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Introduzione all'arte bizantina (IV-XV

secolo)

L’impero bizantino dal IV al XV secolo: profilo storico e artistico


Nell’immaginario collettivo del nostro tempo la nozione “arte
bizantina” corrisponde sostanzialmente a tre cose:
1. Tutte le icone che inondano il mercanto antiquario che sono più o
meno legalmente esportate, questo per il grande pubblico
2. Persone di media cultura: mosaici medievali del territorio italiano,
senza distinzioni di tempo, ma con un riconoscibile addensamento
a Ravenna
3. Per chi ha una cultura umanistica più raffinata: arte bizantina =
maniera greca, cioè quella produzione pittorica, anche a soggetto
sacro, prevaltemente mariano, del Duecento e del primo Trecento,
soprattutto italiano, che rispondevano alle esigenze conservatrici di
una clientela eccelesiastica, tesa con ardore a riaffermare la forza
della tradizione. A questa maniera greca venne contrapposta l’arte
“nuova” di Giotto e dei pittori toscani che tennero viva la fiamma
della cultura bizantina e della maniera greca italiana.
Per lo storico dell’arte bizantina nessuna di queste categorie appare
definire l’arte bizantina perché nel primo caso si tratta della
produzione tardissima (Otto-Novecento) di Stati che furono
all’origine della cultura bizantina, ma che assumono una fisionomia
artistica molto personale, in particolare i territori di Russia e Ucraina,
la cui arte si apparenta solo per il sostrato cristiano-ortodosso.
Nel secondo caso qualche elemento di verità potrebbe esserci se si
considera che, in effetti, il mosaico fu la tecnica artistica prediletta
dai bizantini per la decorazione monumentale e come tale esportata a
più riprese, tramite l’arrivo di botteghe greche anche in Italia. Celebri
i casi della committenza dell’abate Desiderio di Montecassino
nell’XI secolo e dei Re normanni di Sicilia. Assai più complessi i
casi di Ravenna e di Venezia, dove appare più difficile valutare il
diretto contributo di maestranze e di “culture” provenienti dai
territori dell’imperatore di Costantinopoli. L’arte del mosaico non
conosce soluzione di continuità in Italia dal tardo Impero romano
fino alla fine del Medioevo, e l’esempio di Roma con la sua
straordinaria, interrotta serie di decorazioni musive tra V e XIII
secolo, ma anche di Milano, dove si conservano meno opere ma che
dovette avere per certi versi un percorso analogo, ne sono esempi
chiarificatori.
Il terzo caso appare chiaramente il più complesso essendo il frutto di
un approccio critico ormai pluricentenario, dal Trecento passando
attraverso la codificazione di Giorgio Vasari. Ai nostri occhi le opere
della “maniera greca” appaiono sì copiate o ispirate a prototipi
bizantini, ma con caratteri specifici assai pronunciti che ne contano
l’origine occidentale.
A nessuno dei casi sopra enunciati dovrebbe essere attribuita la
definizione di arte bizantina, se non con infinite e sofisticate
definizioni.
Qual è l’arte bizantina propriamente detta ?
A rigore, in questa categoria dovrebbe rientrare tutta la produzione
artistica, architettura, pittura, scultura, miniatura, arti suntuarie, dei
territori direttamente soggetti politicamente all’imperatore bizantino,
detto Basileus, che risiede a Costantinopoli, nel periodi di tempo che
va dalla scelta ad opera di Costantino nel 324 fino alla caduta il 29
maggio 1453 sotto l’urto del tremendo assedio portato dalle armi
ottomane comandate dal sultano Maometto II, appunto detto il
Conquistatore, che è anche il fondatore dell’Impero ottomano, erede
di molte tradizioni bizantine, ma di fede musulmana, destinato a
durare fino al 1918 con la fine della prima guerra mondiale.
Rientra a piano titolo nella definizione di arte bizantina anche la
produzione artistica di quei territori che nell’avvicendarsi dei secoli
dipesero culturalmente da Bisanzio, definiti come “aree provinciali di
Bisanzio”, ove il contratto diretto con il cuore dell’Impero, e con i
suoi artisti fu continui e diretto, così come lo scambio di maestranze.
Di particolare significato sono i regni dei Serbi e dei Bulgari, la
Russia di Kiev, l’Armenia e la Georgia, per l’Italia, invece, la
nozione di “area provinciale di Bisanzio” appare limitativa e non può
essere applicata, anche se fino al 1071 larga parte del meridione
italiano fu sotto la diretta amministrazione bizantina.
Dopo la caduta di Bisanzio, centro politico e religioso, ma anche
centro di creazione, per molti secoli propulsore anche di fenomeni
artistici, sarà in ogni caso parlare di “arte post-bizantina” o “arte della
Cristianità d’Oriente”.
Un’altra considerazione è quella cronologica. L’impero bizantino fu
sostanzialmente uno Stato centripeto al cui centro vi era Bisanzio, per
molti secoli unica grande metropoli del Mediterraneo, poiché
nessun’altra città e in nessun momento potè sostituirla almeno dal
momento in cui i successori di Costantino e sotto la dinastia di
Teodorio I, si consolida il suo ruolo di capitale, sede imperiale e
“Nuova Roma”, erede della cultura e delle tradizioni ellenistico-
romane, residenza praticamente esclusiva del sovrano, della sua
corte, del Governo imperiale, e allo stesso tempo sede del patriarca
Ecumenico, primo fra i Patriarchi autocefali e guida spirituale
dell’impero, anche se era comunque sottomesso all’autorità
imperiale, che si riteneva investito direttamente da Dio e dunque
aveva l’ultima parola in materia di fede.
L’opera di ingrandimento, monumentalizzazione e abbellimento della
piccola polis greca di Bisanzio portata avanti con determinazione e
spirito visionario dai sovrani nei secoli IV-VI, opera intonata ad una
grandeur veramente “romana”, fece si che la città diventasse in un
tempo breve centro di creazione e propulsione di ogni
manifestazione artistica, e con fortissima capacità di espansione e di
esportazione dei propri manufatti e della propria “poetica”; se infatti
nei primi due secoli ancora possiamo vedere attive le diverse
componenti culturali e gli influssi diversi, con il VI secolo e con il
regno di Giustiniano (527-565) tale sintesi appare completata; la
produzione artistica bizantina, il suo gusto, le sue maestranze,
iniziano ad espandersi nel Mediterraneo e l’Italia è l’esempio
migliore di questo caso.
È sempre Bisanzio con le sue botteghe artigiane, ma anche gli opifici
del Palazzo imperiale e con le maestranze esterne che lavorano per la
committenza più elevata, nonché i laboratori di scrittura interni ai
principali monasteri della città, a dettare leggere in campo artistico, a
creare vere e proprie mode, a rinnovare la propria arte, attraverso le
varie Rinascenze, artistiche si ma più ampiamente “culturali”, che
punteggiano la sua vicenda storica.
Rinascenze tutte sorrette da quel sostrato ellenistico-romano che
percorre senza soluzione di continuità tutta la storia dell’arte
bizantina, quello che il Kitzinger definì straordinariamente,
“ellenismo perenne”, e che rende ormai obsoleto l’antico dilemma
“Oriente o Roma”, che per decenni ha diviso la critica.
L’apporto orientale alla formazione dell’arte bizantina stessa è
ovviamente innegabile ma, dopo il VI secolo, sembra che Bisanzio
tragga sempre nuova linfa vitale della rielaborazione proprio di quel
suo sostrato culturale tradizionale, e gli influssi orientali, in particolar
modo del modo islamico.
L’impero bizantino è una creazione della storiografia, relativamente,
recente proprio perché i bizantini consideravano il loro impero
l’impero dei Romani, parlarono ufficialmente il latino fino al VII
secolo, il loro sovrano fu l’imperatore dei Romani creando una
continuità che li legava a Cesare e Augusto.
Anche l’arte bizantina è, in massima parte, o politica o religiosa,
comunque sia propagatrice di messaggi all’epoca ovviamente assai
più chiari di quanto non sembri a noi oggi, non più in grado di
intendere compiutamente la “voce dei monumenti” che, comunque,
ancora ci parlano della Civiltà che li ha espressi. L’arte sacra appare
preponderante rispetto a quella profana e ciò ha fatto si che troppo
spesso si sia pensato al mondo bizantino, e all’artista bizantina, quasi
sempre anonimo, come tutto teso alle questioni dello spirito,
oppresso e soffocato da un Cristianesimo onnipresente e bigotto.
Se è vero, da un lato, che la spiritualità cristiano-ortodossa ha un
forte peso sulla struttura politico-sociale della società bizantina, e
anche sulla vita quotidiana, è anche soprattutto, vero che noi
studiamo quello che ci è giunto.
Il periodo di studio è molto lungo; il Millennio bizantino, in realtà
oltre millecento anni, necessita dunque di una periodizzazione che
consenta di scandirlo:
- PERIODO PALEOBIZANTINO (324-726)
- PERIODO DELL’ICONOCLASTIA (726-843)
- PERIODO MEDIOBIZANTINO (824-1204)
- PERIODO TARDOBIZANTINO (1261-1453)

PERIODO PALEOBIZANTINO (324-726)


Età costantiniana
All’inizio di questo percorso si ponga effettivamente la scelta di
Costantino, unico imperatore dopo la sconfitta di Licinio, di fissare,
nel 324, la propria residenza nella cittadina greco-romana di
Bisanzio, in una posizione strategica molto fortunata.
Come prassi, si iniziano i lavori per monumentalizzare il luogo e
renderlo degno di accogliere il sovrano; questa volta appare evidente
che l’obbiettivo è quello di realizzare una città che possa diventare
una vera capitale, quella “Nuova Roma” della titolatura ufficiale,
quale mai le altre molteplici sedi imperiali dell’età tardo-antica sono
state, come Milano, Treviri, Sirmio, Nicomedia e altre fino a
Ravenna.
Il sito è particolarmente impervio, scandito da sette colline e dalle
relative valli, le cui pendici degradano rapidamente verso il Mar di
Marmara a sud, e a nord verso quella stretta lingua d’acqua che si
incunea profondamente verso l’interno del territorio, conosciuto
come Corno d’Oro. Fidando sulle straordinarie capacità
ingegneristiche dei Romani, grazie ad un ardito sistema di
livellamenti e terrazzamenti, Costantino inizia a costruire la sua
nuova città appena al di fuori del nucleo della città antica e della sua
Acropoli, sulla punta del promontorio, con i templi pagani per ora
lasciati in esercizio.
Dai monumenti edificati dall’imperatore restano poche tracce
archeologiche, ma molto è noto dalle fonti letterarie come la Vita
Costantini di Eusebio, vescovo di Cesarea, ma anche dalle storie
ecclesiastiche di Socrate e di Sozomeno. Di fondamentale importanza
vi è la Notitia Urbis Costantinopolitanae del 425 circa, unico testo in
nostro possesso che descriva la città seguendo la suddivisione
amministrativa in 14 regioni che era stata adottata sul modello di
Roma.
Appare evidente che Costantino intende realizzare una capitale
imperiale, politica ed economica, non una “capitale cristiana”, ma la
costruzione di enormi e ricchissimi edifici di culto, ma anche edilizia
civile.
Età teodosiana
La cristianizzazione di Costantinopoli appare procedere
relativamente a rilento. Anche Teodosio I (379-395), che pure
chiuderà definitivamente i templi pagani e farà del cristianesimo la
religione di Stato, appare piuttosto distratto nella costruzione di
chiese, gli si attribuiscono solo pochi edifici minori, e anche l’uso di
simboli cristiani che egli usa nelle opere.
Consistente è il suo
contributo
all’urbanistica
cittadina grazie alla
costruzione di un
nuovo Foro: il
Foro di Teodosio.
Poco distante in
linea d’aria, e
sempre sul corso
della Mese, da
quello di
Costantino, anche
questo Foro,
appare fortemente
monumentalizzato sempre nel
solco della tradizione romana:
forma quadrata, e traeva, forse,
ispirazione dal complesso di
Traiano a Roma: vi si accedeva
tramite un arco trionfale, di cui
restano importanti tracce
archeologiche, forse a tre fornici
o tetrapilo, le cui grande colonne rappresentavano tronchi d’albero
dai rami segati: la presenza di una mano che stringe in alto il tronco
rivela poi trattarsi più precisamente della clava di Ercole, altra
divinità protettrice dell’imperatore romano.
Il Foro ospitava poi una grande colonna coclide (con il fregio a
spirale) anch’essa esemplificata su quelle di Traiano e di Marco
Aurelio. E dunque anche la nuova città ebbe due colonne coclidi
celebrative delle vittorie militari dei sovrani: questa e quella dedicata
ad Arcadio della quale resta il
monumentale basamento. Quella di
Teodosio ne restano solo alcuni
frammenti e vista nel basamento del
Bagno del sultano Beyazit II, costruito al suo posto, e oggi al Museo
Archeologico.
Un
fondamentale
contributo
all’urbanistica
di
Costantinopoli
fu dato dal
nipote Teodosio
II (408-450) che
si deve tra
l’altro la
ricostruzione di Santa Sofia, bruciata nel 404 nel corso dei tumulti
succeduti alla deposizione di San Giovanni Crisostomo dal trono
patriarcale, e riconsacrata nel 415, nonché la possente triplice cinta
muraria di terra (fossato, primo muro più basso, secondo muro più
alto), di dimensioni colossali, che rese per un millennio la città
inespugnabile, fatto salvo il tradimento dei Crociati nel 1204 e i
cannoni dei Turchi nel 1453.
In questa si apre una porta monumentale, la Porta d’Oro, che da sulla
Via Egnazia, riservata all’ingresso dell’imperatore e dei trofei
militari.
Età giustinianea
Un altro periodo caratterizzato da uno splendore architettonico e
artistico è quello dominato dalla preponderante personalità
dell’Imperatore Giustiniano (527-65) al secolo Flavio Pietro
Sabbazio, e dalla consorte Teodora (527-48), la cui influenza si
estende dal regno dello zio Giustino I (518-78), che Giustiniano
coadiuvò nella gestione dell’Impero, a quello del nipote Giustino II
(565-78), che invece dovette assistere al rapido dissolversi del sogno
di restaurazione imperiale romana dello zio.
Dell’età giustinianea, per l’ambito artistico vi è una opera
fondamentale, che è quella di Procopio di Cesarea intitolata: De
Aedificiis, che traccia un’ampia panoramica delle realizzazioni
giustinianee nell’ambito dell’impero.
Sul piano politico e culturale egli opera la sistemazione del diritto
che è raggruppato nel Corpus Iuris Civilis, che trasmette ai posteri la
legislazione romana imperiale e proto-bizantina, e anche il tentativo
di restituire all’impero la sua dimensione mediterranea,
riconquistando l’Africa del Nord e soprattutto l’Italia ai Goti con la
famosa Guerra Gotica, che segna la fine traumatica dell’età classica e
l’inizio del medioevo per il
nostro Paese.
Monumento simbolo
dell’età di Giustiniano e
del mondo bizantino stesso
è la chiesa di Santa Sofia
(Divina Sapienza) di
Costantinopoli, ora alla
sua terza ricostruzione e
giunta fino a noi
sostanzialmente nella sua
facies giustinianea.
L’edificio venne raso al suolo nel corso della rivolta di “Nika” del
532, che quasi travolge Giustiniano e che in pochi giorni riduce in
cenere il nucleo centrale della città. Schiacciata la rivolta in un bagno
di sangue, il sovrano inizia la ricostruzione dei monumenti distrutti,
compresa Santa Sofia, e la Santa Irene, ma anche di altri complessi
monumentali della città quali la chiesa dei Santi Apostoli.
La costruzione di Santa Sofia procede speditamente tanto che nel 537
è possibile consacrare l’edificio, evento solennizzato da Procopio in
una descrizione che si apparenta strettamente ad una ekphrasis, un
poema celebrativo di un monumento, che contiene una presentazione
accurata dello stesso.
Un monumento di tale complessità non può prescindere da una
accurata elaborazione teorica, e non possiamo certamente parlare di
“progettazione”, ma è significativo che la responsabilità della
costruzione venne affidata a due celebri matematici: Antemio di
Tralles e Isidoro di Mileto, tra i pochissimi architetti e artisti bizantini
di cui si conosca il nome, che erano tecnici evidentemente in grado di
calcolare il comportamento statico dell’edificio. Le dimensioni erano
però tali, circa 70 x 74 metri le dimensioni della base, per una altezza
di 60 metri, da esorbitare tutto ciò che l’ingegneria romana aveva
prodotto fino a quel momento, e così come il nuovo sistema di
impostare una cupola di circa 31 metri di diametro sui pennacchi =
segmenti di sfera che riducono il quadrato d’imposta della
circonferenza, era stato sino ad allora impiegato solo per piccoli
edifici.
Questo provocò in corso d’opera deformazioni strutturali dei pilastri
e dei muri perimetrali, nonché all’inserimento di possenti contrafforti
che ancora ne caratterizzano l’aspetto esterno, necessari per
contrastare le spinte verso l’esterno, appunto dei muri perimetrali
stessi, soprattutto nella prima fase di costruzione in cui fu messa in
opera una cupola a sesto ribassato, circa 7 metri più bassa
dell’attuale, che esercitò una spinta verso l’esterno fino a crollare nel
558 ed essere immediatamente ricostruita da Isidoro il Giovane,
nipote del precedente nel 562.
La cupola che noi oggi possediamo vedere è questa per oltre la metà
della sua superficie: parziali ricostruzioni sono state condotte nel
post-989 dall’architetto armeno Tiridate e dall’italiano Giovanni
Paralto nel 1346-54, dopo i relativi crolli causati dai frequenti
terremoti che funestano quella regione.
L’invaso spaziale non è però mai mutato, e vedendo la pianta
possiamo definirla come basilica con cupola, visto che la scansione
in tre navate appare evidente, se però se ne sperimenta fisicamente la
spazialità la situazione appare chiaramente assai diversa; il grande
vano (naos) coperto dall’altissima cupola, alleggerita all’imposta da
una fila di finestre, è uno spazio prettamente centrale; le “navate
laterali”, diverse come sono dai grandi pilastri dallo schema delle
colonne in marmo verde di Tessaglia, dalle esedre colonnate in
porfido ai quattro angoli, sono praticamente invisibili e immerse
nell’oscurità, in contrasto con il naos inondato di luce naturale.
Ma la fase propulsiva di Giustiniano, è anche militare, politica,
artistica al tempo stesso, estesa fino agli estremi confini dell’Impero
come testimoniano superbi monumenti in altre parti dell’Impero.
PERIODO DELL’ICONOCLASTIA (726-843)
Tale periodo, che copre, con alterne vicende, non può essere
considerato come un tutto omogeneo, sorretto da una ben precisa
ideologia. L’iconoclastia è la “lotta contro le immagini”, e ha come
principale fondamento teologico l’affermata impossibilità di
circoscrivere in un’icona la natura divina del Cristo, contravvenendo
così al fondamentale dogma della duplice natura di Cristo, divina e
umana. Dall’immagine del Salvatore, la proibizione delle immagini si
estende a tutte quelle a carattere sacro, fino alla distruzione di tutto
l’esistente. Gli iconoduli difenderanno sempre la loro tesi, che finirà
per prevelare, secondo la quale Cristo essendosi incarnato, può ben
essere raffigurato sotto l’aspetto umano. Da un lato sembrano
patteggiare per l’iconoclastia imperatori, esercito e gran parte del
clero secolare; sono invece contro imperatrici e le donne in generale,
e i monaci. È anche contrario all’Iconoclastia, in qualunque forma il
papato di Roma, e dunque i cristiani d’Occidente, che finirà per
questo motivo per staccarsi anche dalla tutela nominale
dell’Imperatore bizantino, legandosi sempre più al mondo dei
Franchi e di Carlo Magno.

Il secolo iconoclasta può essere diviso in:


- 730-787: prima fase dell’iconoclastia con distruzioni e massacri
di avversari che copre il periodo dei regni di Leone III (717-
741) e del figlio Costantino V (741-775)
- 787-815: 1a restituzione delle immagini ad opera di Irene,
reggente per contro del figlio Costantino VI (780-797), che
viene proclamata nel giustamente celebre secondo il Concilio di
Nicea del 787, ove la dottrina iconodula si perfeziona
- 815-843: seconda iconoclastia che corrisponde ai regni di Leone
V (813-820), Michele II (820-29) e Teofilo (829-42), durante la
quale si distruggono solo le icone d’uso ma si velano o si
ricoprono di intonaco bianco quelle non venerabili perché
lontane dal possibile contatto fisico
- 843: Teodora, reggente per Michele III (842-67) ristabilisce il
culto delle icone secondo i criteri di Nicea. L’ultimo e definitivo
pronunciamento imperiale a favore delle icone è quello di
Basilio I (867-86) nell’870
A questo movimento concorsero le motivazioni teologiche e le
tendenze avverse alle immagini da sempre presenti nella Cristianità
orientale. A queste aggiungiamo un più stretto contatto dei bizantini
con gli Arabi, notoriamente avversi alla raffigurazioni dei viventi.
Dopo la vittoria degli inconoduli, l’arte degli sconfitti, la loro
letteratura, le immagini dei sovrani esecrati furono a loro volta
condannate alla distruzione, e dunque è difficile farsi una idea della
produzione artistica dell’età iconoclastica, però le scarne
testimonianze di cui disponiamo fanno ritenere che all’interno degli
edifici di culto siano state introdotte raffigurazioni a carattere
simbolico quali quelle dei Concili, conservatesi nella navata della
Chiesa della Natività a Betlemme.
Dell’arte monumentale profana nulla resta in pratica nei territori
dell’Impero.

PERIODO MEDIOBIZANTINO (843-1204)


Età macedone
Uscito rinvigorito e ricompattato dalla crisi iconoclastica, l’Impero
ricomincia a guadagnare terreno, conquistato i territori italiani e nei
Balcani, consolidando la frontiera con l’Islam, introducendo nuovi
sistemi di organizzazione amministrativa interna.
A questo rinnovato prestigio internazionale corrisponde una nuova
fase artistica, una sorta di recuperata “età dell’oro”, che viene
indicata come Rinascenza macedone, dal nome della dinastia che da
Basilio I il Macedone nell’867 fino a Teodora nel 1065, tiene
saldamente le redini dello Stato.
Potremmo dire che l’arte della Rinascenza macedone si fonda su due
pilastri:
- recuperata sintonia con le proprie radici ellenistico-romane,
classiche
- rigorosa regolamentazione di tutto ciò che riguarda l’arte sacra,
necessario compromesso, con le posizioni degli iconoclasti
moderati
Sotto il regno di Basilio I riprende vigore la costruzione di nuovi
edifici ecclesiastici, favorita dalla tradizionale committenza imperiale
da un lato, e dall’altro di un nuovo ceto che dispone di grandi
ricchezze, attivo nell’amministrazione imperiale, che pure, per
investimento e a beneficio della propria anima, si dedica alla
costruzione di chiese, normalmente conventuali, attraverso le quali
fornire un servizio alla collettività.
Purtroppo nessuna delle chiese “macedoni” di Bisanzio si sono
conservate le decorazioni pittoriche e musive, tranne che quelle di
Santa Sofia, che custodisce ancora una serie di mosaici figurati che si
scaglionano tra l’867 e il 1356. Evidentemente con la ripresa ufficiale
del culto delle immagini ci si sentì in dovere di inserire anche in
questa chiesa le sante icone, quale manifesto programmatico del
rinnovato culto nell’edificio-simbolo dello Stato bizantino e al fine di
accentuare l’enfasi sul dogma dell’Incarnazione del Signore,
sostegno ideale all’iconodulia.
Se dunque la decorazione monumentale a mosaico e ad affresco
appare sufficientemente documentata, nei duecento anni della
“Rinascenza macedone”, ancor di più questa affermazione risulta
valida se si considera la produzione dei codici miniati, giunti fino a
noi in numero considerevole, che attinge proprio in quei scoli di vette
qualitative del suo genere, e a questi basti aggiungere la produzione
di avori intagliati e l’oreficeria le cui più comuni categorie sono
placche, dittici e trittici con raffigurazioni sacre, siano esse persone o
feste liturgiche, a carattere ufficiale, di propaganda imperiale, o
anche di produzione di cassettine a rosette.
L’uso diffuso dell’avorio cessa nei secoli X-XI quasi del tutto nelle
epoche successive a causa dell’alto costo di tale materiale, importato
dall’Africa attraverso mercanti arabi.
Per l’oreficeria numerosi sono gli esempi dell’altissimo livello
qualitativo raggiunto dalle botteghe costantinopolitane attive
nell’orbita del Grande Palazzo imperiale, e un gran numero di questi
preziosi oggetti è giunto in Occidente come parte del bottino crociato
del 1204.
Età comnena
Con la morte della monarca Teodora, sorella dell’imperatrice Zoe e
ella stessa ultima imperatrice si chiude la storica vicenda della
dinastia macedone.
Si apre un trentennio di instabilità politica e torbidi sociali che
culmineranno del 1071 quando l’Impero cederà a Oriente sotto l’urto
dei Turchi Selgiuchidi, nella battaglia di Munzikert sconfiggendo
Romano IV (1068-71) e dilagano rapidamente in tutta l’Anatolia, e a
Occidente sotto la pressione di Normanni che cacciano da Bari
l’ultima guarnigione bizantina dal suolo italiano.
Dopo un frenetico avvicendarsi di sovrani legittimi e usurpatori, sale
al trono Alessio I Comneno (1081-1118), esponente di un vero e
proprio clan che riunisce le più importanti famiglie dell’aristocrazia
dei proprietari terrieri, il quale riesce a consolidare il proprio potere e
a fondare una dinastia familiare.
Se pur ridotto l’Impero non perde il suo prestigio internazionale:
intorno al 1070 maestranze bizantine si recano a Montecassino,
chiamate dall’abate Desiderio, per decorarvi la chiesa abbaziale; tra il
1130 e il 1180 circa, diverse botteghe lasciano Bisanzio per recarsi a
lavorare in Sicilia, ove le fondazioni dei Re normanni ancora
testimoniano l’altissimo livello della loro produzione, e negli stessi
anni è probabile che artisti bizantini siano a Venezia per avviarvi la
decorazioni musiva di San Marco. Però molte delle grandi
decorazioni in patria sono del tutto scomparse, e non resta quasi nulla
dell’originaria decorazione parietale interna delle tre chiese collegate
l’una all’altra in un complesso grandioso, del monastero dinastico del
Pantocrator, che ancora oggi domina il Corno d’Oro da un’alta
collina, che era stato costruito per ospitarvi le sepolture familiari, un
mausoleo dunque da Irene a Giovanni II Comneno (1118-1143), in
varie fasi ma dedicato nel 1136, conserva ampi lacerti del prezioso
tappeto in opus sectile e dei rivestimenti marmorei parietali.
Mosaici di età comnena restano però sia in Santa Sofia che a Defnì,
nei pressi di Atene, il cui
ciclo viene solitamente
datato sullo scorcio del
secolo.
Quest’età aurea, che però
già contiene germi di forte
degradazione, termine
brutalmente con l’uccisione
nell’ippodromo, da parte
della plebe inferocita, di
Andronico I Comneno
(1183-85) e il massacro
dell’intera famiglia imperiale.
Venti anni dopo, nel 1204, Costantinopoli viene conquistata dai
Crociati e vi si installa un imperatore occidentale, il conte Baldovino
di Fiandra. I territori ceduti in mano dei Latini vengono divisi tra i
capi militari secondo le leggi feudali vigenti in Europa.
Si formano tre stati greci: l’impero di Trebisonda, il Despotato
d’Epiro e l’Impero di Nicea, e da quest’ultimo partirà la riscossa che
culminerà nel luglio 1261 con la riconquista di Costantinopoli.
PERIODO DELL’IMPERO LATINO (1204-1261)
Subito dopo l’uccisione di Andronico I Comeno nel 1185 si apre per
Bisanzio una fase turbolenta che culmina con la conquista latina del
1204. Vediamo le grandi linee.
La palese debolezza dell’Impero bizantino aveva suscitato insieme ai
molti aspetti anche la convinzione che sarebbe bastata una spallata
per far crollare l’antica e putrefatta struttura.
Fu l’anziano ed energico doge di Venezia, Enrico Dandolo, a
prendere in mano la situazione, fornendo navi e mezzi per la IV
crociata, bandita da Innocenzo III, ma deviandone l’obbiettivo prima
sulla costa dalmata e infine sulla stessa Bisanzio.
Il 16 maggio viene incoronato in Santa Sofia Baldovino di Fiandra
primo imperatore latino, con ridottissima giurisdizione territoriale e
anche meno prestigio; i Veneziani presero il controllo di gran parte
delle coste e delle isole al fine di proteggere e promuovere i loro
commerci con l’Oriente; il rimanente territorio fu spartito tra i vari
signori crociati, soprattutto italiani, francesi e borgognoni, creando
un indescrivibile mosaico di staterelli di più o meno lunga durata che
non sarà mai più ricomposto se non dai Turchi ottomani nel XV e
XVI secolo.
Questa situazione storico-politica così tormentata non favorisce
affatto lo sviluppo e l’affermazione creativa artistica, in particolare a
Costantinopoli non si hanno notizie o tracce di nuove fondazioni
ascrivibili a questi anni anche se una testimonianza di pittura
monumentale esiste, seppur assai singolare ed anomala: il ciclo di
affreschi con scene della vita di San Francesco d’Assisi, venuto alla
luce in condizioni frammentarie in una cappella ricavata nelle
strutture di una delle più belle chiese bizantine nella città oggi
denominata Kalenderhane Camii, di cui si ignora l’originaria
dedicazione, fosse alla Vergine Kyriotissa, databile per le potenti
strutture oggi visibili e fatte risalire agli anni 1180-1200 ma su
fondazioni assai più antiche. Il ciclo, di pura marca occidentale, sia
per la scelta del santo, venerato solo in Occidente, sia per lo stile
goticheggiante, è datato con certezza agli anni 1228-61.
Anche la produzione artistica dell’Impero di Nicea è poco nota, però
in questa città fu realizzato un grande tessuto ricamato detto Pallio di
Genova, a testimonianza di un accordo tra Michele VIII Paleologo il
13 marzo 1261 con gli ambasciatori veneziani in funzione anti-
veneziana.
PERIODO TARDO-BIZANTINO (1261-1453)
L’età paleologa
Fu Michele VIII Paleologo (1259-82), reggente per il giovane
Giovanni IV Lascaris (1259-61), a riprendere possesso della capitale
praticamente senza combattere approfittando dell’assenza degli
sparuti difensori latini della città.
Rientrando in città dalla Porta d’Oro delle mura teodosiane, come in
un antico trionfo, ma ora al seguito della veneratissima icona
dell’Hodigitria, il 15 agosto 1261, solennità della Koimesis
(Dormizione) della Vergine, egli attraversò tutta la città, che non
aveva mai visto prima essendo nato in esilio, fino a Santa Sofia, dove
venne incoronato insieme alla moglie Teodora e al figlio Andronico
II, inaugurando l’ultima dinastia della storia bizantina, infatti
Costantino XI Paleologo morirà il 29 maggio 1453 sulle mura, nei
pressi della Porta di San Romano, nel disperato tentativo di fermare
gli Ottomani.
L’enorme città si trovava in condizioni di abbandono e
spopolamento. I grandi complessi monumentali, spesso in disuso da
tempo immemorabile, era stato divorati da incendi e ricoperti da
vegetazione. La scarsa, impoverita popolazione risiedeva lungo le
coste del promontorio e intorno ai principali santuari religiosi. I
palazzi imperiali erano praticamente inabitabili.
Michele VIII cerca, se pur nel possibile, di restaurare la città, di far
rivivere le grandi tradizioni dei secoli aurei di Bisanzio e come tale
rivolge la sua attenzione, oltre che alle difese e alle dimore imperiali,
alle chiese e ai complessi monastici, in particolar modo Santi
Apostoli e Santa Sofia. Per solennizzare le sue imprese fa innalzare
nei pressi dei mausolei di Costantino e di Giustiniano una colonna
onoraria sulla quale pone un gruppo scultoreo, forse in bronzo
raffigurante l’arcangelo Michele ai cui piedi si prostra l’imperatore
con in mano il modellino della città che viene offerto al celeste
protettore.
Anche Santa Sofia rimane un’opera che forse rimandare ad un intento
celebrativo di Michele VIIII e delle sue gesta. Si tratta della
monumentale Deesis, realizzata a mosaico nella campata centrale
della galleria sud, proprio di fronte al luogo in cui si era fatto
seppellire Enrico Dandolo, le cui ossa vennero riesumate e bruciate.
L’ultima stagione di Bisanzio si apre con uno straordinario
capolavoro, altissimo sia sotto il profilo dell’emozione che sotto
quello della tecnica e che rende accettabile quel concetto di
“Rinascenza paleologa” che è stato enunciato e che viene riferito al
regno di Andronico II (1282-1328), ma che ha delle propaggini sotto
il regno di Andronico IIII (1328-1341), Anna Paleologina, reggente
dal 1341 al 1347, e i primi due decenni del regno di Giovanni V
(1341-91).
Cicli musivi più o meno conservati si trovano nel parekklesion della
ex-chiesa della Pammakaristos, nella chiesa della Chora, nel nartece
della chiesa Vefa Kilise.
Infine nel segno di Santa Sofia, appare chiudersi l’ultima grande
stagione del mosaico bizantino. Quella che dovette essere l’estrema,
grande realizzazione di tale genere nella capitale è però la
ridecorazione dell’arcone est della Grande Chiesa, crollato insieme
ad un quarto della cupola nel 1346, a causa dei postumi di un
terremoto.
Alla ricostruzione sovraintesero Anna Paleologina, l’usurpatore
Giovanni VI Cantacuzeno, il restaurato Giovanni V.
In questo periodo non vengono costruiti ex novo grandi monumenti
ma si preferisce aggiungere a quelli esistenti annessi di vario genere,
funzione e dimensione, e infatti iniziatrice di questa prassi appare già
essere stata l’imperatrice Teodora, moglie di Michele VIII Paleologo,
che, nel 1282 circa, annette alla preesistente chiesa di Costantino
Lapis, degli inizi del X secolo, un’altra chiesa, al fine di farne un
pantheon dinastico. Niente di così vasto fu più intrapreso, almeno in
città.
Di grande rilievo è il cosiddetto Takfur Saray, edificio palaziale
appartenente forse, al complesso del palazzo imperiale delle
Blacherne, situato nei pressi delle mura di terra non lontano dalla
Chora.
In palazzi come questo dovette svolgersi la vita dell’ultima corte
bizantina, ormai pallida ombra di quella splendida realtà che aveva
impressionato gli Occidentali in età macedone e comnena. I gioielli
sono orami paste vitree, le stoviglie d’oro e d’argento poveri cocci.
Pure gli imperatori, come anche i più importanti funzionari e
aristocratici, continuano a commissionare splendidi codici miniati,
sovrabbondanti d’oro la cui produzione è ancora attestata nell’ambito
degli scriptoria monastici. Se non fosse per umanissimi volti si
potrebbe quasi pensare ad un’immagine di età macedone o comnena.
Insieme a quella dei codici miniati continua con esisit altissimi la
produzione di icone, tra le quali spiccano quelle realizzate con la
tecnica del mosaico minuto, a tessere di dimensioni ridottissime, che
raggiunge il suo apice in questa epoca.
Mentre Cosntantinopoli declina, altri centri dell’Impero si affermano
per quantità e importanza di realizzazioni archiettoniche e decorative,
e tra questi vi sono Tessalonica e Mistrà. Nella prima vanno ricordate
le chiese dei Santi Apostoli, Santa Caterina, San Panteleimone, del
Profeta Elia, di San Nicola Orfano e altre che conservano la loro
decorazione marmorea, musiva e ad affresco. Completamente diversa
la sorte di Mistrà nel Peloponneso meridionale, che possiede chiese
ma anche palazzi e abitazioni civili, che costituiscono uno dei
complessi più straordinari e spettacolari del Medioevo bizantino.
IL FORO E LA COLONNA DI COSTANTINO
Come nuova capitale Costantino scelse l’antica Bisanzio in ragione
della sua posizione geografia messa in risalto da:
- Tabula Peutingeriana (IV-V secolo) che mostra la città con il
simbolo di una colonna di Costantino e accanto la figura della
Fortuna alla quale fu attribuito il nome di Anthousa = la florida

- Moneta d’argento risalente al 330. Sul dritto


abbiamo il profilo di Costantino idealizzato
con voluminosa acconciatura e sguardo
rivolto verso l’alto, nel rovescio la figura di
Anthousa seduta in trono e con in mano una
cornucopia e un piede poggiato su una nave
come simbolo della potenza marittima di
Bisanzio. Questa moneta è stata coniata
dalla zecca di Costantinopoli e sul rovescio ha
anche due scritte verticali (DN
CONSTANTINUS E MAX TRIUMP
AUG; nell’esargo MCONST)
Il profilo di Costantino, modellato con ampi piani
poco differenziati, mostra una struttura compatta,
accentuata anche dalla foggia dell’acconciatura
con voluminose ciocche di capelli. L’immagine
risulta come soffusa da un’aura idealizzata,
sottolineata anche dallo sguardo rivolto verso
l’alto, secondo un modello iconografico che
richiama i coni monetari di Alessandro Magno. Per
questo tipo di effigie è stata suggerita anche una
probabile derivazione di un raffronto più
ravvicinato con un ritratto di Costantino
conservato nel Museo Archeologico di Istanbul

La nuova capitale progettata dagli architetti di Costantino si sviluppò


sulla modulata dorsale del promontorio triplicando l’estensione del
preesistente impianto urbano di Bisanzio, e proprio dove si
estendevano le necropoli, dinanzi alla porta di Tracia che si apriva
nella cinta muraria romana, sorse il grande complesso del Foro di
Costantino a sorta di cerniera monumentale tra l’antica Bisanzio e il
nuovo spazio urbano
Devastato nel corso dei secoli da incendi e terremoti, di questo
grandioso complesso ispirato ad impianti architettonici di tradizione
ellenistico-orientale, di cui può forse darci una idea la scenografia
piazza ellittica di Gerasa in Giordania, sopravvive unicamente la
monumentale colonna di porfido.
Dalla descrizione delle fonti bizantine si ricava la vasta platea del
Foro, pavimentata da lastre di marmo, era limitata da portici
semicircolari colonnati a due piani, raccordati da est e da ovest da
monumentali archi, di cui quello orientale si ergeva dinnanzi
all’antica porta di Tracia, mente quello occidentale si apriva sulla
Mese, la grande porticata cha attraversava l’intera città.
Tutto è andato
completamente
perduto pure il
multiforme arredo
statuario del Foro,
comprendente
emblemi gruppi
dinastici e capolavori
dell’arte classica che
Costantino aveva
fatto portare da tutte
le città dell’Impero,
distrutti da incendi,
dai vandalismi degli
iconocalstici e dai
Latini nel 1204.
Di questa
straordinaria
popolazione di statue,
oltre alla
testimonianza di
fonti, resta memoria
in più di un
documento grafico,
tra cui spicca un
gruppo di disegni
realizzati da Lambert
de Vos, un artista
fiammingo che
soggiornò a Costantinopoli tra 1574 e 1575 al seguito
dell’ambasciatore Karel Rijm, raccolti in un album che è conservato
nella biblioteca del Trinity College di Cambridge, e uno di questi
disegni, relativo alla colonna di Arcadio, sita nell’omonimo Foro,
riproduce nei minimi particolari le forme e i decori, i rilevi della
spirale, in cui si vede una rappresentazione a volo d’uccello del Foro
di Costantino.

All’interno di distinguono le silhouettes


di alcuni dei tanti gruppi statuari
descritti dalle fonti ed anche della
colonna di Costantino, sulla
quale, proprio il giorno della
inaugurazione della città, l’11
maggio 330, fu posta come sua
effigie una colossale statua di
Helios in bronzo d’orato e stando
alla testimonianza delle fonti,
questa statua aveva il capo cinto
da un diadema raggiato e che
reggeva il globo mentre con la
destra impugnava la lancia. Più
volte danneggiata da terremoti, la
colossale statua s’infranse al
suolo con il sottostante capitello
durante la violenta tempesta di
vento del 1106 e fu sostituita da una croce, e per tutta la durata
dell’impero bizantino la colonna di Costantino, come è rappresentata
nella veduta disegnata intorno al 1420 da Cristoforo Buondelmonti fu
sempre considerata il simbolo della fondazione e dell’esistenza stessa
della città.

Allo stato attuale la colonna porfiretica, la cui altezza oggi misura


34,80 contro i 37 metri originari, che da sosta privilegiata lungo il
percorso delle processioni imperiali è ora divenuta fermata della linea
tranviaria, risulta modificata nelle proporzioni per
via dell’involucro di muratura
ottomana che dal 1779 ne avvolge il
basamento.

Come mostra un altro disegno del 1575


sempre di Lambert de Vos, l’alto basamento
della colonna era posto su una piattaforma
sopraelevata da 4 gradini ed era decorato solo
nella parte inferiore da un semplice motivo
cassettonato arricchito da elementi floreali.
Nel disegno di distingue un’ampia frattura
sull’imoscapo.

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