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sentenza n.

21748 del 2007


La sentenza della Cassazione sul caso riguardante Eluana Englaro, in condizione di stato
vegetativo permanente da anni, sottoposta a trattamenti di idratazione e nutrizione artificiali
mediante sondino naso gastrico, è sintomatica per il panorama italiano in tema di fine vita.
Innanzitutto la sentenza ricostruisce alcune tappe dell’iter processuale sul caso:

- viene menzionato il decreto del Tribunale di Lecco (02/02/2006) che dichiarava inammissibile il
ricorso del tutore volto a chiedere l’emanazione di un ordine di interruzione dell’alimentazione e
respirazione forzate. Il Tribunale sosteneva che la richiesta non potesse essere accolta,
trattandosi di diritti personalissimi del soggetto e di contrasto con gli artt. 2, 13, 32 della
Costituzione, in quanto, essendo in presenza di soggetto incapace, il conflitto tra
l’autodeterminazione e diritto al rifiuto dei trattamenti, da un alto, e il diritto alla vita, dall’altro,
era solo ipotetico e doveva risolversi a favore di quest’ultimo;

- segue nell’analisi il decreto della Corte d’appello di Milano (16/12/2006) che dichiarava
ammissibile il ricorso (perché il consenso o rifiuto della terapia spettava al rappresentante legale
dell’incapace, come rientrante tra i suoi doveri di cura dell’assistito), ma lo rigettava nel merito
per insufficienza di dati nella ricostruzione della volontà della ragazza e per il fatto di equiparare
l’interruzione dell’alimentazione ad un’eutanasia indiretta omissiva, ritenendo così che non si
potesse configurare un diritto a morire analogo al diritto alla vita e che nel bilanciamento tra
autodeterminazione, dignità della persona e diritto alla vita andasse preferito il diritto alla vita,
sulla base della “collocazione sistematica (art.2) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (art.
13 e 32), all’interno della Costituzione”.

Dopo aver ricostruito l’iter giudiziario pregresso, la Corte di Cassazione esamina il ricorso del
tutore, il quale chiede che venga affermato come principio di diritto il divieto di accanimento
terapeutico, sostenendo che i trattamenti subiti dalla paziente siano invasivi della sua integrità
fisica (tutelata ex art. 13 Cost.) e che le sia impedito di disporre del proprio corpo e di rifiutare i
trattamenti sanitari (ex art. 32 Cost.), e precisando che l’indisponibilità e irrinunciabilità del
diritto alla vita (ricavato dall’art. 2 Cost.) debbano essere interpretate nel senso di evitare che
altri si arroghino arbitrariamente il diritto di interrompere la vita altrui, dal momento che spetta
solo al suo titolare la decisione in merito. Per il ricorrente, quindi, l’individualità umana e la
dignità, fondate sugli art. 2-13-32 della Costituzione, andrebbero perdute se un’altra persona
potesse illimitatamente ingerirsi nella sfera personale dell’incapace per manipolarla fino al
punto di imporre il mantenimento delle funzioni vitali.

La sentenza della Cassazione inizia affermando che preliminare è la questione delle dichiarazioni
di Eluana, se cioè corrispondano, in generale, ai suoi convincimenti sul significato della dignità
della persona. La Corte collega questi convincimenti al tema del principio del consenso
informato che legittima e fonda ogni trattamento sanitario e che trova fondamento nelle norme
della Costituzione (artt.2, 13, 32), le quali ammettono il rifiuto delle terapie in virtù del principio
personalistico, del rispetto dell’integrità fisica da trattamenti e intrusioni indesiderate e del fatto
che il diritto alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela anche del suo risvolto
negativo. L’obbligo giuridico del medico di praticare e continuare la terapia cessa quando il
consenso del paziente viene meno e ad esso si sostituisce il dovere giuridico del medico di
rispettare la volontà del paziente contraria alle cure. I medesimi principi valgono pure nei casi di
soggetti incapaci, ove il dualismo della relazione medico-paziente va ricostruito attraverso il
legale rappresentante che deve “prendersi cura” anche della salute del rappresentato. Il diritto
alla salute è definito come diritto personalissimo del soggetto, sul quale il tutore può esprimersi
solo in presenza di due condizioni: agendo nell’esclusivo interesse dell’incapace (best interest) e
decidendo con l’incapace nella ricerca del best interest.

Pertanto, anche i malati in stato vegetativo permanente godono del diritto al rifiuto dei
trattamenti sanitari e possono far sentire la loro voce tramite i loro rappresentanti legali.

La Corte prende poi in considerazione l’idratazione e alimentazione artificiali con sondino


nasogastrico e, allineandosi al parere della maggioranza della comunità scientifica
internazionale, li dichiara trattamenti sanitari. Rigetta, però, la pretesa di considerare il
trattamento a cui è sottoposta Eluana come un accanimento terapeutico, dal momento che esso
“rappresenta piuttosto un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale, salvo
che nell’imminenza della morte, l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze
fornite o che sopraggiunga uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla
particolare forma di alimentazione” (punto 8). Al giudice non può essere chiesto di ordinare il
distacco del sondino, quanto il controllo della legittimità della scelta da parte del tutore nel best
interest dell’incapace. Pertanto “ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione del potere di
rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato,
consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi” (punto 7.5), ovvero
“(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico,
irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a
livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un
qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo
esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova
chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal
suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di
cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona” (punto 8).

Nel caso in cui l’una o l’altra condizione manchi, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo
allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita.
In conclusione la Corte cassa la sentenza della Corte d’Appello milanese, rilevando che essa ha
omesso di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento, presentata dal padre in veste
di tutore, riflettesse gli orientamenti di vita della figlia e la volontà di questa, la quale può essere
desunta anche dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dal suo complessivo sistema di
vita,Perciò la causa viene rinviata ad una diversa sezione della Corte d’appello di Milano.

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