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La memoria e l'identità - J. Candau

Antropologia (Sapienza - Università di Roma)

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LA MEMORIA E L’IDENTITÀ

JOËL CANDAU

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CAPITOLO I
MEMORIA E IDENTITÀ: DALL’INDIVIDUO ALLE RETORICHE OLISTICHE

Secondo Buñuel, la memoria è ciò che costituisce tutta la nostra vita (Buñuel, 1994).
La conoscenza di sé, come nota Lacoste, «s’incammina necessariamente sui sentieri
di una memoria di se stessi» (Lacoste, 1990).
Memoria e identità sono strettamente legate fra loro, si fondono per produrre una
traiettoria della vita, una storia, un mito, un racconto. Questa correlazione assai
complessa è oggetto di studio nel campo delle scienze umane e sociali.
Se è vero che l’identità, la memoria e il patrimonio sono le fondamenta della
coscienza contemporanea, è altrettanto vero che il patrimonio è una dimensione
della memoria, ed è la memoria (sotto forma di rappresentazioni, mito-storie,
credenze, riti, saperi, eredità, ecc.) che rafforza l’identità, sia a livello individuale che
collettivo.

I tre tipi di memoria

Le nozioni di «memoria» e «identità» sono ambigue in quanto tutte e due


assumono sotto lo stesso termine di rappresentazioni un concetto operativo nel
campo delle scienze umane e sociali. Esiste, in una prospettiva antropologica, una
tassonomia delle differenti manifestazioni di memoria:

1) La protomemoria, detta anche memoria di basso livello, che, come il


«protopensiero», non può essere separata dall’attività in corso e dalle sue
circostanze (Dummet, 1991). L’antropologia deve privilegiarla: queste
protomemorie – di cui, generalmente, gli individui non possono parlare –
costituiscono il sapere e l’esperienza più resistenti e meglio condivisi dai
membri di una società (Bloch, 1995). Sotto questo termine si può collocare la
cosiddetta «memoria-abitudine» di Bergson, ma anche la «memoria sociale
incorporata» (un ottimo esempio è la circoncisione praticata dagli ebrei), i
molteplici apprendimenti acquisiti durante la vita, come la memoria del gesto e
tutte quelle abitudini nel linguaggio verbale e gestuale che vengono trasmesse
dalla società e che l’individuo ripete senza che se ne renda pienamente conto. In
altre parole, la protomemoria è alla base del modo di comportarsi, di parlare, e
perciò di sentire e pensare (Bordieu, 1980). Questa forma di conoscenza, o
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senso pratico, è ciò che permette di agire come si deve senza formulare né
realizzare una norma, cioè senza presa di coscienza (Bordieu, 1998). Se andiamo
in bicicletta senza cadere ciò è grazie alla protomemoria. Nella nostra vita
quotidiano mettiamo in moto, senza rendercene conto, molteplici ricordi,
recenti o passati.

2) La memoria propriamente detta, o di alto livello, che è essenzialmente una


memoria di richiamo o di riconoscimento. Sotto questo nome vanno i ricordi
autobiografici o appartenenti alla memoria enciclopedica (saperi, credenze, miti,
ecc.). La memoria di alto livello dipende direttamente dalla facoltà di memoria.

3) La metamemoria, ossia la rappresentazione che ogni individuo si fa della propria


memoria (per esempio, quando raccontiamo storie particolari che ci riguardano,
al fine di fare un’impressione di un certo tipo). Essa concorre alla costruzione
esplicita dell’identità e, come la memoria di alto livello, dipende dalla facoltà di
memoria, essendo una sua rappresentazione.

A questo punto sorge la domanda: esiste una memoria collettiva? Sicuramente i


membri di una stessa società hanno in comune certi modi di essere (gestuali, modi
di dire e di fare) acquisiti durante la socializzazione precoce, modi di essere che
contribuiscono a definirli e che essi hanno memorizzato senza averne coscienza. Da
questo punto di vista si può dunque affermare che esiste un nucleo memoriale – ciò
che Ernest Gellner chiama «capitale cognitivo fisso» (Gellner, 1986) – condiviso
dalla maggioranza dei membri di un gruppo e che dà a questo un’identità dotata di
una determinata essenza.
Questa asserzione, alla quale gli studi etnografici danno un indubbio peso, resta
tuttavia esposta alla critica per almeno due ragioni:
a) Da una parte sembrerebbe abusivo utilizzare le espressioni «identità culturale» o
«identità collettiva» per designare uno stato attribuito all’intero gruppo quando
soltanto la maggioranza dei suoi membri lo condivide.
b) Anche se ci si limita a uno stato esclusivamente «protomemoriale», è da scartare
l’ipotesi assolutamente inverosimile che tutti i membri di un gruppo lo
condividano. È infatti riduttivo definire l’identità del gruppo unicamente a
partire dalla protomemoria.

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Le retoriche olistiche

Per «retoriche olistiche» s’intendono le totalizzazioni alle quali procediamo


impiegando termini, espressioni, figure miranti a designare degli insiemi ritenuti
all’incirca stabili, duraturi e omogenei. Un approccio olistico è uno studio
dell’oggetto nella sua totalità. Si designa in questo modo sia un raggruppamento di
individui (la comunità, la società, il popolo) sia delle rappresentazioni, delle
credenze, delle memorie o anche dei caratteri reali o immaginari (in genere, l’identità
etnica). Lo studio olistico ha favorito l’emergere di nozioni che hanno comportato
la finzione di uno o più soggetti collettivi, in riferimento ai casi caricaturali nei quali
si afferma che gli italiani, gli ebrei, gli inglesi pensano questo o credono quello,
arrivando a situazioni come quella dell’etnologo che cercava invano il parigino nel
metrò di Parigi (Augé, 1992).
Un buon esempio di retorica olistica, riportata da François Zonabend, è il rapporto
degli abitanti di Minot con il cimitero del villaggio. La domenica le donne vi
passeggiano, andando a visitare le tombe. Passando di tomba in tomba, esse
rievocano la vita dei defunti: è nel corso di queste passeggiate che si forgia la
memoria della comunità, che si trasmette a tutti la storia delle famiglie del villaggio.
La frequentazione regolare delle tombe permette agli abitanti – alla maggioranza di
essi, almeno – di costruire e mantenere una memoria collettiva. Tuttavia, l’esistenza
di atti di memoria collettiva (commemorazioni, costruzioni di musei, miti, racconti ,
passeggiate domenicali al cimitero) non è sufficiente per attestare la realtà di una
memoria collettiva. Anche se i ricordi si nutrono alla stessa fonte, l’unicità di ogni
individuo fa che essi non prendano necessariamente lo stesso cammino. Atti di
memoria decisi collettivamente possono delimitare una zona di circolazione dei
ricordi senza determinare più di tanto la via che ognuno seguirà. Infatti due
osservatori non condividono mai esattamente la stessa esperienza. Alcune strade
sono l’oggetto di un’adesione maggioritaria, oppure seguiranno altre strade appena
segnate: in questo caso la condivisione memoriale sarà debole, quasi inesistente.
È importante sottolineare che la parte del ricordo che è verbalizzata (l’evocazione)
non è la totalità del ricordo stesso. La scoperta della molteplicità dei possibili
racconti di uno stesso evento, stimolati da mutevoli contesti, ha una considerevole
portata antropologica: essa mostra che la presenza del passato nel presente è molto
più complessa, ma allo stesso tempo molto più potente di quanto a prima vista si
possa pensare (Bloch, 1995). È importante dunque distinguere tra competenza e
prestazione memoriale.
Dalla confusione tra metameria e memoria collettiva può nascere parimenti
l’illusione di una memoria condivisa. Spesso si confonde il fatto che esiste una
memoria collettiva – fatto che è facilmente attestato – con l’idea che ciò che è detto,
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pensato o scritto renda conto ell’esistenza di una memoria collettiva.


Riassumendo: anche se si suppone che le rappresentazioni relative a questi atti di
memoria siano correttamente comunicate e trasmesse, niente permette di
affermare che esse siano condivise. Quando una rappresentazione mentale è
comunicata da un individuo a un altro, la maggior parte di questa resta
propria di un individuo mentre è trasformata in rappresentazione pubblica.
Di conseguenza, se le rappresentazioni pubbliche distribuite sono sempre
trasformate in rappresentazioni mentali inaccessibili, il grado di pertinenza
delle retoriche olistiche, che si suppone descrivano la condivisione delle
rappresentazioni, sarà sempre impossibile da valutare. Per esempio la
memoria che ciascun abitante di Minot ha di una persona defunta differirà in
proporzione più o meno grande dalla memoria di ogni altro abitante, in funzione
della sua storia personale, di quella della sua famiglia, ecc. In queste
condizioni è chiaro che l’espressione «memoria della comunità» risulta
piuttosto ambiguo. Occorre, in questo caso, distinguere tra rappresentazioni
fattuali e rappresentazioni semantiche. Quando una retorica olistica
rinvia a delle rappresentazioni fattuali che si suppone siano condivise da un
gruppo di individui, c’è una forte probabilità che il suo grado di pertinenza sia
elevato. Quando una retorica olistica rinvia a delle rappresentazioni semantiche
che si suppone siano condivise da un gruppo di individui (per esempio,
rappresentazioni relative a dei dati fattuali), c’è una forte probabilità che il suo
grado di pertinenza sia debole e persino nullo.
Sorge quindi questa domanda: come valutare il grado di pertinenza delle
retoriche olistiche applicate a delle rappresentazioni fattuali e a quelle semantiche?
Possiamo dire che quando vi è la condivisione da parte di tutti i membri di un
gruppo della credenza in fenomeni derivanti da una constatazione, il grado di
pertinenza della retorica olistica è elevato. Tuttavia, il risultato della
constatazione non è evidente, ma è spesso relativo a un sistema di valori, di
credenze e di teorie diverse (Descombes, 1996).
Di conseguenza, ogni volta che si dice «è stato detto», l’unanimità è impossibile, e
il presupposto della condivisione (di idee, di credenze, di ricordi) che veicolano
le retoriche olistiche diventa problematico.
La memoria collettiva segue le leggi delle memorie individuali che, in
permanenza, influenzate più o meno dagli schemi di pensiero e di esperienza
della società, si riuniscono e si dividono, si ritrovano e si allontanano.

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Memoria forte e memoria debole

Una memoria forte è una memoria organizzatrice, nel senso che è una dimensione
importante della strutturazione di un gruppo. La probabilità di riscontrare una
memoria simile è tanto più grande quanto più è limitato il gruppo. Un ottimo
esempio di memoria forte è rappresentato dai voyageurs franco-canadesi che nel
XVIII e XIX secolo lavoravano per conto delle compagnie di pellicce trasportando
la merce sulle canoe, attraverso i grandi fiumi del Nord America. Questi uomini
trascorrevano la maggior parte dell’anno fuori casa, in mezzo a territori ancora
sconosciuti, e ciò dava loro occasione d’intrecciare frequenti rapporti con i nativi
americani, tanto che finirono con l’adottare i loro costumi, e addirittura molti di essi
sposarono le loro donne. Nonostante i contatti con questi popoli, essi seppero
mantenere i valori e le credenze propri del loro mondo: cantavano canzoni tipiche
francesi, praticavano riti attinenti alla religione cattolica, e così via.*
La memoria debole è invece una memoria senza contorni ben definiti, diffusa e
superficiale che è difficilmente condivisa da un insieme di individui la cui identità
collettiva è relativamente inafferrabile. Il grado di pertinenza delle retoriche olistiche
sarà sempre più elevato in presenza di una memoria forte, vigorosa, piuttosto che di
una memoria debole, inconsistente.

* C. Podruchny, Making the Voyageur World, 2006.

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CAPITOLO II
DALLA MNEMOGENESI ALLA IDENTOGENESI

La memoria individuale e la coscienza

La coscienza di sé non sarebbe possibile senza il ricordo o l’attesa. La memoria si


muove in tre differenti direzioni: una memoria del passato; una memoria
dell’azione; e infine una memoria dell’attesa (quella dei progetti, delle decisioni, delle
promesse). Da questo punto di vista, il rapporto che intratteniamo col tempo non è
bidirezionale, ma tridirezionale.

Memoria e ricordi

Grazie alla memoria, l’individuo mira al mondo e continuamente lo cattura,


manifesta le sue intenzioni nei suoi confronti, lo struttura, lo mette in ordine e lo
fornisce di senso. Si parla a questo proposito di «pregnanza simbolica» (Cassirer,
1989). In questo si trova una differenza radicale tra la memoria umana e quella dei
computer i quali, ricorda Claude Simon, hanno una memoria ma sono privi di
ricordi. Essi non integrano in un significato gli avvenimenti memorizzati, non ne
fanno l’oggetto di rappresentazioni che, nell’uomo, solo il risultato di un’interazione
che consiste nella congiunzione tra il mondo e l’anima. La memoria, quindi, si
appoggia sull’immaginazione. La memoria umana è rappresentativa, quella dei
computer semplicemente presentativa, incapace di scegliere di ricordare o di
decidere di dimenticare. Il ricordo non «contiene» la coscienza, ma «la sostiene, e la
manifesta».
Il ricordo del tempo passato non è il ricordo del tempo che passa, poiché la
coscienza della durata tra il momento della rimemorazione e l’evento rimembrato è
fluttuante (secondo i casi, ci sarà contrazione o estensione) e approssimativa
(«tempo fa», «l’altro giorno», ecc.) (Finley, 1965).
L’atto memoriale ha una dimensione «teologica». Da questo punto di vista, si può
considerare la memoria bachelardiana come una risposta alle interrogazioni
aristoteliche o agostiniane sul passato che non è più, sul futuro che non è ancora e
sul presente che si annulla nell’attimo stesso in cui si produce. Ricordarsi permette
di tenere insieme queste tre dimensioni temporali, come aveva osservato Kant, per
il quale la facolta timemorativa e la facoltà di previsione servono «a legare in una
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esperienza coerente ciò che non è più con ciò che non è ancora per messo di ciò
che è presente».
Il tempo del ricordo è inevitabilmente differente dal tempo vissuto: ciò spiega i
numerosi casi di abbellimento di ricordi sgradevoli. Il ricordo è un’imago mundi che
però agisce sull’anima mundi, aggiungendovi gli elementi successivi a quello stesso
evento passato. Per la coscienza umana, niente è mai semplicemente presentato, ma
tutto è «rappresentato». Bachelard ha parlato di risonanza poetica di ogni immagine,
favorevole all’attività di immaginazione e creazione. (Bachelard, 1999).

La totalizzazione esistenziale

Siccome ciò che determina l’identità di una persona non può mai essere realmente e
completamente rimembrato, si dovrà raccontarlo, farne un «racconto d’identità», un
discorso di presentazione di sé, che avrà la forma di una «totalità significante».
Rispondere alla domanda “chi?” significa sempre raccontare la storia di una vita. Si
parla allora di nozione «d’identità narrativa». Questa narrazione è all’origine della
totalizzazione esistenziale, è una ricostruzione resa possibile dall’attitudine
propriamente umana a mettere a distanza il passato.
Secondo Schank, l’individuo, quando racconta di sé, si appoggia ai «pacchetti di
organizzazione della memoria» (MOP, Memory organization packets). Raccontare
una storia non è una semplice ripetizione, ma un vero atto di creazione. Il narratore
raccoglie, mette in ordine e rende coerenti gli avvenimenti della propria vita
giudicati significanti e significativi nel momento stesso del racconto: restituzioni,
aggiunte, invenzioni, modificazioni, semplificazioni, arricchimenti per inferenza,
schematizzazioni, dimenticanze, censure, resistenze, non-detti, rimozioni, «vita
sognata», ancoraggi e rincoraggi, interpretazioni e reinterpretazioni. Molti racconti
di sé sono effettivamente annebbiati da diversi fenomeni come l’affabulazione
autobiografica, i riarrangiamenti mitologici, ecc.
Sarebbe un errore voler valutare questa identità narrativa a partire dai criteri del
vero e del falso, rigettando le anamnesi che non sembrano credibili, perché, come
per ogni manifestazione della memoria, c’è una verità del soggetto che viene detta
negli scarti rintracciabili tra la narrazione e la «realtà» evenemenziale.

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Come si modifica l’immagine del passato

La perfetta coincidenza tra «l’io narrante» e «l’io narrato» è impossibile. Il fatto di


dotare di coerenza la traiettoria della propria vita risponde a una preoccupazione
che si può definire estetica: essa permette al narratore di trasformare ai propri occhi
il racconto di sé in una «bella storia». In questo senso, chiunque ricordi
“addomestica” il passato, ma soprattutto se ne appropria, lo incorpora e lo segna
con la propria impronta.
Inoltre, c’è da considerare la divisione tra l’evento del passato e il ricordo di
quell’evento operata dalle esperienze vissute. In questo senso, la persona che
vorrebbe rivivere fedelmente un avvenimento appartenente alla sua vita passata
dovrebbe essere in grado di dimenticare tutte le sue esperienze successive,
comprese quelle che sta per vivere durante la narrazione. Il lavoro della memoria è
una maieutica dell’identità, sempre rinnovata a ogni narrazione.
Questo lavorio della memoria non è mai puramente individuale. La condotta del
racconto si adatta spontaneamente alle condizioni collettive della sua espressione: il
sentimento del passato si modifica anche in funzione della società

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CAPITOLO III
PENSARE, CLASSIFICARE: MESSA IN MEMORIA E MESSA IN ORDINE DEL MONDO

Per conservare il ricordo, e più in generale per pensare, è necessario memorizzare


un mondo messo precedentemente in ordine.
Secondo Claude Lévi-Strauss, la classificazione «salvaguarda la ricchezza e la
diversità dell’inventario; decidendo che bisogna tenere conto di tutto, essa facilita la
costituzione di una “memoria”». Pertanto, ricordare (come dimenticare) è
classificare, secondo modalità storiche, culturali, sociali.
Le rappresentazioni dell’identità sono inseparabili dal sentimento di continuità
temporale (identità narrativa, richiamo alla tradizione, illusione della permanenza,
fedeltà maggiore o minore ai propri impegni, messa in atto di caratteristiche
storicamente radicate nel gruppo di appartenenza).

Memoria profonda e memoria lunga

La prima operazione di messa in ordine consiste nel distinguere il passato dal


presente. L’ampiezza della memoria del tempo passato avrà un effetto diretto sulle
rappresentazioni dell’identità. La scoperta del «tempo profondo» (il tempo
geologico, poi astronomico), cambiò la rappresentazione che l’uomo si faceva del
proprio posto nell’universo. La memoria del tempo profondo può essere
opprimente perché significa la rovina della concezione antrpocentrica dell’identità
difesa da Aristotele, quando affermava che «ciò che la natura ha fatto, l’ha fatto per
gli uomini».
Mentre la memoria del tempo profondo tende a indebolire la coscienza identitaria,
la memoria lunga la rafforza. Quest’ultima è la percezione di un passato senza
dimensioni. Essa è una «visione del mondo» specifica di una collettività e dipende
dalle memorie forti. Così, ogni evocazione del passato prende l’andamento di cose
viste, s’immerge a una stessa durata, rinvia a uno stesso tempo, quello della
comunità. Un esempio di memoria lunga è dato dall’antropologo Claude Cockburn,
che riporta il racconto di alcuni ebrei incontrati in Bulgaria i quali gli riferirono di
certi avvenimenti riguardanti la loro origine accaduti molto tempo fa (quasi
cinquecento anni) in un modo che però sembrava fossero accaduti soltanto un paio
d’anni prima. In questo caso troviamo conferma che il tempo nella sua durata non è
percepito come una quantità misurabile, ma come una qualità associativa ed
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emozionale, che rinvia alle rappresentazioni che i membri di un gruppo si fanno


della loro identità e della loro storia. Infatti, il più delle volte, la memoria sembra
incapace di restituire fedelmente la durata.
L’atto della memoria isola gli avvenimenti e li svuota della loro durata, li
schematizza in qualche modo.

La memoria del «buon tempo antico»

Le memorie mitiche delle origini hanno una funzione sociale. Infatti, manifestando
spesso nostalgia per un passato dipinto con i colori del «buon tempo antico», il
narratore s’impegna in una critica della società odierna che può far trasparire
l’esigenza sottostante di cambiamenti per l’avvenire. Il contenuto della narrazione è
in questo caso una transizione tra una certa rappresentazione del passato e un
orizzonte d’attesa. Per questa stessa ragione, questa memoria portatrice di una
struttura possibile del futuro è sempre una memoria vivente.
Tuttavia vi sono dei casi, come tra i contadini della Vandea, in cui questa memoria
del buon tempo antico non funziona secondo gli schemi classici.

La memoria delle origini

Il momento dell’origine, la causa prima è sempre un nucleo centrale per la memoria


e per l’identità, tanto che il riferimento all’origine è un’invariante culturale.
Ciò che è vero per l’individuo, lo è ancora di più sul piano dei gruppi: viaggi,
racconti e testi fondatori, ecc. Il «punto zero del computo» avrà un ruolo tanto più
grande nella definizione delle identità individuali e collettive quanto più esso sarà
spostato indietro nel tempo come, per esempio, quando i franchi sostenevano di
discendere dai troiani. L’effetto massimo si ha con i miti dell’origine che hanno
come caratteristica di essere situati «fuori dal tempo», ma che tuttavia condizionano
«l’oggi del narratore». Tra i legami primordiali che sono alla base dell’etnicità, si
trova sempre il riferimento a un origine comune. L’essenziale è che questi elementi
comuni siano vissuti dal gruppo interessato (in ogni caso da una parte dei suoi
membri). Lo stesso succede con il tentativo di costruzione di un’identità nazionale.
Così, in Norvegia, il riferimento alle origini mitiche della nazione, in questo caso il
glorioso passato costituito dall’epoca vichinga e dall’inizio del Medioevo, ha svolto
una funzione essenziale nella genesi dell’identità della nazione norvegese.

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Nei racconti collettivi, i membri del gruppo presentano, a proprio so e consumo,


l’immagine del loro passato più conveniente per i loro bisogni comuni. Da qui lo
schema della purezza della trasmissione e dell’autenticità di ciò che è trasmesso a
partire dalle origini.

La memoria degli eventi

Il punto d’origine non è sufficiente perché la memoria possa organizzare le


rappresentazioni identitarie. È necessario anche un asse temporale, una traiettoria
segnata da quei riferimenti che sono gli eventi. Il ricordo dell’esperienza individuale
deriva in questo modo da un processo di «selezione mnemonica e simbolica», di
certi fatti reali o immaginari, definiti come eventi. Sono come tanti atomi
dell’identità narrativa del soggetto di cui assicurano la struttura, sempre in divenire
poiché essa dovrà integrare gli eventi successivi.

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CAPITOLO IV
IL RUOLO SOCIALE DELLA MEMORIA E DELL’IDENTITÀ: TRASMETTERE, RICEVERE

Quando Halbwachs assimila il pensiero sociale a una memoria, vuole affermare con
questo che esso deriva, essenzialmente, dalla trasmissione di un capitale di ricordi e
oblii.
Senza una messa in azione della memoria come trasmissione, non è più possibile
socializzazione né educazione e allo stesso tempo ogni identità culturale diventa
impossibile. La trasmissione è di conseguenza al centro di ogni approccio
antropologico della memoria. Calvet riassume gli schemi della trasmissione sociale
in quattro domande: cosa conservare? Come conservare? Come trasmettere? Se ne
può aggiungere una quinta: perché trasmettere?

L’esteriorizzazione della memoria

Quando l’individuo scarica il fardello della trasmissione su alcune memorie esterne,


c’è da una parte una perdita di autonomia e dall’altra una modifica delle modalità
della trasmissione: mentre nelle società tradizionali queste sono prodotte senza
mediazione, attraverso «un contatto vissuto con le persone», nelle società moderne
la trasmissione di una parte crescente della memoria è mediatizzata (libri, archivi,
computer, ecc.).
Per questa ragione, Lévi-Strauss definisce le prime «società autentiche» e conferisce
alle seconde un carattere di inautenticità, pur riconoscendo che persino nelle società
moderne esistono livelli di autenticità caratterizzati da una densità psicologica
particolare e da relazioni interpersonali forti, che possono essere osservate in un
villaggio, in un’azienda, ecc.
In ogni caso sembra che l’espansione della memoria possa diventare un ostacolo alla
trasmissione dei saperi, con la conseguenza di una dispersione, anzi una diluizione,
delle risorse identitarie necessarie alle rappresentazioni della società in termini di
riproduzione o di mantenimento della tradizione.

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Traccia e trasmissione profusa

La memoria umana si è a talmente dilatata grazie ai supporti che nessuna memoria


individuale può più pretendere di racchiuderne il contenuto. Alla fine del II
millennio si osserva un’accelerazione inaudita di questa espansione della memoria, a
tal punto che la modernità potrebbe essere definita come un tentativo di decodifica
e sottocodifica totale del mondo. Nel corso degli ultimi decenni sono state prodotte
più nuove informazioni che nei precedenti cinquemila anni. Oggi si consacra
sempre più tempo allo scambio di messaggi e di notizie. Questa produzione di
informazioni ha come corollario quella delle tracce, conseguenza del dilagare
memoriale che coinvolge la maggior parte delle società moderne. Nessuna epoca è
stata così volontariamente produttrice di archivi come la nostra, non solamente
grazie ai mezzi di riproduzione e di conservazione di cui dispone, ma grazie anche al
rispetto della traccia. Il mondo moderno produce delle tracce e delle immagini a un
livello mai raggiunto nella storia delle società umane, che sono da una parte
sottomesse alle «ideologie rassicuratrici» della storia e della memoria che le
conducono a conservare tutto, immagazzinare tutto, anzi a rendere museo la totalità
del mondo conosciuto.
Tuttavia è importante non confondere l’informazione disponibile e la sua
conoscenza. Where is the wisdom we have lost in knowledge? Where is the knowledge we have
lost in information?, scriveva Thomas S. Eliot. In effetti, la profusione di immagini e di
tracce conducono a un rischio maggiore: la confusione e l’indifferenziazione degli
eventi, dei ricordi e dei saperi e un conseguente massiccio oblio. C’è chi addirittura
vede (Virilio, 1993) le premesse di una vera e propria «industrializzazione dell’oblio»
nella mediatizzazione a oltranza dell’informazione. La proliferazione delle tracce
non garantisce affatto la qualità della memoria collettiva, anzi: addirittura potrebbe
ostruire la memoria lunga, molto spesso autonoma, bizzarra, sognatrice, ma radicata
e solida.
Gli individui, a costo di sostenere immensi sovraccarichi memoriali, sono spesso
incapaci di dare significato alle informazioni acquisite: queste sono allora presentate
ma raramente rappresentate. Siamo vicini in questo caso a quella situazione definita
dagli anglosassoni information overload, sintomo sempre più frequente nelle grandi
organizzazioni delle società moderne. In un contesto di moltiplicazione
incontrollata dei luoghi di memoria, persino i musei diventano «macchie dell’oblio
attivo» (Deoté, 1994).
È possibile che le memorie artificiali ostacolino lo scopo proclamato e diventino
invece aiutanti dell’oblio. Queste memorie rendono disponibile una grande quantità
di informazioni ma si tratta di una memoria morta, che ci esenta dal compito di
essere noi stessi i depositari viventi della memoria. Memorie meccaniche si
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oppongono alla memoria inventiva, non trasmettono ordine, né valori o


messaggi, poiché l’immagine non si nutre che della perdita, nel senso che
sempre, senza tregua, un’immagine caccia l’altra, proibendone la riflessione ed
eliminandone, di conseguenza, la capacità di trasformare il nostro rapporto
con il passato e le rappresentazioni che elaboriamo di noi stessi. Né mediatrici
né creatrici del legame sociale, le memorie artificiali, per questo stesso fatto non
permettono alla tradizione di sopravvivere e di rinnovarsi.
Un esempio di memoria «creatrice e mediatrice» è quello presente tra le
comunità francofone dell’isola di Terranova nel periodo compreso tra la prima
metà del XIX secolo – quando, cioè, le prime comunità si insediarono stabilmente
nell’isola – e gli anni quaranta di quello successivo. Fra queste comunità era usanza
comune invitare a casa propria i vicini per una serata in compagnia, quasi sempre
con un cantastorie presente. Queste riunioni familiari, conosciute come veillées
(“veglie”), occupavano tutta la serata e spesso duravano fino alle tre del mattino.
Di solito il primo a essere invitato era proprio il cantastorie (conteur); se costui
accettava, allora l’invito veniva esteso anche ai vicini e agli amici più stretti. Nella
prima parte della serata il tempo veniva impiegato giocando a carte; poi, dopo
cena, giungeva il momento più importante, il vero cuore della serata: quello
del conteur. Il racconto da lui scelto durava di solito tre ore o più, ma capitava
che certe storie erano così lunghe che occorrevano anche due sere consecutive
per terminarle. Se il conteur non era presente, allora veniva chiesto a uno
degli invitati di “sostituirlo”; ma la classica veillée prevedeva che fosse presente,
essendo lui l’attrazione principale della serata*. Queste riunioni cominciarono a
cadere in disuso con il diffondersi della televisione, e già negli anni Cinquanta la
veillée era cosa di altri tempi. La televisione prese così il posto del conteur,
depositario di una memoria inventiva, una memoria che era «creatrice e
mediatrice» del legame sociale, per cui lo stesso legame sociale ne risultava
sensibilmente deteriorato.
Le società moderne hanno probabilmente una minore capacità di trasmettere
la memoria rispetto alle comunità francofone dell’isola di Terranova, e più in
generale a quelle società con una minore espansione memoriale. Non a caso
Hervieu-Léger e Joelle Bahloul sottolineano nei loro lavori l’importanza di
quadri sociali per la trasmissione delle memoria domestica: quando questi
svaniscono, la trasmissione s’interrompe, spesso in modo irrimediabile,
provocando una mancanza, un bisogno di memoria.

* G. Thomas, The Two Traditions: The Art of Storytelling amongst French Newfoundlanders (1993)

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Ciò che conta è la capacità della memoria di creare dei legami tra gli uomini. Per
questo bisogna che essa sia creatrice e mediatrice. Ma oggi la memoria è sempre
meno questo. La tecnica, in effetti, ci disinveste dal compito di essere proprio noi i
depositari viventi della memoria: e noi ci riferiamo sempre più a queste memorie
sempre disponibili, benché morte – o disponibili proprio perché morte.

Le vie della trasmissione

Oggi si tende a sostenere che non esiste identità, collettiva e personale, che non si
forgi senza il ricorso allo scritto. Senza dubbio questo è vero, ma alcune forme di
trasmissione dell’identità meno esplicite conservano tutta la loro efficacia. È stato
dimostrato che i fondamenti della durata di una discendenza domestica si situano
nei segni memorativi (i ricordi intimi, i luoghi e il paesaggio che circondano la
proprietà, filmini e fotografie di famiglia) piuttosto che nelle carte di famiglia.
Questi segni memorativi servono ad affermare il carattere durevole del legame
familiare che a veicolare delle informazioni o a ricordare degli avvenimenti. È
probabile che l’invenzione della fotografia abbia favorito la costruzione e il
mantenimento di una memoria di determinati dati fattuali – avvenimenti storici, ma
anche fatti familiari – offrendo, simultaneamente, maggiori possibilità di
manipolazioni di questa memoria.

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CAPITOLO V
IL RUOLO SOCIALE DELLA MEMORIA E DELL’IDENTITÀ: FONDARE, COSTRUIRE

Memoria genealogica e familiare

È senza dubbio all’interno della memoria genealogica e familiare che il ruolo della
memoria e dell’identità si mostra più facilmente. L’insieme dei ricordi che i membri
della stessa famiglia condividono partecipa all’identità particolare di questa stessa
famiglia. Malgrado i diversi tentativi di fissazione di questa memoria (registri, alberi
genealogici, ecc.), la ricerca identitaria scompiglia e rimodella regolarmente le
discendenze più precise, utilizzando in permanenza la genealogia naturalizzata
(riferita al sangue e al suolo) e la genealogia simbolizzata (in riferimento a un
racconto fondatore).
La genealogia è definita come una «ricerca ossessiva dell’identità», quanto più
vigorosa quanto più le persone hanno la sensazione di essersi allontanate dalle loro
«radici». Poiché la profondità della propria memoria non va al di là di due o tre
generazioni, la paura dell’oblio investe ogni individuo. Questa paura dell’oblio si
manifesta maggiormente nelle popolazioni urbane, tagliate fuori dai «luoghi di
memoria» tradizionali, rispetto alle società rurali dove l’interconoscenza assicurava il
mantenimento, almeno per un certo tempo, della memoria degli scomparsi.
La reminescenza comune e la ripetizione di certi rituali (pasti, feste familiari) e la
conservazione collettiva dei saperi, dei riferimenti, dei momenti familiari e dei
simboli (fotografie, luoghi, oggetti, documenti di famiglia, canzoni, ricette di cucina)
sono dimensioni essenziali del sentimento d’appartenenza e dei legami familiari che
fanno sì che i membri del parentado si considerino come una famiglia.

La memoria generazionale

La memoria generazione è anche una memoria di fondazione che ha il suo posto


nel gioco identitario. Essa è la coscienza di appartenere a una catena di generazioni
successive delle quali il gruppo o l’individuo si sentono più o meno eredi. È la
coscienza di essere i continuatori dei nostri predecessori. Questa coscienza del peso
delle generazioni precedenti si manifesta in espressioni a forte carica identitaria: «i

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nostri antenati si sono battuti per noi», «le generazioni precedenti hanno lavorato
per noi», ecc.
Certe generazioni, però, come quelle degli emigranti di seconda generazione, sono
spesso generazioni senza memoria e non hanno niente da trasmettere.

Prosopopea

Ogni persona scomparsa può diventare un punto d’incontro memoriale e


identitario, tanto più facilmente se è lontano nel tempo. La prosopopea ha molte
caratteristiche dell’exemplum: idealizzazione, personaggio modello del quale sono
nascosti i difetti e magnificate le qualità, selezione dei tratti del carattere giudicati
degni d’imitazione.
Gli antenati possono avere un ruolo non solo famigliare ma anche sociale: i
messicani , per esempio, parlano a favore di civiltà indie precolombiane, delle quali
però non comprendono le lingue (il concetto di «comunità immaginate» di
Anderson). In Europa, per esempio, in vista dell’affermazione di un’identità
europea, si è usata l’immagine di Carlomagno, soprattutto nell’anno 2000,
anniversario della sua incoronazione.
Se certi antropologi considerano il culto dei morti come il fondamento stesso delle
società, se a esso viene dato il potere di rinsaldare i legami familiari e se a Minot ha
come effetto di consolidare il gruppo, è perché la memoria dei morti è essenziale
per l’identità.

Commemorare

Le commemorazioni come l’anno di Bach o l’anno di Mozart mostrano che una


società politica può scegliere di celebrare la sua appartenenza a un universo culturale
che supera le proprie frontiere. Questo lavoro di costruzione dell’identità non
concerne le sole unità statali o interstatali, ma ogni segmento della società che
intende costituirsi in soggetto politico. In questa prospettiva, questa «macchina per
risalire il tempo», che è la commemorazione, è sempre selettiva, ha il dono «di lavare
il passato».

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La memoria delle tragedie come risorsa identitaria

La memoria delle tragedie appartiene al campo degli eventi che contribuiscono a


definire il campo del memorabile. Essa è una memoria forte, lascia tracce condivise
lungamente da coloro che hanno sofferto o i cui cari hanno sofferto: ciò si
manifesta, ad esempio, nei memoriali di guerra sempre più imponenti.
Nell’ambito di una relazione col passato che è sempre elettiva, un gruppo può
fondare la propria identità su una memoria storica nutrita di ricordi di un passato
prestigioso, ma radicandolo spesso in una memoria della sofferenza comune.
L’identità storica si costruisce il larga parte facendo leva sulla memoria delle tragedie
collettive. Che la memoria delle tragedie sia una memoria forte è dimostrato, per
esempio, dal fatto che in Francia l’identità protestante si fondi in gran parte sul
ricordo delle persecuzioni. Un altro esempio è quello della disastrosa spedizione in
Antartide comandata dal capitano della marina britannica Robert Falcon Scott, tra il
1910 e il 1912. L’obiettivo principale della spedizione era quello di arrivare al Polo
Sud, ma per una serie di contrattempi Scott fu preceduto di poche settimane dal
norvegese Amundsen. Nella marcia di ritorno, lui e i suoi compagni perdettero la
vita. Nonostante questa doppia sconfitta, Scott fu celebrato dagli inglesi come se
fosse stato lui ad aver conquistato il Polo per primo, e non Amundsen; in seguito, la
marina britannica lo esaltò come un esempio da emulare per coloro che andarono a
combattere durante la prima guerra mondiale.*

* Diana Preston, Scott, l’eroe dei ghiacci. La pagina più tragica e affascinante della grande corsa
all’Antartide, Milano 1999.

Luoghi di memoria

Esistono delle città-memoria (Gerusalemme, Roma, ecc,.) nei quali si affermano con
decisione delle identità locali. I paesaggi pure possono contribuire alla nascita di una
memoria condivisa, influenzando il sentimento di identità nazionale. Per esempio,
la tradizione poetica della «dolce Francia» rimanda a una geografia (campi
coltivati, frutteti, vigne, boschi e corsi d’acqua) come a una storia o ai miti e
ai racconti leggendari relativi a questo o a quel luogo particolare. Se un’identità
europea ha difficoltà a costituirsi, può essere in parte perché trova difficilmente
dei luoghi di memoria veramente europei sui quali potrebbe fondarsi.

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Ricerca memoriale e patrimonializzazione

La società francese contemporanea manifesta un gran desiderio di memoria che si


traduce in un gigantesco sforzo d’inventario, di salvaguardia, di conservazione e di
valorizzazione dei presunti indizi del proprio passato, al punto di fare dell’intero
paese un immenso museo. Il patrimonio funziona come un «apparato ideologico
della memoria»: la conservazione sistematica di vestigia, reliquie, testimonianze,
simboli, tracce serve da contenitore per alimentare i racconti storici che sono stati
costruiti a proposito del passato.
Come le commemorazioni, questa febbre patrimoniale tradisce una certa incapacità
a vivere il tempo presente, risponde a una domanda sociale in direzione del passato,
nata da un profondo malessere nei confronti del presentismo della nostra società.
L’effervescenza patrimoniale è l’espressione di un modo di pensare nel quale il
passato è valorizzato, persino venerato, spesso da coloro che percepiscono come
più allentati i legami con le proprie origini. Il «male d’archivio» è l’espressione
dell’impazienza assoluta di un desiderio di memoria, e ogni perdita d’archivio è
vissuta come una perdita di sé. Tutte queste tracce, sia prodotte sia registrate, sono
delle «illusioni di eternità».

Manipolare, dominare, differenziare

Le società hanno bisogno in alcuni momenti di ricostruirsi un passato. Questo


bisogno può essere soddisfatto poiché il passato è modellabile, come il futuro
(mentre il presente, aggiunge Borges, non lo è mai).
La modificazione della memoria istituzionale (costruzione di falsi, revisione,
correzione, ecc.) permette di costruire dei passati alternativi, generalmente un
passato più utile e più conveniente. Colui che manipola il passato nello stesso
tempo personale, familiare e regionale, crea se stesso nel momento stesso in cui crea
i suoi avversari.
Una manipolazione troppo brutale della memoria (per esempio la distruzione di
luoghi santi o sacri) può produrre un effetto contrario a quello perseguito. In
Brasile, la manipolazione della memoria da parte dei bianchi consiste nel mantenere
la memoria della schiavitù perché questa è concepita come un mezzo per rendere
inferiori i neri. Negli Stati Uniti, la ricerca di un’identità da parte di determinati
gruppi di neri è uno sforzo per darsi un passato. Essendo disponibili soltanto i
modelli dei gruppi bianchi, i neri impegnati in questa ricerca prenderanno in
prestito, manipoleranno e metteranno insieme questi modelli per creare qualcosa di
nuovo.
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CAPITOLO VI
L’ESAURIMENTO E IL CROLLO DELLE GRANDI MEMORIE ORGANIZZATRICI

La capacità di organizzare delle identità collettive dipende in parte dall’attitudine di


una società a proporre ai propri membri strutture memorizzabili sufficientemente
esplicite e comprensibili. Queste memorie fortemente strutturate sono da molto
tempo oggetto di studio da parte degli antropologi.
Sperber vede nei racconti e nei miti degli oggetti ottimali per la memoria umana: è
alla struttura del racconto che essi devono per buona parte la possibilità di essere
memorizzabili. Racconti, narrazioni, miti inscritti in una trama narrativa sono le
chiavi di volta di memorie fortemente strutturate che contribuiscono, all’interno di
un gruppo o di una società, a orientare in modo durevole le rappresentazioni, le
credenze, le opinioni e a mantenere l’illusione della loro condivisione assoluta e
unanime.
Queste grandi categorie organizzatrici delle rappresentazioni identitarie collettive,
sono tanto più efficaci in quanto dispongono di numerosi collegamenti in tutto il
corpo sociale sotto forma di «luoghi della memoria»: la Scuola, lo Stato, la Famiglia.
All’origine di pratiche e riti diversi, questi diffonderanno e faranno vivere le grandi
memorie organizzatrici. In Francia, dalla fine del XIX fino alla metà del XX secolo,
fu il caso della scuola laica che attraverso manuali e riviste rese popolare la memoria
repubblicana.

L’antifona della regressione memoriale e identitaria

L’arretramento e anche la perdita dei grandi punti di riferimento memoriale è un


leitmotiv di ogni letteratura consacrata alle scienze umane e sociale.
Il discorso meta memoriale dominante sembra ammettere l’idea della scomparsa
delle grandi memorie collettive a vantaggio di una sorta di «balcanizzazione
memoriale» (Leniaud, 1994), constatazione che è spesso espressa in forma di
rimpianto. Nelle società moderne non ci sarebbero più memorie prevalenti che
avrebbe il ruolo di forme organizzatrici della società: ogni memorie sarà «babelica»,
essendo ognuna estranea alle altre. Le memorie contemporanee sarebbero dei
mosaici senza unità, costituite dalle macerie delle grandi memorie organizzatrice che
sono andate in frantumi. Ciò è attestato da numerosi segni indicatori, i quali
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mostrano come oggi lo spazio abbandonato da queste grandi memorie sia


progressivamente occupato da memorie «in briciole». È significativo, per esempio,
che si siano moltiplicati i lavori etnografici la cui ambizione è di scandagliare nei
loro minimi dettagli le innumerevoli particolarità della società francese. La disciplina
etnografica, da questo punto di vista, è un ottimo specchio della Francia
contemporanea nella quali coesistono e si sovrappongono memorie e identità
plurali. Si può osservare un altro sintomo dell’arretramento delle grandi memorie
organizzatrici nella scomparsa della cultura religiosa: molte persone oggi lasciano
trasparire un’assenza di conoscenze bibliche senza dubbio inimmaginabile fino a
qualche decennio prima.
D’altro canto, non si dovrebbe parlare tanto della scomparsa dei centri di memoria
quanto della loro trasformazione: mentre per molto tempo certi membri della
società (il conteur dell’isola di Terranova, per esempio) erano riconosciuti come i soli
portatori legittimi, autorizzati, della memoria e dell’identità collettive, questi hanno
successivamente perduto il loro monopolio. Sono sempre più numerosi gli individui
che si autoproclamano custodi della memoria del loro gruppo di appartenenza o del
loro gruppo di affiliazione. Per questo stesso fatto, la produzione delle memorie
diventa più profusa, più dispersiva, più frammentata, spesso meno visibili e meno
spettacolare nel tempo delle grandi «società-memoria».

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