L’impero bizantino dal IV al XV secolo: profilo storico e artistico
Nell’immaginario collettivo del nostro tempo la nozione “arte bizantina” corrisponde sostanzialmente a tre cose: 1. Tutte le icone che inondano il mercanto antiquario che sono più o meno legalmente esportate, questo per il grande pubblico 2. Persone di media cultura: mosaici medievali del territorio italiano, senza distinzioni di tempo, ma con un riconoscibile addensamento a Ravenna 3. Per chi ha una cultura umanistica più raffinata: arte bizantina = maniera greca, cioè quella produzione pittorica, anche a soggetto sacro, prevaltemente mariano, del Duecento e del primo Trecento, soprattutto italiano, che rispondevano alle esigenze conservatrici di una clientela eccelesiastica, tesa con ardore a riaffermare la forza della tradizione. A questa maniera greca venne contrapposta l’arte “nuova” di Giotto e dei pittori toscani che tennero viva la fiamma della cultura bizantina e della maniera greca italiana. Per lo storico dell’arte bizantina nessuna di queste categorie appare definire l’arte bizantina perché nel primo caso si tratta della produzione tardissima (Otto-Novecento) di Stati che furono all’origine della cultura bizantina, ma che assumono una fisionomia artistica molto personale, in particolare i territori di Russia e Ucraina, la cui arte si apparenta solo per il sostrato cristiano-ortodosso. Nel secondo caso qualche elemento di verità potrebbe esserci se si considera che, in effetti, il mosaico fu la tecnica artistica prediletta dai bizantini per la decorazione monumentale e come tale esportata a più riprese, tramite l’arrivo di botteghe greche anche in Italia. Celebri i casi della committenza dell’abate Desiderio di Montecassino nell’XI secolo e dei Re normanni di Sicilia. Assai più complessi i casi di Ravenna e di Venezia, dove appare più difficile valutare il diretto contributo di maestranze e di “culture” provenienti dai territori dell’imperatore di Costantinopoli. L’arte del mosaico non conosce soluzione di continuità in Italia dal tardo Impero romano fino alla fine del Medioevo, e l’esempio di Roma con la sua straordinaria, interrotta serie di decorazioni musive tra V e XIII secolo, ma anche di Milano, dove si conservano meno opere ma che dovette avere per certi versi un percorso analogo, ne sono esempi chiarificatori. Il terzo caso appare chiaramente il più complesso essendo il frutto di un approccio critico ormai pluricentenario, dal Trecento passando attraverso la codificazione di Giorgio Vasari. Ai nostri occhi le opere della “maniera greca” appaiono sì copiate o ispirate a prototipi bizantini, ma con caratteri specifici assai pronunciti che ne contano l’origine occidentale. A nessuno dei casi sopra enunciati dovrebbe essere attribuita la definizione di arte bizantina, se non con infinite e sofisticate definizioni. Qual è l’arte bizantina propriamente detta ? A rigore, in questa categoria dovrebbe rientrare tutta la produzione artistica, architettura, pittura, scultura, miniatura, arti suntuarie, dei territori direttamente soggetti politicamente all’imperatore bizantino, detto Basileus, che risiede a Costantinopoli, nel periodi di tempo che va dalla scelta ad opera di Costantino nel 324 fino alla caduta il 29 maggio 1453 sotto l’urto del tremendo assedio portato dalle armi ottomane comandate dal sultano Maometto II, appunto detto il Conquistatore, che è anche il fondatore dell’Impero ottomano, erede di molte tradizioni bizantine, ma di fede musulmana, destinato a durare fino al 1918 con la fine della prima guerra mondiale. Rientra a piano titolo nella definizione di arte bizantina anche la produzione artistica di quei territori che nell’avvicendarsi dei secoli dipesero culturalmente da Bisanzio, definiti come “aree provinciali di Bisanzio”, ove il contratto diretto con il cuore dell’Impero, e con i suoi artisti fu continui e diretto, così come lo scambio di maestranze. Di particolare significato sono i regni dei Serbi e dei Bulgari, la Russia di Kiev, l’Armenia e la Georgia, per l’Italia, invece, la nozione di “area provinciale di Bisanzio” appare limitativa e non può essere applicata, anche se fino al 1071 larga parte del meridione italiano fu sotto la diretta amministrazione bizantina. Dopo la caduta di Bisanzio, centro politico e religioso, ma anche centro di creazione, per molti secoli propulsore anche di fenomeni artistici, sarà in ogni caso parlare di “arte post-bizantina” o “arte della Cristianità d’Oriente”. Un’altra considerazione è quella cronologica. L’impero bizantino fu sostanzialmente uno Stato centripeto al cui centro vi era Bisanzio, per molti secoli unica grande metropoli del Mediterraneo, poiché nessun’altra città e in nessun momento potè sostituirla almeno dal momento in cui i successori di Costantino e sotto la dinastia di Teodorio I, si consolida il suo ruolo di capitale, sede imperiale e “Nuova Roma”, erede della cultura e delle tradizioni ellenistico- romane, residenza praticamente esclusiva del sovrano, della sua corte, del Governo imperiale, e allo stesso tempo sede del patriarca Ecumenico, primo fra i Patriarchi autocefali e guida spirituale dell’impero, anche se era comunque sottomesso all’autorità imperiale, che si riteneva investito direttamente da Dio e dunque aveva l’ultima parola in materia di fede. L’opera di ingrandimento, monumentalizzazione e abbellimento della piccola polis greca di Bisanzio portata avanti con determinazione e spirito visionario dai sovrani nei secoli IV-VI, opera intonata ad una grandeur veramente “romana”, fece si che la città diventasse in un tempo breve centro di creazione e propulsione di ogni manifestazione artistica, e con fortissima capacità di espansione e di esportazione dei propri manufatti e della propria “poetica”; se infatti nei primi due secoli ancora possiamo vedere attive le diverse componenti culturali e gli influssi diversi, con il VI secolo e con il regno di Giustiniano (527-565) tale sintesi appare completata; la produzione artistica bizantina, il suo gusto, le sue maestranze, iniziano ad espandersi nel Mediterraneo e l’Italia è l’esempio migliore di questo caso. È sempre Bisanzio con le sue botteghe artigiane, ma anche gli opifici del Palazzo imperiale e con le maestranze esterne che lavorano per la committenza più elevata, nonché i laboratori di scrittura interni ai principali monasteri della città, a dettare leggere in campo artistico, a creare vere e proprie mode, a rinnovare la propria arte, attraverso le varie Rinascenze, artistiche si ma più ampiamente “culturali”, che punteggiano la sua vicenda storica. Rinascenze tutte sorrette da quel sostrato ellenistico-romano che percorre senza soluzione di continuità tutta la storia dell’arte bizantina, quello che il Kitzinger definì straordinariamente, “ellenismo perenne”, e che rende ormai obsoleto l’antico dilemma “Oriente o Roma”, che per decenni ha diviso la critica. L’apporto orientale alla formazione dell’arte bizantina stessa è ovviamente innegabile ma, dopo il VI secolo, sembra che Bisanzio tragga sempre nuova linfa vitale della rielaborazione proprio di quel suo sostrato culturale tradizionale, e gli influssi orientali, in particolar modo del modo islamico. L’impero bizantino è una creazione della storiografia, relativamente, recente proprio perché i bizantini consideravano il loro impero l’impero dei Romani, parlarono ufficialmente il latino fino al VII secolo, il loro sovrano fu l’imperatore dei Romani creando una continuità che li legava a Cesare e Augusto. Anche l’arte bizantina è, in massima parte, o politica o religiosa, comunque sia propagatrice di messaggi all’epoca ovviamente assai più chiari di quanto non sembri a noi oggi, non più in grado di intendere compiutamente la “voce dei monumenti” che, comunque, ancora ci parlano della Civiltà che li ha espressi. L’arte sacra appare preponderante rispetto a quella profana e ciò ha fatto si che troppo spesso si sia pensato al mondo bizantino, e all’artista bizantina, quasi sempre anonimo, come tutto teso alle questioni dello spirito, oppresso e soffocato da un Cristianesimo onnipresente e bigotto. Se è vero, da un lato, che la spiritualità cristiano-ortodossa ha un forte peso sulla struttura politico-sociale della società bizantina, e anche sulla vita quotidiana, è anche soprattutto, vero che noi studiamo quello che ci è giunto. Il periodo di studio è molto lungo; il Millennio bizantino, in realtà oltre millecento anni, necessita dunque di una periodizzazione che consenta di scandirlo: - PERIODO PALEOBIZANTINO (324-726) - PERIODO DELL’ICONOCLASTIA (726-843) - PERIODO MEDIOBIZANTINO (824-1204) - PERIODO TARDOBIZANTINO (1261-1453)
PERIODO PALEOBIZANTINO (324-726)
Età costantiniana All’inizio di questo percorso si ponga effettivamente la scelta di Costantino, unico imperatore dopo la sconfitta di Licinio, di fissare, nel 324, la propria residenza nella cittadina greco-romana di Bisanzio, in una posizione strategica molto fortunata. Come prassi, si iniziano i lavori per monumentalizzare il luogo e renderlo degno di accogliere il sovrano; questa volta appare evidente che l’obbiettivo è quello di realizzare una città che possa diventare una vera capitale, quella “Nuova Roma” della titolatura ufficiale, quale mai le altre molteplici sedi imperiali dell’età tardo-antica sono state, come Milano, Treviri, Sirmio, Nicomedia e altre fino a Ravenna. Il sito è particolarmente impervio, scandito da sette colline e dalle relative valli, le cui pendici degradano rapidamente verso il Mar di Marmara a sud, e a nord verso quella stretta lingua d’acqua che si incunea profondamente verso l’interno del territorio, conosciuto come Corno d’Oro. Fidando sulle straordinarie capacità ingegneristiche dei Romani, grazie ad un ardito sistema di livellamenti e terrazzamenti, Costantino inizia a costruire la sua nuova città appena al di fuori del nucleo della città antica e della sua Acropoli, sulla punta del promontorio, con i templi pagani per ora lasciati in esercizio. Dai monumenti edificati dall’imperatore restano poche tracce archeologiche, ma molto è noto dalle fonti letterarie come la Vita Costantini di Eusebio, vescovo di Cesarea, ma anche dalle storie ecclesiastiche di Socrate e di Sozomeno. Di fondamentale importanza vi è la Notitia Urbis Costantinopolitanae del 425 circa, unico testo in nostro possesso che descriva la città seguendo la suddivisione amministrativa in 14 regioni che era stata adottata sul modello di Roma. Appare evidente che Costantino intende realizzare una capitale imperiale, politica ed economica, non una “capitale cristiana”, ma la costruzione di enormi e ricchissimi edifici di culto, ma anche edilizia civile. Età teodosiana La cristianizzazione di Costantinopoli appare procedere relativamente a rilento. Anche Teodosio I (379-395), che pure chiuderà definitivamente i templi pagani e farà del cristianesimo la religione di Stato, appare piuttosto distratto nella costruzione di chiese, gli si attribuiscono solo pochi edifici minori, e anche l’uso di simboli cristiani che egli usa nelle opere. Consistente è il suo contributo all’urbanistica cittadina grazie alla costruzione di un nuovo Foro: il Foro di Teodosio. Poco distante in linea d’aria, e sempre sul corso della Mese, da quello di Costantino, anche questo Foro, appare fortemente monumentalizzato sempre nel solco della tradizione romana: forma quadrata, e traeva, forse, ispirazione dal complesso di Traiano a Roma: vi si accedeva tramite un arco trionfale, di cui restano importanti tracce archeologiche, forse a tre fornici o tetrapilo, le cui grande colonne rappresentavano tronchi d’albero dai rami segati: la presenza di una mano che stringe in alto il tronco rivela poi trattarsi più precisamente della clava di Ercole, altra divinità protettrice dell’imperatore romano. Il Foro ospitava poi una grande colonna coclide (con il fregio a spirale) anch’essa esemplificata su quelle di Traiano e di Marco Aurelio. E dunque anche la nuova città ebbe due colonne coclidi celebrative delle vittorie militari dei sovrani: questa e quella dedicata ad Arcadio della quale resta il monumentale basamento. Quella di Teodosio ne restano solo alcuni frammenti e vista nel basamento del Bagno del sultano Beyazit II, costruito al suo posto, e oggi al Museo Archeologico. Un fondamentale contributo all’urbanistica di Costantinopoli fu dato dal nipote Teodosio II (408-450) che si deve tra l’altro la ricostruzione di Santa Sofia, bruciata nel 404 nel corso dei tumulti succeduti alla deposizione di San Giovanni Crisostomo dal trono patriarcale, e riconsacrata nel 415, nonché la possente triplice cinta muraria di terra (fossato, primo muro più basso, secondo muro più alto), di dimensioni colossali, che rese per un millennio la città inespugnabile, fatto salvo il tradimento dei Crociati nel 1204 e i cannoni dei Turchi nel 1453. In questa si apre una porta monumentale, la Porta d’Oro, che da sulla Via Egnazia, riservata all’ingresso dell’imperatore e dei trofei militari. Età giustinianea Un altro periodo caratterizzato da uno splendore architettonico e artistico è quello dominato dalla preponderante personalità dell’Imperatore Giustiniano (527-65) al secolo Flavio Pietro Sabbazio, e dalla consorte Teodora (527-48), la cui influenza si estende dal regno dello zio Giustino I (518-78), che Giustiniano coadiuvò nella gestione dell’Impero, a quello del nipote Giustino II (565-78), che invece dovette assistere al rapido dissolversi del sogno di restaurazione imperiale romana dello zio. Dell’età giustinianea, per l’ambito artistico vi è una opera fondamentale, che è quella di Procopio di Cesarea intitolata: De Aedificiis, che traccia un’ampia panoramica delle realizzazioni giustinianee nell’ambito dell’impero. Sul piano politico e culturale egli opera la sistemazione del diritto che è raggruppato nel Corpus Iuris Civilis, che trasmette ai posteri la legislazione romana imperiale e proto-bizantina, e anche il tentativo di restituire all’impero la sua dimensione mediterranea, riconquistando l’Africa del Nord e soprattutto l’Italia ai Goti con la famosa Guerra Gotica, che segna la fine traumatica dell’età classica e l’inizio del medioevo per il nostro Paese. Monumento simbolo dell’età di Giustiniano e del mondo bizantino stesso è la chiesa di Santa Sofia (Divina Sapienza) di Costantinopoli, ora alla sua terza ricostruzione e giunta fino a noi sostanzialmente nella sua facies giustinianea. L’edificio venne raso al suolo nel corso della rivolta di “Nika” del 532, che quasi travolge Giustiniano e che in pochi giorni riduce in cenere il nucleo centrale della città. Schiacciata la rivolta in un bagno di sangue, il sovrano inizia la ricostruzione dei monumenti distrutti, compresa Santa Sofia, e la Santa Irene, ma anche di altri complessi monumentali della città quali la chiesa dei Santi Apostoli. La costruzione di Santa Sofia procede speditamente tanto che nel 537 è possibile consacrare l’edificio, evento solennizzato da Procopio in una descrizione che si apparenta strettamente ad una ekphrasis, un poema celebrativo di un monumento, che contiene una presentazione accurata dello stesso. Un monumento di tale complessità non può prescindere da una accurata elaborazione teorica, e non possiamo certamente parlare di “progettazione”, ma è significativo che la responsabilità della costruzione venne affidata a due celebri matematici: Antemio di Tralles e Isidoro di Mileto, tra i pochissimi architetti e artisti bizantini di cui si conosca il nome, che erano tecnici evidentemente in grado di calcolare il comportamento statico dell’edificio. Le dimensioni erano però tali, circa 70 x 74 metri le dimensioni della base, per una altezza di 60 metri, da esorbitare tutto ciò che l’ingegneria romana aveva prodotto fino a quel momento, e così come il nuovo sistema di impostare una cupola di circa 31 metri di diametro sui pennacchi = segmenti di sfera che riducono il quadrato d’imposta della circonferenza, era stato sino ad allora impiegato solo per piccoli edifici. Questo provocò in corso d’opera deformazioni strutturali dei pilastri e dei muri perimetrali, nonché all’inserimento di possenti contrafforti che ancora ne caratterizzano l’aspetto esterno, necessari per contrastare le spinte verso l’esterno, appunto dei muri perimetrali stessi, soprattutto nella prima fase di costruzione in cui fu messa in opera una cupola a sesto ribassato, circa 7 metri più bassa dell’attuale, che esercitò una spinta verso l’esterno fino a crollare nel 558 ed essere immediatamente ricostruita da Isidoro il Giovane, nipote del precedente nel 562. La cupola che noi oggi possediamo vedere è questa per oltre la metà della sua superficie: parziali ricostruzioni sono state condotte nel post-989 dall’architetto armeno Tiridate e dall’italiano Giovanni Paralto nel 1346-54, dopo i relativi crolli causati dai frequenti terremoti che funestano quella regione. L’invaso spaziale non è però mai mutato, e vedendo la pianta possiamo definirla come basilica con cupola, visto che la scansione in tre navate appare evidente, se però se ne sperimenta fisicamente la spazialità la situazione appare chiaramente assai diversa; il grande vano (naos) coperto dall’altissima cupola, alleggerita all’imposta da una fila di finestre, è uno spazio prettamente centrale; le “navate laterali”, diverse come sono dai grandi pilastri dallo schema delle colonne in marmo verde di Tessaglia, dalle esedre colonnate in porfido ai quattro angoli, sono praticamente invisibili e immerse nell’oscurità, in contrasto con il naos inondato di luce naturale. Ma la fase propulsiva di Giustiniano, è anche militare, politica, artistica al tempo stesso, estesa fino agli estremi confini dell’Impero come testimoniano superbi monumenti in altre parti dell’Impero. PERIODO DELL’ICONOCLASTIA (726-843) Tale periodo, che copre, con alterne vicende, non può essere considerato come un tutto omogeneo, sorretto da una ben precisa ideologia. L’iconoclastia è la “lotta contro le immagini”, e ha come principale fondamento teologico l’affermata impossibilità di circoscrivere in un’icona la natura divina del Cristo, contravvenendo così al fondamentale dogma della duplice natura di Cristo, divina e umana. Dall’immagine del Salvatore, la proibizione delle immagini si estende a tutte quelle a carattere sacro, fino alla distruzione di tutto l’esistente. Gli iconoduli difenderanno sempre la loro tesi, che finirà per prevelare, secondo la quale Cristo essendosi incarnato, può ben essere raffigurato sotto l’aspetto umano. Da un lato sembrano patteggiare per l’iconoclastia imperatori, esercito e gran parte del clero secolare; sono invece contro imperatrici e le donne in generale, e i monaci. È anche contrario all’Iconoclastia, in qualunque forma il papato di Roma, e dunque i cristiani d’Occidente, che finirà per questo motivo per staccarsi anche dalla tutela nominale dell’Imperatore bizantino, legandosi sempre più al mondo dei Franchi e di Carlo Magno.
Il secolo iconoclasta può essere diviso in:
- 730-787: prima fase dell’iconoclastia con distruzioni e massacri di avversari che copre il periodo dei regni di Leone III (717- 741) e del figlio Costantino V (741-775) - 787-815: 1a restituzione delle immagini ad opera di Irene, reggente per contro del figlio Costantino VI (780-797), che viene proclamata nel giustamente celebre secondo il Concilio di Nicea del 787, ove la dottrina iconodula si perfeziona - 815-843: seconda iconoclastia che corrisponde ai regni di Leone V (813-820), Michele II (820-29) e Teofilo (829-42), durante la quale si distruggono solo le icone d’uso ma si velano o si ricoprono di intonaco bianco quelle non venerabili perché lontane dal possibile contatto fisico - 843: Teodora, reggente per Michele III (842-67) ristabilisce il culto delle icone secondo i criteri di Nicea. L’ultimo e definitivo pronunciamento imperiale a favore delle icone è quello di Basilio I (867-86) nell’870 A questo movimento concorsero le motivazioni teologiche e le tendenze avverse alle immagini da sempre presenti nella Cristianità orientale. A queste aggiungiamo un più stretto contatto dei bizantini con gli Arabi, notoriamente avversi alla raffigurazioni dei viventi. Dopo la vittoria degli inconoduli, l’arte degli sconfitti, la loro letteratura, le immagini dei sovrani esecrati furono a loro volta condannate alla distruzione, e dunque è difficile farsi una idea della produzione artistica dell’età iconoclastica, però le scarne testimonianze di cui disponiamo fanno ritenere che all’interno degli edifici di culto siano state introdotte raffigurazioni a carattere simbolico quali quelle dei Concili, conservatesi nella navata della Chiesa della Natività a Betlemme. Dell’arte monumentale profana nulla resta in pratica nei territori dell’Impero.
PERIODO MEDIOBIZANTINO (843-1204)
Età macedone Uscito rinvigorito e ricompattato dalla crisi iconoclastica, l’Impero ricomincia a guadagnare terreno, conquistato i territori italiani e nei Balcani, consolidando la frontiera con l’Islam, introducendo nuovi sistemi di organizzazione amministrativa interna. A questo rinnovato prestigio internazionale corrisponde una nuova fase artistica, una sorta di recuperata “età dell’oro”, che viene indicata come Rinascenza macedone, dal nome della dinastia che da Basilio I il Macedone nell’867 fino a Teodora nel 1065, tiene saldamente le redini dello Stato. Potremmo dire che l’arte della Rinascenza macedone si fonda su due pilastri: - recuperata sintonia con le proprie radici ellenistico-romane, classiche - rigorosa regolamentazione di tutto ciò che riguarda l’arte sacra, necessario compromesso, con le posizioni degli iconoclasti moderati Sotto il regno di Basilio I riprende vigore la costruzione di nuovi edifici ecclesiastici, favorita dalla tradizionale committenza imperiale da un lato, e dall’altro di un nuovo ceto che dispone di grandi ricchezze, attivo nell’amministrazione imperiale, che pure, per investimento e a beneficio della propria anima, si dedica alla costruzione di chiese, normalmente conventuali, attraverso le quali fornire un servizio alla collettività. Purtroppo nessuna delle chiese “macedoni” di Bisanzio si sono conservate le decorazioni pittoriche e musive, tranne che quelle di Santa Sofia, che custodisce ancora una serie di mosaici figurati che si scaglionano tra l’867 e il 1356. Evidentemente con la ripresa ufficiale del culto delle immagini ci si sentì in dovere di inserire anche in questa chiesa le sante icone, quale manifesto programmatico del rinnovato culto nell’edificio-simbolo dello Stato bizantino e al fine di accentuare l’enfasi sul dogma dell’Incarnazione del Signore, sostegno ideale all’iconodulia. Se dunque la decorazione monumentale a mosaico e ad affresco appare sufficientemente documentata, nei duecento anni della “Rinascenza macedone”, ancor di più questa affermazione risulta valida se si considera la produzione dei codici miniati, giunti fino a noi in numero considerevole, che attinge proprio in quei scoli di vette qualitative del suo genere, e a questi basti aggiungere la produzione di avori intagliati e l’oreficeria le cui più comuni categorie sono placche, dittici e trittici con raffigurazioni sacre, siano esse persone o feste liturgiche, a carattere ufficiale, di propaganda imperiale, o anche di produzione di cassettine a rosette. L’uso diffuso dell’avorio cessa nei secoli X-XI quasi del tutto nelle epoche successive a causa dell’alto costo di tale materiale, importato dall’Africa attraverso mercanti arabi. Per l’oreficeria numerosi sono gli esempi dell’altissimo livello qualitativo raggiunto dalle botteghe costantinopolitane attive nell’orbita del Grande Palazzo imperiale, e un gran numero di questi preziosi oggetti è giunto in Occidente come parte del bottino crociato del 1204. Età comnena Con la morte della monarca Teodora, sorella dell’imperatrice Zoe e ella stessa ultima imperatrice si chiude la storica vicenda della dinastia macedone. Si apre un trentennio di instabilità politica e torbidi sociali che culmineranno del 1071 quando l’Impero cederà a Oriente sotto l’urto dei Turchi Selgiuchidi, nella battaglia di Munzikert sconfiggendo Romano IV (1068-71) e dilagano rapidamente in tutta l’Anatolia, e a Occidente sotto la pressione di Normanni che cacciano da Bari l’ultima guarnigione bizantina dal suolo italiano. Dopo un frenetico avvicendarsi di sovrani legittimi e usurpatori, sale al trono Alessio I Comneno (1081-1118), esponente di un vero e proprio clan che riunisce le più importanti famiglie dell’aristocrazia dei proprietari terrieri, il quale riesce a consolidare il proprio potere e a fondare una dinastia familiare. Se pur ridotto l’Impero non perde il suo prestigio internazionale: intorno al 1070 maestranze bizantine si recano a Montecassino, chiamate dall’abate Desiderio, per decorarvi la chiesa abbaziale; tra il 1130 e il 1180 circa, diverse botteghe lasciano Bisanzio per recarsi a lavorare in Sicilia, ove le fondazioni dei Re normanni ancora testimoniano l’altissimo livello della loro produzione, e negli stessi anni è probabile che artisti bizantini siano a Venezia per avviarvi la decorazioni musiva di San Marco. Però molte delle grandi decorazioni in patria sono del tutto scomparse, e non resta quasi nulla dell’originaria decorazione parietale interna delle tre chiese collegate l’una all’altra in un complesso grandioso, del monastero dinastico del Pantocrator, che ancora oggi domina il Corno d’Oro da un’alta collina, che era stato costruito per ospitarvi le sepolture familiari, un mausoleo dunque da Irene a Giovanni II Comneno (1118-1143), in varie fasi ma dedicato nel 1136, conserva ampi lacerti del prezioso tappeto in opus sectile e dei rivestimenti marmorei parietali. Mosaici di età comnena restano però sia in Santa Sofia che a Defnì, nei pressi di Atene, il cui ciclo viene solitamente datato sullo scorcio del secolo. Quest’età aurea, che però già contiene germi di forte degradazione, termine brutalmente con l’uccisione nell’ippodromo, da parte della plebe inferocita, di Andronico I Comneno (1183-85) e il massacro dell’intera famiglia imperiale. Venti anni dopo, nel 1204, Costantinopoli viene conquistata dai Crociati e vi si installa un imperatore occidentale, il conte Baldovino di Fiandra. I territori ceduti in mano dei Latini vengono divisi tra i capi militari secondo le leggi feudali vigenti in Europa. Si formano tre stati greci: l’impero di Trebisonda, il Despotato d’Epiro e l’Impero di Nicea, e da quest’ultimo partirà la riscossa che culminerà nel luglio 1261 con la riconquista di Costantinopoli. PERIODO DELL’IMPERO LATINO (1204-1261) Subito dopo l’uccisione di Andronico I Comeno nel 1185 si apre per Bisanzio una fase turbolenta che culmina con la conquista latina del 1204. Vediamo le grandi linee. La palese debolezza dell’Impero bizantino aveva suscitato insieme ai molti aspetti anche la convinzione che sarebbe bastata una spallata per far crollare l’antica e putrefatta struttura. Fu l’anziano ed energico doge di Venezia, Enrico Dandolo, a prendere in mano la situazione, fornendo navi e mezzi per la IV crociata, bandita da Innocenzo III, ma deviandone l’obbiettivo prima sulla costa dalmata e infine sulla stessa Bisanzio. Il 16 maggio viene incoronato in Santa Sofia Baldovino di Fiandra primo imperatore latino, con ridottissima giurisdizione territoriale e anche meno prestigio; i Veneziani presero il controllo di gran parte delle coste e delle isole al fine di proteggere e promuovere i loro commerci con l’Oriente; il rimanente territorio fu spartito tra i vari signori crociati, soprattutto italiani, francesi e borgognoni, creando un indescrivibile mosaico di staterelli di più o meno lunga durata che non sarà mai più ricomposto se non dai Turchi ottomani nel XV e XVI secolo. Questa situazione storico-politica così tormentata non favorisce affatto lo sviluppo e l’affermazione creativa artistica, in particolare a Costantinopoli non si hanno notizie o tracce di nuove fondazioni ascrivibili a questi anni anche se una testimonianza di pittura monumentale esiste, seppur assai singolare ed anomala: il ciclo di affreschi con scene della vita di San Francesco d’Assisi, venuto alla luce in condizioni frammentarie in una cappella ricavata nelle strutture di una delle più belle chiese bizantine nella città oggi denominata Kalenderhane Camii, di cui si ignora l’originaria dedicazione, fosse alla Vergine Kyriotissa, databile per le potenti strutture oggi visibili e fatte risalire agli anni 1180-1200 ma su fondazioni assai più antiche. Il ciclo, di pura marca occidentale, sia per la scelta del santo, venerato solo in Occidente, sia per lo stile goticheggiante, è datato con certezza agli anni 1228-61. Anche la produzione artistica dell’Impero di Nicea è poco nota, però in questa città fu realizzato un grande tessuto ricamato detto Pallio di Genova, a testimonianza di un accordo tra Michele VIII Paleologo il 13 marzo 1261 con gli ambasciatori veneziani in funzione anti- veneziana. PERIODO TARDO-BIZANTINO (1261-1453) L’età paleologa Fu Michele VIII Paleologo (1259-82), reggente per il giovane Giovanni IV Lascaris (1259-61), a riprendere possesso della capitale praticamente senza combattere approfittando dell’assenza degli sparuti difensori latini della città. Rientrando in città dalla Porta d’Oro delle mura teodosiane, come in un antico trionfo, ma ora al seguito della veneratissima icona dell’Hodigitria, il 15 agosto 1261, solennità della Koimesis (Dormizione) della Vergine, egli attraversò tutta la città, che non aveva mai visto prima essendo nato in esilio, fino a Santa Sofia, dove venne incoronato insieme alla moglie Teodora e al figlio Andronico II, inaugurando l’ultima dinastia della storia bizantina, infatti Costantino XI Paleologo morirà il 29 maggio 1453 sulle mura, nei pressi della Porta di San Romano, nel disperato tentativo di fermare gli Ottomani. L’enorme città si trovava in condizioni di abbandono e spopolamento. I grandi complessi monumentali, spesso in disuso da tempo immemorabile, era stato divorati da incendi e ricoperti da vegetazione. La scarsa, impoverita popolazione risiedeva lungo le coste del promontorio e intorno ai principali santuari religiosi. I palazzi imperiali erano praticamente inabitabili. Michele VIII cerca, se pur nel possibile, di restaurare la città, di far rivivere le grandi tradizioni dei secoli aurei di Bisanzio e come tale rivolge la sua attenzione, oltre che alle difese e alle dimore imperiali, alle chiese e ai complessi monastici, in particolar modo Santi Apostoli e Santa Sofia. Per solennizzare le sue imprese fa innalzare nei pressi dei mausolei di Costantino e di Giustiniano una colonna onoraria sulla quale pone un gruppo scultoreo, forse in bronzo raffigurante l’arcangelo Michele ai cui piedi si prostra l’imperatore con in mano il modellino della città che viene offerto al celeste protettore. Anche Santa Sofia rimane un’opera che forse rimandare ad un intento celebrativo di Michele VIIII e delle sue gesta. Si tratta della monumentale Deesis, realizzata a mosaico nella campata centrale della galleria sud, proprio di fronte al luogo in cui si era fatto seppellire Enrico Dandolo, le cui ossa vennero riesumate e bruciate. L’ultima stagione di Bisanzio si apre con uno straordinario capolavoro, altissimo sia sotto il profilo dell’emozione che sotto quello della tecnica e che rende accettabile quel concetto di “Rinascenza paleologa” che è stato enunciato e che viene riferito al regno di Andronico II (1282-1328), ma che ha delle propaggini sotto il regno di Andronico IIII (1328-1341), Anna Paleologina, reggente dal 1341 al 1347, e i primi due decenni del regno di Giovanni V (1341-91). Cicli musivi più o meno conservati si trovano nel parekklesion della ex-chiesa della Pammakaristos, nella chiesa della Chora, nel nartece della chiesa Vefa Kilise. Infine nel segno di Santa Sofia, appare chiudersi l’ultima grande stagione del mosaico bizantino. Quella che dovette essere l’estrema, grande realizzazione di tale genere nella capitale è però la ridecorazione dell’arcone est della Grande Chiesa, crollato insieme ad un quarto della cupola nel 1346, a causa dei postumi di un terremoto. Alla ricostruzione sovraintesero Anna Paleologina, l’usurpatore Giovanni VI Cantacuzeno, il restaurato Giovanni V. In questo periodo non vengono costruiti ex novo grandi monumenti ma si preferisce aggiungere a quelli esistenti annessi di vario genere, funzione e dimensione, e infatti iniziatrice di questa prassi appare già essere stata l’imperatrice Teodora, moglie di Michele VIII Paleologo, che, nel 1282 circa, annette alla preesistente chiesa di Costantino Lapis, degli inizi del X secolo, un’altra chiesa, al fine di farne un pantheon dinastico. Niente di così vasto fu più intrapreso, almeno in città. Di grande rilievo è il cosiddetto Takfur Saray, edificio palaziale appartenente forse, al complesso del palazzo imperiale delle Blacherne, situato nei pressi delle mura di terra non lontano dalla Chora. In palazzi come questo dovette svolgersi la vita dell’ultima corte bizantina, ormai pallida ombra di quella splendida realtà che aveva impressionato gli Occidentali in età macedone e comnena. I gioielli sono orami paste vitree, le stoviglie d’oro e d’argento poveri cocci. Pure gli imperatori, come anche i più importanti funzionari e aristocratici, continuano a commissionare splendidi codici miniati, sovrabbondanti d’oro la cui produzione è ancora attestata nell’ambito degli scriptoria monastici. Se non fosse per umanissimi volti si potrebbe quasi pensare ad un’immagine di età macedone o comnena. Insieme a quella dei codici miniati continua con esisit altissimi la produzione di icone, tra le quali spiccano quelle realizzate con la tecnica del mosaico minuto, a tessere di dimensioni ridottissime, che raggiunge il suo apice in questa epoca. Mentre Cosntantinopoli declina, altri centri dell’Impero si affermano per quantità e importanza di realizzazioni archiettoniche e decorative, e tra questi vi sono Tessalonica e Mistrà. Nella prima vanno ricordate le chiese dei Santi Apostoli, Santa Caterina, San Panteleimone, del Profeta Elia, di San Nicola Orfano e altre che conservano la loro decorazione marmorea, musiva e ad affresco. Completamente diversa la sorte di Mistrà nel Peloponneso meridionale, che possiede chiese ma anche palazzi e abitazioni civili, che costituiscono uno dei complessi più straordinari e spettacolari del Medioevo bizantino. IL FORO E LA COLONNA DI COSTANTINO Come nuova capitale Costantino scelse l’antica Bisanzio in ragione della sua posizione geografia messa in risalto da: - Tabula Peutingeriana (IV-V secolo) che mostra la città con il simbolo di una colonna di Costantino e accanto la figura della Fortuna alla quale fu attribuito il nome di Anthousa = la florida
- Moneta d’argento risalente al 330. Sul dritto
abbiamo il profilo di Costantino idealizzato con voluminosa acconciatura e sguardo rivolto verso l’alto, nel rovescio la figura di Anthousa seduta in trono e con in mano una cornucopia e un piede poggiato su una nave come simbolo della potenza marittima di Bisanzio. Questa moneta è stata coniata dalla zecca di Costantinopoli e sul rovescio ha anche due scritte verticali (DN CONSTANTINUS E MAX TRIUMP AUG; nell’esargo MCONST) Il profilo di Costantino, modellato con ampi piani poco differenziati, mostra una struttura compatta, accentuata anche dalla foggia dell’acconciatura con voluminose ciocche di capelli. L’immagine risulta come soffusa da un’aura idealizzata, sottolineata anche dallo sguardo rivolto verso l’alto, secondo un modello iconografico che richiama i coni monetari di Alessandro Magno. Per questo tipo di effigie è stata suggerita anche una probabile derivazione di un raffronto più ravvicinato con un ritratto di Costantino conservato nel Museo Archeologico di Istanbul
La nuova capitale progettata dagli architetti di Costantino si sviluppò
sulla modulata dorsale del promontorio triplicando l’estensione del preesistente impianto urbano di Bisanzio, e proprio dove si estendevano le necropoli, dinanzi alla porta di Tracia che si apriva nella cinta muraria romana, sorse il grande complesso del Foro di Costantino a sorta di cerniera monumentale tra l’antica Bisanzio e il nuovo spazio urbano Devastato nel corso dei secoli da incendi e terremoti, di questo grandioso complesso ispirato ad impianti architettonici di tradizione ellenistico-orientale, di cui può forse darci una idea la scenografia piazza ellittica di Gerasa in Giordania, sopravvive unicamente la monumentale colonna di porfido. Dalla descrizione delle fonti bizantine si ricava la vasta platea del Foro, pavimentata da lastre di marmo, era limitata da portici semicircolari colonnati a due piani, raccordati da est e da ovest da monumentali archi, di cui quello orientale si ergeva dinnanzi all’antica porta di Tracia, mente quello occidentale si apriva sulla Mese, la grande porticata cha attraversava l’intera città. Tutto è andato completamente perduto pure il multiforme arredo statuario del Foro, comprendente emblemi gruppi dinastici e capolavori dell’arte classica che Costantino aveva fatto portare da tutte le città dell’Impero, distrutti da incendi, dai vandalismi degli iconocalstici e dai Latini nel 1204. Di questa straordinaria popolazione di statue, oltre alla testimonianza di fonti, resta memoria in più di un documento grafico, tra cui spicca un gruppo di disegni realizzati da Lambert de Vos, un artista fiammingo che soggiornò a Costantinopoli tra 1574 e 1575 al seguito dell’ambasciatore Karel Rijm, raccolti in un album che è conservato nella biblioteca del Trinity College di Cambridge, e uno di questi disegni, relativo alla colonna di Arcadio, sita nell’omonimo Foro, riproduce nei minimi particolari le forme e i decori, i rilevi della spirale, in cui si vede una rappresentazione a volo d’uccello del Foro di Costantino.
All’interno di distinguono le silhouettes
di alcuni dei tanti gruppi statuari descritti dalle fonti ed anche della colonna di Costantino, sulla quale, proprio il giorno della inaugurazione della città, l’11 maggio 330, fu posta come sua effigie una colossale statua di Helios in bronzo d’orato e stando alla testimonianza delle fonti, questa statua aveva il capo cinto da un diadema raggiato e che reggeva il globo mentre con la destra impugnava la lancia. Più volte danneggiata da terremoti, la colossale statua s’infranse al suolo con il sottostante capitello durante la violenta tempesta di vento del 1106 e fu sostituita da una croce, e per tutta la durata dell’impero bizantino la colonna di Costantino, come è rappresentata nella veduta disegnata intorno al 1420 da Cristoforo Buondelmonti fu sempre considerata il simbolo della fondazione e dell’esistenza stessa della città.
Allo stato attuale la colonna porfiretica, la cui altezza oggi misura
34,80 contro i 37 metri originari, che da sosta privilegiata lungo il percorso delle processioni imperiali è ora divenuta fermata della linea tranviaria, risulta modificata nelle proporzioni per via dell’involucro di muratura ottomana che dal 1779 ne avvolge il basamento.
Come mostra un altro disegno del 1575
sempre di Lambert de Vos, l’alto basamento della colonna era posto su una piattaforma sopraelevata da 4 gradini ed era decorato solo nella parte inferiore da un semplice motivo cassettonato arricchito da elementi floreali. Nel disegno di distingue un’ampia frattura sull’imoscapo.