo ambiente. stiamo parlando del bullismo
classico, nel mondo reale. Che si perpetra nella scuola e che finisce al cancello della scuola, ossia questa
forma ha un aspetto atroce che è la prevaricazione faccia a faccia in un ambiente di vita in cui la vittima
deve recarsi ogni giorno ma non può avere carattere continuativo, è limitata al tempo scolastico. Come
carattere strutturale. La conseguenza è che poi gli studenti bullizzati non vogliono andare a scuola
nonostante a loro piaccia la scuola, per imparare.
questa tipologia ha come prima caratteristica la prevaricazione, crea danno fisico psicologico o
relazionale che implica una relazione faccia a faccia, reale di presenza e che quindi si consuma all’
interno dell’ ambiente scolastico.
Il movente di fondo spesso è la popolarità l’accettazione sociale: primo, io bullizzo una persona in carne
ed ossa e debbo umiliarla (psiche o altro) avendola presente, d’altra parte lo faccio per farmi bello rispetto
ad un gruppo per mostrare la mia superiorità, predominanza rispetto agli altri. Questa modalità implica
che il bullo è molto popolare tra i pari, lo fa per rinforzare il suo prestigio.
Nel fenomeno del bullismo ci sono almeno 6 protagonisti: - bullo-vittima (persona che per varie ragioni
rischi a di avere caratteristiche che lo portano ad essere bullizzato) -l’aiutante del bullo che partecipa all’
atto di bullismo ma in posizione secondaria e defilata, non è il leader ma il braccio destro.-poi ci sono i
sostenitori; -poi quelli che assistono non entrano in gioco ma non intervengono. -A volte può esserci il
difensore della vittima. anche se io so chi è il bullo, il mio intervento pedagogico è reprimere e castigare
il singolo bullo e gli accoliti, essendo un sistema complesso devo intervenire sulla cultura della classe.
“perché la vittima non si è inclusa?” Bisogna creare le condizioni perché la vittima sia inclusa nel gruppo,
non solo che il bullo non abbia pubblico ecc. bisogna fare il modo che nessuno sia in condizione di essere
una vittima. L’ ottica di intervento è sull’insieme del bullismo, non ci sono solo vittima e bullo, ma non è
farli scusare ecc ma capire perché è nata questa dinamica. Quali sono le caratteristiche del bullo, e quali
della vittima (timido, maschio delicato, riservato o altro).
OFFESORE GRAVEMENTE VIOLENTO SVO several violent offender (è la quarta tipologia di bullo)
si distingue dal bullo del primo tipo perché, mentre il bullo tradizionale opera in un sistema, è l
espressione di un clima complessivo, il svo è solitario, antisociale, fa male perché se non diventerà un
sociopatico è nella direzione dei comportamenti antisociali. È un problema, pericoloso per tutti, anche gli
altri stanno alla larga. Se nel primo bullo gli altri non intervengono per non inimicarsi il più popolare della
scuola, in questo caso è perché hanno paura che capiti a loro, che siano presi di mira, che “poi mena
anche a me”. È anche più violento del bullo tradizionale. Ha dei comportamenti che portano alla devianza,
es entrano in gang. A lui interessa la violenza in sé. È diverso lo sfondo familiare e la carriera di vita tra
i due tipi di bullo.
CYBERBULLISMO (tabella con le differenze negli articoli).
Vediamo quali sono le caratteristiche e perché una tipologia a se-stante.
La definizione minima è: un comportamento deliberato persistente che mira a creare una forma di disagio
o sofferenza in un'altra persona attraverso l’uso di strumenti informatici.
sembra che l’ unica differenza sia una sola variabile, non più in presenza ma con strumenti informatici,
ma in realtà cambia tantissimo, specie in due aspetti:
1°) che nel cyberbullo non c è uno spazio tempo definito, è permanente. In uno degli articoli c’è una
storia vera, di una ragazza che viene convinta da una persona a darle una foto di lei nuda, poi la minaccia
di pubblicarla. In seguito scopre che lui ha aperto un suo profilo con quell’immagine. È impossibile
fuggire, è permanente. Alla fine la ragazza si suicida (nell’art ci sono i dettagli).
La PERMANENZA è intesa nel senso che non posso liberarmene e nel senso che in internet le cose
rimangono.
2°) è che spesso capita che il cyberbullo non sia più un tuo coetaneo ma, protetto dall’ anonimato può
essere anche un adulto. La dinamica è diversa. Quindi nonostante la definizione formale sia: tutto quello
che vale per il bullismo più i mezzi informatici ( e qui l’offesa è verbale ma non direttamente fisica, cioè
che le conseguenze possono non essere fisiche -ansia anoressia suicidio- e non vi è necessariamente
un pubblico) invece cambiano molte cose: il movente, la tempistica, il profilo del bullo, che potresti anche
non conoscere e che la caratteristica dell’ anonimato fanno sì che possono unirsi ad atti di bullismo,
persone che per le loro caratteristiche non sarebbero predisposti a bullismo in presenza. Es se sono
piccolino e debole, non farei mai il bullo, o sarei meno propenso. Mentre potrei accodarmi a quelli on
line, anzi usarle per scaricarmi lì, per scaricare frustrazioni di ciò che accade nel mondo reale.
la scuola crea uno spazio in cui gli studenti passano molto tempo, stanno insieme. Può diventare
un’occasione per rendersi conto che una persona è soggetta a qualche forma di bullismo. Es se a casa
può nasconderlo, come nel caso della foto, ma a scuola il docente si accorge che non studia, più c è una
deviazione dell’apprendimento… Non si deve consumare a scuola ma la scuola è l ambiente dove posso
rendermene conto, quando neanche a casa i genitori. la famiglia possono avere elementi per capirlo.
Le vittime di bullismo possono essere cyberbulli? Non è da escludere, ma il cb ampia la platea dei
possibili bulli. Tendenzialmente può essere vero se incoraggiati a partecipare, in genere partono da altri,
perché è difficile che chi è vittima sia lui l’ attivatore.
Una soluzione benvenuta e liberatoria “corcare il bullo di mazzate” ( da una domanda) che però perpetua
un clima di violenza, non cambia il clima di violenza della scuola. Colui che dà la lezione in almeno un
aspetto è simile al bullo, lo conferma in una delle caratteristiche. Quindi non lo auspichiamo.
La soluzione penitenziaria non è auspicabile, denunciare può essere deresponsabilizzante per il resto
della scuola. Togli la mela marcia e riscriviamo, ma se le dinamiche scolastiche fanno in modo che si
crei bullismo, bisogna cambiare la cultura scolastica della prevaricazione. La via giudiziaria alla fine è un
fallimento per un educatore. Inoltre la responsabilità, la colpa è personale del singolo mentre l’atto di
bullismo è distribuita più di quello che si pensi tra gli altri attori.
IL BULLO MISTO
Affianca gli aspetti del bullismo in presenza anche quelli elettronici. esempio Nelle scuole americane,
negli spogliatoi della palestra ti metto a forza delle mutandine rosa, ti fotografo (atto di bullismo classico
in presenza) e poi condivido la foto (cyberbullismo).
In tutte e 4 creo dolore intenzionale persistente ecc
Infine in letteratura c’è una forma specifica di bullismo IL BULLISMO OMOFOBICO (non c’è negli articoli)
è come il bullismo classico, ma ha sullo sfondo una certa tipologia, l ‘eterosessismo, un sistema
ideologico che nega e denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento relazione o comunità non
eterosessuale. Questo sistema eterosessista conduce allo stigma sessuale, un costrutto sociale per il
quale si svaluta ogni tipo di comportamento e relazione sessuale non etero. Viene sanzionato
negativamente in società questo tipo di aspetto. Vittorio ligiardi (un prof la sapienza) ha invitato a non
chiamarla omofobia perché non è tecnicamente una fobia ma usare OMONEGATIVITà; egli identifica i
4 elementi che interessano questo bullismo 1) indirizzato verso l’orientamento sessuale
2)le vittime, molto spesso, hanno difficoltà a cercare sostegno in figure adulte di riferimento, cioè (qui
questione di cambiamento culturale) se accadono fenomeni omofobici in una scuola è perché la cultura
le accetta ed è probabile che le accettino anche le figure adulte nella scuola o a casa. Ossia, rozzamente
che il ragazzino accusato e bullizzato perché potrebbe o è gay consapevole o meno, non ha assunto un
orientamento sessuale specifico o semplicemente femmineo, non è muscoloso, non lo può dire neanche
a casa perché anche per i genitori potrebbe essere una vergogna. Lo stigma sociale è così forte che la
vittima lo avverte anche in quelli che potrebbero essere potenziali interlocutori, come docenti o familiari
ecc.
3) per la stessa ragione è ancora più raro trovi qualche difensore, sostegno nei pari, la figura del difensore
non è che è esclusa in principio ma rischia di essere più rara, quindi porta ad un rischio forte senso di
solitudine.
Nel libro “traiettoria underground della formazione “vengono descritti i percorsi di formazione di
adolescenti omosessuali (6 gay e 1 lesbica) in cui l’autore ha distinto i luoghi e non luoghi della
formazione.
I luoghi sono quelli reali della scuola. Dai racconti emerge un tasso molto alto di solitudine, seppur non
statistico. un ragazzo raccontava che viveva proprio una doppia vita, perché non poteva parlarne a casa.
Quando tornava si inventava tutta una storia su con chi era uscito su dove era andato…
Si parla poi di non luoghi ossia ad es sono le discoteche gay che non sono per gay ma sono gli unici
luoghi dove persone non riconosciute possono essere sé stessi. Sono non luoghi perché rischiano di
essere dei ghetti. È vero che qui possono essere sé stessi, perché ci sono altre persone come loro, ma
ovviamente, da un punto di vista pedagogico e del processo formativo globale non è un percorso
equilibrato.
4) l’ultima caratteristica è il fatto che spesso, da parte del bullo si agiscono comportamenti come sintomo
per allontanare l’omosessualità, come un sintomo di un suo disagio. Quindi o per allontanarla da sé ed
esteriorizzarla in una vittima(la disloca in una vittima quasi come per “purificarsi”- non termine adatto-
perché la vive con angoscia) o, in maniera complessa, è una manifestazione rovesciata di affetti
omosessuali che non si riesce ad accettare e confessare in se stessi (potrebbe avere degli affetti
omosessuali ma avendo introiettato lo stigma, lo scuote e provoca comportamenti omonegativi)
In tutti i casi di bullismo specie nell’ultimo bisogna intervenire sulle culture. La condizione perché si attui
il bullismo è che il contratto sociale del gruppo cambi, contratto sociale nel senso che c ‘è come un’
accettazione di certe norme, e quindi bisogna ridefinire il contratto sociale nella comunità, devi aiutare il
gruppo a ridefinire il contratto sociale. Secondo c’è una distribuzione della responsabilità: “perché non
sei intervenuto? Pensavo lo facessero altri” uno magari non condivide ideologicamente l’azione, ma
pensa che altri debbano intervenire. Se poi ci si abitua agli atti di bullismo c’è stato un allentamento del
controllo sui propri atti quindi bisogna intervenire su tutti. Intervenire su una cultura delle differenze e
aiutare il gruppo a definire un altro contratto sociale in cui le differenze sono valorizzate, non
stigmatizzate ma anche intervenire pedagogicamente, che aiutino i soggetti a comprendere che si è
responsabili anche nel non agire. Possiamo dire di farlo sentire come un problema, far sentire che ti
riguarda, che se capita nella tua classe ti riguarda anche se non hai fatto niente, ti riguarda lo stesso. A
tal proposito ci sono ad esempio Studi sul linguaggio come battutine che tu pensi che devi ridere o
pensano che non fai parte del gruppo, fa capire che ti riguarda perché anche se gli sei amico, attui la
trasformazione delle prospettive di significato cioè la trasformazione dei modi con cui diamo senso alle
nostre esperienze.
L’articolo che si riferisce alla relazione educativa non si basa su Dewey ma su Paulo Freire (è un gigante
della pedagogia brasiliano). Una relazione educativa, nell’ottica di Freire, non ha a che fare solo con gli
aspetti contenutistici anzi egli la definisce “l’educazione bancaria” cioè viene concepita come un scambio
bancario. Per Paolo Freire non è nemmeno la pura spontaneità del docente o dell’allievo, cioè un puro
agire insieme. Come Dewey, egli non crede affatto che basti rovesciare la clessidra se prima c’era solo
trasmissione di contenuti ora c’è spontaneità. La relazione educativa non è unilaterale ma una dialettica
di insegnamento ed apprendimento in cui il docente (vedi articolo annesso) è sia insegnante che allievo
ed apprendere durante la lezione. L’importanza di Freire è di aver riconosciuto i problemi della relazione
educativa, cioè o di cadere nell’educazione bancaria o nella spontaneità.
Non basta fare il contrario dell’educazione bancaria per fare buona educazione, egli era contro lo
spontaneismo.
Domanda: Lo spontaneismo è costruttivismo?
Lo spontaneismo è un ramo della pedagogia attivistica (Pedagogia attivistica =bisogna partire
dall’esperienza e dagli interessi dei soggetti) (vedi slide sulle esperienze) in cui il docente non ha un vero
ruolo ma lo studente deve “scoprire le cose”.
Per Freire non è solo immergersi nella pratica senza una dimensione teorica e senza una dialettica tra
insegnamento ed apprendimento.
Il costruttivismo è molto più complesso perché ha l’idea di creare nei soggetti che rivedono la propria
coscienza.
Freire è stato spesso sminuito.
L’educazione bancaria è quella trasmissiva unilineare e contenutistica.
Freire oppone a quest’ultima una pedagogia impegnata in cui obiettivo è il coscientizzazione[definizione
di coscientizzazione= implica che superiamo la sfera spontanea di apprendimento della realtà per
raggiungere una sfera critica in cui la realtà è una si offre come oggetto conoscibile e noi assumiamo
una posizione epistemologica più si penetra nella realtà più si penetra nell’oggetto che stiamo
analizzando; per questa stessa ragione la coscientizzazione non consiste nello stare di fronte alla realtà
assumendo una posizione falsamente intellettuale la coscientizzazione non può esistere al di fuori della
prassi o meglio al di fuori dell’atto azione-riflessione.
Visto che l’educazione ha a che fare con la coscientizzazione e questa non è semplicemente la sfera
spontanea dell’apprendimento Paolo Freire e contro il mero spontaneismo. Che cosa vuol dire essere
contro lo spontaneismo? Il fine dell’educazione è la coscientizzazione cioè accedere ad una sfera critica
la quale in realtà si offre come oggetto conoscibile in cui noi assumiamo una posizione epistemologica.
La sfera critica vuol dire che noi di fronte alla realtà assumiamo un atteggiamento di esplorazione per cui
non ci accontentiamo di ciò che apprendiamo immediatamente ma assumiamo una posizione critica,
cioè la realtà è qualcosa da conoscere, indagare.
Anticipo per farvi capire qual’ è la posta in gioco:
Paolo Freire ha una visione fortemente politica dell’educazione e i suoi primi destinatari, visto che era un
pedagogista brasiliano, erano i contadini analfabeti che dovevano pendere consapevolezza della loro
condizione di oppressione e la cosa più difficile non era solamente l’oppressione esterna era
l’oppressione interiorizzata, cioè che era giusto ritenere che fosse una condizione naturale (alcuni capita
di nascere ricchi altri capita di nascere poveri). La questione di Paolo Freire politica è questa, se lasciamo
la sfera naturale di apprendimento noi lasciamo alla giustificazione dello status quo invece io ho bisogno
che i soggetti acquistino coscienza critica della loro condizione e quindi assumano la loro condizione
come oggetto di conoscenza cioè non è qualcosa di dato per scontato, è qualcosa che deve essere
oggetto di indagine. Quindi, assumere un atteggiamento epistemologico vuol dire, questo dato di realtà,
la mia condizione di oppressione non l’accetto per quello che è, ma lo prendo come oggetto di
conoscenza. Più si svela la realtà maggiormente si penetra nel senso della logica dell’oggetto (questo
l’ho già detto prima ora ve lo spiego ) di fronte al qual stiamo per analizzando per questa stessa razione
la coscientizzazione non consiste nello stare di fronte ala realtà assumendo una posizione falsamente
intellettuale la coscientizzazione non può esistere al di fuori della prassi o meglio senza l’attuazione
riflessione, allora assumo un atteggiamento di conoscenza epistemologico cioè io conosco la realtà non
la prendo come dato scontato, e però c’è sempre un rischio quello che si chiama la posizione falsamente
intellettuale che vuol dire falsamente intellettuale? Puramente conoscitiva, io conosco ma non trasformo
la realtà invece ciò che è un’autentica posizione critica, è l’atto di azione e riflessione, che porta ad una
trasformazione della realtà.
Questa unità dialettica costituisce in modo permanente il modo di essere e di trasformare il mondo che
ci caratterizza, allora l’educazione non mira alla trasmissione di contenuti. L’acquisire contenuti è
l’espressione del falso intellettualismo “io so le cose ma non trasformo il mondo” l’educazione non mira
nemmeno a lasciare i soggetti nella loro sfera spontanea di apprendimento perché rischiano di
apprendere la realtà con le categorie decise dai loro oppressori.
Pensate a Don Milani, egli parlavamo prima tu vai nella scuola e non è la scuola che è sbagliata ma sei
tu che non sei adatto alla scuola , nel momento in cui tu lasci la scuola perché pensi di non essere adatto
di non essere adeguato a fare quella scuola, accetti quel sistema scolastico, allora invece la questione
non è la sfera spontanea di apprendimento perché io rischio di accettare le categorie del mio oppressore
io invece io devo prendere la realtà come un oggetto di conoscenza per , attraverso l’azione di riflessione
cambiarlo, infatti diceva paolo Freire “ il mondo non è, il mondo e sempre in via di essere “ o come
traduce il mio collega “ il mondo non è il mondo sta costantemente essendo “cioè è in una processualità
in divenire.
Quello che devo fare è agire per trasformare ma non in modo spontaneo ma avendo assunto un
atteggiamento epistemologico.
Se non ci fosse insegnamento (in forma non bancaria) uno apprenderebbe in forma spontanea
(confermerebbe le categorie degli oppressori), ò0insegnate è un attivatore di trasformazione poiché
sostiene lo studente in azione e riflessione ma da altra parte l’insegnate non è uno straordinario
personaggio che togliere le persine dall’oppressione ma lui sarebbe asimmetrico ma lui sostiene i
soggetti nella presa di consapevolezza e lo stesso apprende.
Se il docente non incontro e non entro in questa dinamica non mi rendo conto di essere un agente. La
maestra di don Milani non era entrata in questa visione educativa.
il docente non modella lo studente ma apprende anche da egli.
In questo senso il dialogo che si instaura è una condivisone di esperienze riflessione ed azioni.
Il dialogo non è puramente conversazione.
(ci allontaniamo da Freire)
Qual è la forza della conversazione è non far oggetto di conoscenza ad esempio quella che si ha in
ascensore, in cui ovviamente ciò che si dice non ha un atteggiamento epistemologico ma le cose vanno
date per scontate.
Non mi aspetto che l’interlocutore non approfondisca l’argomento trattato.
Serve a tenere insieme un gruppo in cui non ci sono atteggiamenti epistemologico
Quello di Freire è quello orientato alla coscientizzazione come cambiamento della realtà.
(un esempio simile all’ascensore lo si può leggere nell’articolo)
Immaginiamo in cui trasformo le scuole in luoghi di trasmissione lineare in spazi dialogici.
Si stava diffondendo una visione liofilizzata per cui prima c’era solo il docente che parlava e dava
contenuti ora invece facciamo parlare gli alunni.
Creiamo una situazione in cui gli alunni sono a loro agio, l’idea è buona ma non è educazione questa.
Per Freire il dialogo si radica in quella che è la dimensione ontologica (ricercare negli appunti questo
termine) dell’essere umano cioè nel suo modo di essere.
Quali sono le caratteristiche in cui il dialogo è la massima espressione?
1) siamo esseri di comunicazione (per Freire la comunicazione è più vita) cioè siamo immersi in relazioni
non è solamente una circostanza ma una caratteristica con gli esseri umani
2) l’idea di essere esseri storici in cui la storicità è un elemento fortissimo (non va confusa con la visione
meccanica e idealistica. Meccanica significa che ci sono delle leggi della storia in cui siamo determinati
in quelli che siamo come se la storia umana sia una catena causa effetto.
La visione idealistica per cui rappresenta la “Grande storia” (quella dei grandi personaggi delle nazioni)
non riguarda i comuni mortali ma i grandi personaggi
Queste due visioni precludono la prospettiva del cambiamento o meglio che noi possiamo agire per il
cambiamento
L’educazione di oggi è che la storia è la possibilità di intervenire consapevolmente nel reale, nella realtà
sociale e modificarla.
(c’è una pagina di Freire sulla “speranza”)
Per questi motivi (secondo paragrafo) il docente non è un facilitatore.
Freire si riferisce ad una tendenza del costruttivismo che mette in retrovia il docente invece lui rivendita
il suo ruolo che aiuta a capire la complessità delle cose. (vedere pagina 161 della dispensa “studi sulla
formazione: sulle orme di morin: <<per una pedagogia in grande>>)
Allora se si coglie la differenza tra le due fasi si capisce la grandezza di Freire.
Il docente ha un’autorità che non è l’autorità che porta ad un insegnamento bancario ma è un’apposizione
che permette all’educando di uscire fuori dall’apprendimento spontaneo
Il rapporto è di “parità” tra docente e scolaro e in nessun dei due casi c’è il facilitatore di apprendimento
(io apprendo lui apprende).
Una delle caratteriste è che il soggetto che apprende acquisisce sviluppa le sue idee e parte da sé.
Cioè che conta è la dialettica che si istaura tra docenti e scolaro.
Lo spazio tra essi non è solo pratico o teorico ma è si interviene nella storicità dell’uomo
In questo senso Freire il docente c’è non è un facilitatore.
Una cosa che un docente può fare è invitare lo studente di non dare per scontato il libro di testo ma come
quel libro di testo organizza gli argomenti e a cosa da importanza o meno e vedere con altri il libro di
testo potrebbe esser un momento di educazione spontanea, se io volendo evitare che gli studenti
accettano il libro di testo è il libro e non un libro.
In quel momento io ho la possibilità di rivedere un modo on cui insegno una cosa.
Impostare sul dialogo non è solo fare lezione in quel modo è che si possa cadere nella conversazione,
mente quello che Freire ha in mente è che il dialogo deve essere formativo.
Egli è importante perché non è caduto nel “curriculum che mi fa star bene” (lo dice in inglese ma
purtroppo non ho capito min.45:52)
Una cosa è che le scuole è un luogo un cui sto a mio agio ma deve essere solo piacevole.
Il rischio del dialogo è, che se moderato dal docente può essere costruttivo, ma si può ricadere in un talk
show
cioè la domanda che si pongono i pedagogisti se un’esperienza è educativa,
per Freire è educativo se vi è un processo di coscientizzazione.
Tutte le esperienze sono formative ma non tutte sono educative una delle sfortune della pedagogia
attivistica era partita dal fatto che se c’era esperienza ce ‘era educazione
All’inizio è stata una ventata emancipata.
Quali sono i criteri che rendono un’esperienza educativa?
Per la scuola tradizionale è ovvio i critici della scuola tradizionale non funziona piàù7dewey e Freire
(sono in paesi diversi e periodi diversi) entrambi partono dall’esperienza ma ci si pone quand’è che
educativa? Come si innesta la riflessione
Uno egli errori p pensare che basta cancellare le brutte pratiche educative, o rimpiangerle, ma loro si
sono posti un'altra idea cioè quali sono le condizioni per cui ci sia eduzione
Ovviamente loro hanno messo delle categorie che ci permettono di orientarci e allarmarci se stiamo
facendo solo esperienza p vecchia educazione.
Non basta il dialogo perché altrimenti diventa solo conversazione
Ricapitolando:
(52:25)
Elementi fondamentali del corso (utile per il questionario)
1) La pedagogia riguarda il processo formativo che dura un arco della vita cioè anche se ci siamo
preparando per insegnanti le questioni pelagiche si bloccano nel segmento tra (14-18) qual è il correlato
istituzionale? “Il sistema integrativo integrato” cioè l’idea che dobbiamo articolare insieme fra i vari
contesti dell’apprendimento.
in cui la scuola, ha un ruolo importante ma è il contesto formale, ci sono anche i contesti informali (le
esperienze di vita) e non formali (sono quelli in cui c’ è un’intenzionalità e progettualità).
Ad esempio se leggo un libro che tipo di contesto è?
Informale
2)La pedagogia ambisce ad essere forma di scienza, Dewey dice che è una scienza dell’eduzione come
un atteggiamento scientifico in cui partendo dalle fonti primarie (pratiche educative( per due motivi, danno
i problemi e sono la sfera in cui testo le soluzione) e le fonti speciali (le scienze ,mi danno i contenuto
per risolvere i problemi e questi percorsi di soluzione non sono mai applicazione di teoriche e lo abbiamo
detto da 2 punti di vista sia prendendo (io ho capito gliui…(59.00) non si capisce ☹ ) sia prendendo l’idea
di razionalità riflessiva cioè l’idea di agire professionale implichi un circuito azione conoscenza ma non
solo applicare conoscenze(tecnica) o sapere le cose(metrologia) ma implica l’abilità artistica cioè un
esercizio riflessivo che difronte una situazione indeterminata instaura percorsi di indagine.
L’idea di questo corso è che il docente deve essere riflessivo che non si limita ad arrancare ma instaura
percorsi di indagine.
La 3 lezione è stata dedicata ai modelli di insegnamento ed apprendimento (non c’entrano nulla con il
questionario)
La 4 lezione (serve al questionario) è la differenza tra inserimento ed inclusione, qual è la logica
dell’inclusione? Finché la democrazia è un valore l’inclusione è importante perché il disagio di chi è
escluso segnala un problema nel mio contesto, non è un impiccio ma è qualcosa che non funziona. La
democrazia non è solo quando si vota ma che tutti i contesti di vita devono essere democratici e
l’inclusione rientra in questo. Non ci sarà mai una società in cui tutti sono inclusi perché altrimenti non ci
rendiamo contro di chi sia escluso. (vedi esempio staccionata)
Il multiculturalismo non è una realtà pienamente legato all’ inclusione poiché è una logica relativista in
cui ogni cultura preserva sé stessa.
Il multiculturalismo sorge contro le culture dominanti ma rischia di dividere la società e renderla un
agglomerata di nomadi
L’Interculturalismo aspira ad una prospettiva dialogica nel senso della solidarietà in cui c’è solidarietà ma
(vedi esempio il negoziante cinese ed italiano) il riconoscimento ed il rispetto delle differenze che è poi
la logica dell’individualizzazione, non come meta criterio ma come strategia didattica.
Tutti possono imparare tutto ma non nello stesso modo (questo è la differenza con il comportamentismo
in cui tutti possono imparare tutto e anzi devono avere le competenze di base per essere cittadini ma
non allo stesso modo.
ma dice la pedonalizzazione deve puntare solo sull’eccellenza cognitiva
ora abbiamo i mezzi per eliminare la dispersione scolastica
la questione non out out ma se c’è chi privilegia la personalizzazione sull’individualizzazione e chi invece
teme che un eccesso della personalizzazione possa far si perde il senso della missione scolastica.
Che cos’è la Pedagogia?
Ha come oggetto
l’educazione
1
Maria Aurino
Pedagogia:significato e modello scientifico
Disciplina che ha come oggetto la formazione della
persona nel proprio contesto (storico, culturale e
sociale), tenendo conto:
• dei tempi della formazione in relazione allo
sviluppo della persona(infanzia, età adulta ecc.);
• luoghi della formazione (famiglia, scuola, tempo
libero).
(Frabboni& Pinto Minerva,2005)
Maria Aurino 2
Pedagogia
Maria Aurino 3
La pedagogia nel mondo classico
PAIDEA
Paidea = l’azione formale o informale, istituzionale o
de-istituzionale che la società svolge sotto il profilo
formativo delle giovani generazioni.
Strategia complessiva di una società in termini civili,
etici, formali informali per la formazione dei giovani.
Paidea classica, si riferisce al mondo greco e romano
Paidea moderna
Paidea post-moderna
Sistema policentrico (scuola, famiglia, chiesa…)
Maria Aurino 4
Pedagogia classica
Maria Aurino 5
Pedagogia classica
L’educazione socratica vuole rendere l’uomo libero
di decidere da solo per divenire personalmente
responsabile della propria vita, attraverso alcuni
metodi, quali, ad esempio, l’ironia e la maieutica.
Maria Aurino 6
Pedagogia
La Pedagogia nasce, allora, con la Filosofia e resterà per
oltre due millenni ad essa accorpata.
Maria Aurino 7
Pedagogia
Con la nascita delle varie scienze dell’educazione
(Psicologia, Sociologia, Antropologia, Biologia,
etc.) il quadro della disciplina è, infatti,
profondamente mutato.
Maria Aurino 8
Oggi intorno alla Pedagogia e al suo senso e significato si è
aperta una quaestio.
Siamo dentro un dibattito critico che verte
sull’educazione/formazione, sui vari ambiti del pensare e
dell’organizzare l’educazione stessa.
Da più parti si è favorevoli nel condividere però che la Pedagogia
debba essere configurata come “visione del mondo”, come
orientamento axiologico (relativo, cioè, alla trattazione dei valori
fondanti delle regole dell’agire e del pensare), in un contesto di
“formazione” inteso come processo di crescita e di sviluppo, che
fa del soggetto quello che è, con le sue vocazioni, i suoi obiettivi.
È la Bildung (nozione di formazione così trascritta in tedesco alla
fine del Settecento) che va imponendosi in una dimensione di
formazione dell’uomo in quanto uomo, contrassegnato da
coscienza e oggettività culturale, un uomo, quindi, calato nel suo
vissuto quotidiano.
Maria Aurino 9
Educazione Acquisizione
come di una forma.
trasmissione di Formazione dell’io
valori e
consuetudini
di una
classe
sociale
Maria Aurino 10
Pedagogia
La pedagogia è il genere di sapere che, sia pure a
titolo congetturale e fallibilista, è in grado di
fornire i paradigmi e le idee per riflettere sulla
formazione scolastica e rischiararne i suoi
cammini.
Insieme alle altre Scienze Umane si rivolge
dunque ai contesti formali, non-formali e
informali dove avviene il processo di
“trasformatività” proprio della pedagogia stessa.
Maria Aurino 11
Contesti formale, informale, non formale
Contesti formali di istruzione come la scuola, la
formazione professionale e l’università
Maria Aurino 12
Pedagogia: alcune definizioni
1) L’educazione è un insieme di azioni con le quali i gruppi di
uomini organizzati cercano di migliorare sotto qualche aspetto la
compagine delle disposizioni psichiche di altri uomini
prevalentemente in fase evolutiva. Entro certi limiti è possibile
parlare di un passaggio dalla costituzione originaria del
soggetto/persona alla formazione della personalità.( WBrezinka)
Maria Aurino 13
Pedagogia alcune definizioni
Maria Aurino 14
La pedagogia scolastica
Maria Aurino 15
Contributo della pedagogia scolastica
Maria Aurino 16
Contributo della pedagogia scolastica
prospettiva ecologica
Maria Aurino 17
ISTRUZIONE
Maria Aurino 1
Un concetto di educazione
Il termine “educazione” deriva
etimologicamente dal latino educare( allevare,
alimentare), ma anche da educere (portare fuori,
condurre via).
L’idea di educazione, intesa inizialmente come
processo di costruzione di un soggetto secondo
regole sociali e, quindi, secondo percorsi di
conformazione, si è gradualmente indebolita.
Maria Aurino 2
Un concetto di educazione
Pedagogisti di scuola spiritualistica e idealistica
Maria Aurino 3
Il concetto di educazione proposto dall’International
Langue for New Education
Maria Aurino 4
Educazione
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Educazione
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Pedagogia
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Pedagogia
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La formazione
Maria Aurino 9
La formazione
Maria Aurino 10
La formazione
Maria Aurino 11
La formazione
Maria Aurino 12
Formazione/educazione
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I paradigmi della formazione
Maria Aurino 14
Esperienza
Maria Aurino 15
Istruzione
Il termine istruzione, proviene da istruere, (inserire, costruire).
Nell’accezione più comune il termine sta ad indicare l’acquisizione
di conoscenze, informazioni, nozioni.
L’istruzione è un processo di trasmissione di informazione da un
emittente ad un ricevente.
Maria Aurino 16
I contesti dell’educazione
Contesti formali di istruzione come la scuola, la
formazione professionale e l’università
Maria Aurino 17
I tre attori del sistema formativo
1 attore: il sistema formale (la scuola);
Maria Aurino 18
Scuole e politiche educative
dall’Unità d’Italia ad oggi
Maria aurino 1
Dalla Legge Casati alla Riforma Gentile
• Legge Casati, 1859 > La prima legge organica che getta le basi della scuola italiana. Atto di nascita
della scuola nazionale, in particolare della scuola elementare, con questo provvedimento legislativo si
affrontava per la prima volta in maniera organica il problema dell’educazione. Viene instaurato il principio
della gratuità e della obbligatorietà della scuola elementare.
Con tale legge fu sancito il riconoscimento del diritto-dovere dello Stato di intervenire in materia scolastica,
sostituendo e affiancando la Chiesa, da secoli detentrice del monopolio dell’istruzione.
Riguardo alle scuole medie inferiori e superiori, la legge sancisce la divisione tra istruzione secondaria
classica e istruzione tecnica, cui si attribuiscono finalità specifiche, escludendo l’istruzione tecnica e
professionale da qualunque tipo di sbocco universitario. Di fatto un sistema classista.
Maria aurino 2
Dalla Legge Casati alla Riforma Gentile
• Legge Coppino, 1877: l’obbligo sale fino all’età di 9 anni. Il vero nodo cruciale della legge era costituito
dall’impostazione laica dell’insegnamento, con l’ambigua posizione assunta dalla legge nei confronti
dell’insegnamento della religione: essa, sebbene non esplicitamente abolita, non compare più tra le materie; al suo
posto è inserito l’insegnamento delle “prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino”, il che metterà in allarme
larghe frange dell’opinione pubblica cattolica.
• Legge Orlando, 1904: estende l’obbligatorietà al 12° anno; istituisce le scuole serali per gli analfabeti, la refezione e
l’assistenza scolastica a carico dei Comuni per i più poveri e la creazione della Direzione generale dell’istruzione
elementare.
Anche stavolta, però, gli effetti non furono quelli sperati, in quanto i contributi statali si rivelarono ben presto inadeguati.
L'analfabetismo non decrebbe, mentre acquistò sempre più forza il convincimento che all'istruzione e alla formazione
dei cittadini non dovessero provvedere i Comuni, bensì lo Stato.
Maria aurino 3
Dalla Legge Casati alla Riforma Gentile
La RIFORMA GENTILE del 1923 si ispira ai principi filosofico-pedagogici dell’idealismo. Essa nasce da due
obiettivi: subordinazione delle masse al regime fascista ed applicazione della pedagogia idealistica. Gentile
crede che la scuola serva alla classe dirigente, che per definizione deve dare sempre il meglio di sé per
guidare le masse e tutto il Paese e quindi è quel ceto che deve poter frequentare la scuola migliore.
Il ginnasio opera la selezione, ergendosi a barriera tra coloro che sono destinati ad alti ruoli sociali (e quindi
all’accesso all’Università) e quanti sono destinati nell’immediato futuro ai lavori manuali o all’attività
professionale.
Gli altri punti-chiave della riforma furono:
- estensione dell'obbligo scolastico fino al 14° anno di età, con un corso elementare della durata di 5 anni e un
corso di avviamento professionale della durata di 3;
- istituzione di scuole speciali per gli handicappati sensoriali della vista e dell’udito;
- riformulazione di tutti i programmi scolastici;
- istituzione del liceo scientifico, dell'istituto magistrale e dell'esame di maturità;
- insegnamento obbligatorio della religione cattolica;
- istituzione di rigidi controlli sull'inadempienza dell'obbligo scolastico.
Costituzione e dopoguerra
“Ogni individuo ha pieno e uguale diritto all’educazione e all’istruzione, un diritto indispensabile al graduale
sviluppo della personalità. Se questo diritto non fosse concesso al fanciullo, sarebbe compromessa
quella formazione dell’uomo che sta alla base di una Costituzione democratica”.
Aldo Moro
La nostra Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, dedica alcuni articoli
all’istruzione, considerata come uno dei fini di cui ogni Stato deve farsi carico per procurare maggiore
benessere alla collettività e per migliorare ed elevare le condizioni di vita dei cittadini.
Gli articoli principali sono stati un costante punto di riferimento ed anche uno strumento di difesa e di
proposta per quelle forze politiche, sindacali e degli insegnanti, delle famiglie, degli allievi, che durante gli
anni difficili della storia della Repubblica non hanno mai smesso di puntare su un rinnovamento
democratico e civile della nostra scuola.
Maria aurino 5
La scuola
democratica - anni ’60
• Il primo importante provvedimento strutturale in materia scolastica è la Legge n.
1859/1962 che istituì per la prima volta la scuola media unica e obbligatoria e
senza lo studio del latino, che permetteva l'accesso a tutte le scuole superiori: la
scuola media assume caratteri orientativi e formativi, tende a creare una certa
omogeneità della cultura di base contemporanea e cerca di saldare la cultura
umanistica con quella scientifica e tecnologica.
• La contestazione studentesca ebbe il merito di porre al centro delle questioni
politiche i problemi presenti e connessi con la scuola: nel 1969 (Legge n. 910) fu
approvata la legge sul riordinamento degli esami di Stato di maturità e si aprirono
tutte le facoltà a tutti i diplomati.
Maria aurino 6
La scuola
democratica – anni ’70
• Gli anni ’70 sono caratterizzati da iniziative legislative orientate a soddisfare istanze di natura “sociale” emerse sia
prepotentemente attraverso le lotte studentesche del ’68 sia più pacatamente attraverso la riflessione delle diverse
componenti della società. Dall’insieme del dibattito emergono due esigenze complementari: da una parte che la
Scuola si apra alla Società, dall’altra che la Società si impegni a sostenere ed integrare l’azione formativa della
Scuola.
• Nel 1974 furono emanati molti Decreti delegati (confluiti poi nel Testo unico delle leggi sulla scuola del 1994) che
mirano a promuovere la “gestione sociale” della scuola e a metterla nelle condizioni di rispondere più
adeguatamente ai bisogni della società introducendo forme di flessibilità attraverso l’avvio di Corsi Sperimentali:
tutto ciò ha avuto l’indubbio effetto di mobilitazione di risorse e di svecchiamento del modo d’essere e di funzionare
delle istituzioni scolastiche.
• La Legge n. 517/1977 abolì gli esami di riparazione nella scuola elementare e media, introdusse i giudizi al posto
dei voti, sostituì la pagella con la scheda di valutazione e soprattutto integrò gli alunni disabili nelle classi normali
prevedendo gli insegnanti di sostegno.
Maria aurino 7
La scuola
democratica – anni ’80
• Nel corso degli anni ’80 l’ampia diffusione dei Progetti assistiti
ha permesso un profondo rinnovamento dei curricoli,
nonostante l’assenza di una riforma della scuola secondaria,
su cui è mancato l’accordo delle forze politiche.
Maria aurino 8
La scuola
democratica – anni ’90
• Negli anni ’90 si registra un’attenzione particolare del legislatore in materia
scolastica.
• Si chiede alla Scuola di fornire un “prodotto” diverso, di qualità, e di aprirsi
effettivamente alla Società, accettando di condividere con altri soggetti la
responsabilità dei processi formativi.
• È del 1994 il provvedimento più rilevante per l'organizzazione scolastica,
nato per riordinare in un unico corpo normativo tutte le norme stratificatesi
nei decenni in materia di legislazione scolastica: il Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di istruzione, D. Lgs. n. 297/1994.
• Ad esso seguì la Legge n. 352/1995 che abolì gli esami di riparazione e
introdusse il sistema dei debiti e dei recuperi.
Maria aurino 9
Legge Bassanini e il processo autonomistico:
L. 59/1997
• Con la Legge 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento
di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica
Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, il Parlamento
italiano ha dato una prima risposta alle istanze autonomistiche provenienti
ormai da tutto il Paese, delegando il Governo a conferire alle Regioni e agli
enti locali tutte le funzioni che, alla luce della Costituzione vigente, non
devono necessariamente essere esercitate dallo Stato e a realizzare una
generale riforma dell’amministrazione dello Stato.
Art.n.21: autonomia didattica-organizzativa di ricerca e di sviluppo della scuola
Maria aurino 10
Le riforme
degli anni 2000
Riforma Berlinguer, poi abrogata, nel 2003, dalla Riforma Moratti, per
cui è rimasta sostanzialmente inapplicata.
Riflettendo sulle caratteristiche che differenziano il nostro tempo dalle
epoche precedenti, la legge sottolineava il superamento dell'idea di
“trasmissione delle conoscenze”, nucleo fondamentale della scuola
italiana, a favore del concetto di “trasmissione-acquisizione di
competenze”.
Il modello proposto che prevedeva l’adozione di una scansione scolastica
articolata in due cicli (scuola di base e scuola secondaria) in luogo dei
tradizionali tre cicli, si richiamava ai sistemi educativi francese, britannico
e spagnolo riformati alla fine degli anni ’80.
Maria aurino 11
Le riforme degli anni 2000
Riforma Moratti, Legge 53 del 2003, delinea una compiuta e organica riforma della scuola i
cui punti rilevanti sono:
- nuova articolazione degli studi e della formazione scanditi in: scuola dell'infanzia, primo
ciclo e secondo ciclo;
- istituzione di nuovi licei;
- valorizzazione del sistema dell'istruzione e della formazione professionale anche attraverso
il sistema dell'alternanza scuola-lavoro, percorso alternativo riservato ai giovani compresi
nella fascia d'età dai 15 ai 18 anni per assicurare loro l'acquisizione di competenze spendibili
nel mercato del lavoro;
- valorizzazione della qualità del sistema dell'istruzione, attraverso le procedure di
valutazione nazionali.
12
Maria aurino
Le competenze chiave europee
Raccomandazione del Parlamento europeo 18.12.2006
Maria aurino 13
Le competenze chiave italiane
D.M. 139/2007
L’alunno visto come persona, cittadino e lavoratore
Imparare a imparare
Comunicare
Collaborare e partecipare
Risolvere problemi
Maria aurino 14
Le riforme degli anni 2000
Riforma Gelmini (2008): diede avvio ad una complessiva riorganizzazione di tutto l'assetto
ordinamentale e didattico del sistema d’istruzione e formazione. Tra le varie modifiche si
segnalano:
➢ la reintroduzione del maestro unico nella scuola primaria;
➢ la reintroduzione dei voti nel primo ciclo;
➢ l'innalzamento dell'obbligo scolastico fino a 16 anni;
➢ l’introduzione, in tutto il sistema scolastico, dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione;
➢ il riordino della scuola secondaria di secondo grado (DPR 87-88-89 del 2010);
➢ l'introduzione delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo e di quelle per i Licei delle Linee guida
per gli istituti tecnici e quelle per gli istituti professionali atte a definire i saperi ineludibili, le
conoscenze fondamentali che lo studente dovrebbe possedere al termine del proprio percorso di
studi;
➢ viene potenziato l’insegnamento della lingua inglese o d’italiano per gli studenti stranieri;
➢ si amplia lo spazio all’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).
Maria aurino 15
L. 107/2015: “Riforma del sistema nazionale di istruzione e
formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative
vigenti”
Maria aurino 16
L.107/2015:
Per una “piena attuazione dell’autonomia”
Tramite:
➢ Le forme di flessibilità dell’autonomia didattica e organizzativa previste dal DPR 275/99
➢ L’organico dell’autonomia
➢ La dotazione organica di personale amministrativo, tecnico e ausiliario
➢ Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa
➢ I nuovi compiti per il dirigente scolastico
➢ Nuove forme di valutazione/valorizzazione
➢ La dotazione finanziaria
➢ Risorse strumentali
Maria aurino 17
Le NUOVE otto competenze-chiave (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 22 maggio 2018)
• Il Consiglio dell’Unione Europea adotta una nuova Raccomandazione sulle competenze chiave per
l’apprendimento permanente, come presa d’atto di una forte accelerazione verso la dimensione della complessità:
• A distanza di 12 anni, il Consiglio d’Europa ha adottato una nuova Raccomandazione sulle competenze chiave per
l’apprendimento permanente che rinnova e sostituisce il precedente dispositivo del 2006. Il documento tiene conto da un
lato delle profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali degli ultimi anni, dall’altro della persistenza di gravi
difficoltà nello sviluppo delle competenze di base dei più giovani. Emerge una crescente necessità di maggiori
competenze imprenditoriali, sociali e civiche, ritenute indispensabili “per assicurare resilienza e capacità di adattarsi ai
cambiamenti”.
• Il concetto di competenza è declinato come combinazione di “conoscenze, abilità e atteggiamenti”, in cui
l’atteggiamento è definito quale “disposizione/mentalità per agire o reagire a idee, persone, situazioni”. Le otto competenze
individuate modificano, in qualche caso in modo sostanziale, l’assetto definito nel 2006. Le elenchiamo qui di seguito:
• competenza alfabetica funzionale;
• competenza multilinguistica;
• competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria;
• competenza digitale;
• competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare;
• competenza in materia di cittadinanza;
• competenza imprenditoriale;
• competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali.
Maria aurino 18
Struttura scuola italiana oggi
19
Maria aurino
PRINCIPALI CORRENTI PEDAGOGICHE
Il percorso verso l’affermazione della Pedagogia come scienza, passa attraverso una serie
di importanti evoluzioni teoriche e storiche che a partire dal diciassettesimo secolo hanno
definito i principali paradigmi pedagogici a cui ci riferiamo dal punto di vista didattico e
metodologico.
1.ILLUMINISMO;
2.ROMANTICISMO;
3.POSITIVISMO;
4.ATTIVISMO;
5.AFFERMAZIONE DELLA
PEDAGOGIA COME SCIENZA
1
I grandi teorici della
pedagogia
2
Nel corso della storia della pedagogia, i grandi nomi da ricordare sono:
Socrate, Quintiliano, Lullo, Comenio, Locke, Rousseau e altri.
Tra i maggiori pedagogisti dell'800 sono Pestalozzi, Herbart, Aporti.
Molti i pedagogisti del '900, fra i quali possiamo citare, in ordine sparso,
Montessori, le sorelle Agazzi, Steiner, Kerschensteiner, Dewey, Decroly,
Claparède, Korczak, Makarenko, Ferrière, Hahn, Neill, Freinet, Bruner,
Freire;
personaggi non specificamente pedagogisti, ma che si sono comunque
occupati di pedagogia sono stati: Baden-Powell, Gentile, Gramsci, don
Milani, Piaget, Skinner.
Nel dibattito pedagogico italiano contemporaneo le voci più autorevoli
sono quelle di Mario Lodi, Franco Cambi, Alberto Granese, Elisa
Frauenfelder, Vincenzo Sarracino, Mario Gennari, Giuseppe Spadafora,
Simonetta Ulivieri, Mauro Laeng, Piero Bertolini, Cesare Scurati.
3
PRINCIPALI CORRENTI PEDAGOGICHE
4
PRINCIPALI CORRENTI PEDAGOGICHE
PEDAGOGIA MARXISTA (ITALIA)
Dopo la seconda guerra mondiale, nel momento in cui si doveva
pensare alla ricostruzione delle città e dei cittadini, alcuni maestri
quali Giuseppe Tamagnini, Raffaele La Porta e, più tardi, Bruno
Ciari ed altri, si unirono attorno all’idea di un’alfabetizzazione
culturale e sociale, basata sulla cooperazione. Provarono a
costruire una scuola nuova attenta alle relazioni centrata sulla
comunicazione intesa come crescita e integrazione sociale. Karl
Marx (1818-1883), che di questa scuola di pensiero n’è il
precursore individua in questo progetto sociale la libertà, in cui il
libero sviluppo di ciascuno e la condizione per il libero sviluppo di
tutti. L’educazione, dunque, rientra tra i primi provvedimenti del
proletariato per fondare la società senza classi. Marx propone
nelle linee essenziali alcune direttive sulla concezione
dell’istruzione del popolo, che possono essere così riassunte: 1- Il
fine generale dell’istruzione e la formazione polivalente. 2- Il
lavoro è la strategia didattica primaria dell’educazione. 3- Lo
sviluppo totale e omnilaterale dell’individuo. Marx non andrà oltre
l’approfondimento dei problemi pedagogici, ma questi capisaldi
saranno ripresi nelle proposte educative di Antonio Gramsci.
Antonio Labriola (1843-1904) fondatore della pedagogia marxista
in Italia, nonché principale teorico, assertore di un miglioramento
e di una scientificizzazione della didattica, individua anch’egli come
Marx nell’educazione, lo strumento d’emancipazione dei ceti più
poveri. Egli mette in risalto come l’educazione è, condizione
indispensabile per la realizzazione di una nuova società. Per
quanto riguarda la didattica egli collega la propria concezione
marxista alla filosofia della realtà come prassi come azione che
modifica e costruisce il mondo ad una visione socratica
dell’insegnamento.
5
PRINCIPALI CORRENTI PEDAGOGICHE
6
7
8
Pedagogisti del ‘700
Rousseau
9
Rousseau divide il suo romanzo pedagogico,
“EMILIO”, in cinque libri: infanzia (1-2
anni), fanciullezza (3-12), preadolenscenza
(13-15), adolescenza (16-20) e, quindi,
giovinezza.
L’attenzione di Rousseau è tutta rivolta
all’uomo presente, corrotto e disumano
paragonato all’uomo selvaggio o primitivo,
mentre nell’Emilio l’uomo di natura è chi
ha potuto sviluppare la sua persona
nell’autonomia della propria natura, libera
da ogni imposizione esterna.
10
Pestalozzi
MENTE MANO
CUORE
ROMANTICISMO
Dal punto di vista pedagogico il Romanticismo si determinò intorno ad alcune
nozioni chiave, tra cui principalmente l’idea di cultura intesa non tanto o non
solo come somma di conoscenze separate, ma come espressione radicale
delle potenzialità dello spirito umano attraverso un iter educativo che ne
promuova ed esplichi l’intima natura.
Questo concetto di cultura viene efficacemente espresso da un termine
tedesco, vero e propria chiave per la comprensione della concezione
romantica dell’educazione: si tratta del termine Bildung, che letteralmente
vuol dire “formazione”, ma con il quale si intende un complesso percorso di
crescita psico-fisica e spirituale, una strutturazione profonda della personalità
che si esprime prevalentemente attraverso la dimensione estetica e che
intende sviluppare la crescita interiore dell’allievo verso il bene e il bello
senza distorcerne l’originaria natura.
13
14
15
POSITIVISMO
Il termine “Positivismo” deriva dal latino positum che significa ciò che è posto.
Fonda le sue basi nella realtà, nella concretezza.
Gli aggettivi che meglio rappresentano il Positivismo sono:
-Reale;
-Concreto;
-Sperimentale;
-Misurabile.
La pedagogia Positivista fondandosi su basi scientifiche, risulta essere
strettamente connessa alle altre scienze umane e in tal senso diventa veicolo
per il miglioramento sociale.
Il Positivismo assegna “valori” diversi a diversi saperi a seconda della loro
utilità.
16
17
ATTIVISMO
Nasce il movimento delle "scuole nuove“ ; comprende
molte figure, anche diverse per formazione e matrice
culturale, che hanno cercato di realizzare nelle loro
attività professionale lo spirito dell'Attivismo, visto come
rivoluzione da attuare concretamente nell'istituzione
scolastica.
• Nel 1899 venne così fondato a Ginevra l'Ufficio
internazionale delle scuole nuove e nel 1912, sempre a
Ginevra, l'Istituto superiore J.J. Rousseau per le scienze
dell'educazione; del 1921 è la Lega internazionale per
l'educazione nuova.
18
Mont
Il fine generale dell'educazione, la regola centrale del
metodo stanno nella difesa della libertà del bambino, nello
sviluppo delle sue esperienze, evitando che l'adulto
imponga i suoi interessi e i propri modi di apprendere e di
ragionare.
La Montessori (1870-1952) perviene ai problemi educativi e
scolastici sulla base dei suoi studi di medicina.
«Ne consegue che, se I suoi primi interessi sono rivolti all'educazione e al
vogliamo modificare i recupero dei bambini disadattati. In seguito nel 1905 è
costumi e le abitudini di
incaricata di organizzare asili infantili di nuovo tipo nel
un Paese, o se vogliamo
accentuare più quartiere S. Lorenzo di Roma, e due anni dopo apre la
vigorosamente le Prima Casa dei bambini. Il successo, anche internazionale,
caratteristiche di un di questa iniziativa fa sì che nasca un vero e proprio
popolo, dobbiamo agire movimento montessoriano e che i suoi istituti si
sul fanciullo, perché ben estendano tanto che nel 1924 viene fondata l'Opera
poco si potrebbe fare in
questa direzione
nazionale Montessori e la Scuola magistrale Montessori
attraverso gli adulti.» per la formazione, mediante appositi corsi, degli
M. Montessori insegnanti e la diffusione delle idee e del metodo della
fondatrice.
19
Pedagogisti del secondo ‘900
Decroly
20
Claparède
Freire (1921), fondatore del Movimento brasiliano di educazione popolare e autore del
famoso "Pedagogia degli oppressi".
Il suo interesse non è solo specificamente pedagogico teso a definire una nuova tecnica
di alfabetizzazione (piaga dell'analfabetismo nel Nord-Est del Brasile), ma rivolto a
suscitare una critica alla situazione sociale per il superamento di modalità non
imposte ma individuate dagli stessi oppressi.
Saranno proprio questi ultimi, una volta che non si sentiranno più culturalmente e
ideologicamente succubi degli oppressori a cercare di recuperare e restaurare la loro
umanità e con essa anche quella dei loro nemici.
La pedagogia dell'oppresso si articolerà dunque in due momenti distinti: il primo in cui
gli oppressi prendono coscienza del mondo dell'oppressione e si impegnano a
trasformarlo; il secondo in cui questa pedagogia si trasforma in pedagogia degli
uomini tutti che sono in "un processo di permanente liberazione".
23
MASTER I LIVELLO
Il bisogno Educativo Speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo, che consiste in un
funzionamento (frutto dell’interrelazione reciproca tra i sette ambiti della salute secondo il modello ICF
dell’organizzazione Mondiale della Sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno,
ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale
individualizzata.
Il concetto di Bisogno Educativo Speciale I Special Educational need, appare nei documenti
ufficiali Unesco, nel 1997, nella legislazione del Regno Unito, nel 2001, (Special Educational
Needs And Disability Act) e nei documenti dell’Agenzia Europea per lo sviluppo dell’educazione
per i bisogni speciali nel 2003, come tendenza a considerare i soggetti con Bes anche le altre
persone in età evolutiva che manifestino difficoltà di apprendimento e di comportamento diverse
dalla disabilità.
E’ “speciale”, quindi, ogni alunno che manifesta “bisogni educativi speciali”( special educational
needs), in presenza di situazioni particolari diverse e di difficoltà temporanee o permanenti,
pervasive o settoriali, a livello fisico, organico, biologico, oppure familiare, ambientale, sociale,
culturale, che lo ostacolano nell’apprendimento e nello sviluppo e perciò richiede attenzioni e cure
educative particolari, scelte, percorsi, sollecitazioni, risorse, valutazioni “speciali”.
In Italia, Ianes concettualizza il Bisogno Educativo Speciale (da ora in poi BES) come una macro-
categoria che comprende tutte le possibili difficoltà educative e dell’apprendimento degli alunni e
più in particolare “Qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in un
funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF dell’Organizzazione mondiale
della sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale,
indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata”: 1
1
D. Ianes, Bisogni Educativi Speciali e inclusione. Valutare le reali necessità e attivare tutte le risorse. Erickson, Trento 2005, p. 29
Ianes argomenta la sua proposta, affermando che il concetto di speciale normalità e i criteri di
classificazione legati all’ICF, che stanno alla base della macrocategoria dei BES possono essere
utili, ad esempio, agli insegnanti per fare una fotografia delle diverse difficoltà presenti nella classe
e per leggere la complessità dei reali bisogni che si presentano. La scuola, in effetti, dovrebbe saper
individuare e affrontare tutte le situazioni di difficoltà, anche quelle non classificate ufficialmente
nell’ICD-10 o nel DSM-IV-R e diagnosticate.
Nell’ordinamento italiano, la categoria dei Bisogni Educativi Speciali non è definita in alcuna
normativa primaria; si tratta infatti di una categorizzazione pedagogica frutto, come
precedentemente evidenziato, del lavoro di Ianes riferita alla normativa degli Special Educational
Needs (SEN), 49 del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (Special Educational and
Disability Act del 2001 e successivi).
La Circolare Ministeriale n. 8, prot. 561, del 6 marzo 2013 specifica che ogni alunno, con continuità
o per determinati periodi, può manifestare bisogni educativi speciali per motivi fisici, biologici,
fisiologici o anche psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e
personalizzata risposta. Le tipologie di difficoltà che rientrano in Italia nell’area dei BES, sono le
seguenti: «Svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi
specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché
appartenenti a culture diverse». A tutte queste categorie è riconosciuto il diritto a un Piano
Didattico Personalizzato (PDP) che presenti i percorsi individualizzati e personalizzati adottati e le
misure dispensative e gli strumenti compensativi concessi allo studente per il tempo strettamente
necessario. La Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con
BES” si richiama ai principi della Legge 53/2003.
“ Il Bisogno Educativo Speciale” non è una diagnosi clinica, ma una dimensione pedagogico-
politica.
Dobbiamo distinguere bene la nostra proposta che mira ad una lettura equa di tutti i bisogni degli
alunni da una modalità di riconoscimento-comprensione di una situazione problematica la quale
operi attraverso una diagnosi clinica di tipo nosografico ed eziologico, che rileva segni e sintomi e li
attribuisce a una serie di cause che li hanno prodotti. È ovviamente utile fare bene questo tipo di
diagnosi, ove possibile (si pensi alla dislessia, ai disturbi dello spettro autistico, ecc.) ma è un tipo di
riconoscimento che divide e distingue le difficoltà degli alunni in base alla loro causa, come fa la
nostra legislazione, la Legge 104 del 1992, e i successivi atti che regolano l’attribuzione di risorse
aggiuntive alla Scuola per far fronte alle difficoltà degli alunni, dando legittimità soltanto ai bisogni
che hanno un fondamento chiaro nella minorazione del corpo del soggetto, minorazione che deve
essere stabile o progressiva.
2
Don Milani, Lettera a una professoressa, Firenze Editrice Fiorentina, 1963.
Le principali tappe della prospettiva inclusiva in Italia
In Italia la prospettiva dell’integrazione scolastica si è aperta nel 1977 con la legge n.517 e
successivamente integrata e sintetizzata con la legge quadro n. 104 evolvendosi verso approcci
inclusivi, aperti alla cura e alla considerazione di una più ampia gamma di bisogni educativi
speciali, anche non certificati, rilevati nelle classi con sempre più frequenza.
Le principali tappe di tale processo evolutivo sono rintracciabili nella principale produzione
normativa e negli atti prodotti dal Ministero a cominciare dal 1990 attraverso:
• il Regolamento dell’autonomia D.P.R. 275 del 1999, in cui la dimensione inclusiva e
l’attenzione alle differenze sostanziano e caratterizzano la natura e lo scopo
dell’autonomia, consistenti nella “progettazione e nella realizzazione di interventi di
educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana,
adeguati alle diverse situazioni, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche
specifiche dei soggetti coinvolti…”;
• il DLGS n. 26 del 1998 “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” e le Linee guida del
MIUR (2006), che fornisce indicazioni di tipo amministrativo, suggerimenti
metodologici e organizzativi per l’integrazione degli alunni stranieri secondo
l’approccio inclusivo della pedagogia interculturale;
• le Linee guida per l’integrazione degli alunni disabili del 2009, che dedicano una
sezione intera alla “dimensione inclusiva della scuola” indicando percorsi, risorse e
strumenti per la realizzazione di un modello di scuola inclusiva: leadership
educativa, cultura dell’integrazione, piano dell’offerta formativa inclusivo,
flessibilità organizzativa e didattica, documentazione delle buone pratiche,
corresponsabilità educativa e formativa, cura delle relazioni e degli ambienti di
apprendimento; progettazione e valutazione di itinerari di insegnamento-
apprendimento flessibili, assistenza e collaborazione con le famiglie;
• la legge n.170 del 2010 recante “Nuove norme in materia di disturbi specifici
dell’apprendimento in ambito scolastico” e le successive Linee guida del MIUR del
2011 sulle modalità attuative, riguardanti le azioni educative e didattiche e di
supporto, le misure dispensative e gli strumenti compensativi, le forme di verifica e
di valutazione, che segnano una svolta rispetto al passato, poiché valorizzano il
diverso canale della cura educativa e della presa in carico dell’alunno con disturbi
specifici di apprendimento da parte di tutti i docenti del team-consiglio di classe;
• la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 e le disposizioni attuative, C.M. 2013,
il Ministero amplia la sfera di tutela e di intervento a favore di quegli alunni che, per
cause diverse e per periodi anche temporanei, presentino difficoltà tali da
condizionarne negativamente il percorso di sviluppo e di apprendimento,
esponendoli al rischio di fallimento.
• L.107 del 2015 con il decreto n.2, che riguarda la promozione dell’inclusione
scolastica degli alunni con disabilità.
Ad oggi, il termine “integrazione” scolastica è stato racchiuso e sostituito dal termine “inclusione”:
intendendo con questo il processo mediante il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi
protagonisti ( organizzazione scolastica, insegnanti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di
un ambiente che risponde ai bisogni di tutti gli alunni e in particolare di quelli con bisogni educativi
speciali. E’ infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si
promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro
specifici problemi, come viene specificato anche dall’I.C.F., (Classificazione Internazionale del
funzionamento e delle disabilità), proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2000).
La scuola deve creare per tutti gli alunni ambienti accoglienti e facilitanti, attraverso buone strategie
educativo/didattiche, che possano contribuire alla crescita cognitiva e psicosociale dei bambini in
situazioni di difficoltà. La diversità all'interno del contesto scolastico deve rappresentare una sfida
per insegnanti, dirigenti scolastici, comunità scolastica, famiglie e territorio, ognuno con specifiche
funzioni, vissuta in un’ottica inclusiva. La nozione di inclusione afferma l’importanza del
coinvolgimento di tutti gli alunni nella realizzazione di una scuola realmente accogliente, anche
mediante la trasformazione del curricolo e delle strategie organizzative delle scuole, che devono
diventare sensibili all’intera gradazione delle diversità presenti fra gli alunni (Dovigo, 2007).
Diventa necessario, per la costruzione di un sistema scolastico inclusivo, operare una rilettura in
prospettiva inclusiva del sistema scuola a più livelli:
• a livello centrale, rivedendo le politiche scolastiche anche in termini di investimenti, in
relazione agli ambiti di maggiore attenzione come la fase del reclutamento dei docenti, la
valorizzazione delle buone pratiche, l’assegnazione delle risorse professionali, strumentali e
finanziarie, secondo criteri di qualità (contesto interno e esterno, utenza, bisogni educativi
speciali, progetto di scuola, percorsi di ricerca, sperimentazione e sviluppo professionale,
azioni di miglioramento), oltre che quantitativi (popolazione scolastica, numero alunni
disabili e stranieri, etc.);
• a livello periferico per rafforzare le reti e le sinergie interistituzionali, nell’ottica di una
programmazione integrata dei servizi, coerente con le reali necessità del territorio e delle
famiglie in difficoltà, con i bisogni educativi degli alunni a rischio;
• a livello di comunità professionale scolastica per rinnovare i modelli culturali e valoriali che
orientano pratiche educative, didattiche, organizzative, valutative al fine di costruire una
scuola inclusiva a partire dal riconoscimento e dalla considerazione delle differenze
attraverso la mobilitazione delle risorse professionali, oltre che materiali e strumentali.
I bisogni educativi speciali in classe richiedono:
Maria Aurino 1
Verso una scuola inclusiva
Includere
Maria Aurino 2
BES = preso in carico attraverso: l’incontro, la
conoscenza, l’accompagnamento
Incontrare: stabilire percorsi di alterità e di empatia (delineare un
profilo del soggetto)
Conoscere: andare oltre l’informazione e l’osservazione (seguire il
soggetto nelle azioni individuali e nell’azione cooperativa a scuola e
non)
Accompagnare: fornire guida e sostegno ( forma antica e moderna della pedagogia
nel suo significato originario di saper accompagnare) .L’azione di accompagnamento è
azione dialogica, è accompagnamento multiplo, mirato anche alla
dimensione sociale e culturale. Vero e proprio viaggio di formazione del
soggetto
Maria Aurino 3
Bisogni Educativi Speciali e Inclusione
L’Italia è il paese dove tutti i bisogni educativi speciali trovano
un’adeguata risposta dal 1977 (L. 517). Altro pilastro è la L. 104/1992
il termine inclusione è stato usato in ambito sociale senza un
riferimento all’educazione.
Le norme riguardanti l’integrazione scolastica degli alunni con
disabilità, affondano le loro radici nella Costituzione e hanno concorso
a disegnare ua scuola intesa come comunità educativa.
Recentemente, le Linee guida per la tutela della L.170/2010 (DSA,DHD)
e la direttivs sui BES del 2012.
Maria Aurino 4
Società aperta e dell’inclusione.
La pedagogia democratica come strumento teorico-
pratico di risposta ai “bisogni educativi speciali”
Maria Aurino 5
L’educazione aperta
L’educazione è sempre sociale, prima che individuale; è un diritto e un
dovere che riguarda tutti gli uomini e comunque nel corso di vita
dell’intera esistenza che viene attivata attraverso vari modelli e metodi.
Maria Aurino 6
L’educazione aperta
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L’educazione aperta
Maria Aurino 8
L’educazione aperta
Scuola aperta a tutti, distinto per l’esercizio della critica come scrive A.
Gramsci, ci rende la capacità di pensare, di studiare, di dirigere o di
controllare chi dirige
Maria Aurino 10
L’educazione come comunità aperta all’inclusione
Una scuola democratica è popolare perchè consente a tutti di godere di
quella uguaglianza delle opportunità che le rende plurale nei punti di
partenza, nei percorsi, nelle mete, negli obiettivi.
Una pluralità che si traduce in risposte differenti e opportune, a
seconda dei bisogni formativi dei soggetti speciali.
Maria Aurino 11
L’educazione come comunità aperta all’inclusione
Maria Aurino 12
L’educazione come comunità aperta all’inclusione
Punti chiave della formazione di una scuola democratica:
▪ metodologie dell’apprendimento
▪ metodi di studio
▪ la memeorizzazione dei percorsi
▪ uno stile cognitivo personalizzato
▪ ecc.
che facilitano lo studio e la ricerca e qualificano l’apprendimento in
maniera scientifica, facendo maturare la crescita dei singoli e dei gruppi
in termini di vita personale e associata.
Maria Aurino 13
Maria Aurino 14
Autovalutazione dell’inclusione scolastica
▪ Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013 e Direttiva ministeriale 27 dicembre 2012 =>
valutazione della qualità inclusiva della scuola
▪ Finalità: “accrescere la consapevolezza dell’intera comunità educante sulla centralità e la
trasversalità dei processi inclusivi” (circolare n.8 del 6 marzo 2013)
▪ Definizione del Piano Annuale per l’inclusione (PAI) - concorso di tutti gli insegnanti con il
supporto del gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI)
▪ Autovalutazione scolastica per mezzo dell’INDEX PER L’INCLUSIONE: strumento di
autoanalisi finalizzato a uno sviluppo inclusivo della scuola
Maria Aurino 15
▪ Index forinclusion
Maria Aurino 16
Index for inclusion
Maria Aurino 17
Index di T.Booth, M. Ainscow
▪ L’Index è stato realizzato da Booth e Ainscow alla luce di una ricerca-azione
della durata di tre anni (Inghilterra)che ha visto il coinvolgimento di
ricercatori universitari, docenti di ogni grado di istruzione, dirigenti
scolastici, alunni, famiglie e associazioni di disabili
▪ Sono state sviluppate nuove versioni dell’Index adattate per tutti i gradi
scolastici
▪ La prima pubblicazione dell’Index risale al 2000, una seconda al 2002 e nel
2008 è comparsa la prima versione italiana (rivista nel 2014)
▪ Tradotto in 37 lingue, è oggi diffuso in tutto il mondo
Maria Aurino 18
Caratteristiche dell’Index for inclusion
Maria Aurino 19
Index: uno strumento di lavoro per il Gruppo di lavoro per
l’inclusione
(GLI; DM del 27 dicembre 2012; CM n. 8 del 6 marzo 2013)
Maria Aurino 20
Le “parole” dell’index: ostacoli e risorse
▪ Inclusione
▪ Sostegno alladiversità
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Frame teorico
Maria Aurino 22
Struttura dell’ Index forinclusion
Maria Aurino 23
DIMENSIONI E SEZIONI DELL’INDEX
CULTURE INCLUSIVE Costruire comunità
Affermare valori inclusivi
Coordinare
l‘apprendimento Sviluppare la scuola per t u e
Mobilitare le risorse Organizzare sostegno alle
diversità
PRATICHE
POLITICHE
INCLUSIVE
INCLUSIVE
Maria Aurino 24
LE FASI DEL PROCESSO DI AUTOVALUTAZIONE E MIGLIORAMENTO
Fase 1
Cominciare a utilizzare
l’Index
Fase 2
Esplorare insieme
(Analisi della scuola)
Fase 5 Fase 3
Rivedere lo sviluppo del Elaborare un progetto di
processo dell’Index sviluppo inclusivo
Fase 4
Passare all’azione
Maria Aurino 25
• Analizzare il Piano dell’Offerta Formativa della scuola Fase 1
Cominciare a
• Sviluppare una prima discussione sull’inclusione utilizzare l’Index
Fase 2
• Individuare barriere e risorse nella scuola
Esplorare insieme
(Analisi della scuola)
• Approfondire le forme di supporto esistenti e
quelle possibili
• Utilizzare gli indicatori per una prima ricognizione delle
situazioni problematiche Fase 3
Elaborare un progetto
• Discutere i dati emersi rispetto all’individuazione degli di sviluppo inclusivo
indicatori
Fase 4
• Scegliere le priorità e pianificare gli interventi
Passare all’azione
Maria Aurino 26
L’inclusione è...
L‘inclusione è un processo che non ha fine. L‘unico modo in cui ci
sembra di poter definire una scuola come inclusiva“ è quando essa è
impegnata in un percorso di sviluppo guidato da valori inclusivi.”
Tony Booth, Mel Ainscow: Nuovo Index per l‘inclusione. Percorsi di apprendimento
e partecipazione a scuola.
Ed.it. A cura di Fabio Davigo, Carocci Faber, Roma 2014
Maria Aurino 27
RACCOMANDAZIONE DEL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA RELATIVA ALLE COMPETENZE
CHIAVE
PER L’APPRENDIMENTO PERMANENTE – 22 maggio 2018
Approfondimenti e riflessioni
La Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 22 maggio 2018, che presenta in allegato
il nuovo quadro di riferimento per le competenze chiave per l’apprendimento permanente1, muove
da importanti considerazioni che aiutano a comprendere le ragioni alla base dei cambiamenti
apportati rispetto al quadro del 2006.
Sembra, pertanto, opportuno rammentare alcune delle considerazioni più rilevanti che, in sostanza,
danno subito conto al lettore del contesto in cui si collocano le 8 competenze chiave. Tali
considerazioni offrono l’occasione, altresì, di far comprendere che il nuovo quadro è la risultante
delle iniziative che si sono sviluppate in Europa (e anche nel nostro Paese) nell’ultimo decennio e
che necessitano di essere continuate e valorizzate. È innegabile, difatti, che a livello dei sistemi
educativi degli Stati membri si è posta una grande attenzione al miglioramento delle competenze di
base e per la vita, così come all’investimento sull’acquisizione, sulla convalida e sulla certificazione
di quelle competenze ritenute oramai imprescindibili per esercitare una cittadinanza attiva e globale
(competenze linguistiche, digitali, imprenditoriali e negli ambiti STEM).
Si tratta ora di avviare una riflessione sulla Raccomandazione del 2018 a tutto tondo, di far tesoro
cioè delle considerazioni iniziali per meglio capire l’ancoraggio del nuovo quadro ai cambiamenti
sociali ed economici intercorsi. Si passerà poi all’esame delle competenze, al fine di approfondire
gli aggiornamenti apportati dal Consiglio dell’Unione europea e capire come la recente
“risistemazione” possa orientare i percorsi di istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita.
CONSIDERAZIONI
1- La prima considerazione attiene all’importante ruolo che istruzione e cultura devono
assicurare come forza propulsiva per garantire l’esercizio di una cittadinanza attiva, anche in
previsione dei cambiamenti futuri in ambito sociale e lavorativo. Le competenze chiave
devono essere sviluppate, mantenute e consolidate per scopi educativi, occupazionali e di
benessere individuale e collettivo lungo l’intero arco della vita. Esse rispondono al principio
sancito nel pilastro europeo dei diritti sociali in cui viene messo in evidenza il diritto di ogni
individuo allo sviluppo continuo delle proprie competenze e ad un eventuale supporto “su
misura” per migliorare la propria situazione occupazionale, riqualificarsi, proseguire i
percorsi educativi, di ricerca e di sviluppo.
1
http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9009-2018-INIT/it/pdf
In quest’ottica di sviluppo progressivo e a spirale, si comprende quanto il primo gradino,
quello dell’istruzione scolastica, sia fondamentale per potere avviare per tutti l’acquisizione
delle competenze atte a creare società più inclusive, democratiche e composte da cittadini
provvisti dei mezzi necessari a realizzarsi personalmente, socialmente e professionalmente.
2- I sistemi di istruzione stessi, pertanto, devono riadattarsi continuamente ai mutati assetti
sociali e professionali. In quest’ottica di “previsione” della società e del mondo del lavoro di
domani, e tenuto conto che stiamo assistendo a cambiamenti rapidi e profondi, il nuovo
quadro delle competenze chiave vuole offrire un riferimento attualizzato rispetto alle nuove
esigenze. In particolare, il Consiglio dell’UE considera alcuni aspetti che richiedono lo
sviluppo di nuove competenze: molti posti di lavoro sono automatizzati, le tecnologie
svolgono un ruolo importante sul lavoro e nella vita di tutti i giorni e le competenze
personali, sociali, civiche e imprenditoriali (quest’ultima con il significato di sapere
trasformare le idee in azioni e farle divenire valore per gli altri) sono sempre più importanti
per garantire le capacità di resilienza, adattamento all’incertezza e assunzione di
responsabilità in prima persona.
3- Vi è ancora molto da fare per quanto riguarda lo sviluppo adeguato delle competenze di base
lungo tutto l’arco della vita, come mostrano alcune indagini internazionali dell’OCSE anche
riportate nei rapporti di monitoraggio annuali della Commissione europea. PISA 2015 indica
che uno studente europeo su cinque non raggiunge risultati sufficienti in lettura, matematica
e scienze (in Italia gli studenti con scarsi risultati in lettura sono il 21%, in matematica il
23,3% e in scienze il 22,2% ) e i dati PIAAC (indagine che misura le competenze della
popolazione compresa tra i 16-64 anni) mostrano che in alcuni Paesi fino a un terzo degli
adulti ha competenze alfabetiche e aritmetico-matematiche ai livelli più bassi (l’Italia è in
fondo alla classifica, secondo i risultati del 2012, con il 28% degli adulti che non supera il
livello 1 in lettura). Tale situazione deve essere affrontata con forti investimenti, e non solo
per il sistema formale di istruzione, ma anche con la messa a disposizione per tutti di percorsi
flessibili orientati all’acquisizione e al mantenimento delle competenze di base mediante
ambienti di apprendimento che ricorrono alle tecnologie digitali e sono in grado di
funzionare “su misura”. Questi approcci innovativi richiedono, naturalmente, competenze
personali in ambito digitale che per ora sembrano mancare, dato che secondo il quadro di
valutazione digitale del 2017 a cura della Commissione europea risulta che il 44% degli
europei ha scarse competenze digitali e il 19% non ne possiede affatto.
4- Il nuovo quadro delle competenze, che aggiorna e sostituisce la versione del 2006, nel
ribadire l’assoluta emergenza sopra rappresentata, introduce ulteriori necessità, correlate
alle trasformazioni sociali ed economiche in corso. La Raccomandazione, infatti, insiste
sull’importanza dello sviluppo delle capacità personali di risoluzione dei problemi, di
resilienza, di cooperazione, di creatività, di autoregolamentazione che facilitano la
transizione dalla scuola al lavoro e la riqualificazione nell’età adulta. Le nuove competenze
chiave, inoltre, si ricollegano all’obiettivo 4.7 dell’Agenda 2030 Onu per lo sviluppo
sostenibile e evidenziano la necessità di promuovere conoscenze, abilità e atteggiamenti per
condurre uno stile di vita sostenibile in cui ognuno possa offrire il proprio contributo alla
pace, alla parità, alla cittadinanza globale e al rispetto delle diversità.
5- La revisione del quadro di riferimento, infine, è stata influenzata per alcune specifiche
competenze da quanto contenuto in quadri già esistenti, la cui applicazione è diffusa nei
Paesi membri e ha, in alcuni casi, orientato fortemente le politiche educative nazionali. In
particolare, la Raccomandazione cita il quadro comune europeo di riferimento per le lingue,
il quadro di riferimento delle competenze digitali, il quadro di riferimento delle competenze
imprenditoriali e il quadro di riferimento delle competenze per una cultura democratica2.
Aspetti generali
Il Consiglio dell’Unione europea, nel presentare il nuovo quadro di riferimento, ribadisce che in un
mondo interconnesso e complesso è richiesto ad ogni persona di possedere un corredo composito
di abilità e competenze da sviluppare sin dall’infanzia con continuità, progressione e in diversi
contesti di apprendimento. Le competenze chiave definite nel recente assetto sono, pertanto,
correlate a molteplici ambiti: l’occupabilità, la realizzazione personale e la salute, la cittadinanza
attiva e responsabile e l’inclusione sociale.
Lo sviluppo delle stesse prevede, pertanto, un approccio olistico, poiché tutte si iscrivono nel più
ampio concetto di sviluppo sostenibile e di cittadinanza globale. Esistono ampi margini di
sovrapposizione all’interno delle 8 competenze, così come dovrebbe accadere nei percorsi educativi
e formativi mirati alla loro acquisizione. Non è pensabile, dunque, di applicare le singole competenze
a percorsi specifici di apprendimento orientati su una o poche discipline.
In filigrana alla nuova architettura dell’intero quadro di riferimento si scorge l’importanza di
sviluppare le 8 competenze nella loro “combinazione dinamica” di conoscenze, di abilità, di
atteggiamenti e, si potrebbe anche aggiungere, di emozioni correlate ad una crescita progressiva
personale e sociale che dovrebbe durare per tutta la vita.
In quest’ottica, si individuano di seguito gli aspetti cardine sottesi a tutte le competenze e che
dimostrano l’interconnessione fra le stesse così come la pari importanza di ognuna:
2
Per consultare i quadri in materia delle competenze linguistiche, digitali, imprenditoriali e per una cultura
democratica, si riportano i seguenti link:
- Lingue: https://www.coe.int/en/web/common-european-framework-reference-languages
- Digitale: www.agid.gov.it/sites/default/files/repository_files/digcomp2-1_ita.pdf
- Cultura democratica: https://rm.coe.int/16806ccf13
- Valore attribuito alle soft skills e agli atteggiamenti proattivi in virtù dei quali emerge
l’esigenza di far convergere i percorsi di apprendimento verso lo sviluppo delle capacità di
relazionarsi al mondo reale e digitale, ai cambiamenti e agli imprevisti (capacità di porre e
risolvere problemi, di lavorare in team, di leadership, di resilienza, di negoziazione, di
creatività, …)
- Accento sulle capacità dell’apprendente di rendersi progressivamente autonomo, critico e
propositivo per assumersi la responsabilità nelle decisioni e nelle azioni
- Importanza di proporre contesti di apprendimento diversificati e motivanti in cui le
competenze si acquisiscono e convalidano in percorsi formali, non formali e informali in un
continuum di sviluppo permanente e dinamico
- Importanza dello sviluppo progressivo della consapevolezza culturale come espressione
della propria identità culturale e del proprio pensiero all’interno di un mondo caratterizzato
dalla diversità verso il quale si deve nutrire un atteggiamento curioso, interessato e
tollerante
- Attenzione all’aumento della complessità sociale e culturale, all’esigenza di attivare nuove
capacità di risposta al complesso e all’incerto per verificare la validità e l’affidabilità dei fatti
- Accento sulle competenze personali e sociali da sviluppate in modo integrato che implicano
atteggiamenti di empatia, solidarietà, rispetto verso il proprio benessere e l’alterità sotto
tutte le forme.
Approfondimenti sulle competenze chiave 1,2, 6 e 8
Definizione di competenza:
Per la Raccomandazione del Consiglio dell’UE la competenza è “una combinazione di
conoscenze, abilità e atteggiamenti, in cui:
- La conoscenza si compone di fatti e cifre, concetti, idee e teorie che sono già stabiliti e che
forniscono le basi per comprendere un certo settore o argomento
- Per abilità si intende sapere ed essere capaci di eseguire processi ed applicare le conoscenze
esistenti al fine di ottenere risultati
- Gli atteggiamenti descrivono la disposizione e la mentalità per agire o reagire a idee, persone
o situazioni”.
Introdurre il concetto di competenza alfabetica funzionale, aperto e inclusivo rispetto a quello della
Raccomandazione precedente che lo denominava “comunicazione nella madrelingua”, significa
riconoscere le necessità dell’individuo di oggi che si muove nel contesto di società sempre più
multilingui e multiculturali. L’acquisizione delle competenze di literacy sono, pertanto, non sempre
coincidenti con la propria lingua madre, ma spesso relative alla padronanza della lingua ufficiale (o
di istruzione scolastica) dello Stato membro in cui si vive (anche temporaneamente). Le competenze
alfabetiche diventano così funzionali alla piena partecipazione dell’individuo nella società,
implicando, per molti cittadini europei, la capacità di interagire funzionalmente in più lingue e
l’esigenza di sviluppare nell’arco della propria vita competenze alfabetiche plurali e a vari livelli di
padronanza. Per questi motivi anche nella seconda competenza chiave, relativa al multilinguismo,
si ribadisce lo stesso valore di apertura e inclusività verso il riconoscimento di un’esigenza di
“literacy” plurilingue e pluriculturale in cui le capacità di mediazione, intese come co-costruzione
del discorso in funzione delle competenze linguistiche dei membri del gruppo, meglio si attagliano
alla complessità del mutato tessuto sociale.
Infine, la raccomandazione individua tra gli atteggiamenti positivi nei confronti della competenza
linguistica, oltre alla disponibilità e all’interesse dell’interazione con gli altri, l’apprezzamento delle
qualità estetiche come a volere precisare che per apprezzare il bello (in letteratura, nell’arte, nel
paesaggio, nelle persone) è necessario conoscerne l’alfabeto.
La seconda competenza, riprende numerosi concetti già espressi a riguardo della competenza
alfabetica situandoli nel più vasto quadro della competenza multilingue e multiculturale, di cui
lingua e cultura madre, lingua e cultura straniera, lingua e cultura del Paese di accoglienza fanno
parte con varie finalità ma pari diritti.
Il forte accento riservato alle competenze interculturali sottese alle competenze linguistiche
evidenzia come in un mondo globalizzato, che mette in contatto persone e società diverse ed è
fortemente connotato dalla mobilità degli individui a vari fini, siano necessarie competenze di
decodifica di altre lingue e di altre culture per potersi relazionare e vivere insieme facendo della
diversità un valore sul quale costruire società democratiche.
Così la competenza multilinguistica va di pari passo con la competenza di cultura democratica,
poiché implica il sapersi muovere con abilità all’interno dei contesti plurali del mondo attuale in cui
le varie nazionalità e le diverse espressioni linguistico-culturali diventano motivo di arricchimento
reciproco e fonte di prospettive di studio e/o di lavoro.
Il nuovo quadro, nel sottolineare questo valore di reciprocità, afferma che un atteggiamento di
rispetto per il profilo linguistico/culturale originario di chi appartiene a minoranze o proviene da
contesti migratori è parimenti importante del valore attribuito alla lingua ufficiale del paese di
accoglienza come quadro comune di interazione.
Il documento insiste, altresì, nel fondare la competenza interculturale sullo sviluppo delle capacità
di mediazione, affinché ogni locutore possa divenire un “attore sociale” in grado di utilizzare
flessibilmente il proprio repertorio plurilingue tra le altre lingue e culture. La definizione di questa
capacità è mutuata da quanto elaborato dal Consiglio d’Europa nel recente volume di complemento
al Quadro Comune europeo di riferimento (QCER)3 in cui, per adeguarsi ad un mondo complesso e
multiculturale, vengono messi a punto specifici descrittori di competenza per l’area della
mediazione, valorizzando in tal modo l’aspetto inclusivo della competenza multilinguistica.
In particolare, la mediazione è qui intesa come strumento e atteggiamento positivo nei contesti di
vita, di studio e di lavoro, in modo da rendere agevole e “democratica” la comunicazione in presenza
3
https://rm.coe.int/cefr-companion-volume-with-new-descriptors-2018/1680787989
di differenti universi linguistici e culturali. Si rende, in questi casi, necessaria la costruzione di “ponti”
per il superamento degli ostacoli comunicativi verbali e non verbali che impediscono la conoscenza
culturale reciproca. Essa implica, pertanto, una competenza multidimensionale di tipo sociale,
culturale e plurilingue.
“Nella mediazione - recita il nuovo QCER - l’utilizzatore/apprendente agisce come attore sociale
creando delle passerelle e utilizzando mezzi per costruire e trasmettere senso sia nella stessa lingua
sia nella lingua dell’altro (mediazione interlinguistica). L’accento è posto sul ruolo della lingua per
creare spazi e condizioni di comunicazione e/o apprendimento, per collaborare alla costruzione di
un nuovo senso, per incoraggiare gli altri a costruire e comprendere un nuovo senso e per fare
passare le informazioni in maniera adeguata. Il contesto può essere sociale, pedagogico, linguistico
o professionale”.
Come per le altre competenze chiave, è chiaramente percepibile che anche la competenza
multilinguistica si iscrive nella più vasta esigenza del rispetto per la pluralità delle culture e
dell’imprescindibile responsabilità individuale di cooperare - anche avvicinandosi alla lingua
dell’altro - alla costruzione dell’identità europea in tutta la sua diversità.
Infine, a livello del proprio profilo linguistico personale, giova rammentare a coloro che apprendono
e insegnano le lingue, quanto precisato chiaramente dal Compendio al QCER e qui sintetizzato sotto
forma di elenco:
- le lingue sono interdipendenti e interconnesse e non sono confinate in spazi mentali
separati;
- i saperi e le esperienze nelle varie lingue contribuiscono, tutti, alla competenza comunicativa
e interculturale;
- non è quasi mai possibile, né auspicabile, una padronanza equilibrata nei diversi idiomi,
molto più importante è la capacità (e la volontà) di saperli usare adeguatamente nel rispetto
della situazione sociale e di comunicazione;
- gli ostacoli di comprensione possono essere superati attingendo al proprio repertorio
personale e usando più lingue per comunicare un messaggio;
- la competenza linguistica comprende anche la capacità culturale di gestire l’alterità,
identificare le somiglianze e le differenze e permettere, attraverso un atteggiamento
rispettoso e empatico di cooperare nella costruzione del senso dei messaggi di varia natura
(volontà di agire come mediatore fra più culture).
Come possiamo notare, gli elementi che emergono nella formulazione proposta dal Consiglio
dell’Unione europea sono i seguenti:
• creatività
• pensiero critico
• risoluzione di problemi
• iniziativa e perseveranza
Nello stesso documento sono indicate anche le capacità necessarie per sviluppare gli elementi
definiti “imprescindibili”:
• la capacità di agire sulla base di idee e opportunità e di trasformarle in valori per gli altri;
• la capacità di lavorare sia individualmente sia in modalità collaborativa e di mantenere il
ritmo dell'attività;
• la capacità di comunicare e negoziare efficacemente con gli altri e di saper gestire
l'incertezza, l'ambiguità e il rischio in quanto fattori rientranti nell'assunzione di decisioni
informate.
Nella Raccomandazione si legge altresì: “Le capacità imprenditoriali si fondano sulla creatività, che
comprende immaginazione, pensiero strategico e risoluzione dei problemi, nonché riflessione critica
e costruttiva in un contesto di innovazione e di processi creativi in evoluzione.”
L’introduzione della capacità di risoluzione dei problemi comporta la rivisitazione dei modelli
metodologici tradizionali nelle attività di progettazione e di valutazione delle competenze, e non
solo di quelle imprenditoriali. È indubbio infatti che, come ben lo evidenziano le linee guida che
accompagnano i nuovi modelli di certificazione per il primo ciclo (modelli che assumono il quadro
delle competenze chiave europee come orizzonte di riferimento a cui tendere) l’operazione
certificatoria, “oltre a presupporre una corretta e diffusa cultura della valutazione, richiede
un’azione didattica incisiva e specifica”. Significa, in sintesi, proporre azioni non esclusivamente di
tipo disciplinare per “abituare gli alunni a risolvere situazioni problematiche, complesse e inedite”
in cui è essenziale rovesciare continuamente i ruoli apprendente-insegnante ed esercitarli a svolgere
compiti di realtà autentici.
A questo proposito, le linee guida sopra menzionate offrono molti spunti che possono essere
applicati, peraltro, anche nei percorsi di Alternanza Scuola – Lavoro e nella Impresa Formativa
Simulata (IFS). Infatti, i percorsi formativi di ASL sono per loro natura attività integrate in cui
l’apprendimento è sempre “situato e distribuito”.
Occorrerà, infine, procedere ad adeguare le operazioni di osservazione, valutazione ed
autovalutazione, dando particolare attenzione alla funzione orientante.
L’adozione di una metodologia didattica innovativa
4
Quadro nazionale delle qualificazioni (QNQ) quale strumento di descrizione e classificazione delle qualificazioni
rilasciate nell'ambito del Sistema nazionale di certificazione delle competenze. Il QNQ è il dispositivo italiano per la
referenziazione delle qualificazioni al Quadro europeo delle qualifiche, con la funzione di raccordare il sistema italiano
delle qualificazioni con i sistemi degli altri Paesi europei.
La percezione della propria competenza influenza notevolmente non solo il comportamento dei
soggetti, ma anche i loro pensieri e le loro emozioni. Secondo Pellerey, la competenza, dal punto di
vista soggettivo è quindi “la capacità di orchestrare in maniera valida ed efficace, in specifici contesti
di apprendimento, un insieme abbastanza articolato e differenziato di risorse interne di natura
cognitiva, affettiva e volitiva, in vista del raggiungimento di un obiettivo specifico, tenuto conto
anche degli influssi che derivano da fattori di natura relazionale e sociale”.
Si consiglia di distinguere le competenze in tre aree:
Competenze di base: risorse fondamentali con cui ogni persona può partecipare alla vita sociale,
accedere alla formazione e al lavoro. Un esempio potrebbe essere la padronanza di base della lingua,
l’impiego dell’informatica a livelli essenziali e di almeno una lingua straniera, l’uso degli elementi
fondamentali di economia, diritto ecc.
Competenze tecnico professionali: competenze riferibili a specifiche attività utili per operare in un
determinato settore lavorativo. Sono le competenze più fortemente contestualizzate, più soggette a
mutare con i cambiamenti organizzativi, le trasformazioni sociali o tecnologiche.
Competenze trasversali: riconducibili ad un vasto insieme di abilità della persona, implicate in numerosi
tipi di compiti lavorativi, dai più elementari ai più complessi, ed esplicate in situazioni operative tra loro
diverse. In altre parole, ci si riferisce ad abilità di carattere generale, a largo spettro, relative ai processi
di pensiero e cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle modalità e
capacità di riflettere e di usare strategie di apprendimento e di auto-correzione della condotta.
Queste ultime in particolar modo (competenze trasversali) sono state oggetto di attenzione e studio da
parte dell’INAPP (Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche).
Nella proposta di tale Istituto le competenze trasversali si declinano in:
1. capacità diagnostiche: comprendere le caratteristiche dell’ambiente, i tratti essenziali dei
problemi da affrontare, i compiti da svolgere, le proprie risorse di fronte alle situazioni;
2. capacità relazionali: mantenere un rapporto costruttivo con gli altri e con l’ambiente sociale,
dall’ascolto alla comunicazione chiara, dalla negoziazione al controllo delle emozioni;
3. capacità di fronteggiamento: affrontare i problemi e i compiti adottando le strategie di azione
più adeguate, dall’assunzione di responsabilità al riconoscimento dei ruoli gerarchici, dalla
gestione dei tempi alla valutazione delle conseguenze delle azioni.
Come si può notare, la capacità specifica relativa alla competenza imprenditoriale di trasformare le idee
in azioni nell’ambito di attività personali, sociali e professionali è un elemento di importanza strategica
sottolineato ed evidenziato anche nel sistema QNQ. Gli istituti scolastici di secondo grado attraverso i
percorsi di alternanza scuola – lavoro rispondono appieno a questo tipo di richiesta.
Il livello quarto del QNQ richiede di utilizzare anche attraverso adattamenti, riformulazioni e
rielaborazioni una gamma di saperi, metodi, prassi e protocolli, materiali e strumenti, per risolvere
problemi, attivando un set di abilità cognitive, relazionali, sociali e di attivazione necessarie per superare
difficoltà crescenti. Le metodologie didattiche laboratoriali quali quelle del Problem solving, del
Cooperative learning e del Role play rappresentano solo alcuni degli spunti più efficaci per riuscire a
stimolare lo studente nello sviluppo dell’imprenditorialità.
Maria Aurino 1
Il cervello umano contiene circa dieci miliardi di neuroni collegati in modi estremamente
complessi. E delle molte cose strabilianti e sconcertanti di cui sono capaci le scintille
elettriche all’interno di queste cellule, e i loro scambi chimici, la creazione di EMOZIONI è
sicuramente la più strabiliante e la più sconcertante di tutte.
Maria Aurino 2
Cos’è un’emozione?
Maria Aurino 3
Componenti delle emozioni
1. Componente cognitiva: valutazione ed elaborazione del
significato emotivo attribuito allo stimolo
Maria Aurino 4
Quali emozioni esistono?
5 Maria Aurino
Tra emozione e cognizione: una querelle storica
Maria Aurino 6
Tra emozione e cognizione: una querelle storica
Con la nascita della moderna fisiologia, dell’anatomia e l’influsso
del pensiero cartesiano durante le rivoluzione scientifica
seicentesca, affermarono definitivamente la preminenza del
cervello come sede certa e unica delle emozioni. Fu proprio
Cartesio che, pur distinguendo ontologicamente il corpo
dall’anima, s’interrogò sul luogo di articolazione tra la sostanza
estesa (res extensa) e quella pensante (res cogitans),
individuandola nella ghiandola pineale.
Maria Aurino 7
La tradizioni razionalistica
Nella tradizione razionalista del XVII secolo, l'emozione era
considerata un fattore di distorsione e di disturbo del
comportamento razionale; per questo motivo era ritenuta
priva di interesse scientifico.
-L'attività razionale era considerata la base dalla quale partire
per spiegare le azioni umane;
-l'emozione perturbante assumeva, dunque, la qualità di
attributo negativo, perché non razionale dell'esistenza.
Maria Aurino 8
Evoluzione degli studi
Maria Aurino 10
Evoluzione degli studi
Maria Aurino 11
FREUD E LE EMOZIONI
Anche la psicoanalisi freudiana si è interessata allo
studio delle emozioni
Secondo Freud le emozioni sono elementi fondanti
della struttura della personalità dell'individuo.
Per questo motivo, nella logica deterministica che
la psicoanalisi condivide con la biologia,
l'emozione, come vissuto affettivo e come
impulso, diventa una chiave per aprire la porta
chiusa della razionalità e penetrare nel profondo
della psiche umana, al di là del conscio e anche
oltre il subconscio.
Maria Aurino 12
Le teorie psicoevoluzionistiche
Attorno agli anni ’60, Tomkins riprese il pensiero di
Darwin e propose la concezione psicoevoluzionistica delle
emozioni, secondo cui le emozioni sono strettamente
associate alla realizzazione di scopi universali, connessi
con la sopravvivenza della specie e dell’individuo.
Maria Aurino 13
Maria Aurino 14
Il sistema emozionale ubicato nel cervello è uno dei sistemi di
informazioni più ingegnosi, più rapidi, più precisi e più complessi.
Maria Aurino 15
Intelligenza emotiva ed emozioni
Maria Aurino 16
Lo psicologo e docente statunitense H. Gardner, a seguito delle ricerche effettuate
su soggetti affetti da lesioni neuropsicologiche, ha elaborato la teoria delle
“intelligenze multiple” in cui sostiene una concezione multidimensionale
dell’intelligenza, concepita come un insieme differenziato di competenze, ciascuna
autonoma e con basi neurofisiologiche specifiche presenti nel bambino sin dalla
nascita.
1. intelligenza linguistico verbale
2.intelligenza logico-matematica
3. intelligenza musicale
4. intelligenza spaziale
5. intelligenza corporea-cinestetica
6. intelligenza intrapresonale
7.intelligenza interpresonale
8. intelligenza naturalistica
9. intelligenza esistenziale
Maria Aurino 17
IE e competenza emotiva
L’intelligenza emotiva è stata trattata la prima volta nel 1990 dai
professori Peter Salovey e John D. Mayer che definirono
l’intelligenza emotiva come “La capacità di controllare i
sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di
esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri
pensieri e le proprie azioni”.
L’IE come abilità che permette di percepire ed esprimere le
nostre emozioni, accompagnando e assistendo il pensiero,
rendendoci capaci di regolarle così da favorire il nostro
sviluppo e la nostra crescita intellettiva ed emotiva.
Maria Aurino 18
LA DEFINIZIONE DI GOLEMAN
Il tema dell'intelligenza emotiva è stato successivamente trattato
nel 1995 da Daniel Goleman, psicologo e scrittore
statunitense, nel libro "Emotional Intelligence" tradotto in
italiano nel 1997 "Intelligenza emotiva: che cos'è perché può
renderci felici". Molto interessante è la definizione
dell’empatia data da Goleman
“Capacita dell’individuo di entrare in contatto con gli altri e
leggere i messaggi veicolati da canali di comunicazione non
verbale: il tono di voce, i gesti, l’espressione del volto, la
mimica”. La mimica facciale delle emozioni va individuata
in tre zone del volto:
1) la parte alta (sopracciglia e fronte)
2) la parte media (gli occhi)
3) la parte bassa (bocca e mascella)
Maria Aurino 19
Competenze personali e competenze sociali
Maria Aurino 20
L’intelligenza emotiva sociale
L'intelligenza emotiva sociale è costituita da quell'insieme di
caratteristiche che ci permettono di relazionarci positivamente
con gli altri e di interagire in modo costruttivo con essi. Una delle
componenti più importanti di questo aspetto dell'intelligenza è
costituita dall'empatia, ossia dalla capacità di riconoscere le
emozioni e i sentimenti negli altri, riuscendo a comprenderne i
punti di vista, gli interessi e le difficoltà interiori.
La comunicazione, altra attitudine "sociale", è invece la capacità di
parlare agli altri, facendo coincidere il contenuto esplicito dei
messaggi con le proprie convinzioni ed emozioni.
Maria Aurino 21
Il cuore ha le sue ragioni che la
ragione non conosce
Rinomata frase del fisico e matematico Blaise Pascal, con la
quale l'autore vuole riflettere sui sentimenti che il cuore può
provare a volte talmente forti da non poterli comprendere.
Questa frase contrappone due elementi essenziali, cuore e
ragione. E' sempre molto difficile prendere una decisione su
quale dei due seguire.
Possiamo quindi affermare che non solo ragione ed emozioni devono essere alleate, ma
che l’una è direttamente parte integranteMaria
dell’altra,
Aurino l’una è nell’altra. 22
Educare alle emozioni
Educare alle emozioni rappresenta, quindi, un nuovo
strumento educativo, una modalità di essere e stare
con i bambini per costruire benessere, incrementando
così le competenze che consentiranno loro di diventare
forti e sicuri, aiutandoli a dotarsi di una sorta di “valigia
di sicurezza”, accompagnandoli gradualmente verso
quell’orizzonte chiamato adultità, favorendo
l’autonomia, l’autostima e il benessere.
La sfida è educare alle emozioni
Maria Aurino 23
Life skill
La gestione delle emozioni cioè essere consapevoli di come le
emozioni influenzano il comportamento, così da riuscire a
gestirlo in modo appropriato, è stata inserita dall’organizzazione
mondiale della sanità , sin dal 1993, tra le life skills indispensabili
per vivere, soprattutto rispetto a una realtà sempre più
globalizzata e complessa come quella attuale.
Maria Aurino 24
GESTIONE DELLE DINAMICHE AFFETTIVE
L’insegnante deve possedere un sicuro equilibrio psicologico
poiché il comportamento con cui comunica, conferma o
disconferma ed è caratterizzato dai seguenti opposti:
✓ Accettazione/rifiuto
✓ Stima/disistima
✓ Gentilezza/scortesia
✓ Ottimismo/pessimismo
✓ Bontà/reattività
Maria Aurino 25
E’ questa la sfida che deve affrontare la
scuola del terzo millennio
Svolgere un ruolo socio educativo non più proteso
ad aiutare gli studenti ad apprendere, bensì a
sostenerli nella loro fatica di dare senso e significato
a ciò che vivono.
Adottare una prospettiva olistica, cioè l’integrazione
degli aspetti intellettivi, sociali, emotivi
dell’apprendimento: apprendimento che dalle
emozioni è facilitato o messo in difficoltà, perché
sono le emozioni a guidare l’apprendimento e la
memoria.
Maria Aurino 26
In Italia , l’educazione alle competenze sociali ed emotive
rappresenta il «pezzo mancante» nei curricula scolastici e
della formazione dei docenti.
Maria Aurino 27
Strategie didattiche per l’individualizzazione
Maria Aurino 1
BES=maggiore complessità di funzionamento educativo e/o apprenditivo
necessità di potenziare, rendere speciali le strategie di insegnamento
di sviluppo di competenze. Ricorso ad un approccio globale
CORNICE AFFETTIVA
CORNICE METODOLOGICA
PROCESSI DI MEDIAZIONE
c BB
NELLA MICRODINAMICA
CO
INSEGNAMENTO/
APPRENDIMENTO
Maria Aurino 3
CORNICE RELAZIONALE
Una buona relazione ha bisogno di tempo, di occasioni e di incontri ripetuti, non
dobbiamo avere fretta ( Canevaro e Chieragatti, 1999).
Una relazione sufficientemente buona per svilupparsi e consolidarsi deve agire su tre leve
fondamentali:
1)accettazione incondizionata e attribuzione di valore positivo all’alunno a prescindere
dalle sue condizioni di human functioning;
2) ascolto attivo, conoscenza, comprensione ed empatia;
3) proattività, stimolo, aiuto, accompagnamento, aspettative, azione orientata, proposta
e guida.
Queste tre classi di atteggiamenti-azioni favoriscono lo sviluppo di altrettante dimensioni
psicologiche positive nell’altro: Autostima, Identità, Sicurezza
Maria Aurino 4
Le sei coordinate principali di una relazione di qualità
AUTOSTIMA IDENTITA SICUREZZA
Proattività,
stimolo, aiuto,
Accettazione Ascolto attivo, accompagnamento,
incondizionata conoscenza, aspettative, azione
e attribuzione comprensione orientata, propositi,
di valore positivo ed empatia guida
Una relazione è buona quando desideriamo arricchirci di essa e quando, attraverso di essa, riusciamo
a costruire livelli di sviluppo più alti. Buona come fine e come mezzo
Maria Aurino 5
la relazione educativa : un modus operandi che viene da lontano
Maria Aurino 6
la relazione educativa
Maria Aurino 7
la relazione educativa: nuova visione
F. Cambi, riflettendo sul ruolo delle professioni educative afferma:
L’educare [...] è, un prendersi cura e un prendere in cura, un’attività di
sostegno e sollecitudine, di interpretazione e di affiacamento all’interno di
quel processo complesso e carico di conflitti, come di “ristagni” e di
accelerazioni, di svolte, di crisi, di incertezze, che è appunto il processo di
formazione: Stare in questo processo significa accompagnarlo, con vigilanza
e sollecitudine, ma anche di favorirne il suo sviluppo, nella direzione di una
conquista piena (la più piena possibile) dell’umano e del sociale, ovvero di
un modello di umanità il più possibile integrale e di un modello di
socializzazione attiva e responsabile.
Maria Aurino 8
la relazione educativa
Maria Aurino 9
Dalla centralità dell’adulto a quella del discente
Maria Aurino 10
I punti chiave della relazione educativa
I punti chiave della relazione educativa :
gli attori;
Maria Aurino 11
Gli attori privilegiati della relazione educativa: il
docente e il discente
L’alunno quando arriva a scuola con una serie di bisogni ed aspettative più o
meno indotte, quali: acquisire conoscenze relative ai fatti , ai luoghi e agli
oggetti, interagire con nuove persone con cui scambiare e condividere idee,
interessi, esperienze, emozioni e sentimenti, ecc..
Ognuno lo vive in maniera diversa: c’è chi manifesta, da subito, una
sicurezza;c’è chi lo vive più timidamente e con alcune riserve verso ciò e
verso chi lo circonda(necessita di tempo e flessibilità);c’è chi vive una sensazione di
smarrimento tanto da percepire ogni tipo di proposta didattica estranea ai
propri bisogni arrivando anche a rifiutarla.
Maria Aurino 12
Numerosi studi dimostrano l’esistenza di una stretta correlazione tra la
buona riuscita del percorso scolastico e la qualità dei rapporti che
l’alunno instaura con le figure di riferimento.
il ruolo del docente si fa doppiamente rilevante:
ricorso all’incoraggiamento, empatia, ascolto attivo dei bisogni e dei vissuti, nel
dialogo, nella cura, nella pratica, nella riflessione e dell’autovalutazione
Maria Aurino 13
Docente discente cooprotagonisti della scena formativa
Maria Aurino 14
cura dell’ambiente di apprendimento
Di rilevante importanza, è la predisposizione e la cura dell’ambiente
scolastico per trasformare le attività in veri e propri contesti di
apprendimento e di crescita consapevole.
La gestione e l’organizzazione degli spazi diventano variabili che
necessitano di un’attenta riflessione all’interno dei processi di
progettazione, ma anche oggetti di studio nei progetti di ricerca,
sperimentazione e sviluppo che ogni scuola può intraprendere per
migliorare e innovare le proprie performance e raggiungere queli livelli di
alta qualità dell’insegnamento delineati dal Consiglio e Parlamento
Europeo.
Maria Aurino 15
empatia e capacità di ascolto
EMPATIA:
focalizzazione sul mondo interiore dell’altro;
captare le spie emozionali
cogliere i segnali non verbali
controllare i propri schemi di attribuzione di significato
Ascolto profondo
Maria Aurino 16
Le sette regole dell’arte di ascoltare
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più
effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista,
devi cambiare punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e
chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali, se sai comprendere il loro
linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è
relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui
sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e
fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della
comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo
appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica.
Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.
(M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano, 2003)
Maria Aurino 17
Oltre le competenze:
una prospettiva pedagogica:
Maria Aurino 1
“Possiamo così considerare le vie che permetterebbero di
ritrovare, nella nostra condizione contemporanea, la finalità
della testa ben fatta. Si tratta di un processo continuo, nel
corso dei diversi gradi dell’insegnamento, in cui dovranno
essere mobilitate la cultura scientifica e umanistica.
Un’educazione per una testa ben fatta, mettendo fine alla
separazione tra le due culture, consentirebbe di rispondere
alle formidabili sfide della globalità e della complessità nella
vita quotidiana, sociale, politica, nazionale e mondiale.
Si deve dunque imperativamente ripristinare la finalità della
testa ben fatta, nelle condizioni del nostro tempo e con i suoi
propri imprevisti”
Morin, La testa ben fatta, riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero.
Maria Aurino 2
PERCHE’ LE COMPETENZE?
Le ragioni del successo del concetto di competenza
Maria Aurino 3
PERCHE’ LE COMPETENZE ?
NUOVO BISOGNO FORMATIVO
Maria Aurino 4
PERCHE’ LE COMPETENZE ?
Le ragioni pedagogiche
Maria Aurino 5
Paradigma delle competenze
Le competenze come risposta ai mutamenti sociali( Dewey)
Maria Aurino 6
Evoluzione del concetto di competenza
Maria Aurino 7
Apprendimento formale, non formale e informale
Ciò implica il riconoscimento di ogni tipo di acquisizione di conoscenze e competenze suddivisibile in
base all’ambiente di apprendimento in:
L’apprendimento L'apprendimento non
formale è il tipo di formale si svolge al di L'apprendimento
formazione che si fuori dei principali informale è la
svolge negli istituti percorsi di istruzione e formazione non
d’istruzione e di formazione e, di solito, pianificata. È un
formazione e porta non prevede certificati processo, non legato a
all'ottenimento di ufficiali. L’apprendimento tempi o luoghi
non formale avviene sul
diplomi e di qualifiche specifici, per il quale
luogo di lavoro o durante
riconosciute (per es. il la partecipazione ad
ogni individuo
diploma e la laurea). attività di organizzazioni acquisisce (anche in
Inoltre include una o gruppi della società modo inconsapevole o
varietà di programmi e civile (associazioni, non intenzionale)
di istituti specializzati sindacati, partiti politici, attitudini, valori,
per la formazione ...). Può essere fornito abilità e conoscenze
tecnica e anche da organizzazioni o dall'esperienza
servizi istituiti a
professionale; è quotidiana; non è
complemento dei sistemi
intenzionale, normato formali; è intenzionale,
intenzionale , è
e in gran parte non è sempre normato; imprevedibile.
obbligatorio;
8
VERSO UNA DEFINIZIONE
DI COMPETENZA
Maria Aurino 9
Capacità di mobilitare in modo integrato le risorse
interne- cognitive, emotive, relazionali,
motivazionali- ed esterne- soggetti , problemi,
strumenti, linguaggi, ambienti, artefatti - per far
fronte in modo efficace e continuo alle richieste
spesso inedite del contesto in cui si è impegnati.
Maria Aurino 10
Competenza: cosa comprende?
Maria Aurino 11
Le competenze nel quadro dello Human Devolopment Approach
Maria Aurino 12
Le competenze nel quadro dello Human Devolopment Approach
Maria Aurino 13
Le competenze nel quadro dello Human Devolopment Approach
Maria Aurino 14
Formare alle competenze è considerato come un insieme di tratti
che, agendo in modo interdipendente in qualità di processi e di
azione, mobilita risorse interne ed esterne necessarie ad
affrontare in modo positivo e costruttivo le sfide che emergono
da ogni aspetto della vita.
Maria Aurino 15
I DOCUMENTI INTERNAZIONALI/ONU
Maria Aurino 16
I DOCUMENTI INTERNAZIONALI/CONSIGLIO D’EUROPA
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COMPETENZE CHIAVE RACCOMANDAZIONE 22.05.2018
Competenze chiave 2018 definizione
Competenza alfabetica Indica la capacità di individuare, comprendere, esprimere, creare e
funzionale interpretare concetti, sentimenti, fatti e opinioni, in forma sia orale
sia scritta, utilizzando materiali visivi, sonori e digitali attingendo a
varie discipline e contesti. Implica l’abilità di comunicare e relazionarsi
efficacemente con gli altri in modo opportuno e creativo. Il suo
sviluppo costituisce la base per l’apprendimento successivo e
l’ulteriore interazione linguistica. La competenza alfabetica funzionale
può essere sviluppata nella lingua madre, nella lingua dell’istruzione
scolastica e/o nella lingua ufficiale di un Paese o di una Regione.
Competenza Definisce la capacità di utilizzare diverse lingue in modo appropriato
multilinguistica ed efficace allo scopo di comunicare. In linea di massima essa
condivide le abilità principali con la competenza alfabetica. La
competenza multilinguistica comprende la dimensione storica e
competenze interculturali. Si basa sulla capacità di mediare tra
diverse lingue e mezzi di comunicazione, come indicato nel quadro
comune europeo di riferimento. Secondo le circostanze, essa può
comprendere il mantenimento e l’ulteriore sviluppo delle
competenze relative alla lingua madre, nonché l’acquisizione della
lingua ufficiale o delle lingue ufficiali di un Paese.
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Competenze chiave 2018 definizione
COMPETENZE CHIAVE
Competenza matematica RACCOMANDAZIONE
A. La competenza 22.05.2018
matematica è la capacità di sviluppare e applicare il
e competenza in scienze, pensiero e la comprensione matematici per risolvere problemi in
tecnologie e ingegneria situazioni quotidiane. Partendo da una solida padronanza della
competenza aritmetico-matematica, l’accento è posto sugli aspetti
della conoscenza, del processo e dell’attività . La competenza
matematica comporta la capacità di usare modelli matematici di
pensiero e di presentazione (formule, modelli, costrutti, grafici,
diagrammi) e la disponibilità a farlo. B. La competenza in scienze si
riferisce alla capacità di spiegare il mondo che ci circonda usando
l’insieme delle conoscenze e delle metodologie, comprese
l’osservazione e la sperimentazione, per identificare le problematiche
e trarre conclusioni che siano basate su fatti empirici, e alla
disponibilità a farlo. Le competenze in tecnologie e ingegneria sono
applicazioni di tali conoscenze e metodologie per dare risposta ai
desideri o ai bisogni avvertiti dagli esseri umani. Implica la
comprensione dei cambiamenti determinati dall’attività umana e
della responsabilità individuale del cittadino
Competenza digitale La competenza digitale presuppone l’interesse per le tecnologie
digitali e il loro utilizzo con dimestichezza, spirito critico e
responsabile per apprendere, lavorare e partecipare alla società.
Comprende l’alfabetizzazione informatica e digitale, la comunicazione
e la collaborazione, l’alfabetizzazione mediatica, la creazione di
contenuti digitali (inclusa la programmazione), la sicurezza (compresa
la cibersicurezza), le questioni legate alla proprietà intellettuale, la
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risoluzione di problemi e il pensiero critico.
COMPETENZE CHIAVE RACCOMANDAZIONE 22.05.2018
Competenze chiave 2018 definizione
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COMPETENZE CHIAVE RACCOMANDAZIONE 22.05.2018
Competenze chiave 2018 definizione
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IL PROTAGONISMO DEI FUTURI INSEGNANTI NEI PROCESSI DI
SVILUPPO PROFESSIONALE ALL’UNIVERSITA’
Di
Gabriella Agrusti
Una delle principali difficoltà, ma allo stesso tempo un elemento di enorme interesse, nel
parlare di istruzione terziaria e formazione degli insegnanti, sta nel fatto che nessuno dei due
sistemi coinvolti sia statico: scuola e università sono infatti di sistemi in continua evoluzione.
Uno dei punti da chiarire inizialmente è se gli insegnanti debbano essere “istruiti”, “educati” o
“addestrati”. Parrebbe quindi che la sede più opportuna per lo sviluppo professionale degli
insegnanti sia l’università, da sempre proiettata sulla ricerca e l’innovazione. Il dibattito ha
subìto diverse inversioni di rotta ed è ancora aperto, da quando negli anni settanta
l’americano Martin Haberman, esperto di formazione degli insegnanti in contesti svantaggiati
elencando una sequela di ragioni per le quali l’università non fosse la controparte ideale nella
costruzione di un percorso di formazione della forza lavoro della scuola. La reciproca
diffidenza tra le due istituzioni prendeva l’avvio, da un lato, dalla separazione tra teoria e
prassi tipica di alcuni prodotti della ricerca universitaria, poco o per nulla spendibili nel
contesto scolastico e, dall’altro, dalla percezione di mancata proattività degli insegnanti
vincolati dalle costrizioni organizzativo-burocratiche della scuola.
Tra le accuse più incisive mosse alle istituzioni universitarie per la
formazione degli insegnanti, vi è l’idea che nemmeno i modelli e le prassi di
insegnamento universitari esperiti in prima persona dai futuri insegnanti,
per quanto coinvolgenti ed efficaci, possano essere spendibili
successivamente nei contesti scolastici, troppo distanti dall’università per
struttura, obiettivi e destinatari. Più di recente è stata avanzata la posizione
che vede nella mediazione tra scuole e università il connubio risolutivo per
gestire una efficace formazione degli insegnanti. In aggiunta a questo, i due
sistemi, scuola e università, sono in continua evoluzione. Le stesse università
si sono evolute nel corso del tempo: da istituzioni-rifugio per lo sviluppo
personale dell’inizio del Novecento, nelle quali lo studente investiva nella
propria formazione con lo scopo di riceverne benefici successivamente, a
veri e propri servizi pubblici, nei quali giovani e non più tanto giovani adulti
siano introdotti a determinati ambiti di studio o si affaccino nel corso della
vita per acquisire nuove abilità e riorientare la propria professionalità
Nemmeno il mondo della scuola è immutato, né immutabile, ancorché
qualche incursione un po’ superficiale potrebbe dare l’impressione che lo
sia. Abbracciare però l’idea di cambiamento implicita in qualsiasi percorso di
formazione, intrinseca sia alla scuola sia all’università, suggerisce due punti
di sviluppo successivi:
1.la formazione degli insegnanti non può essere ridotta ad una semplice
questione di trasmissione di conoscenze, né disciplinari, né tecnico-
operative. Si tratta di un percorso iterativo potenzialmente indefinito, che
coinvolge motivazione, consapevolezza, auto-efficacia, soddisfazione
professionale. Se così non fosse, qualsiasi altra istituzione, diversa
dall’università, potrebbe essere demandata a tale compito;
2. in tempi mutevoli quali quelli che stiamo vivendo, non possiamo
permetterci di trascurare alcuna risorsa o spunto per il cambiamento.
Le università possiedono le competenze professionali necessarie a sfidare gli assetti
precostituiti, ma nel campo della formazione degli insegnanti non possono farlo
senza il supporto delle scuole nel percorso. La formazione non è un punto fermo e
vi è la possibilità di una ricerca orientata alla formazione e alla trasformazione
dell’agire educativo e didattico, come ad esempio illustrato nella disamina delle
diverse dimensioni metodologiche della recente Ricerca-Formazione. La formazione
degli insegnanti è solitamente tripartita nella fase iniziale o pre-servizio, nella fase
di inserimento (induction) e nella fase della maturità professionale, si può
facilmente convenire sul fatto che gli obiettivi comuni dei sistemi di istruzione in
materia di formazione e reclutamento degli insegnanti siano:
• attrarre i candidati migliori sollecitandone l’inserimento nella professione
fornire una formazione iniziale e continua di qualità;
• favorire la soddisfazione professionale e lo status della professione, al fin
di mantenere insegnanti e dirigenti scolastici di qualità.
indagine sugli insegnanti promossa dall’OCSE (Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico), TALIS ha coinvolto per lo studio
principale 124.000 insegnanti di scuola primaria e secondaria inferiore (oltre ad
un campione di insegnanti degli studenti coinvolti in PISA) in 31 Paesi Rispetto
alla formazione iniziale, le raccomandazioni di TALIS indicano la necessità di
preparare gli insegnanti a lavorare in contesti multiculturali, di multilinguismo e
con livelli di abilità diverse sulla valutazione, TALIS mostra come in Italia, Il 74%
degli insegnanti valuti abitualmente i progressi dei propri studenti osservandoli
e fornendo un feedback immediato (media OCSE 79%), mentre il 69% dichiara di
usare sistemi di valutazione elaborati da loro stessi (media OCSE 77%) e il 30%
permette spesso agli studenti di valutare i loro propri progressi (media OCSE
41%). Ancora, tra le indicazioni che è possibile ricavare da TALIS, troviamo che la
formazione dovrebbe includere dei periodi di formazione obbligatoria all’estero
e la conoscenza di lingue diverse non solo per insegnarle, ma anche come
strumento di comunicazione con i futuri cittadini “globali”.
Un altro punto fondamentale è quello legato al clima di classe e alle
dinamiche relazionali tra insegnanti e allievi. Garantire un contesto di
sviluppo protetto è il primo fondamentale elemento dal quale partire.
Sempre TALIS mostra come poco più della metà degli insegnanti non si
senta preparato nell’ambito della gestione della classe sebbene poi il 93%
si ritenga in grado di controllare comportamenti di disturbo. In
particolare, per migliorare la formazione iniziale degli insegnanti, l’OCSE
auspica la ideazione e promozione di standard di insegnamento che
definiscano esattamente ciò che viene richiesto insegnanti quando
iniziano la formazione e quando sono pronti per iniziare ad insegnare.
Sicuramente i dati ci dicono quanto sia importante fornire un supporto
“su misura” per gli insegnanti neoassunti, visto che nei primi anni di
carriera tendono a lavorare in scuole più difficili che hanno
concentrazioni più elevate di studenti provenienti da situazioni socio-
economiche svantaggiate e/o con un background migratorio
Ciò significa che è indispensabile fornire ai futuri insegnanti gli strumenti
concettuali e operativi per poter affrontare la diversità intesa nella più ampia
accezione del termine Certo non si tratta di dati allarmanti, ma di una spia che
segnala come la “fuga” sia una reazione ben presente in seguito alle prime
esperienze di insegnamento, quasi a ricordarci che il già citato “flee” di
Haberman sia ancora molto attuale. Un con testo nel quale, tipicamente, gli
insegnanti con più di cinque anni di esperienza riescono a svincolarsi dal peso
dei compiti amministrativo-burocratici e dall’incidenza della gestione del
gruppo classe, per concentrare la maggior parte del tempo sulle effettive
attività didattiche, a differenza dei neoassunti, maestro fresco di nomina tocca
la “classe di risulta, di scarti” che ha “alleggerito” le altre dei soggetti più
difficili Nel corso della formazione iniziale, il 64% degli insegnanti italiani ha
affrontato i contenuti delle materie, nozioni generali di pedagogia e legate alla
pratica in classe. Tale percentuale è inferiore a quella media dei paesi OCSE e
delle economie che partecipano a TALIS (79%).
La progettazione di percorsi universitari organici finalizzati a sviluppare la
professionalità docente, che contrastino la frammentarietà e provvisorietà
dell’offerta formativa rivolta agli insegnanti, futuri e in servizio, potrebbe
giovarsi sia di maggiore attenzione alla fase di avviamento alla professione
e di uno scambio stabile con le istituzioni scolastiche accoglienti, sia della
definizione di standard minimi per garantire un monitoraggio in itinere e
una valutazione degli esiti di tali percorsi. valore aggiunto determinato
dall’individuare nell’università l’alveo preferenziale per la pianificazione e
implementazione di tali percorsi potrebbe essere collegato a doppio filo
con la necessità di fornire, al futuro insegnante, “un’iniziazione alla ricerca
scientifica in educazione gli darà gli elementi essenziali per individuare
soluzioni originali ed appropriate per i problemi professionali che gli si
pongono dinanzi quotidianamente” (Mialaret, 1989, p. 145).
Non si auspica con questo di fare di tutti gli insegnanti dei ricercatori, bensì
di renderli protagonisti autonomi della propria crescita professionale,
impegnandosi per l’ottimale risoluzione di un itinerario di apprendimento
centrato sulla rilevazione dei livelli di partenza, sull’analisi degli obiettivi
che ci si prefigge di raggiungere, sulle evidenze prodotte dalla ricerca nel
settore, sullo sviluppo delle capacità cognitive e tecnico-strumentali
funzionali ad intervenire efficacemente nel contesto di insegnamento-
apprendimento e da ultimo aprendosi ad un confronto sistematico
INTELLIGENZE MULTIPLE: COME RICONOSCERLE E SVILUPPARLE NELLA CLASSE
RICERCA INTERNAZIONALE
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quella persona dal suo ambiente naturale e chiederle di svolgere dei singoli compiti che
non ha mai fatto prima — e che probabilmente non farà più neanche dopo. In questo
modo, Gardner suggerisce agli insegnanti di considerare l’intelligenza come la capacità
di risolvere problemi e realizzare prodotti in contesti ricchi e simili a quelli naturali di
vita del bambino4 anziché attribuire, com’è tradizione, grande importanza alla capacità
di ottenere punteggi elevati ai test.
34
INTELLIGENZE MULTIPLE: COME RICONOSCERLE E SVILUPPARLE NELLA CLASSE
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questi, Armstrong6 individua i seguenti: ogni persona possiede tutte le otto intelligenze,
ossia ha capacità connesse a ciascuna; naturalmente, le otto intelligenze funzionano in
modo diverso da persona a persona. Alcune persone mostrano elevati livelli di sviluppo
in tutte otto le aree, mentre altre hanno livelli più bassi in tutte. La maggior parte delle
persone si colloca in posizione intermedia tra questi due estremi, per cui si possono
avere alcune intelligenze molto sviluppate e altre meno. Gli studenti con disabilità o
difficoltà di apprendimento spesso evidenziano deficit nelle intelligenze verbale-lin-
guistica e logico-matematica, ma hanno punti di forza in altre. Purtroppo, la scuola
privilegia soltanto le prime due.
La teoria delle intelligenze multiple può essere definita come una filosofia del-
l’educazione o un atteggiamento verso l’apprendimento, conforme allo spirito delle
idee di John Dewey,7 più che come un programma con tecniche e strategie specifiche.
Come tale, essa offre agli insegnanti ampie opportunità di adattarne creativamente i
principi fondamentali a qualsiasi contesto educativo. Le implicazioni di questa teoria sul
piano dell’innovazione e delle applicazioni didattiche sono principalmente lo sviluppo
di strategie di insegnamento alternative, l’adattamento dei curricoli e la creazione di
modalità diverse per la valutazione. L’utilità di introdurre la prospettiva delle intelli-
genze multiple in classe è dimostrata dal fatto che gli studenti con scarso rendimento e
demotivati, coinvolti in attività basate sui suoi principi, hanno migliorato notevolmente
le loro prestazioni.8
Nella classe in cui si applica la prospettiva delle intelligenze multiple, il ruolo
dell’insegnante è molto diverso da quello tradizionale.9 Nella classe tradizionale, l’inse-
gnante presenta la lezione stando alla cattedra, scrive alla lavagna, pone domande agli
alunni riguardo alle letture assegnate, aspetta mentre gli alunni finiscono i loro compiti
scritti. Diversamente, in una classe di «intelligenze multiple», l’insegnante cambia
frequentemente le modalità di presentazione dei contenuti — passando dal linguag-
gio verbale, ai formati visuospaziali, musicali, ecc. — coinvolgendo creativamente le
diverse intelligenze. Di seguito vediamo alcuni aspetti dell’applicazione pratica della
teoria delle intelligenze multiple.
Strategie di insegnamento
35
DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO N. 1, OTTOBRE 2005
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di insegnamento, finora limitato alle modalità verbali e logiche.10 Secondo uno studio
di Goodlad,11 nel quale sono state osservate più di 1.000 classi in tutti gli Stati Uniti,
quasi il 70% del tempo disponibile in classe viene utilizzato dall’insegnante per parlare,
generalmente agli — e non con gli — alunni (spiegando, dando istruzioni, ecc.). Altro
rilievo importante è la quantità di tempo impiegata dagli studenti a fare compiti scritti,
«lavoro che in buona parte consiste nel rispondere a istruzioni fornite dal libro di testo
o da schede».12 In questo quadro, la teoria delle intelligenze multiple può rappresentare
non soltanto un rimedio all’unilateralità dell’insegnamento ma anche uno strumento
organizzativo che facilita e migliora la pedagogia attuale, suggerendo un’ampia gam-
ma di situazioni stimolanti per risvegliare le menti sonnecchianti che Goodlad teme
popolino tutte le scuole.
La teoria delle intelligenze multiple permette di realizzare ciò che i buoni insegnanti
fanno da sempre, cioè andare al di là del libro di testo e dare agli studenti un ventaglio
diversificato di opportunità per apprendere e dimostrare il proprio apprendimento. La
teoria delle intelligenze multiple fornisce agli insegnanti una cornice di riferimento
per riflettere sui loro metodi didattici più efficaci e per comprendere perché funzionino
(o perché funzionino bene con alcuni studenti e non con altri). Aiuta inoltre gli inse-
gnanti ad arricchire il proprio repertorio con un’ampia gamma di metodi, materiali e
strategie per «agganciare» classi sempre più eterogenee. Un altro aspetto importante
è che evidenzia il fatto che nessuna strategia di insegnamento può risultare efficace
per tutti gli alunni, dal momento che ognuno ha profili diversi di intelligenze, per cui
una qualsiasi strategia può essere molto efficace con alcuni alunni e meno con altri.
Per esempio, l’uso di ritmi e filastrocche come strumento di insegnamento incontrerà
probabilmente un’ottima accoglienza da parte degli alunni con una spiccata intelligenza
ritmico-musicale, ma lascerà indifferenti gli altri. Similmente, l’uso di immagini e altre
rappresentazioni grafiche sarà congeniale agli alunni con una spiccata intelligenza
visuospaziale, mentre non lo sarà per quelli con maggiori attitudini di tipo verbale o
corporeo-cinestetico.
L’esistenza di differenze individuali anche accentuate tra gli studenti richiede
all’insegnante di utilizzare una varietà di strategie didattiche. In questo modo, alter-
nando modalità di trattazione dei contenuti, ci sarà sempre un momento in cui l’attività
in classe coinvolge pienamente le intelligenze più sviluppate di ciascun alunno. Per
quanto riguarda gli alunni con disabilità, attualmente a scuola si lavora per la maggior
parte del tempo proprio con le intelligenze nelle quali sono più deboli. Alternando le
modalità di lavoro è possibile sia stimolare lo sviluppo delle intelligenze nelle quali
l’alunno è più debole sia permettergli di apprendere mettendo in campo le sue risorse
e punti di forza negli altri tipi di intelligenza. Nelle figure 1 e 2 vengono presentati
esempi di come si può lavorare su alcuni argomenti del curricolo (le frazioni) coinvol-
gendo tutte le intelligenze.
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INTELLIGENZE MULTIPLE: COME RICONOSCERLE E SVILUPPARLE NELLA CLASSE
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(continua)
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DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO N. 1, OTTOBRE 2005
(continua)
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(continua)
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INTELLIGENZE MULTIPLE: COME RICONOSCERLE E SVILUPPARLE NELLA CLASSE
(continua)
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DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO N. 1, OTTOBRE 2005
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Le modalità di valutazione
Titolo originale
Multiple intelligence for every classroom. Tratto da «Intervention in School and Clinic», vol. 39,
n. 2, 2003. © Pro-ed. Pubblicato con il permesso dell’Editore. Traduzione italiana di Carmen
Calovi.
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INTELLIGENZE MULTIPLE: COME RICONOSCERLE E SVILUPPARLE NELLA CLASSE
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Intelligenza Totale
Logico- matematica Penso Sono bravo
(bravo con che ci sia una nel calcolo
i numeri) spiegazione mentale
razionale per
quasi tutte le cose
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DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO N. 1, OTTOBRE 2005
www.erickson.it/sostegnosuperiori
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Dewey J. (1992), Democrazia e educazione, to assess student learning, Palatine, IL, IRI/
Roma, La Nuova Italia. Skylights Publishing.
42
SULLA FORMAZIONE DEI DOCENTI
DI
BEPPE BAGNI
IL MONDO DELLA SCUOLA IN QUESTI ANNI È PROFONDAMENTE CAMBIATO, IL SUO CAMPO D’AZIONE
ADESSO DOVREBBE PREVEDERE LA CAPACITÀ DI GESTIONE DELLA PROPRIA PROPOSTA FORMATIVA, LA
RICERCA E SPERIMENTAZIONE DIDATTICA, I RAPPORTI COL TERRITORIO E CON LE ALTRE SCUOLE CON CUI
CONDIVIDERE PERCORSI E PROGETTI. È UN’AUTONOMIA FUNZIONALE CHE PUÒ PORTARE AL
MIGLIORAMENTO DELL’APPRENDIMENTO, SE E SOLO SE IL DOCENTE AVRÀ DENTRO DI SÉ LA COMPETENZA
DISCIPLINARE PEDAGOGICA E PSICOLOGICA NECESSARIA A DIALOGARE ED AFFIANCARSI AI SUOI STUDENTI
AGENDO DI CONSEGUENZA AI BISOGNI CHE SA RICONOSCERE IN LORO. MA NON BASTA, DEVE AVERE
ANCHE CAPACITÀ ORGANIZZATIVE NELLA PER LA COSTRUZIONE DI RETI TRA SCUOLE NATE DAL BASSO E
FINALIZZATE NON ALLA CONCORRENZA BENSÌ ALLA CRESCITA DELLA COOPERAZIONE, NELLA
CONSAPEVOLEZZA CHE L’UNITÀ EVOLUTIVA NON È UN ALUNNO ISOLATO MA L’“ALUNNO NEL SUO
TERRITORIO”, CULTURALE, SOCIALE, FAMILIARE. CHI ALTRO SE NON L’INSEGNANTE, PUÒ POTENZIARE IL
DIALOGO CON I GENITORI BASATO SUL PRINCIPIO DELLA CORRESPONSABILITÀ EDUCATIVA E SVILUPPARE LA
COLLABORAZIONE TRA TUTTI I SOGGETTI CHE NEL TERRITORIO SVOLGONO FUNZIONI EDUCATIVE E
FORMATIVE DIVERSE, MA RIVOLTE COMUNQUE AI SUOI STESSI ALLIEVI?
IL “PATTO TERRITORIALE SULLA SCUOLA” E` LO STRUMENTO PIÙ EFFICACE (SE SOSTANZIALE E LIBERO DA PESI
BUROCRATICI) PER TALE COMPITO:
• FAR INTERAGIRE LA COMPETENZA E LA RESPONSABILITÀ DEL FARE SCUOLA (LEGATA ALLA
PROFESSIONALITÀ DI CHI OPERA NELLA SPECIFICA SITUAZIONE E A QUELLA DELLA RICERCA) CON LA
COMPETENZA E LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI LOCALI;
• SOSTENERE LA PARTECIPAZIONE COMPETENTE DEI CITTADINI CHE CON QUELLA SCUOLA COSTRUIRANNO
LEGAMI SOCIALI E CULTURALI IN GRADO DI RAPPRESENTARE UN RIFERIMENTO VITALE.
LA SCUOLA ESCA DALL’AUTOREFERENZIALITÀ, I GENITORI SFIDINO E AIUTINO LA SCUOLA A FARCELA, GLI
STUDENTI PRETENDANO UNA SCUOLA “IMPORTANTE” E SIGNIFICATIVA PER LA LORO VITA, GLI
AMMINISTRATORI DEGLI ENTI LOCALI CONSERVINO LA GRINTA CON CUI SI SONO SCHIERATI A FIANCO
DELLA SCUOLA IN QUESTI MESI. SERVONO RISORSE ECONOMICHE MA ANCHE DI INTELLIGENZA, DI
PENSIERO. SERVE SOPRATTUTTO, E IN QUESTO MOMENTO IN PARTICOLARE, LA POLITICA. SE VOGLIAMO
REALIZZARE UN CAMBIAMENTO SOSTANZIALE ALLORA IL RUOLO DELLA PROFESSIONALITÀ DEGLI
INSEGNANTI RISULTERÀ DETERMINANTE.
CERTO BISOGNA TENER PRESENTE LE COMPETENZE CHE SONO ALLA BASE DEL FARE SCUOLA E DEL PROCESSI
NECESSARI PER FORMARLE E SVILUPPARLE, AVENDO PERO` SEMPRE IN PRIMO PIANO LA DIMENSIONE
COOPERATIVA E COLLEGIALE IN CUI SI ESERCITANO E IL RUOLO SOCIALE DELL’INSEGNAMENTO. SI
POSSONO RICONDURRE PREVALENTEMENTE A SEI AREE:
1. LE COMPETENZE DISCIPLINARI, OVVERO QUEL BAGAGLIO CULTURALE CHE OGNI DOCENTE DEVE
POSSEDERE RELATIVAMENTE ALLE MATERIE DI INSEGNAMENTO. TALI CONOSCENZE DOVRANNO ESSERE
SOLIDE, BEN STRUTTURATE, DA AGGIORNARE CONTINUAMENTE. NON C’E` RELAZIONE O MEDIAZIONE
DIDATTICA CHE FUNZIONI SE IL DOCENTE NON POSSIEDE LE COMPETENZE DISCIPLINARI NECESSARIE PER
INSEGNARE.
2. LE COMPETENZE EPISTEMOLOGICO-DIDATTICO LEGATE ALLE SINGOLE DISCIPLINE, CHE CORRISPONDONO
ALLA CAPACITA` DI UTILIZZARE LE COMPETENZE DISCIPLINARI PER FIN EDUCATIVI: SAPER PADRONEGGIARE IL
PROPRIO SAPERE A SECONDA DELL’ETÀ DEI RAGAZZI, DEGLI OBIETTIVI STABILITI, DEI RITMI DI
APPRENDIMENTO DI BAMBINI E RAGAZZI, DEI LORO INTERESSI.
3. LE COMPETENZE PSICO-PEDAGOGICHE, NECESSARIE PER ENTRARE IN RAPPORTO CON GLI ALLIEVI, PER
REALIZZARE UNA POSITIVA COMUNICAZIONE DIDATTICA, UNA PROFICUA RELAZIONE EDUCATIVA; PER
RICONOSCERE I PROBLEMI TIPICI DELLE VARIE FASI DI ETÀ, LE DINAMICHE E I CONFLITTI CHE NASCONO
ALL’INTERNO DELLA CLASSE, TRA GLI ALUNNI O TRA ALUNNO E INSEGNANTE; PER RICONOSCERE I PROBLEMI
E SAPERLI GESTIRE.
4. LE COMPETENZE RELATIVE ALLE TECNOLOGIE DIDATTICHE DIGITALI, IMPORTANTI PER ORGANIZZARE
L’APPRENDIMENTO IN AULA E, SPECIFICAMENTE PER L’USO DEL COMPUTER E DELLA RETE, PER INSEGNARE AI
RAGAZZI COME SELEZIONARE IL MATERIALE SCARICABILE DA INTERNET, COME AVVALERSENE PER UN
APPRENDIMENTO SISTEMATICO E DURATURO, OLTRE CHE PER TUTTE LE OPERAZIONI DIDATTICHE CHE CON
TALI TECNOLOGIE SI POSSONO FARE.
5. LE COMPETENZE ORGANIZZATIVE E DI RELAZIONI TRA PARI, FONDAMENTALI PER COSTRUIRE IL PROPRIO
PERCORSO DI LAVORO CON I COLLEGHI DEL CONSIGLIO DI CLASSE, DI UN DIPARTIMENTO DISCIPLINARE, DI
UN GRUPPO DI PROGRAMMAZIONE, CON I PROPRI ALUNNI, CON L’EXTRASCUOLA. LA CAPACITA` DI
LAVORARE INSIEME AI PROPRI COLLEGHI, ANCHE DI ORDINI DI SCUOLA PRECEDENTI E SUCCESSIVI, IN
FUNZIONE DELL’ATTUAZIONE DEL CURRICOLO VERTICALE È DECISIVA. SENZA ESSA GLI ALUNNI NON
POTRANNO CHE FORMARSI UN’IDEA FRAMMENTATA E INCOERENTE DELLA LORO SCUOLA.
6. LE COMPETENZE DI RICERCA E SPERIMENTAZIONE, INDISPENSABILI A INDIVIDUARE I PERCORSI DIDATTICI
PIÙ EFFICACI, LE METODOLOGIE E LE STRATEGIE PIÙ UTILI, ANCHE AI FINI DEL SOSTEGNO E DEL RECUPERO,
DELL’APPROFONDIMENTO E DEL PERFEZIONAMENTO DI CONOSCENZE E ABILITA`. TALE COMPETENZA NON
PUÒ SVILUPPARSI SENZA UN RACCORDO STRETTO E DEL TUTTO NUOVO CON L’UNIVERSITÀ.
LA PROFESSIONE INSEGNANTE E` COMPLESSA, COLLEGIALE, SOCIALE MA RESTA UNICA. UNA UNICITÀ CHE
LE DIVERSE COMPETENZE NON INTACCANO: PROGETTARE, GOVERNARE E VALUTARE APPARTENGONO ALLA
STESSA FIGURA
RIMANE CERTAMENTE IMPORTANTE RAGIONARE SULLA LIBERTA` DI INSEGNAMENTO. LA LIBERTA`
DELL’INSEGNAMENTO ASSUME LA FUNZIONE DI GARANZIA COSTITUZIONAL