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CAPITOLO 1: CHE COS’È IL LINGUAGGIO?

1. La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio umano. La linguistica è una


disciplina descrittiva, il suo scopo non è infatti quello di indicare ciò che si deve dire
o ciò che non si deve dire ma spiegare ciò che effettivamente si dice.

Tutti i linguaggi, ovvero il linguaggio umano, il linguaggio degli animali, dei


computer, dei gesti, dei media, ecc. hanno un elemento in comune: sono tutti
sistemi di comunicazione, servono cioè a trasmettere informazioni da un individuo
(l'emittente) ad un altro (il ricevente o destinatario). Quindi tutti i vari linguaggi
sono identici nella loro funzione, ossia quella di permettere la comunicazione, ma
sono diversi nella loro struttura.

2. Una caratteristica che distingue il linguaggio umano dal linguaggio di molte


specie animali è che il linguaggio umano è un linguaggio discreto, mentre gli altri
sono continui. Questo vuol dire che i suoi elementi si distinguono gli uni dagli altri
per l'esistenza di limiti ben definiti. Ad esempio, in italiano i suoni P e B, oppure T e
D, per quanto sono molto simili, hanno però un effetto di contrasto netto; infatti,
patto vuol dire una cosa diversa da batto, e tardo vuol dire una cosa diversa da
dardo. Quindi, nella mente di chi parla e di chi ascolta non esistono entità
intermedie tra P e B, oppure tra T e D.

Inoltre, nel linguaggio umano, parole come batto o patto, tardo o dardo, sono
formate da entità più piccole, dette fonemi (come d, p, a, ecc.), nessuna delle quali
ha significato, ma se scambiata con un'altra, ha la possibilità di produrre un
significato diverso. In ogni lingua i fonemi sono in numero limitato, mentre le
parole sono centinaia di migliaia ed è sempre possibile formare parole nuove.
Quindi, una delle caratteristiche del linguaggio umano è quella di poter formare un
numero altissimo di segni, cioè entità dotate di significante e significato, mediante
un numero molto limitato di elementi (i fonemi) che non hanno significato, ma solo
la capacità di distinguere i significati. Questa caratteristica, chiamata doppia
articolazione, è assente nel linguaggio degli animali. Un'altra differenza tra il
linguaggio umano e i linguaggi animali è data dall'inventario dei segni a
disposizione in questi linguaggi: in generale i sistemi di comunicazione animale
sono caratterizzati da un numero finito di segni, invece le parole di ogni lingua
umana non costituiscono insieme finito perché si creano continuamente parole
nuove. A questa possibilità di creazione continua di nuove frasi contribuisce il
meccanismo della ricorsività: questo meccanismo permette di costruire frasi sempre
nuove, inserendo in una frase data un'altra frase, poi in quest'ultima un'altra frase
ancora e così via.
ES. In una frase semplice come “Maria mi ha colpito” possiamo aggiungere “i
ragazzi dicono che Maria mi ha colpito” e ancora “i vicini credono che i ragazzi
dicono che Maria mi ha colpito.”
Dunque, non c’è un limite alla lunghezza delle frasi di una qualunque lingua
naturale.

Con linguaggio intendiamo la capacità comune a tutti gli esseri umani di sviluppare
un sistema di comunicazione dotato di queste caratteristiche, ovvero discretezza,
ricorsività, ecc. che lo distinguono da altri sistemi di comunicazione. Con lingua
intendiamo, invece, la forma specifica che questo sistema di comunicazione assume
nelle varie comunità. Quindi, se ci riferiamo al linguaggio umano, generalmente
parliamo di linguaggio al singolare, perché questa capacità è propria della specie
umana. Invece, parliamo di lingua sia al singolare che al plurale, riferendoci alle
varie lingue del mondo. Ci sono degli elementi comuni a tutte le lingue del mondo,
chiamati universali linguistici, come ad esempio la ricorsività. Una caratteristica che
invece distingue le varie lingue è l'ordine delle parole, cioè l'ordine degli elementi
principali di una frase. In italiano l'ordine più comune in una frase è quello
soggetto, verbo, oggetto (SVO). Questo ordine è tipico anche di molte altre lingue,
come l'inglese o il francese. Per esempio, in arabo o nelle altre lingue semitiche,
l'ordine è verbo, soggetto, oggetto, mentre in lingue come il turco o il giapponese
l'ordine è soggetto, oggetto, verbo. Esistono, quindi, da un lato gli universali
linguistici, dall’altro delle proprietà che caratterizzano soltanto alcune lingue oppure
soltanto alcuni gruppi di lingue.
CAPITOLO 2: CHE COS’È UNA LINGUA?

1. Una lingua è un sistema articolato su più livelli e, dunque, è un sistema di


sistemi. I livelli linguistici sono quello dei suoni (la fonologia), quello delle parole (la
morfologia), quello delle frasi (la sintassi) e quello dei significati (la semantica).
La linguistica privilegia la lingua come espressione orale su quella scritta, per diversi
motivi. Esistono lingue che sono solo parlate e non scritte: per esempio, il somalo è
stata una lingua solo parlata fino al 1972, dunque l'aspetto orale è primario e
quello scritto è sempre secondario, quindi derivativo. Non ci sono mai state lingue
naturali che sono state soltanto scritte, ma mai parlate.
Il bambino, infatti, quando impara una lingua, impara prima a parlare che a scrivere.
Non solo, il bambino impara a parlare in modo del tutto naturale, anche senza
insegnamento specifico, mentre per imparare a scrivere ha bisogno di un
addestramento specifico.
Le lingue cambiano nel corso del tempo, ma ciò che cambia è la lingua parlata e,
solo in ritardo, la scrittura registra questi cambiamenti. Molto spesso, quindi, gli
alfabeti sono in ritardo rispetto all'evoluzione delle lingue, che possono invece
cambiare anche molto velocemente. Quindi possiamo dire che la lingua scritta è
una lingua fissa, la lingua parlata invece offre variazioni e novità.

2. ASTRATTO – CONCRETO
Prendiamo in esempio i suoni della parola “mano”. Se un parlante ripete un numero
qualsiasi di volte (per esempio 12) la stessa parola, questo non riuscirà mai a
produrre due M o due A identiche: ci saranno sempre delle variazioni. Avremo
quindi 12 A o 12 M diverse dal punto di vista fisico. Quindi ogni atto linguistico è
un fatto irripetibile e ciò che in una lingua è fondamentale è proprio la capacità
distintiva dei suoni e, se il parlante dice mano per 12 volte con 12 A diverse, il
significato a cui allude è sempre lo stesso. Abbiamo quindi un livello astratto dove
esiste una ed una sola A, poi questa si può realizzare in un tot di modi diversi. Poi
invece vi è un livello concreto, quello fisico dove c'è molta varietà che dipende da
come in quel momento sono atteggiati gli organi della fonazione.
LANGUE – PAROLE
Ferdinand De Saussure pose alla base del suo corso di linguistica generale una serie
di distinzioni che formano ancora oggi una base per la definizione di lingua e cioè
le distinzioni tra sincronia e diacronia, tra rapporti associativi e rapporti sintagmatici,
tra significante e significato e quella tra langue e parole. La parole è un'esecuzione
linguistica realizzata da un individuo, è un atto individuale. Vi è poi una lingua che
è della collettività, è sociale ed astratta, questa è la langue. L'individuo, quindi, può
realizzare atti di parole diversi ma non può da solo modificare la langue. Quindi
questa è una lingua sociale ed astratta, mentre la parole è una lingua individuale e
concreta. Quindi gli esseri umani comunicano attraverso atti di parole, ma il
fondamento di questi atti e nella langue, perché è proprio questa il sistema di
riferimento collettivo: ad esempio, è proprio collettivamente che si è stabilito che
mano si riferisce all'arto umano.

CODICE – MESSAGGIO
Un'altra importante distinzione è dovuta a Jakobson ed è quella tra codice e
messaggio, anche questa si basa sulla distinzione tra un livello astratto ed un livello
concreto. Ad esempio, il codice morse è costituito da due unità soltanto, il punto e
la linea. Sulla base di queste due unità e delle regole di combinazione di queste
due unità si possono costruire diversi messaggi. Il codice è un insieme di
potenzialità ed è astratto. Il messaggio, invece, viene costruito sulla base delle unità
fornite dal codice, ed è un atto concreto. Possiamo dire che a livello di codice
esistono unità come P, N, E, A, ecc. e che queste unità astratte possono combinarsi
sulla base di determinate regole per formare dei messaggi (pane, pena) oppure dei
non messaggi (eanp, pean).

COMPETENZA – ESECUZIONE
Un’altra distinzione che avviene tra un livello astratto e uno concreto è stata fatta
da Noam Chomsky tra competenza ed esecuzione. La competenza è tutto ciò che
l'individuo sa della propria lingua per poter parlare come parla e per poter capire
come capisce; l’esecuzione, invece, è tutto ciò che l'individuo fa linguisticamente.
Quindi l'esecuzione è un atto di realizzazione, come la parole e il messaggio, e
perciò è concreto. La competenza è invece diversa dal concetto di langue. Infatti,
mentre questa è sociale, la competenza è individuale e ha sede nella mente
dell'individuo.

COMPETENZA: la competenza è semplicemente l'insieme delle conoscenze


linguistiche che ha un parlante e si può dividere in vari livelli: ovvero possiamo
parlare di competenza fonologica, morfologica, sintattica e semantica.

FONOLOGICA: un parlante italiano sa che i suoni P, N, A, E sono suoni della sua


lingua e sa quali sono le combinazioni dei suoni che formano parole e quali no. Per
esempio, sa in un qualche modo che se una parola in italiano inizia con tre
consonanti la prima deve essere sempre la S. Sa che se deve fare il plurale di amico
cambia automaticamente senza pensarci il suono K di amico nel suono di C amici.
Sa dividere le parole in sillabe e sa identificare la posizione del l'accento nelle
parole.

MORFOLOGICA: un parlante possiede una competenza relativa alle parole della


propria lingua. Sa che in italiano le parole finiscono di norma in vocale, tranne
poche parole come ad esempio “non, per, del” ed alcune parole di origine straniera
come “sport”. Sa che due parole in tutto uguali tranne che per l'accento hanno
significati diversi: come ancóra o àncora, pero o però, ecc.
Un parlante sa formare parole nuove e utilizza spesso questa possibilità. Ad
esempio, i parlanti sanno che a partire da parole semplici come “collocare” si
possono formare parole complesse come “collocamento”. Inoltre, un parlante sa
anche che a partire da un verbo in italiano si possono formare un centinaio di
forme flesse: ad esempio, da “camminare” si forma “camminate”, “camminai”,
“camminavamo” ecc. Sa formare parole complesse a partire da parole semplici
(dolce, dolcemente), ma sa anche che non è sempre possibile applicare lo stesso
meccanismo a tutte le parole (ferroviario, ferroviariamente). Un parlante sa anche
che alla parola “libro” si possono aggiungere molti dei cosiddetti suffissi valutativi,
ma che lo stesso non può avvenire per una parola come balcone. Libro, libretto,
libricino sì. Balcone, balconone no.
SINTATTICA: i parlanti conoscono le regole della sintassi, sanno che possono
formare vari tipi di frase, per esempio a partire da una frase dichiarativa si possono
formare delle frasi interrogative: “i bambini adorano i dolci”, “cosa adorano i
bambini?”. In breve, possiamo dire che i parlanti di una lingua non hanno alcuna
difficoltà a costruire e a capire un numero enorme di frasi nuove senza averle mai
sentite prima.

SEMANTICA: i parlanti di una lingua sanno anche riconoscere il significato delle


parole e delle fasi, e oltre a questo sanno restituire molti tipi di relazioni semantiche
tra le parole, come le relazioni di sinonimia: avaro/spilorcio, molteplice/numeroso.
Un'altra relazione di significato è l’antonimia, cioè l'espressione del contrario:
vecchio/giovane, vivo/morto.

Tutte queste competenze del parlante fanno parte della grammatica dei parlanti,
intesa come un insieme di conoscenze che sono immagazzinate nella mente. La
grammatica dei parlanti viene costruita attraverso un equilibrio di fattori innati
biologicamente e di esperienze acquisite all'interno della comunità linguistica di
origine. Ad esempio, il bambino quando apprende una lingua non è esposto alle
regole della lingua, ma solo ai suoi dati. Il bambino, dunque, costruisce una sua
grammatica a partire da dei dati che sono chiamati “dati linguistici primari”.

SINTAGMATICO – PARADIGMATICO
In un atto linguistico i suoni vengono disposti in una sequenza lineare, cioè uno
dopo l'altro. In questo modo i suoni perdono la loro individualità e diventano una
catena parlata, quindi in questa operazione succede che i suoni si influenzano l'uno
con l'altro: la N di “canto” è foneticamente diversa dalla N di “anfora”: la prima è un
suono dentale, la seconda è un suono labio dentale. Quindi la T di “canto” e la F di
“anfora” esercitano un’influenza sul suono nasale precedente. Questi tipi di rapporti
vengono definiti rapporti sintagmatici e si hanno tra elementi che sono in
praesentia, cioè co-presenti. Prendiamo in esempio la coppia amico/amici: la prima
parola ha un suono velare K, mentre la seconda ha un suono palatale C. In questo
caso è la vocale seguente che influenza la realizzazione del suono che corrisponde
alla lettera dell’alfabeto C: anche questo è un rapporto di tipo sintagmatico.
Rapporto paradigmatico esempio: nella parola “stolto” tra la S e la vocale O
compare un suono T. Il contesto e la posizione di T sono dunque tra la S e la O. Al
posto di questo suono possono comparire altri suoni nello stesso contesto: STOlto,
SDOganare, SCOrta, SGOmbro, SPOrta, SBObinare. Tutti i suoni che possono
comparire in un certo contesto hanno tra di loro dei rapporti di tipo paradigmatico
o associativo, ma sono rapporti in absentia: infatti, se realizzo il suono T non posso
realizzare gli altri. I rapporti sintagmatici e paradigmatici non riguardano solo i
suoni e possiamo prendere in considerazione queste espressioni: “questo mio
amico”, “questa mia amica”, “questi miei amici”, “queste mie amiche”. Vi sono
rapporti sintagmatici quindi tra la O di questo, la O di mio e la O di amico (e così
via con la A, la I e la E).
Prendiamo in considerazione queste altre espressioni: “il libro”, “questo libro”, “quel
libro”. Tra IL, QUESTO e QUEL vi sono rapporti paradigmatici perché se realizziamo
IL non possiamo realizzare QUESTO e QUEL.

PARADIGMA: prendendo in esempio l’imperfetto indicativo italiano di “amare”


(amavo, amavi, amava, amavamo, amavate, amavano) tutte le forme hanno una
parte in comune (amav) la radice e delle desinenze (o, i, a, mo, te, no). Queste
desinenze intrattengono tra loro rapporti paradigmatici perché se ne realizziamo
una escludiamo tutte le altre. Queste desinenze formano un paradigma, ovvero
forme che si possono aggiungere una ad esclusione dell’altra ad una stessa base.

SINCRONIA – DIACRONIA: le lingue possono cambiare nel corso del tempo. Lo


studio del cambiamento linguistico è detto diacronico ed è quindi lo studio di un
fenomeno attraverso il tempo. Una lingua può, però, essere studiata anche
escludendo il fattore tempo, in questo caso facciamo uno studio sincronico. Un
fenomeno sincronico è un rapporto tra elementi simultanei, mentre un fenomeno
diacronico è la sostituzione di un elemento con un altro nel corso del tempo.

IL SEGNO LINGUISTICO: una parola è un segno. Un segno è l'unione di un


significato e di un significante: se diciamo “libro”, questa unità è formata di
un significante che è la forma sonora che noi realizziamo dicendo “libro”,
oppure la forma grafica nel caso stiamo scrivendo, e di un significato,
ovvero la rappresentazione mentale che noi abbiamo di “libro”. Significante:
libro, significato
Il segno ha varie proprietà:
1. DISTINTIVITÀ > es. il segno “notte” si distingue dal segno “botte” o dai
segni “lotte”, “cotte”, “note”, “notti”, ecc.
2. LINEARITÀ > il segno si estende nel tempo se è orale o nello spazio se è
scritto. Questo implica una successione, un prima e un dopo: “al” ha un
significato diverso da “la”, “rami” ha un significato diverso da “mira”,
“Giuseppe ama Silvia” ha un significato diverso da “Silvia ama Giuseppe”.
3. ARBITRARIETÀ > il segno è arbitrario nel senso che non esiste alcuna
legge che imponga di associare al significante “libro” il significato “libro”.
Infatti, al medesimo significato (immagine mentale) possono corrispondere
significanti diversi in altre lingue “book, livre” ecc. Quindi, l’associazione tra
significato e significante è una specie di accordo sociale convenzionale.

I segni possono essere sia linguistici che non linguistici: ad esempio, un


vestito nero (significante) può voler dire “lutto” (significato). E ancora un
cartello stradale unisce un significante (colore o forma del cartello) ad un
significato (ad esempio “divieto d’accesso”). Quindi sia il vestito che il
cartello sono segni.
La disciplina che studia i segni linguistici è la linguistica, quella che invece
studia i segni in generale (anche quelli non linguistici) è la semiologia o
semiotica.

LE FUNZIONI DELLA LINGUA: secondo Jacobson, le componenti necessarie


per un atto di comunicazione linguistica sono 6:
1. IL PARLANTE ;
2. CIÒ DI CUI SI PARLA, REFERENTE ;
3. IL MESSAGGIO ;
4. IL CANALE ATTRAVERSO CUI PASSA LA COMUNICAZIONE ;
5. IL CODICE ;
6. L’ASCOLTATORE .
Il referente è ciò a cui l'atto linguistico rimanda, la realtà extra linguistica ed
infine il canale è di norma l'aria nel caso due persone comunicano parlando,
oppure può essere una linea telefonica. A ciascuna di queste componenti
Jakobson fa per rispondere una funzione linguistica diversa.
1. IL PARLANTE > funzione emotiva.
2. CIÒ DI CUI SI PARLA, REFERENTE > funzione referenziale.
3. IL MESSAGGIO > funzione poetica.
4. IL CANALE > funzione fatica.
5. IL CODICE > funzione metalinguistica.
6. L’ASCOLTATORE > funzione conativa.

Esempi:
1. La funzione emotiva è quella che riguarda il parlante, si realizza quando il
parlante esprime stati d’animo, quando il parlare è più inteso ad esprimere
che a comunicare qualcosa.
2. La funzione referenziale è una funzione informativa: “il treno parte alle 6”.
3. La funzione poetica è la più complessa. Secondo Jakobson si realizza la
funzione poetica quando il messaggio che il parlante invia all’ascoltatore è
costruito in modo tale da costringere l’ascoltatore a ritornare sul messaggio
stesso per apprezzarne il modo in cui è formulato. “Nel mezzo del cammin…”
4. La funzione fatica è quella che si realizza quando vogliamo controllare se
il canale è aperto e funziona regolarmente: “mi senti?”, “ci sei?”, “hai capito?”.
5. La funzione metalinguistica si realizza quando il codice viene usato per
parlare del codice stesso, per esempio una grammatica realizza pienamente
la funzione metalinguistica: si usa la lingua X per parlare della lingua X.
6. La funzione conativa si realizza sottoforma di comando o di esortazione
rivolti all’ascoltatore affinché modifichi il suo comportamento: ad esempio, i
galatei con le loro prescrizioni realizzano la funzione conativa “ non sputare
per terra!”

LINGUA E DIALETTI: in Italia si parla italiano che chiameremo italiano


standard. Oltre all'italiano standard, abbiamo una quantità innumerevole di
dialetti. Quindi esistono quelli che vengono chiamati italiani regionali poiché,
ad esempio, un milanese parla un italiano sensibilmente diverso da un
napoletano. Semplificando, abbiamo almeno tre grandi italiani regionali:
quello del nord, del centro e del sud. L'italiano regionale è, quindi, una
varietà di italiano parlata in un'area corrispondente ad una delle tre principali
aree geografiche dell'Italia. L'italiano regionale è un livello intermedio tra
dialetto e italiano standard. Ogni lingua è stratificata, sia socialmente che
geograficamente. In Italia abbiamo:
1. Italiano scritto, che rappresenta la forma standard della lingua, quella in
cui sono scritte le leggi della Repubblica, i temi in classe, gli orari dei treni,
ecc.
2. Italiano parlato formale, che è quello che usiamo nelle occasioni formali,
come un esame o quando ci rivogliamo a dei superiori. È un italiano con una
velocità moderata e con distinzione netta dei suoni.
3. Italiano parlato informale, che è quello che usiamo nelle situazioni non
controllate, quindi in famiglia e con gli amici. È un italiano spontaneo, rapido
e che contiene molti regionalismi (Italiano regionale).
Il dialetto è a sua volta articolato in:
4. Dialetto di koinè, che identifica in generale una regione dialettale, per
esempio il veneto rispetto al lombardo.
5. Dialetto del capoluogo di provincia, per esempio il dialetto che si parla a
Venezia.
6. Dialetto locale, quello che si trova nei quartieri di una città, per esempio
quello che si parla nel quartiere di Castello a Venezia.
Dunque in uno stesso luogo possono coesistere diversi registri linguistici e i
parlanti possono passare dall’uno all’altro, il cosiddetto “code switching”.
In breve, possiamo dire che il dialetto è una varietà diatopica che si
differenzia dalla lingua.

CAPITOLO 3: LE LINGUE DEL MONDO

Tutte le lingue del mondo, come sappiamo, condividono alcune caratteristiche


chiamate “universali linguistici”. Ma le relazioni tra le lingue non si limitano alla
condivisione degli universali: infatti, alcune lingue sono “più vicine” tra loro che non
a certe altre. Da un punto di vista linguistico esistono tre modalità possibili di
classificazione: genealogica, quando due lingue derivano da una stessa lingua
originaria o lingua madre (es. lingue romanze che derivano tutte dal latino),
tipologica, se le lingue manifestano una o più caratteristiche comuni e areale se
hanno sviluppato caratteristiche comuni perché sono parlate in una stessa area
geografica (es. cinese e giapponese).

1. CLASSIFICAZIONE GENEALOGICA: LE FAMIGLIE LINGUISTICHE


Le famiglie linguistiche più studiate sono le seguenti:
- La famiglia indoeuropea;
- La famiglia afroasiatica, che comprende numerose lingue parlate o estinte in
un’area che comprende l’Africa settentrionale (Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e
Marocco), il Medio Oriente (Libano, Siria, Arabia Saudita, Israele, ecc.) e parte
dell’Africa orientale (Etiopia, Eritrea e Somalia). A questa famiglia appartengono
l’egiziano antico, l’arabo e l’ebraico.
- La famiglia uralica, che comprende numerose lingue parlate in Europa orientale e
nell’Asia centrale e settentrionale. Alcune lingue uraliche sono il finlandese (o
finnico) della Finlandia, l’estone dell’Estonia e l’ungherese dell’Ungheria.
- La famiglia sino-tibetana, alla quale appartiene anche il cinese mandarino. Altre
lingue di questa famiglia sono il tibetano e il birmano.
- La famiglia nigercordofaniana, che comprende la maggioranza delle lingue
parlate nelle nazioni africane che si trovano a sud del Sahara. Una delle più
importanti è lo Swahili che ha circa 60 milioni di parlanti ed è diffuso in diversi stati
come il Kenya, l’Uganda, il Ruanda, la Tanzania e il Burundi.
- La famiglia altaica, che comprende altre lingue dell’Asia centrale come il mongolo
e anche il turco.
- La famiglia dravidica, che comprende le lingue parlate nella parte meridionale
dell’India (le più diffuse sono il tamil e il telugu).
- La famiglia austro-asiatica, che comprende il khmer e il vietnamita.
- La famiglia austro-nesiana, che comprende molte lingue che vanno dal
malgascio (ovvero la lingua del Madagascar), alle lingue dell’Indonesia (di cui il
bahasa è il più diffuso), fino alle lingue delle isole del Pacifico orientale.

Vi sono poi famiglie linguistiche minori che comprendono un numero limitato di


lingue e sono le famiglie delle lingue degli indiani d’America (o amerindiane) e le
lingue degli aborigeni dell’Australia.
Vi sono, infine, anche lingue isolate, cioè le lingue di cui non è dimostrabile la
parentela con altre lingue. Un caso in Europa è rappresentato dal basco, mentre in
Asia abbiamo il giapponese e il coreano (anche se alcuni presumono che siano
apparentate con le lingue della famiglia altaica).

2. LA FAMIGLIA INDOEUROPEA
Una delle più importanti scoperte nella storia della linguistica fu quella compiuta
nei primi decenni dell'Ottocento, che è un'antica lingua dell'India, il sanscrito, ed
alcune lingue europee, come il latino e il greco, sono genealogicamente
apparentate. Negli anni intorno al 1830 fu coniato il termine indoeuropeo per
indicare questa famiglia linguistica. La famiglia indoeuropea si suddivide nei
seguenti gruppi e sottogruppi:
- Il gruppo indo-iranico, è suddiviso in due sottogruppi ovvero indiano ed iranico.
Al sottogruppo indiano appartengono varie lingue antiche e varie lingue moderne.
Tra le prime, ovvero le lingue antiche, ricordiamo il sanscrito parlata nel primo
millennio a.C. e il vedico, di attestazione ancora più antica. Tra le lingue indiane
moderne, derivate non direttamente dal sanscrito, ma dai cosiddetti dialetti pracriti,
ricordiamo l’hindi e l’urdu. Il gruppo iranico è ulteriormente suddiviso in due rami:
le lingue iraniche occidentali e le lingue iraniche orientali. Tra le lingue antiche del
ramo occidentale ricordiamo il persiano antico, risalente all’epoca tra il sesto e il
quarto secolo a.C. e l’avestico, così denominato perché in questa lingua è scritto
l’Avesta, il libro sacro della religione di Zarathustra. Tra le lingue moderne, invece,
ricordiamo il persiano moderno, lingua ufficiale dell'Iran, e il curdo. Al ramo
orientale delle lingue iraniche appartengono il pashto o l'afghano.
- Il gruppo tocario è rappresentato da due lingue estinte e indicate come tocario
A e tocario B, risalenti dalla metà alla fine del primo millennio d.C. e scoperti
all'inizio del ‘900 in una regione cinese.
- Il gruppo anatolico comprende varie lingue diffuse nel secondo e nel primo
millennio a.C. nell'Anatolia o Asia minore (odierna Turchia) oggi estinte. Tra queste,
quella maggiormente documentata è l’ittita, la lingua degli ittiti.
- Il gruppo armeno è rappresentato da una sola lingua, appunto l'armeno. Questa
è attestata a partire dal V secolo d.C. e attualmente è la lingua ufficiale della
Repubblica ex sovietica dell'Armenia ed è parlato dalle popolazioni armene
stanziate in Turchia fino all'inizio del ‘900 e ora disperse in vari paesi dell'Europa,
dell'Asia e delle Americhe.
- Il gruppo albanese, è rappresentato anche questo solo dalla lingua albanese,
attestata dal XV secolo d.C. e oggi parlata, oltre che nella Repubblica d'Albania,
anche dalla maggioranza degli abitanti della regione jugoslava del Kosovo e da una
consistente minoranza di quelli della Repubblica di Macedonia. I dialetti albanesi
sono anche parlati in alcune regioni dell'Italia meridionale, da discendenti di
popolazioni albanesi immigrati in quei luoghi nel XV secolo d.C. per sfuggire ai
turchi.
- Il gruppo slavo, è diviso in tre sottogruppi: slavo orientale che comprende il
russo, il bielorusso e l'ucraino; slavo occidentale che comprende il polacco, il cieco,
lo slovacco e altre lingue minori; slavo meridionale che comprende il bulgaro, il
macedone, il serbo croato e lo sloveno. Le prime attestazioni delle lingue slave
sono i testi religiosi in antico slavo ecclesiastico (o antico bulgaro) che risalgono al
IX e al X secolo d.C.
- Il gruppo baltico comprende lingue come il lituano e il lettone, lingue ufficiali
rispettivamente delle repubbliche di Lituania e Lettonia. Comprende varie lingue
oggi estinte di cui la più importante è il prussiano antico. Le prime attestazioni di
queste lingue non risalgono a prima del XVI secolo, tuttavia il lituano conserva dei
caratteri arcaici tanto che può essere messo sullo stesso piano delle lingue
indoeuropee come il sanscrito, il greco, il latino e l'ittita.
- Il gruppo ellenico, è rappresentato da una sola lingua, il greco, le cui prime
attestazioni risalgono al secondo millennio a.C., il cosiddetto miceneo. Il greco fu la
lingua più importante della civiltà occidentale tra il V secolo a.C. e il V secolo d.C.
La forma moderna di questa lingua (il greco moderno) è attualmente la lingua
ufficiale della Grecia e di Cipro, ed è parlato da minoranze linguistiche in Bulgaria e
Albania. Ci sono in Italia comunità che parlano il dialetto greco e sono presenti
prevalentemente in Puglia.
- Il gruppo italico si suddivide in due sottogruppi: italico orientale e italico
occidentale (o italo-falisco). Questi due sottogruppi hanno avuto due destini molto
diversi: il primo comprende alcune lingue dell'Italia antica come l’osco, l'umbro, il
sannita e si è successivamente estinto. Il secondo comprende, invece, il latino, che
ha dato origine a numerose altre lingue dette neolatine (o romanze). Tra le lingue
romanze ricordiamo quelle ufficiali dei rispettivi paesi, il portoghese, lo spagnolo, il
francese, l'italiano, il romeno. Altre lingue romanze che hanno riconoscimento
ufficiale a livello regionale sono il gallego, lingua della Galizia, e il catalano, lingua
della Catalogna. Ci sono poi anche le diverse varietà del ladino, diviso in ladino
romancio parlate in Svizzera, ladino dolomitico parlato appunto nelle vallate
dolomitiche e ladino friulano. Ricordiamo anche il provenzale, lingua romanza del
sud est della Francia, oggi poco parlata, ma assai importante nel medioevo per
l'abbondante letteratura prodotta in questa lingua.
- Il gruppo germanico è suddiviso in tre sottogruppi: germanico orientale,
germanico settentrionale (o nordico) e germanico occidentale. L'unica lingua
sufficientemente attestata del sottogruppo orientale è il gotico, oggi estinto, ma
documentato da alcune parti di una traduzione della Bibbia operata nel IV secolo
d.C. Il sottogruppo settentrionale comprende le lingue nordiche, ossia lo svedese, il
danese, il norvegese, l'islandese e il feroico (lingua delle Faer Oer). Il sottogruppo
occidentale si divide in due rami: quello anglo frisone e quello neerlando-tedesco.
Al primo di questi due rami appartengono, quindi, il frisone, la lingua riconosciuta
ufficialmente nella Frisia, una regione dell'Olanda, e l’inglese che, come sappiamo,
dal suo luogo d'origine (l'Inghilterra) si è diffuso poi in tutto il mondo. Il ramo
neerlando-tedesco comprende come lingue ufficiali l'olandese e il nederlandese,
lingua ufficiale dell'Olanda e della parte fiamminga del Belgio, e il tedesco, lingua
ufficiale della Germania, dell'Austria e di parte della Svizzera. A queste vanno
aggiunte l'afrikaans, varietà di olandese parlato dai coloni di origine olandese in
Zimbabwe, in Namibia e in Sudafrica (i cosiddetti Boeri), e lo yiddish (o il giudaico)
dialetto tedesco proprio degli ebrei della Germania.
- Il gruppo celtico comprende le lingue parlate un tempo, fino all'inizio dell'era
cristiana, in buona parte dell'Europa occidentale, ed oggi sostanzialmente confinato
alle isole britanniche. Questo gruppo si divide in due sottogruppi: il gaelico e il
britannico. Al primo di questi sottogruppi appartiene l'unica lingua celtica che sia
oggi ufficiale di uno stato, ossia l'irlandese, lingua ufficiale della Repubblica
d'Irlanda; vi appartiene, inoltre, anche il gaelico di Scozia. Al sottogruppo britannico
appartengono il cimrico (o gallese), parlato nel Galles; il cornico, un tempo parlato
in Cornovaglia e oggi estinto, e infine il bretone, parlato in Bretagna.

3. CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA
Due lingue sono tipologicamente correlate se manifestano una o più caratteristiche
comuni, questa correlazione è indipendente dal fatto che queste lingue siano
apparentate genealogicamente oppure no. La classificazione tipologica è nata più o
meno contemporaneamente a quella genealogica, cioè all'inizio dell'Ottocento ma
non è riuscita finora a raggiungere risultati così sicuri come quelli che invece ha
ottenuto la classificazione genealogica. Possiamo parlare di una tipologia
morfologica o di una tipologia sintattica.

3.1 TIPOLOGIA MORFOLOGICA


La tipologia morfologica si occupa di studiare le caratteristiche comuni ricercate
nella struttura delle parole. I tipi morfologici riconosciuti sono quello isolante,
agglutinante, flessivo (che si può dividere in un sottotipo analitico e in uno
sintetico), polisintetico o incorporante.
ISOLANTE: il tipo isolante è caratterizzato da una mancanza quasi totale di
morfologia, i nomi non si distinguono né per caso, né per genere, né per numero. I
verbi non presentano differenze di persona, di numero, di tempo o di modo, e la
forma verbale quindi è sempre unica. Per indicare le varie relazioni tra le parole,
una lingua isolante fa uso dell'ordine delle parole stesse e di alcune particelle. Ad
esempio, in cinese due frasi come “io ti picchio” e “tu mi picchi” suonerebbero più
o meno come “io picchiare tu” e “tu picchiare io”: solo l'ordine rispettivo dei
pronomi “io” e “tu” indica qual è la persona che picchia e qual è la persona che
viene picchiata. Le particelle sono utilizzate, ad esempio, per indicare se un verbo
indica un evento passato o se un nome è singolare o plurale.
Dal punto di vista tipologico possiamo dire che il cinese e l'inglese potrebbero
essere raggruppate insieme. Se, infatti, esaminiamo la struttura delle parole semplici
in inglese, notiamo che la maggior parte di esse sono invariabili: gli aggettivi sono
invariabili, i nomi non presentano una differenza grammaticale tra maschile e
femminile e la differenza singolare/plurale è data unicamente dall’aggiunta della
particella S finale. Anche la anche la coniugazione dei verbi al tempo presente ha
un'unica forma per tutte le persone, ad eccezione della terza singolare, e al passato
tutte le persone sono identiche. Presenta, quindi, molte caratteristiche di una lingua
isolante come appunto quella cinese.

AGGLUTINANTE: in questo tipo di lingua ogni parola contiene tanti affissi quante
sono le relazioni grammaticali che devono essere indicate. Il turco è un esempio
tipico di lingua agglutinante. Ad esempio, dato una parola come “kus” (uccello) si
possono aggiungere il suffisso indicante il plurale, in questo caso -lar e dopo di
esso un suffisso che indica i casi diversi dal nominativo.

FLESSIVO: nel tipo linguistico flessivo le diverse relazioni grammaticali sono


normalmente espresse da un unico suffisso. Il latino, il greco, il sanscrito, l'italiano e
in generale la maggior parte delle lingue indoeuropee appartengono a questo tipo.
Per vedere le differenze rispetto al tipo agglutinante, prendiamo la parola latina
corrispondente al turco “kus”, ossia “avis”, e confrontiamo le loro strutture, per
esempio, nell’ablativo plurale: al turco “kus-lar-dan” corrisponde il latino “av-ibus”.
Come vediamo la parola latina ha un unico suffisso, -ibus, che esprime
contemporaneamente i significati ablativo e plurale. Nella parola turca, invece, ogni
significato è espresso da un suffisso autonomo -lar e -dan. Un'altra caratteristica
delle lingue flessive è quella di poter indicare le diverse funzioni grammaticali
mediante la variazione della vocale radicale della parola: per esempio, in italiano,
“faccio” rispetto a “feci”, “esco” rispetto a “uscii”, ecc. Questo fenomeno è noto
come flessione interna, ed è molto diffusa nelle lingue indoeuropee ed in quelle
semitiche. Per quanto riguarda le prime, facciamo l'esempio latino di ago - egi,
conduco - condussi, inglese I sing - I sang, canto -cantai. Per quanto riguarda le
lingue semitiche possiamo fare un esempio dell'arabo. In arabo, la parola può
essere rappresentata da una radice triconsonantica, per esempio K-T-B, che vuol
dire “scrivere” e le diverse parole sono formate essenzialmente variando le vocali:
così avremo “kataba” (egli scrisse), “kutiba” (fu scritto), “katib” (scrittore), “kitab”
(libro). Quindi a differenza delle lingue indoeuropee, nelle lingue semitiche la
flessione interna non si applica soltanto a un numero limitato di verbi, ma è un
procedimento regolare che riguarda un numero indefinito di radici. Per questi
motivi riferendoci a lingue come l'arabo e altre lingue semitiche si parla di un tipo
di lingua intro flessivo.
Il tipo linguistico flessivo si suddivide in due sottotipi, quello analitico e quello
sintetico. Il sottotipo analitico può realizzare le relazioni grammaticali mediante più
parole. Ad esempio, in italiano oltre alle forme del tipo “feci” e “uscii”, sono possibili
anche altre forme di passato, ossia quelle del tipo “ho fatto” e “sono uscito”. Il
sottotipo sintetico, invece, concentra, in questo caso, l'espressione del tempo
passato in una sola parola; ad esempio, in latino esistono solo le forme “feci” e
“exii”.

POLISINTETICO o INCORPORANTE: in questo tipo linguistico una sola parola può


esprimere tutte le relazioni che in italiano sono espresse da un'intera frase. Un
esempio di questo tipo linguistico è l'eschimese, dove possiamo trovare anche 5
morfemi in una sola parola (che diventa una parola-frase): angyaghallangyugtuq
angya-ghalla-ng-yug-tuq “barca”-ACCRESCITIVO-“comprare”-DESIDERATIVO-3SING
= “egli vorrebbe comprare una grande barca”.
Ogni lingua può presentare al suo interno fenomeni di più tipi diversi. In una data
lingua prevarranno magari fenomeni isolanti, in un'altra fenomeni flessivi e così via,
ma nessuna lingua presenterà fenomeni di un solo tipo. Ad esempio, l'inglese
presenta molti aspetti propri delle lingue isolanti, ma presenta anche fenomeni di
flessione interna propri delle lingue flessive e, inoltre, presenta fenomeni delle
lingue agglutinanti (lonely + ness = “solitudine” oppure drink + er = “bevitore”) e
perfino alcuni fenomeni che ricordano quelle incorporanti (come “horseriding” =
“andare a cavallo”). Quindi, possiamo dire che non esistono tipi “puri”, e cioè non
troveremo nessuna lingua che sia solo isolante, solo agglutinante, solo flessiva o
solo incorporante.

3.2 TIPOLOGIA SINTATTICA


La tipologia sintattica si è sviluppata notevolmente a partire dagli anni ‘60 del ‘900,
grazie al linguista americano Greenberg. Questa tipologia si basa sull'osservazione
che in tutte le lingue esistono correlazioni sistematiche tra l'ordine delle parole nella
frase e in altre combinazioni sintattiche, e per questo è chiamata anche tipologia
dell'ordine delle parole. Le combinazioni sintattiche che vengono analizzate sono:
1. La presenza in una data lingua di preposizioni (PR) oppure di postposizioni (PO).
Una lingua che fa uso di postposizioni al posto di preposizioni è, ad esempio, il
giapponese: “yuusyoku go” significa letteralmente “cena dopo”, ovvero “dopo cena”.
2. La tipologia sintattica analizza poi la posizione del verbo V rispetto al soggetto S
e all'oggetto O nella frase dichiarativa. Dei sei ordini teoricamente possibili SVO,
SOV, VSO, VOS, OSV, OVS, soltanto i primi tre sono attestati da un numero
considerevole di lingue. Quindi, i tipi di ordine dominanti sono solo i primi 3 ossia
SVO, SOV e VSO.
3. La terza cosa che analizza la tipologia sintattica è l'ordine dell'aggettivo A
rispetto al nome N che esso modifica: in certe lingue prevale l'ordine AN, come in
inglese, “white horse” = “cavallo bianco”. Mentre in altre lingue prevale l'ordine NA,
come in italiano, “cavallo bianco” = nome + aggettivo.
4. L’ordine del complemento di specificazione, quindi il genitivo G rispetto al nome
N che esso modifica. In giapponese, l’ordine è GN. Ad esempio, “Taroo no ie”
significa letteralmente “Taroo di casa” cioè “la casa di Taroo”. In italiano, invece,
l’ordine è NG, ad esempio “la casa di Gianni”.
Studiando un grande numero di lingue diverse è stato dimostrato che esistono
delle correlazioni sistematiche tra l’ordine delle parole in questi 4 tipi di costruzioni:
1. VSO / PR / NG / NA (se una lingua presenta questo ordine allora usa
preposizioni, colloca il genitivo dopo il nome e l’aggettivo dopo il nome).
Esempi di questo tipo sono la maggior parte delle lingue semitiche (arabo ed
ebraico) e tra le lingue indoeuropee quelle celtiche.
2. SVO / PR / NG / NA (se una lingua presenta questo ordine allora usa
preposizioni, colloca il genitivo prima del nome e l’aggettivo prima del nome).
Esempi di questo tipo sono le lingue romanze.
3. SOV / PO / GN / AN (se una lingua presenta questo ordine allora usa
postposizioni, colloca il genitivo prima del nome e l’aggettivo prima del nome).
Esempi di questo tipo sono il giapponese e le lingue altaiche.
4. SOV / PO / GN / NA (se una lingua presenta questo ordine allora usa
postposizioni, colloca il genitivo prima del nome e l’aggettivo dopo il nome).
Esempi di questo tipo sono il basco e altre lingue.
Tutte queste formule si chiamano universali implicazioni.

CAPITOLO 4: FONETICA E FONOLOGIA

Ogni lingua ha un suo inventario di suoni che funzionano linguisticamente chiamati


fonemi, che formano cioè delle parole e ogni lingua ha regole proprie per
combinare insieme questi suoni in sillabe e in parole. Quando vengono combinati
insieme per formare delle parole, i fonemi possono influenzarsi l'un l'altro: per
studiare questi cambiamenti le lingue hanno un insieme di regole fonologiche.
Fanno parte della fonologia anche l'accento, l'intonazione e i toni. La disciplina che
studia la produzione dei suoni è detta fonetica articolatoria. Accanto a questa vi è
la fonetica acustica che studia la natura fisica del suono e la sua propagazione
attraverso l'aria. Infine, vi è anche una fonetica uditiva o percettiva che studia
l'aspetto della ricezione del suono da parte dell'ascoltatore.

1. APPARATO FONATORIO
Un suono è prodotto normalmente dall'aria che viene emessa dai polmoni, sale
lungo la trachea e attraversa la laringe, che è la sede delle corde vocali. Dopo aver
superato la faringe, l'aria raggiunge la cavità orale e da qui fuoriesce dalla bocca.
Inoltre, la cavità nasale può essere esclusa o attivata tramite l'innalzamento del velo
palatino: se il velo palatino si sposta all'indietro, chiudendo la comunicazione tra
faringe e cavità nasale, l'aria fuoriesce solo dalla bocca ed avremo suoni orali,
altrimenti se il vero palatino resta fermo, l'aria fuoriesce anche dalla cavità nasale ed
avremo suoni nasali.

1.1 MODO E PUNTO DI ARTICOLAZIONE


Per classificare un suono sono necessari 3 parametri: modo di articolazione, punto
di articolazione e sonorità. I vari organi della fonazione (labbra, lingua e velo
palatino) possono essere posizionati in modi diversi nell’articolazione di un suono: i
vari assetti che gli organi assumono nella produzione di un suono sono detti modo
di articolazione.

Il flusso d’aria necessario per produrre un suono può essere modificato in diversi
punti dell’apparato vocale (labbra, denti, alveoli, palato, farine, ecc.); ognuno di
questi punti è chiamato punto di articolazione.
Infine, la sonorità è data dalle vibrazioni delle corde vocali: se queste vibrano
avremo un suono sonoro, se non vibrano avremo un suono sordo.
Sulla base di questi 3 parametri è possibile classificare la maggioranza di suoni di
tutte le lingue del mondo, grazie all’alfabeto fonetico internazionale IPA, che
risponde all’esigenza fondamentale di usare gli stessi simboli per gli stessi suoni in
tutte le lingue del mondo.

1.2 CLASSI DI SUONI


I suoni possono essere classificati in 3 classi maggiori: consonanti, vocali e
semiconsonanti o approssimanti. La distinzione più importante è quella tra
consonanti e vocali che si basa su un semplice fatto articolatorio: nella produzione
di una vocale l’aria non incontra ostacoli e fuoriesce liberamente. Le vocali sono
normalmente sempre sonore. La cavità orale è aperta al massimo per una vocale
come A e chiusa per vocali come I ed U. Per produrre una consonante, invece, l’aria
o viene momentaneamente bloccata come per la B, oppure deve attraversare una
fessura molto stretta come per la F. Le consonanti possono essere sia sorde che
sonore. Le semiconsonanti (di norma sonore) condividono proprietà sia delle vocali
che delle consonanti. Vocali, semiconsonanti, liquide e nasali formano la classe delle
sonoranti. Tutti i suoi non sonoranti si chiamano ostruenti, perché il flusso d’aria
per produrle incontra ostacoli di varia natura.

2. I SUONI DELL’ITALIANO
2.1 CONSONANTI
I diversi modi di articolazione dividono le consonanti in:
Occlusive: il suono è prodotto tramite un’occlusione momentanea dell’aria, a cui fa
seguito una specie di esplosione (p, b, t, d, k, g).
Fricative: l’aria deve passare attraverso una fessura stretta, producendo così una
certa frizione. A differenza delle occlusive, le fricative sono suoni che si possono
prolungare nel tempo e dunque si chiamano anche continue (f, v, s, z, ʃ -sc-).
Affricate: sono suoni che iniziano con un’articolazione di tipo occlusivo e terminano
con un’articolazione di tipo fricativo (ts, dz, tʃ, dʒ).
Nasali: per la produzione di suoni nasali, il velo palatino si posiziona in modo tale
da lasciar passare l’aria attraverso la cavità nasale (m, ɱ, n, ŋ, ɲ).
Laterali: per produrre un suono laterale dentale, la lingua si posiziona contro i denti
e l’aria fuoriesce dai due lati della lingua stessa. L’italiano ha due laterali: l che è
una liquida laterale dentale e ʎ (gl) che è una liquida laterale palatale.
Vibranti: la produzione di un suono vibrante avviene mediante vibrazione o
dell’apice della lingua o dell’ugola. L’italiano ha un’unica vibrante, cioè r, che
essendo realizzata tramite più vibrazioni è detta polivibrante.
Approssimanti: sono suoni in cui gli organi articolatori vengono avvicinati, ma
senza contatto. Le approssimanti dell’italiano sono le semiconsonanti j e w, così
chiamate perché sono a metà strada tra vocali e consonanti. In italiano [i] ed [u]
sono semiconsonanti quando vengono seguite da una vocale tonica: piede si
trascriverà pjede, può si trascriverà pwo. Invece, [i] ed [u] sono semivocali quando
seguono una vocale tonica come in sei e in pausa.

L’italiano ha 7 punti di articolazione:


Bilabiali: il suono è prodotto tramite l’occlusione, cioè la chiusura di entrambe le
labbra (p, b, m).
Labiodentali: il suono deve attraversare una fessura che si forma appoggiando gli
incisivi superiori al labbro inferiore (f, v).
Dentali: la parte anteriore della lingua, la lamina, tocca la parte interna degli incisivi
(d, t).
Alveolari: la lamina della lingua tocca o si avvicina agli alveoli (s, z, ts, dz, n, l, r). La
lingua si avvicina invece senza toccare gli alveoli per suoni come s, z, ts, dz. Tocca
gli alveoli per n e l.
Palato-alveolari: la lamina della lingua si avvicina agli alveoli e ha il corpo arcuato
(ʃ, tʃ, dʒ).
Palatali o anteriori: suoni prodotti con la lingua che si avvicina al palato (ɲ, ʎ, j).
Velari o posteriori: suoni prodotti con la lingua che tocca il velo palatino (k, g, w).

2.2 VOCALI DELL’ITALIANO


I parametri per classificare le vocali sono l'altezza della lingua (cioè quando la
lingua si alza o si abbassa verso il palato rispetto alla posizione di “riposo”),
l'avanzamento o l'arretramento della lingua, l'arrotondamento o meno delle
labbra, la realizzazione di questi movimenti in modo teso o rilassato. Se la lingua
assume una posizione alta si produrranno suoni come [i] oppure [u], se assume una
posizione bassa si produrranno suoni come [a]. Se la lingua è in posizione avanzata
si produrrà una [i] oppure una [e], se è in posizione arretrata una [u] oppure una
[o]. Se le labbra sono arrotondate si produrranno vocali come [u] oppure [o], se
non sono arrotondate si produrranno vocali come [i] ed [e]. In italiano le vocali [e]
ed [o] possono essere sia (semi)aperte che (semi)chiuse e vi è una sola [a]: ciò dà
luogo ad un sistema eptavocalico inscrivibile in un triangolo:

Il sistema è eptavocalico per alcuni italiani regionali come il toscano. Vi sono delle
aree, come ad esempio la Sicilia o la Sardegna, dove in linea di massima, si ha solo
una vocale media anteriore e solo una vocale media posteriore, dove cioè il sistema
è di 5 vocali.
Le vocali alte e medio alte sono dette anche chiuse e semichiuse rispettivamente,
quelle medio basse e basse sono dette anche semiaperte ed aperte rispettivamente.

TRAPEZIO VOCALICO

2.3 COMBINAZIONE DI SUONI


Le consonanti possono combinarsi insieme e formare dei nessi consonantici. La
combinazione delle consonanti non è libera, ma è soggetta a restrizioni: ad
esempio, i nessi [fr], [tr], [pr] sono possibili (francese, treno, prendere), mentre suoni
come [gv] e [gs] no. Inoltre, c’è una differenza tra le combinazioni possibili in
posizione iniziale di parola e quelle in posizione interna di parola. Per esempio,
[p+r] è una combinazione possibile sia in posizione iniziale di parola (prendi), che in
posizione interna (apri). Invece, [r+p] è possibile solo in posizione interna di parola
(arpa). Inoltre, in italiano, se una parola inizia con 3 consonanti, la prima è sempre
una [s] (strano).
La combinazione di vocali e approssimanti, in una medesima sillaba, dà luogo ai
dittonghi che possono essere ascendenti, quando l’approssimante è seguita da
vocale accentata (fienile, questo) o discendenti, quando la vocale accentata è
seguita da approssimante (noi, cauto). Esistono anche dei trittonghi (come ad
esempio miei). [j] e [w] nei dittonghi ascendenti sono di norma semiconsonanti,
mentre [i] e [u] nei dittonghi discendenti sono semivocali. La combinazione di due
vocali appartenenti a sillabe diverse, danno luogo ad uno iato (follia, idea, beato).

3. TRASCRIZIONE FONETICA
I suoni possono essere semplici per esempio [t, d, k, tʃ, dʒ] o geminati [tt, dd, kk,
tʃtʃ, dzdz]. La lunghezza può anche essere resa raddoppiando solo il primo simbolo
[ttʃ, ddz]. La lunghezza (anche vocalica) si indica con due punti e, dunque, gli stessi
suoni possono essere trascritti come [t:, d:, k:, d:z]. [o] ed [a] indicheranno una
vocale breve, [o:] e [a:] una vocale lunga.
Il simbolo IPA per l’accento è [‘] e si colloca prima della sillaba accentata, quindi
parole come casa, lampione, intimità si trascriveranno come [‘kaza], [lam’pjone],
[intimi’ta]. Sui monosillabi l’accento può non essere segnato (ma, se).
In IPA non si segnano maiuscole e apostrofi [la’miko].
4. FONETICA E FONOLOGIA – FONI E FONEMI
Mentre la fonetica si occupa dell'aspetto fisico dei suoni, la fonologia si occupa
della funzione linguistica dei suoni. L'unità di studio della fonetica è dunque il fono,
l'unità di studio della fonologia è il fonema. Un fono è, dal punto di vista fisico,
un’oscillazione del mezzo (aria) che produce onde sonore. I foni hanno valore
linguistico quando sono distintivi, cioè quando contribuiscono a differenziare dei
significati. Così [p] e [t] non solo sono suoni dell’italiano, ma contribuiscono anche a
formare delle coppie minime, cioè coppie di parole che si differenziano solo per un
suono nella stessa posizione. Ad esempio, pare – tare, premo – tremo, tappo –
tatto.
Due foni che hanno valore distintivo sono detti fonemi. Un fonema non ha un
significato in sé, ma contribuisce a differenziare dei significati. Un fonema è un
segmento fonico che ha una funzione distintiva, non è ulteriormente scomponibile
in sottounità con la medesima funzione, ed è definito solo dai caratteri che hanno
un valore distintivo. N.B.: Il fonema NON è un segno. Tutti i fonemi sono foni, ma
non tutti i foni sono fonemi!
Il fonema è un’unità astratta che si realizza in foni. I fonemi vengono rappresentati
tra barre oblique /t/, mentre i foni tra parentesi quadre [t]. Il fonema è un’unità che
si colloca a livello astratto, dunque a livello di langue. I foni invece si collocano ad
un livello concreto, quindi a livello di parole.

4.1 LE REGOLE DI TRUBECKOJ


Per stabilire se due foni abbiano valore distintivo e siano quindi fonemi di una
determinata lingua, Trubeckoj ha proposto una serie di regole.
Prima regola: quando due suoni ricorrono nelle medesime posizioni e non possono
essere scambiati tra loro senza con ciò mutare il significato delle parole, allora
questi due suoni sono realizzazioni fonetiche di due diversi fonemi (varo – faro). [v]
e [f] ricorrono nelle medesime posizioni, se le scambiamo però otteniamo parole
con significati diversi, dunque [v] e [f] sono fonemi dell’italiano.
Seconda regola: quando due suoni della stessa lingua compaiono nelle medesime
posizioni e si possono scambiare tra loro senza causare variazione di significato
della parola, questi due suoni sono soltanto varianti fonetiche facoltative di un
unico fonema (rema – Rema). Quindi la [r] alveolare e la [R] ovulare, in italiano
possono essere suoni intercambiabili, però lo scambio non dà luogo a due parole
con significato diverso. I due suoni non sono quindi due fonemi diversi, ma due
varianti libere di un solo fonema.
Terza regola: quando due suoni di una lingua, simili dal punto di vista articolatorio
non ricorrono mai nelle stesse posizioni, essi sono due varianti combinatorie dello
stesso fonema (naso – ancora). La [n] alveolare di naso e la [n] velare di ancora non
possono ricorrere nelle medesime posizioni (la [n] velare si trova solo e soltanto
prima di consonante velare e la nasale dentale mai davanti a consonante velare).
Dunque, non sono due fonemi diversi, ma varianti combinatorie dello stesso
fonema.

4.2 ALLOFONI
Quando due foni possono comparire nello stesso contesto e si ottengono così due
parole di senso diverso, allora i due foni sono realizzazioni di due fonemi diversi.
Quando, invece, due foni non possono mai ricorrere nello stesso contesto, ma il
fono X ricorre in una serie di contesti ed il fono Y ricorre in un’altra serie di
contesti, quindi sono in distribuzione complementare, allora, se questi due foni
sono foneticamente simili, si tratta di due allofoni dello stesso fonema.
Ad esempio, nella distribuzione dei suoni [s] e [z] nell’italiano del nord notiamo che
il fono [s] ricorre in posizione iniziale di parola e prima di vocale (sera, semplice,
sorriso), in posizione finale di parola (lapis, ribes) e prima di consonanti sorde
(spaurito, scavare, spirito). Il fono [z] ricorre, invece, tra due vocali (rosa, riso, asino)
e prima di una consonante sonora (sdentato, sgocciolare, snaturato). Questi due
foni sono quindi in distribuzione complementare, quindi sono due allofoni di uno
stesso fonema. Riassumendo, possiamo dire che [z] ricorre prima di consonante
sonora e tra due vocali, [s] in tutti gli altri contesti.
/s/ (fonema) > [s] [z] (varianti)

La nasale velare [ŋ] si trova solo e soltanto prima di consonante velare (____k, g).
ES: ancora, angolo.
La nasale labiodentale [ɱ] si trova solo e soltanto prima di consonanti labiodentali
(____f, v).
ES: inferno, inverno.
La nasale alveolare [n], invece, si trova in tutti gli altri contesti (naso, panna, andare).
/n/ > [n] [ŋ] [ɱ]

4.3 VARIANTI LIBERE


Se due suoni foneticamente simili si possono trovare nello stesso contesto ci sono
due possibilità: o danno luogo a due parole con significato diverso, oppure il
significato non cambia. Nel primo caso i due foni realizzano due fonemi diversi,
mentre nel secondo caso si chiamano varianti libere.

4.4 OPPOSIZIONI FONOLOGICHE


I fonemi di una lingua hanno tra di loro dei rapporti di opposizione: una /b/
funziona perché si oppone e si distingue da /p/ da /k/ ecc. e dà luogo a dei
contrasti (bare, pare, care). Trubeckoj studia queste opposizioni e le suddivide in:
Opposizione bilaterale, quando la base di comparazione, cioè la parte uguale di
due fonemi è propria solo dei membri dell’opposizione, altrimenti diventa
un’opposizione multilaterale.
• Prendiamo in esempio /p/ e /b/ (entrambe occlusive bilabiali -p sorda, -b sonora).
Questa opposizione è bilaterale perché la base di comparazione, ovvero l’occlusiva
bilabiale, è propria solo di questi due fonemi.
• Prendiamo, invece, in esempio /p/ e /k/. /p/ è un’occlusiva bilabiale sorda, /k/ è
un’occlusiva velare sorda. Dato che in italiano c’è almeno un’altra occlusiva sorda,
ad esempio /t/, questa opposizione è multilaterale.

Ci sono poi opposizioni privative o non privative. Questo tipo di opposizione


riguarda quelle coppie di fonemi in cui possiamo dire che un fonema ha le
proprietà X e l’altro fonema ha tutte le proprietà X più un’altra. Quindi, prendendo
in esempio la coppia /p/ e /b/ possiamo dire che /p/ è priva della sonorità
(essendo sorda) e /b/ invece ha tutto quello che ha /p/ (occlusiva bilabiale) e in più
la sonorità. In questo caso l’opposizione non è più sonoro – sordo, ma sonoro –
non sonoro. Quindi diremo che /p/ è un’occlusiva bilabiale non sonora.
Il termine dell’opposizione che ha una proprietà in più è detto marcato, quindi
nell’opposizione privativa /p/ /b/, /b/ è il termine marcato.

5. TRATTI DISTINTIVI

Le opposizioni privative hanno costruito la base per lo sviluppo di una teoria nota
con il nome di binarismo, dovuta a Jakobson. Secondo questa teoria, ogni
elemento linguistico si differenzia dagli altri per una serie di scelte binarie (del tipo
si – no). Quindi, ogni fonema può essere analizzato in un insieme di tratti distintivi
che definiscono quel fonema in opposizione a tutti gli altri.

5.1 REGOLE FONOLOGICHE


Una regola fonologica collega una rappresentazione astratta (fonematica) ad una
rappresentazione concreta (fonetica). Una regola è un'istruzione a cambiare una
data unità con un'altra unità in un determinato contesto. Queste regole hanno la
forma seguente: A → B / ___ C (regola generale) > A diventa B nel contesto C.
Esempio: da amiko si passa ad amitʃi e cioè una consonante velare sorda [k] diventa
un’affricata palatale sorda [tʃ] prima della vocale palatale [i].

Una regola fonologica può essere formulata sia ricorrendo ai fonemi, sia utilizzando
i tratti distintivi.
Storto – Sposto – Zdegno – Zbaglio – Znodare – Zlitta
Con questi esempi constatiamo che la sibilante /s/ resta sorda davanti a consonante
sorda come /t/ e /p/, ma diventa sonora davanti a consonante sonora /d/, /b/, /n/,
/l/. Quindi, possiamo riassumerla con questa regola. /s/ → [z] / ___ d, b, n, l.
Dato che tutti i suoni del contesto di questa regola (d, b, n, l) sono sonori, è inutile
menzionarli uno per uno, ma basta cogliere ciò che hanno in comune, cioè la
sonorità.
s → [+ sonoro] / ____ [+ consonante] [+ sonoro]

5.2 TIPI DI REGOLE


Le regole fonologiche possono:

 Cambiare dei tratti [+α] → [-α] / ____ [+β]


ES. dico → dici / vinco → vinci ([k] diventa [c] davanti a [i])

 Inserire segmenti Ø → A/ ____ B


ES. in italiano esiste una sporadica aggiunta di /i/ dopo consonante e prima
di una parola che inizia con /s/ seguita da consonante: in storia diventa
inistoria, in spagna diventa inispagna, per scritto diventa per iscritto.
Ø → i/ n, r ____ #sC si legge “inserisci una i dopo una n o una r finale di
parola e una parola che inizia con una sibilante seguita da una consonante”.

 Cambiare l’ordine dei segmenti AB → BA


Le regole che cambiano l’ordine dei segmenti sono note col nome di
metatesi. In italiano non sono regole produttive perché le troviamo quasi
esclusivamente nei lapsus o nei linguaggi patologici.
ES. una pacca vezzata > una vacca pezzata

 Cancellare segmenti A → Ø/ ____ B


Le cancellazioni sono un fenomeno molto diffuso nelle lingue del mondo.
Facciamo un esempio di cancellazione di vocale e cancellazione di sillaba.
ES. vino + aio = vinaio non vinoaio
fama + oso = famoso non famaoso
V → Ø / __ + V
La regola della cancellazione della vocale non agisce, però, se la vocale è
accentata.
ES. [virˈtu] + [oso] > [virtuoso]
[in ˈdu] + [ista] > [induista]
V → Ø / __ + V
[-accento]
Si legge “vocale non accentata viene cancellata quando si trova prima di
confine di morfema seguito da vocale “.

5.3 ASSIMILAZIONI
Le assimilazioni possono essere totali o parziali, progressive o regressive. Sono
totali quando il segmento che causa l’assimilazione rende il segmento assimilato
totalmente uguale al primo. Sono parziali se il segmento che causa l’assimilazione
cambia l’altro segmento solo parzialmente (ci sono assimilazioni al tratto di
sonorità, punto di articolazione o modo di articolazione). È progressiva quando il
segmento che causa l’assimilazione è a sinistra del segmento che assimila, cioè lo
precede. L’assimilazione è regressiva quando il segmento che causa l’assimilazione
è a destra del segmento che cambia, cioè lo segue.

ES. assimilazione totale regressiva (al punto e modo di articolazione)


i(n+r)agionevole > i(rr)agionevole
i(n+l)ogico > i(ll)ogico
ES. assimilazione parziale regressiva (al punto di articolazione e al tratto di sonorità)
in+probabile > improbabile (punto di articolazione)
in+bevuto > imbevuto (punto di articolazione)
[s]battere > [z]battere (tratto di sonorità)

ES. assimilazione totale progressiva


mondo > monno
want to > wanna

ES. assimilazione parziale progressiva (il morfema del plurale s si assimila per
sonorità al segmento precedente)
dog + [s] > dog[z]
head + [s] > head[z]

Ci sono assimilazioni di tipo diacronico che sono assimilazioni totali regressive che
caratterizzano il passaggio dal latino all’italiano.
ES. factum > fatto
aptum > atto

Esistono anche casi di assimilazione a distanza, noti come metafonesi.


ES. nero > niri (dialetto umbro meridionale)
Come vediamo, la regola morfologica del plurale comporta la sostituzione della
vocale /o/ con la vocale chiusa /i/. Questa sostituzione provoca la chiusura della
vocale media non adiacente /e/ nella vocale chiusa /i/.

La dissimilazione è il fenomeno contrario ed è un fenomeno raro. Un segmento


cambia tratti per distinguersi da segmenti del suo contesto.
ES. ebbene > embè
peregrinus > pellegrino

6. LA SILLABA

Riguardo alla sillaba ci sono definizioni di tipo fonetico e definizioni di tipo


fonologico. La definizione fonetica ci dice che la sillaba rappresenta un'unità
prosodica costituita da uno o più foni agglomerati intorno ad un picco di intensità.
Infatti, ad esempio, nella parola patata si osservano tre picchi in corrispondenza
delle tre vocali, ad ogni picco, quindi, corrisponde una sillaba pa-ta-ta. Gli approcci
fonologici, invece, vedono la sillaba come un'unità prosodica di organizzazione dei
suoni. La sillaba è costituita in italiano, da una vocale chiamata il nucleo sillabico. Il
nucleo può essere preceduto da un attacco e seguito da una coda. Il nucleo più la
coda costituiscono la rima.

L'attacco può essere costituito da una o più consonanti. Il nucleo può invece essere
costituito anche da un dittongo, come nel caso di piede. Una sillaba è aperta o
libera se è priva di coda e finisce dunque in vocale (come nel caso di a o ma).
Altrimenti è detta chiusa o implicata (come nel caso di con o an). Il componente
che deve essere obbligatoriamente presente in una sillaba è il nucleo infatti, in
italiano, attacco e coda possono esserci o non esserci. Per verificare che la sillaba
abbia una struttura interna, possiamo vederlo dal fatto che nella cosiddetta
aplologia (cancellazione di sillaba in composizione), la regola tiene conto solo di
una parte della sillaba stessa.
ES. morfo-fonemico > morfonemico

7. FATTI SOPRASEGMENTALI

La parola cane è costituita da quattro segmenti, ovvero da quattro fonemi: [k], [a],
[n] ed [e]. La fonologia basata sui segmenti è di tipo segmentale. Ci sono, però,
fenomeni fonologici che non possono essere attribuiti ad un segmento e vengono
detti fenomeni soprasegmentali. Questi fenomeni sono la lunghezza, l'accento,
l'intonazione e il tono.

7.1 LA LUNGHEZZA
La lunghezza è relativa alla durata temporale con cui vengono realizzati i suoni.
Non tutti i suoni hanno la stessa durata. Per esempio, le vocali alte sono più brevi
delle vocali basse, di norma. Una fricativa sonora (ad esempio [v]) è più lunga di
una occlusiva sorda (ad esempio [k]). Una vocale tonica non finale e in sillaba
aperta è più lunga di una vocale atona in sillaba aperta o chiusa: ad esempio, le
due /a/ della parola casa sono diverse, la prima è più lunga della seconda. In alcune
lingue la lunghezza vocalica assume un valore distintivo, ed è il caso del latino,
dove si trovano coppie minime distinte, appunto, dalla lunghezza.
ES. levis - levis > leggero - levigato
In italiano la lunghezza vocalica non è distintiva, infatti non esistono due parole con
significati diversi che si differenziano solo per la presenza di una vocale lunga o
breve. In italiano, invece, ad essere distintiva è la lunghezza consonantica.
ES. fato - fatto, pena - penna

7.2 L’ACCENTO
L'accento è una proprietà delle sillabe e non dei singoli segmenti. Una sillaba
tonica è più intensa di una sillaba atona perché, appunto, è realizzata con maggior
forza. L'accento può essere contrastivo in italiano: ancora - ancòra.
Si può considerare l'accento come una specie di fonema. In italiano l'accento non è
prevedibile su basi fonologiche, infatti, non vi è una regola per prevedere dove
comparirà l'accento. In realtà, ci sono contesti in base ai quali si può prevedere la
posizione dell'accento, ma questi sono contesti morfologici, come ad esempio la
terza persona singolare del passato remoto della prima coniugazione che richiede
sempre l'accento sull'ultima vocale: amò, cantò, lodò. Una parola può avere più di
un accento. Per esempio, in capostazione vi è un accento primario sulla /o/ di
stazione e uno secondario sulla /a/ di capo. I due tipi di accento, infatti, vengono
marcati diversamente.
7.3 L’INTONAZIONE
L'altezza dei suoni non è uniforme, ci sono dei picchi e degli avvallamenti che
producono un effetto percettivo di tipo melodico che è quello che si chiama
intonazione. L' intonazione, infatti, è chiamata appunto melodia o curva melodica.
Questa ha una grande rilevanza sintattica, infatti, noi leggiamo con diversi tipi di
intonazione una frase dichiarativa e la corrispondente interrogativa. Le dichiarative
hanno una curva melodica con andamento finale discendente, mentre le
interrogative hanno un andamento finale ascendente. La punteggiatura può
decifrare le curve melodiche nelle frasi: vengono, infatti, segnalate l'interrogativa
con il punto interrogativo e l'imperativa o esclamativa con il punto esclamativo.

7.4 IL TONO
Una sillaba può essere pronunciata con altezze di tono diverse: la parola ma, in
italiano, può essere realizzata con una pronuncia molto bassa o con una pronuncia
alta. In italiano a queste due differenti pronunce non corrisponde un cambiamento
di significato, però vi sono lingue dove a differenza di altezza di pronuncia
corrispondono variazioni di significato, queste lingue sono dette tonali. Il cinese
mandarino è una lingua tonale o a toni e, infatti, in questa lingua la stessa sillaba
può essere realizzata con quattro toni diversi e ad ogni realizzazione diversa
corrisponde un diverso significato.
ES. ma (tono alto costante) = madre
ma (tono alto ascendente) = lino
ma (tono basso discendente) = cavallo
ma (tono alto discendente) = insultare

CAPITOLO 5: LA MORFOLOGIA

Lo studio delle parole e delle varie forme che la parola può assumere è la
morfologia. Le parole sono unità del linguaggio umano istintivamente presenti alla
consapevolezza dei parlanti. La diversità tra le lingue può rendere difficoltoso
definire la nozione di parola. I criteri proposti per definire una parola sono stati
molti:
1. La parola è ciò che è compreso tra due spazi bianchi. Questa definizione di
parola è semplice ed efficace, ma ha un limite di applicazione in quanto può
funzionare solo per lingue dotate di scrittura e non per lingue che ne sono
sprovviste. Inoltre, ci sono lingue (come il cinese) dove esistono parole composte da
due caratteri separati da uno spazio.
2. Un’altra possibilità è quella di definire le parole come le unità della lingua che
possono essere usate da sole, che possono cioè formare una frase da sole (ad
esempio come domani in risposta a quando?). Questo però escluderebbe tutte le
parole grammaticali come di, e, ecc. che ovviamente non costituiscono un
enunciato.
Quindi, è stato riconosciuto che non è possibile definire la nozione di parola, ma si
distinguono varie accezioni di parola a seconda di come si considera questo
oggetto. Così, la nozione di parola fonologica (ciò che si raggruppa attorno ad un
accento primario) non coincide con la nozione di parola morfologica o di parola
sintattica: per esempio, da un punto di vista fonologico “telefonami” è una parola
sola, dal punto di vista sintattico, invece, è costituita da più unità “telefona a me”.
Una parola composta come “capostazione”, invece, è una parola sola dal punto di
vista morfologico, ma dal punto di vista fonologico è probabilmente costituita da
due unità separate dato che ha due accenti. In conclusione, un criterio efficace è
quello di considerare parola quelle unità che non possono essere interrotte, e che
quindi al loro interno non si può inserire dell’altro “materiale linguistico”.

1.1 TEMA E RADICE


Consideriamo l’esempio del verbo amare. La forma “amare” è la forma di citazione
che troviamo sui vocabolari, ed è chiamata anche lemma. Questa forma, quindi, è la
rappresentante di tutte le forme flesse che il verbo può avere. Convenzionalmente,
quindi, per l’italiano la forma di citazione del verbo è la forma dell’infinito, mentre
per altre lingua, come il latino o il greco, la forma di citazione è la prima persona
dell’indicativo presente (amo, agapò). La forma di citazione del nome è il
maschile/femminile singolare (viso, favola). La forma di citazione dell’aggettivo è
sempre il maschile singolare (bello), o la forma unica di maschile/femminile (felice).
La lemmatizzazione è un’operazione che consiste nel riportare una forma flessa al
suo lemma, ad esempio amavo > amare, avremmo cucinato > cucinare, scaffali >
scaffale.
Per quanto riguarda il verbo, bisogna distinguere tra tema e radice. Se ad un verbo
regolare come amare si toglie la desinenza flessiva -re (infinito presente), resta ama.
Questa forma è il tema del verbo. Il tema si può analizzare a sua volta come una
radice am + una vocale tematica a. le vocali tematiche dell’infinito italiano sono 3:
a, e (temere), i (sentire).

2. CLASSI DI PAROLE
Le parole di una lingua si raggruppano in classi o parti del discorso, dette anche
categorie lessicali. Secondo le grammatiche dell’italiano, le parti del discorso sono
il nome, il verbo, l’aggettivo, il pronome, l’articolo, la preposizione, l’avverbio, la
congiunzione e l’interiezione (ahi, ehi, oh). Le classi di parole che assumono forme
diverse sono i nomi, i verbi, gli aggettivi, gli articoli e i pronomi: si chiamano,
quindi, parti del discorso variabili. Le altre parti del discorso sono dette parti
invariabili. Un’altra distinzione è quella tra classi di parole aperte e chiuse: le prime
sono quelle a cui si possono sempre aggiungere nuovi membri (nomi, verbi,
aggettivi, avverbi), le seconde sono quelle formate da un numero finito di membri
(articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni). In ogni caso, non esistono parti del
discorso universali, cioè presenti in tutte le lingue (probabilmente sono solo il nome
e il verbo).
Le parole, inoltre, sono classificate in categorie che limitano la loro distribuzione
libera all’interno della frase. Ad esempio, un articolo può essere seguito da un
nome, ma non da un verbo. Le categorie lessicali a cui le parole appartengono
hanno, quindi, l’effetto di limitare le combinazioni possibili delle parole. Le parti del
discorso, perciò, possono essere riconosciute in base a criteri distribuzionali: i
nomi, i verbi, ecc. saranno definiti in base alle altre classi di parole, insieme alle
quali possono o non possono ricorrere.

2.1 CATEGORIE E SOTTOCATEGORIE


ES. Il ragazzo legge il libro.
Il cane legge il libro.
La virtù legge il libro.
Il fatto che solo la prima di queste frasi sia grammaticale ha una spiegazione: il
soggetto del verbo leggere deve essere un nome, ma non un nome qualunque,
deve essere un nome di persona o come si dice tecnicamente un nome marcato
con il tratto [umano]. Questi tratti che suddividono la categoria “nome” in altre
sottocategorie del “nome” sono: umano, comune, numerabile, animato, astratto.
Allo stesso modo, i verbi possono essere sotto categorizzati in verbi transitivi o
intransitivi, regolari o irregolari, verbi che possono avere la costruzione
progressiva (sto leggendo) e verbi detti stativi, cioè che non possono avere questa
costruzione (sto sapendo).

3. MORFEMA

Un morfema è la più piccola parte di una lingua dotata di significato. Un morfema


è un segno linguistico ed è, quindi, costituito da un significante e da un significato.
Ad esempio, in boys e libri, possiamo identificare i seguenti morfemi: boy+s, libr+i.
Il significato di boy è essere umano non adulto di sesso maschile , il significato di s
è plurale; il significato di libr è un insieme di fogli stampati, il significato di i è
maschile plurale. Quindi, possiamo dire che boy e libr sono morfemi lessicali, s e i
sono morfemi grammaticali. Con questi termini si identificano le forme che hanno
un significato lessicale, cioè che non dipende dal contesto (nomi, aggettivi, verbi) e
le forme che, invece, esprimono delle funzioni grammaticali e ricevono significato
dal contesto in cui compaiono. Ci sono morfemi che possono essere costituiti anche
da un solo fonema: in italiano abbiamo la congiunzione e oppure la preposizione a,
in inglese ad esempio c’è la s del plurale.

3.1 MORFEMI LIBERI E LEGATI


I morfemi possono essere liberi o legati: sono morfemi liberi quelli che possono
ricorrere da soli in una frase e, quindi, ad esempio bar, ieri, virtù. Sono morfemi
legati quelli che non possono ricorrere da soli in una frase e che per poterlo fare,
quindi, si devono aggiungere a qualche altra unità, ad esempio la s dell’inglese che
si aggiunge a boy oppure la i dell’italiano che si aggiunge a libr. I morfemi liberi
dell’italiano sono parole (di, voi, che); i morfemi legati sono quelli flessivi (a del
femminile singolare, i del maschile plurale, e del femminile plurale, tutte le
desinenze del verbo, ecc.), tutti i suffissi (oso, tore, zione, ecc.) e tutti i prefissi (ri, in,
ecc.). Le parole (boys, libri) sono composte da due morfemi, quindi sono parole
bimorfemiche. In inglese, generalmente, le parole semplici sono monomorfemiche;
in italiano, generalmente, nomi ed aggettivi semplici sono bimorfemici, mentre i
verbi irregolari sono trimorfemici, dato che si possono dividere in radice, vocale
tematica e desinenza flessiva. Le parole complesse, in italiano, possono essere
trimofermiche ed oltre (ferroviario, industrializzazione).

3.2 MORFEMI E ALLOMORFI


Il termine morfema designa propriamente un’unità astratta che è rappresentata a
livello concreto da un allomorfo (o morfo). Generalmente un morfema è
rappresentato da un solo allomorfo. Gli allomorfi sono, quindi, le diverse forme che
un morfema assume e che non determinano cambiamenti nel suo significato. Un
caso di allomorfia, in italiano è quello dell’articolo maschile: i e gli sono due
allomorfi, la cui distribuzione è determinata foneticamente. Gli compare prima di
s+consonante (gli scogli), di sc (gli sciocchi) e gn (gli gnomi), di vocale (gli amici) e
di semiconsonante [w] [j] (gli uomini, gli iettatori). I compare negli altri contesti e,
quindi, prima di consonante (i sentieri, i libri). Analoga è la distribuzione di il e lo al
singolare.

4. FLESSIONE - DERIVAZIONE – COMPOSIZIONE

Le parole semplici possono subire diversi tipi di modificazione. I processi


morfologici più comuni sono la derivazione, la composizione e la flessione. La
derivazione raggruppa 3 diversi processi e si compone dell’aggiunta di una forma
legata (affisso) ad una forma libera: Se l’affisso si aggiunge a sinistra della parola,
allora l’affisso sarà un prefisso e il processo di chiamerà prefissazione (ex-marito,
sfortunato). Se l’affisso si aggiunge a destra della parola, allora l’affisso sarà un
suffisso e il processo si chiamerà suffissazione (dolcemente, virtuoso). Se l’affisso si
aggiunge nel mezzo della parola, allora l’affisso sarà un infisso e il processo si
chiamerà infissazione (in italiano, l’infissazione non esiste).

La composizione, invece, forma parole nuove a partire da due parole esistenti: capo
– stazione > capostazione, dolce – amaro > dolceamaro.

La flessione aggiunge alla parola di base informazioni relative a genere (bello,


bella), numero (bello, belli), caso (rosa, rosam), tempo (ama, amava), modo (ama,
amando), diatesi attiva o passiva (amo, amor), persona (amo, ami, ama, amiamo,
amate, amano).
5. MORFOLOGIA COME PROCESSO

Una categoria lessicale, come ad esempio il verbo, può nascere come tale oppure
può diventare verbo attraverso vari processi:
a. N > A > V = centro > centrale > centralizzare
b. A > N > V = giusto > giustizia > giustiziare
c. N > N > V = palla > palleggio > palleggiare
d. V > N > V = agire > azione > azionare
e. A > V = attivo > attivare
f. N > V = magnete > magnetizzare
g. V > V = giocare > giocherellare
h. V = rompere

5.1 ALTRI PROCESSI


Ci sono altri processi morfologici che non consistono propriamente nell’aggiunta di
un morfema ad una base, tra questi ricordiamo la conversione (detta anche
sufissazione zero), la reduplicazione e la parasintesi.
La conversione consiste in un cambiamento di categoria senza che sia stato
aggiunto alla base un affisso manifesto. In inglese, ad esempio, dal nome water
“acqua” si è formato il verbo to water ovvero “innaffiare”. In italiano, la conversione
è molto comune nel passaggio da aggettivo a nome (vecchio > il vecchio), da
infinito a nome (volere > il volere), da participio presente a nome (cantante > il
cantante) e ad aggettivo (sorridente), da participio passato a nome (il coperto) e ad
aggettivo (deciso).
La reduplicazione consiste nel raddoppiamento di un segmento e può essere
parziale (come ad esempio in greco antico ly-o “sciolgo” > le-ly-ka “ho sciolto”) o
totale (come in indonesiano kursi “sedia”, kursi kursi “sedie”). La reduplicazione
può riguardare sia la flessione, sia la composizione, sia la derivazione.
Un altro processo morfologico è la cosiddetta parasintesi, che può essere sia
verbale che aggettivale. Una forma è parasintetica quando è formata da una base
più un prefisso ed un suffisso, ma dove la sequenza prefisso+base non è una parola
dell'italiano e dove nemmeno la sequenza base+suffisso lo è: ingiallire è formato
dal prefisso in-, dalla base aggettivale giallo e dal suffisso -ire, ma né ingiallo né
giallire sono sequenze grammaticali; abbottonare è formato da una base nominale
bottone, dal prefisso a- e dal suffisso -are, ma né abbottone né bottonare esistono.
Esempi di parasintesi aggettivale sono parole come svitato (svite, vitato), sfegatato
(sfegato, fegatato).

6. ALLOMORFIA E SUPPLETIVISMO

Si ha suppletivismo quando in un serie morfologicamente omogenea si trovano


radicali diversi che intrattengono rapporti semantici senza rapporti formali. Un caso
di suppletivismo è quello della flessione del verbo andare dove a seconda delle
forme del paradigma flessivo si alternano le radici and- e va(d)- (vado, vai, va,
andiamo, andate, vanno). Il suppletivismo si trova non solo nella flessione, ma in
tutto il dominio della formazione delle parole. Per quello che riguarda la
derivazione possiamo considerare questi esempi: nome acqua - aggettivo idrico,
nome fuoco - aggettivo pirico, nome cavallo - aggettivo equestre, nome maiale -
aggettivo suino. Idrico con acqua ha un'evidente rapporto semantico ma nessuna
somiglianza formale, e ciò vale anche per tutte le altre coppie.
Il suppletivismo può essere sia forte che debole. È forte quando c’è alternanza
dell’intera radice (Chieti – teatino). È debole quando tra i membri della coppia vi è
una base comune riconoscibile (Arezzo – aretino).
Non è sempre semplice distinguere tra suppletivismo e allomorfia, ma possiamo
dire che il primo è un’alternanza senza motivazioni fonologiche, la seconda, invece,
si esprime attraverso un’alternanza motivata fonologicamente (corretto – correzione,
perfetto – perfezione).

7. PAROLE SEMPLICI E PAROLE COMPLESSE

Le parole semplici sono quelle date, ossia quelle che costituiscono il lessico o
dizionario dei parlanti. Le parole complesse, invece, sono quelle formate tramite
regole morfologiche. Possiamo dire che le parole semplici sono quelle non derivate
e non composte, come ieri, sempre, ogni, che appunto non si possono
ulteriormente analizzare sul piano morfologico e, quindi, ogni segmentazione ( i-eri,
ie-ri, ier-i) non porta ad unità morfologicamente riconoscibili. Le parole complesse
sono, invece, quelle derivate e/o composte. Ad esempio:
parola suffissata > vin+aio, bar+ista
parola prefissata > dis+adatto, in+elegante
parola composta > capo+stazione, alto+piano
parola suffissata più volte > insdustri+al+izza+zione
parola prefissata più volte > ex+pro+console
parola composta più volte > tergi+lava+lunotto
parola prefissata e suffissata > in+desidera+bile, dis+articola+zione
parola composta e suffissata > croce+rossa+ina, ferro+via+ario
parola composta e prefissata > in+vero+simile
parola composta, prefissata e suffissata > in+vero+simile+mente

La morfologia deve rendere conto della costruzione di tutte le parole complesse. Le


parole semplici sono invece, come si è detto, “date” ovvero elencate nel lessico.

8. PAROLE SUFFISSATE

I suffissi dell'italiano possono essere raggruppati in grandi categorie che possono


anche incrociarsi. Vi è ad esempio la classe dei suffissi deverbali, che comprende i
suffissi che formano nomi da verbi. Questi suffissi formano nomi d'azione o
deverbali astratti che, in certi casi, possono concretizzarsi e diventare “nomi
risultato”, vale a dire nomi concreti, non astratti:
NOMI DEVERBALI ASTRATTI > ammiraZIONE, camminATA, andatURA, giuraMENTO.
NOMI RISULTATO > costruZIONE, aranciATA, frittURA, arredaMENTO.

La classe dei suffissi valutativi è formata dai diminutivi, accrescitivi, peggiorativi,


vezzeggiativi, ecc. (ino, one, accio, otto, ucolo, ecc.). I valutativi sono molto
numerosi in italiano, al contrario di quello che avviene nell’inglese o nel francese,
per esempio, dove ce ne sono pochissimi.
9. PAROLE PREFISSATE
10. MORFOLOGIA E SIGNIFICATO

La formazione delle parole ha una parte formale e una parte semantica.


Prendiamo in esempio il significato delle parole vinaio, giornalaio, verduraio. Il
significato delle diverse parole in -aio ha una parte fissa (persona che vende) e una
parte variabile (il prodotto che vende: vino, giornali, verdura). La parte fissa è la
parte di significato introdotta dal suffisso, mentre la parte variabile corrisponde al
nome di base.

11. COMPOSTI DELL’ITALIANO

Prendiamo in esempio un composto come camposanto. Come vediamo, il


composto ha la stessa categoria lessicale (nome) di uno dei suoi costituenti ( campo)
che è anch’esso nome > N+A=N. Diremo che campo è la testa del composto e
che la categoria N del composto deriva dalla testa: in altre parole, camposanto è un
nome perché campo è un nome e proprio da campo la categoria lessicale del nome
viene passata a tutto il composto.
Per identificare la testa di un composto si può applicare il test “è un”, questo test
vale sia per quello che riguarda la categoria lessicale (è un nome), che per quello
che riguarda la semantica (è un campo).
Prendiamo, ora, in esempio il composto capostazione. In questo caso il test
categoriale non dà una risposta chiara: capostazione è un nome, ma sia capo che
stazione sono nomi. Quindi, dobbiamo approfondire l’analisi e così ci accorgiamo
che capo è un nome (tratti distintivi > maschile e animato), mentre stazione non è
un nome maschile e animato. Quindi, capostazione è un nome maschile e animato,
proprio come capo che, quindi, sarà la testa del composto. Capostazione è un capo
non una stazione. Infine, un costituente è la testa di un composto quando tra
questo costituente e tutto il composto vi è un’identità sia di categoria che di tratti
sintattico-semantici.
Ci sono lingue in cui la testa dei composti può essere identificata posizionalmente.
Per esempio, in inglese la testa è a destra (overdose, rattlesnake, honey sweet).
Infatti, vediamo che la categoria lessicale di tutto il composto è sempre uguale alla
categoria del costituente a destra.
In italiano la situazione è più complessa.
N+N > pescecane è un pesce (testa a sinistra)
N+A > camposanto è un campo (testa a sinistra)
A+N > gentiluomo è un uomo (testa a destra)
N+N > terremoto è un moto (testa a destra)
N+N > scuolabus è un bus (testa a destra)
12. COMPOSTI ENDOCENTRICI, ESOCENTRICI E DVANDVA

Tutti i composti che hanno una testa si chiamano endocentrici perché da questa
derivano tutte le informazioni necessarie al composto per farlo funzionare in una
frase. Non tutti i composti però hanno una testa, ad esempio dormiveglia.
Applicando il test “è un” a questo composto, otteniamo risposte negative:
dormiveglia dal punto di vista semantico non è né un dormi né una veglia e dal
punto di vista della categoria non è un verbo. In questo caso si dice che il
composto è esocentrico. Altri esempi di composti esocentrici sono pellerossa,
purosangue, senzatetto.
Esiste, infine, un terzo tipo di composti detti dvandva dalla tradizione grammaticale
sanscrita e detti anche composti di coordinazione. Questi composti hanno, per così
dire, due teste, cioè sono formati da due costituenti che sono entrambi teste sia
categoriali che semantiche, sono composti tipo cassapanca (che al plurale flettono
entrambe le teste cassepanche), agrodolce.
CAPITOLO 6: IL LESSICO

Ci sono almeno due definizioni di lessico: uno è il lessico mentale dei parlanti e
l'altro prende la forma del dizionario. Le parole di una lingua sono memorizzate,
mentre le frasi sono costruite tramite regole ma non memorizzate.

6.1 LESSICO MENTALE


Con lessico mentale si intende un sottocomponente della grammatica dove sono
immagazzinate tutte le informazioni fonologiche, morfologiche, semantiche e
sintattiche che i parlanti conoscono relativamente alle parole della propria lingua.
Con lessico mentale intendiamo, quindi, non solo la conoscenza delle parole prese
una ad una, ma anche le conoscenze relative al funzionamento di queste parole e
dei rapporti tra le varie parole, tra le varie classi di parole, ecc. Quindi, ogni parlante
è in grado di estrarre dal proprio lessico mentale delle liste di parole con certe
caratteristiche. È una sorta di dizionario mentale.

6.2 DIZIONARIO
Un dizionario è l'insieme delle parole usate da tutta una comunità linguistica e,
dunque, contiene sia parole di uso comune sia parole che fanno parte di lessici
specialistici o settoriali. In un dizionario, inoltre, è presente molta diacronia, cioè vi
si conservano parole che appartengono a fasi precedenti della lingua e che non
sono più in uso. In un dizionario il lemma è di solito evidenziato in neretto, segue
poi di solito la trascrizione fonetica o fonologica, l'etimologia e la definizione della
categoria lessicale. Vi sono, poi, degli esempi e le varie accezioni di significato. Un
dizionario è necessariamente sempre arretrato sia rispetto ai neologismi, ovvero le
parole nuove che nascono continuamente, sia rispetto ai significati nuovi che le
parole possono assumere. Ad esempio, navigare oggi si riferisce anche alla
navigazione in rete. È importante distinguere tra dizionario ed enciclopedia: il
dizionario è una lista di parole che contiene informazioni sulla natura e sull'uso
delle parole, mentre un'enciclopedia contiene informazioni su tutto il sapere umano.
Ad esempio, di una parola come giardino nel dizionario troviamo informazioni
grammaticali di vario genere su questa parola, mentre in un'enciclopedia troveremo
la storia del giardino.
6.3 LESSICALIZZAZIONI
La lessicalizzazione è un processo per cui una sequenza di parole acquista
carattere e funzione di unità lessicale autonoma, nella quale i singoli elementi non
sono più sostituibili con sinonimi e talvolta si fondono anche graficamente. Ad
esempio: tagliare la corda, scoprire il fianco, cosicché, di sana pianta, usa e getta,
ecc. Questo processo va però distinto da un altro processo, quello di
grammaticalizzazione, per cui un'unità perde il suo significato lessicale e ne
acquisisce uno grammaticale, ad esempio il suffisso -mente oggi è un suffisso,
mentre in latino era una parola mens-mentis, ablativo mente.

6.4 SIGLE E ABBREVIAZIONI


Riguardo le sigle si tratta di processi di morfologia minore, nella maggioranza dei
casi si tratta di cancellazioni. “Anche la CGL può sbagliare”, in questo caso la parola
“CGL” risulta abbreviata delle sue unità più lunghe: confederazione generale italiana
del lavoro. Quindi, in questo caso è stato formato un acronimo a partire dalle
lettere iniziali di ogni parola, cioè sintagma di partenza. Altri processi simili sono
all'origine di parole come “polfer” che deriva da “polizia ferroviaria”. Queste parole
sono chiamate parole macedonia (o incroci) e derivano da abbreviazioni di patti di
parole. Nell’abbreviazione “prof”, invece, c'è la sottrazione di una parte della parola,
in questo caso la parte sottratta è “esoressa”.

6.5 STRATIFICAZIONE DEL LESSICO


Il lessico di ogni lingua è stratificato, nel senso che è costituito da vari strati, spesso
dovuti a contatti tra sistemi linguistici, prestiti ecc. Lo strato nativo è quello centrale
di una data lingua, quello non nativo, invece, definisce gli strati periferici che spesso
riflettono le vicende storiche e i contatti che la lingua in questione ha avuto con
altri sistemi linguistici. Ad esempio, l'italiano ha diversi strati non nativi, come
testimoniano le voci di origine latina, greca, inglese, francese e araba. Questo strato
non nativo dell'italiano è costituito da prestiti e calchi, sia i prestiti che i calchi sono
forme di interferenza tra sistemi linguistici diversi e riguardano la riproduzione di
una parola da una lingua di partenza ad una lingua di arrivo. Se la riproduzione è di
struttura morfologica, sintattica o semantica avremo quindi un calco rispettivamente
strutturale o semantico, se la riproduzione invece è più centrata sul significante
avremo un prestito. I calchi sono anche detti prestiti semantici e rappresentano
trasposizioni di modelli morfologici o sintattici della lingua d'origine a quella
d'arrivo, come, ad esempio, grattacielo dall'inglese skyscraper, o retroterra dal
tedesco hinterland. Tra i prestiti si possono distinguere prestiti adattati e prestiti
non adattati. I prestiti adattati sono parole entrate a far parte del lessico italiano in
epoche remote e hanno una forma fonetica che non identifica più la loro origine
straniera, come le parole alfiere, complimento, che sono di origine spagnola, o
caraffa di origine araba o ghibellino e guerra di origine tedesca. I prestiti non
adattati sono quelli che conservano una forma estranea alle regole fonologiche
degli italiano. Parole come leader, film, sport terminano infatti in consonante, cosa
che sarebbe estranea alle regole dell'italiano, nonostante questo però mostrano di
essere integrate nel sistema morfologico dell'italiano perché danno luogo a parole
derivate come filmico o sportivo. In italiano oggi predominano i prestiti dell'inglese,
ma vi sono anche prestiti dal francese e dal tedesco dallo spagnolo.

CAPITOLO 7: LA SINTASSI

La sintassi (dal greco sýntaksis, propriamente “combinazione (di parole)”) è il livello


di analisi della lingua che, insieme alla morfologia, si occupa dell’organizzazione del
significante in quanto portatore di significato. Se l’oggetto di studio della
morfologia è la struttura delle parole, l’oggetto di studio della sintassi è la struttura
delle frasi. Il principio generale per l’analisi della struttura delle frasi è la
scomposizione o segmentazione in elementi più piccoli della frase stessa, chiamati
costituenti. Questi elementi possono essere formati da semplici parole, ma anche
da gruppi di parole chiamati espressioni o sintagmi.

1. LA VALENZA
Notiamo che determinati verbi devono essere accompagnati da un determinato
numero di altre parole, mentre altri verbi ne richiedono un numero diverso. Ad
esempio, un verbo come catturare ha bisogno di due nomi, mentre al verbo
camminare ne basta uno. Quindi, esiste una valenza verbale e possiamo dire che
un verbo come catturare è bivalente, mentre uno come camminare è monovalente.
Gli elementi che sono richiesti dai vari verbi sono detti argomenti.

VERBI AVALENTI O ZEROVALENTI: sono detti verbi avalenti o zerovalenti i verbi


che non sono accompagnati da nessun argomento. A questa classe appartengono i
verbi meteorologici: piove, nevica, ecc.

VERBI MONOVALENTI: sono detti verbi monovalenti i tradizionali verbi intransitivi,


come camminare, parlare, morire, arrivare, partire, ecc.

VERBI BIVALENTI: sono detti verbi bivalenti i tradizionali verbi transitivi, come
catturare, lanciare, compiere, ecc.

VERBI TRIVALENTI: sono detti verbi trivalenti i verbi cosiddetti di dire o di fare. Ad
esempio “il professore ha detto ai ragazzi di fare silenzio” oppure “Gianni ha dato
un libro a Maria”.

Oltre al verbo e ai suoi argomenti, che di per sé formano già una frase di senso
compito, si possono aggiungere altri elementi facoltativi che si chiamano
circostanziali. Questi si possono presentare in posizioni diverse all’interno della
frase senza che quest’ultima cambi il suo senso. Ad esempio “il poliziotto catturò il
ladro + a mezzanotte”.

2. IL SINTAGMA
Possiamo definire il sintagma come una combinazione minima di parole che può
funzionare come un’unità all’interno della frase.
I sintagmi sono unità intermedie tra le parole e le frasi. Come le parole, possono
essere attribuiti a categorie grammaticali diverse: avremo così sintagmi nominali,
sintagmi verbali, sintagmi aggettivali, sintagmi avverbiali, sintagmi preposizionali.

I sintagmi vengono classificati a seconda del tipo di costituente semplice principale


(chiamato testa) che ne determina le proprietà sintattiche fondamentali:

• i sintagmi nominali (SN) sono espressioni che hanno come testa un nome;

• i sintagmi verbali (SV) sono espressioni che hanno come testa un verbo;
• i sintagmi aggettivali (SAgg) sono espressioni che hanno come testa un
aggettivo;

• i sintagmi avverbiali (SAvv) sono espressioni che hanno come testa un avverbio;

• i sintagmi preposizionali (SP) hanno come testa una preposizione.

Nella sua forma più semplice, ogni sintagma può essere teoricamente ridotto
all’elemento che ne costituisce la testa, con l’eccezione del sintagma preposizionale:
la preposizione, infatti, non può mai comparire in isolamento (deve essere sempre
seguita da un nome o da un SN). In pratica, soltanto gli aggettivi, gli avverbi, i nomi
propri e alcuni tipi di verbi sono in grado da soli costituire un sintagma.
Solo i nomi propri sono in grado da soli di costituire un sintagma.

All’interno del sintagma nominale possiamo trovare dei modificatori del nome (che
corrispondono ai “circostanti del nome”). Ad esempio, proviamo ad aggiungere
degli elementi a “il cane”:
Il cane nero > attributo
Il cane poliziotto > apposizione
Il cane di Paolo > complemento
Il cane che ho incontrato > frase relativa
L’italiano, che è considerato una lingua “a testa iniziale” (A differenza dell’inglese,
che è invece una lingua “a testa finale”: a black dog, John’s dog ecc.), tende a
collocare i modificatori dopo la testa.

3. GRUPPI DI PAROLE

La rappresentazione della struttura interna dei sintagmi si fa attraverso i diagrammi


ad albero, dove SN è il sintagma nominale, SV è il sintagma verbale, SP è il
sintagma preposizionale, ART è l’articolo, N è il nome, V è il verbo e P è la
preposizione.
ES. il poliziotto catturò il ladro a mezzanotte.

I diagrammi ad albero sono utili per rappresentare la struttura gerarchica delle frasi,
ossia i sintagmi di cui queste sono composte.

ES. Gianni passeggia.


ES. Il figlio di mio cugino attraversa la strada con calma.

ES. Gianni legge questi libri.


ES. La lettura di questi libri migliora la mente.
4. LE FRASI

La differenza tra i gruppi di parole chiamati “frasi” e gli altri tipi di gruppi di parole
è che solo le frasi sono composte di soggetto e predicato. Il rapporto
soggetto/predicato è un rapporto di dipendenza reciproca, ossia l’uno dei due
elementi esiste solo perché esiste anche l’altro e viceversa. Mentre, non c’è
dipendenza reciproca tra la testa e gli altri elementi all’interno del gruppo di parole
(elementi che possiamo chiamare modificatori), perché la testa può esserci anche
senza i modificatori, mentre i modificatori non possono esserci senza la testa.

Sono stati individuati tre tipi di entità che sono genericamente chiamate “frasi”:
1. espressione di senso compiuto che sono gruppi di parole con struttura
predicativa > l'albero è verde.
2. espressioni di senso compiuto che non sono gruppi di parole e non hanno una
struttura predicativa > Gianni! Ahia!
3. strutture predicative che non sono espressioni di senso compiuto > che aveva
appena svaligiato.
La proposizione è l'equivalente di una “frase con struttura predicativa”, sia che
questa esprima un senso compiuto oppure no.

4.1 TIPI DI FRASI


Una prima distinzione da fare è quella tra frase semplice e frase complessa. La
frase semplice è quella che non contiene altre frasi, la frase complessa (o periodo) è
una frase che contiene altre frasi. Il rapporto tra le frasi semplici che costituiscono
una frase complessa può essere di coordinazione oppure di subordinazione: più
frasi semplici sono coordinate se sono tutte sullo stesso piano, mentre una frase
semplice è subordinata ad un'altra se le due frasi non sono sullo stesso piano. Ad
esempio, nella frase “Gianni è partito e Maria è rimasta a casa” c'è un esempio di
coordinazione. Nella frase “a mezzanotte il poliziotto catturò il ladro davanti alla
casa che aveva appena svaligiato” c'è un rapporto di subordinazione perché “a
mezzanotte il poliziotto catturò il ladro davanti alla casa” è la frase principale,
mentre “che aveva appena svaligiato” è la frase subordinata (o dipendente, o
ancora secondaria).
Possiamo mostrare che le frasi coordinate sono sullo stesso piano, perché se si
omette l'una o se si omette l'altra il risultato è sempre una frase grammaticale. Ad
esempio “Gianni è partito” oppure “Maria è rimasta a casa”. La frase principale si
può chiamare anche frase indipendente. Le frasi indipendenti sono quelle che
esprimono un senso compiuto.
Dal punto di vista della modalità, le frasi si possono distinguere in dichiarative
(Gianni è partito), interrogative (Gianni è partito?), imperative (Gianni parti!) ed
esclamative (Che sorpresa mi ha fatto Gianni). Non è sempre detto che la forma
sintattica della frase corrisponde allo scopo per cui è usata, quindi non sempre una
frase dichiarativa è enunciata per constatare un fatto, oppure una frase interrogativa
per fare una domanda. La distinzione è, quindi, puramente sintattica.
Le frasi interrogative, inoltre, possono essere di due tipi: nel primo tipo si chiede se
un certo evento, ad esempio la partenza di Gianni, è avvenuto oppure no e la
risposta sarà, quindi, sì oppure no. Nel secondo caso, quando l’interrogativa è “chi è
partito?”, si chiede di indicare un determinato individuo di cui si predica una
determinata proprietà, in questo caso l'essere partito, e la risposta sarà l'indicazione
di quell’individuo quindi Gianni, Maria, Pietro, ecc. Al primo tipo di interrogative si
darà il nome di interrogative si-no. Al secondo tipo, invece, si darà il nome di
interrogative wh perché si riferisce agli avverbi interrogativi in inglese, quindi la
risposta prevede di specificare una determinata persona, cosa, luogo, ecc.

Un altro punto di vista delle frasi è quello della polarità che distingue le frasi
affermative dalle frasi negative: ad esempio, “Gianni è partito” e “Gianni non è
partito” (positivo – negativo).

Poi c'è il punto di vista della via della diatesi che distingue le frasi attive dalle frasi
passive: “Gianni ama Maria” e “Maria è amata da Gianni”.

Infine, il punto di vista della segmentazione oppone due tipi di frasi come le
seguenti: “non avevo mai letto, questo libro” e “questo libro, non l'avevo mai letto”.
Nel secondo esempio il SN “questo libro” è collocato nella prima posizione della
frase ed è separato dal resto della frase con una pausa (la virgola) ed è, quindi,
divisa in due segmenti ed è un esempio di frase segmentata detta dislocata a
sinistra. La prima frase, invece, è una frase dislocata a destra.

Altri tipi di frasi segmentate sono: frase a tema sospeso (questo signore, Dio gli ha
toccato il cuore “Manzoni”); frase focalizzata (Gianni ho visto ieri, non Paolo); frase
scissa (è questo libro che non avevo mai letto). Quindi, tutti i tipi di frasi
segmentate hanno in comune il fatto che un determinato sintagma si trova in
posizione di rilievo rispetto agli altri.

5. TIPI DI FRASI DIPENDENTI

Le frasi dipendenti argomentali sono frasi dipendenti che rappresentano argomenti


del verbo della frase principale. Ci sono:
Completive oggettive: rappresentano argomenti dei verbi. Ad esempio:
> Gianni crede che Paolo abbia mentito.
Completive nominali: rappresentano argomenti dei nomi. Ad esempio:
> Il fatto che Paolo abbia mentito non mi meraviglia.
Soggettive: la dipendente è il soggetto della principale. Ad esempio:
> Che la terra giri intorno al sole è noto da molto tempo.
Interrogative indirette: Gianni non sa chi partirà domani.

Poi abbiamo le frasi dipendenti circostanziali:


- Temporali (Quando Gianni è arrivato, Maria era già partita da un pezzo).
- Causale (Dato che Gianni è arrivato in ritardo ce ne siamo andati).
- Finale (Abbiamo predisposto tutto perché Gianni potesse arrivare in orario).
- Consecutiva (Gianni ci ha fatto attendere tanto a lungo che ce ne siamo andati
via).
- Condizionale (Se Gianni fosse arrivato in orario avremmo potuto cenare con
calma).
- Concessiva (Benché Gianni fosse arrivato in orario non trovò nessuno ad
attenderlo).
- Comparativa (Abbiamo atteso Gianni più a lungo di quanto fosse necessario).

Un terzo tipo di frasi dipendenti sono le cosiddette frasi relative.


ES. Gianni che non si è iscritto all’appello non può sostenere l’esame.

Possiamo classificare le frasi anche in base alla loro forma, ossia in esplicite e
implicite.
Sono esplicite le frasi dipendenti che contengono un verbo in modo finito.
> Gianni ha promesso a Maria che partirà domani.
Sono implicite quelle che contengono un verbo in modo non finito.
> Gianni ha promesso a Maria di partire domani.

5.1 RAPPRESENTAZIONE FORMALE DELLA STRUTTURA DELLA FRASE


Sappiamo che né il soggetto e né il predicato possono essere considerati la testa
della fase: infatti, non si può avere un predicato senza soggetto, né un soggetto
senza predicato. Questo fatto sembra distinguere nettamente la frase dagli altri tipi
di gruppi di parole che sono, invece, tutti caratterizzati dal possedere una testa. In
effetti, per molto tempo si è pensato che la frase fosse una categoria priva di testa,
o esocentrica, al contrario degli altri tipi di sintagmi che sono, invece, dotati di testa
o endocentrici. Si è cominciato, quindi, a proporre una struttura endocentrica anche
per le frasi, questo ovviamente comporta l'individuazione di un elemento che possa
essere la testa della frase stessa e che non può essere né il soggetto né il predicato.
Il punto di partenza di questa teoria è che la testa della frase sia la flessione del
verbo, quindi, ad esempio, in una frase come “Gianni passeggia”, “passeggia” è la
terza persona singolare dell’indicativo presente e, quindi, una flessione.
Questo può sembrarci strano perché il verbo fa parte del predicato e sappiamo che
appunto né il predicato né il soggetto possono essere la testa della frase. Però,
occorre distinguere il contenuto lessicale del verbo dalla sua flessione, in quanto
sono l'uno indipendente dall'altra. Il contenuto lessicale di un verbo come
“passeggiare” è che si tratta di un verbo monovalente, il cui significato è
“camminare lentamente”, “senza meta precisa”, “per divertimento, esercizio fisico”.
Questo contenuto lessicale è identico per qualunque modo, qualunque tempo e
qualunque persona del verbo “passeggiare”, e lo stesso vale per tutti gli altri verbi.
Viceversa, la flessione è identica per qualunque altro tipo di verbo, sia esso
monovalente come nevica, bivalente come ama, o tetravalente come dona. Quindi,
il contenuto lessicale del verbo è indipendente dalla sua flessione, e la flessione del
verbo è indipendente dal suo contenuto lessicale. Questo suggerisce che in realtà il
verbo come categoria lessicale e testa del sintagma verbale è separato dalla
flessione: a questo livello, quindi, la flessione è un morfema libero, mentre è un
morfema legato al verbo solo a livello concreto.

6. SOGGETTO E PREDICATO

Le definizioni di soggetto sono numerose, la più diffusa è quella che dice che il
soggetto di una frase indica la persona o la cosa che fa l'azione, o delle frasi
passive, chi la subisce. Inoltre, possiamo anche dire che il soggetto è
quell'argomento che ha obbligatoriamente la stessa persona e lo stesso numero del
verbo. In ogni caso le definizioni di soggetto sono definizioni parziali, perché
colgono soltanto alcuni aspetti dell'organizzazione del linguaggio.
Il predicato, invece, a sua volta esprime l'azione compiuta oppure subita dal
soggetto.
Parlando di soggetto e di predicato queste definizioni non distinguono i diversi
livelli di analisi della frase: questi livelli sono rispettivamente quello sintattico,
semantico e comunicativo.
È meglio limitarsi ad usare soggetto e predicato per riferirsi alle nozioni del livello
sintattico: infatti, a questo livello il soggetto è l'argomento che ha
obbligatoriamente la stessa persona e lo stesso numero del verbo. Il predicato è
costituito, invece, dal verbo più gli altri argomenti del verbo stesso, ossia dal
sintagma verbale.
A livello semantico, invece di soggetto parliamo di agente e, invece, di predicato
parliamo di azione. Oppure nelle frasi che non esprimono un'azione (Gianni teme la
guerra) parliamo di stato. In questa frase al soggetto sintattico (Gianni), dal punto
di vista semantico, diamo l'etichetta di esperiente, cioè di chi prova un certo stato
d'animo.
A livello comunicativo, al posto di soggetto, useremo tema, nel senso più o meno
in cui si parla di “tema da svolgere” e, al posto di predicato, useremo rema, che
deriva dalla parola greca collegata alla radice che significa “parlare”. Infatti,
possiamo dire che il tema è ciò di cui si parla, mentre il rema è quanto ciò che su
di esso viene detto.

Ad esempio:
1. Quel ragazzo picchia quel signore > in questa frase il soggetto coincide sia con
l’agente che con il tema, e il predicato coincide sia con l’azione che con il rema.
2. A Pietro piacciono i fiori > il soggetto non coincide con il tema, ma fa parte del
rema, e il predicato è “spezzato” tra tema e rema. Inoltre, questa frase non contiene
un agente, ma un esperiente, e non descrive un’azione, bensì uno stato.

7. CATEGORIE FLESSIONALI

Le desinenze delle parti del discorso variabili esprimono le diverse categorie


flessionali: ad esempio il genere, il numero, il caso, il tempo, la persona e il
modo. Queste categorie flessionali si oppongono, dunque, alle categorie lessicali,
cioè alle parti del discorso. Per esempio, due parole come bello e bella
appartengono alla stessa categoria lessicale perché sono entrambi aggettivi, ma
sono diverse dal punto di vista della categoria flessionale del genere, bello è
maschile, mentre bella è femminile. Ama e amava sono entrambi verbi, quindi
stessa categoria lessicale, ma sono diversi dal punto di vista del tempo (categoria
flessionale). Se due parole hanno le stesse categorie flessionali, per esempio, sono
entrambe maschili, o entrambe plurali ecc. si parla di accordo. Se, invece, una
parola ha una data categoria flessionale, perché questa le è assegnata da un'altra
parola con categorie flessionali diverse, si parla di reggenza. Ad esempio, si dice
che un nome ha un determinato caso perché è retto da un determinato verbo.

Un esempio di accordo > belle ragazze (femminile e plurale).

Un esempio di reggenza > un nome ha un determinato caso perché questo è retto


dal verbo.

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