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COCO CHANEL
Genio, passione, solitudine
Nota
La mia amicizia con Chanel è durata dieci anni, gli ultimi della sua
vita. La sua intimità mi parve allora così rivelatrice che pubblicai di get-
to Chanel solitaire, i miei ricordi.
Oggi torno a lei dopo un distacco di dieci anni. I numerosi libri e do-
cumenti pubblicati tracciano altri cammini, diversi dal mio. Nato alla fi-
ne della sua vita, il mio unico proposito è stato di ritrovare la sua storia,
quella di una Chanel intima, il cui vissuto mi aveva fatto penetrare il se-
greto di un creatore al femminile e di un’inalterabile infanzia. Una Cha-
nel gloriosa, ma anche ferita, fragile. Questo libro è la storia di una don-
na. (c.d.)
Premessa
Ho conosciuto Coco Chanel in Rue Cambon, sul finire della sua vi-
ta. Per caso, quel caso di cui lei aveva fatto la propria superstizione. En-
trò nel suo negozio, dove stavo scegliendo un foulard stringendo dei li-
bri sotto il braccio. «Lei è fortunata ad avere il tempo di leggere», mi dis-
se. «Io, invece, vivo come una prigioniera. Venga a fare colazione con me
un giorno». Era così intensa, così accattivante sotto la sua paglietta di-
spotica, al fondo della scala aggrappata agli specchi, che indistintamen-
te sentii su di lei gli effluvi del suo profumo e quelli, più proibiti, di una
inalterabile adolescenza.
Tra i suoi specchi, ogni stagione la vedeva intenta a preparare la sua
«ultima» collezione. Lavorava senza sosta per far nascere la seduzione
da una donna apparentemente anonima. Quella donna era lei stessa. Le
sue modelle in camicia bianca, con il metro annodato intorno alla vita,
lo sapevano bene: Coco faceva in modo che tutte somigliassero a lei.
La frangia, il fisico magro («la noia ingrassa», diceva), i seni leggeri
(«ho un petto che non mi impedisce di correre»), il piccolo jersey in-
gualcibile e la camelia per sognare: era la sua figura che vestiva. La sua
storia.
Mostro sacro della moda, quando la si credeva relegata alle calende
degli anni folli ritornò sul campo delle sue battaglie. Con le sue armi di
sempre: la magrezza, la semplicità e il vero. Della sua figura, mascolina
e ultra-femminile, aveva fatto un bestseller del lusso e della voluttà. A
settantun anni, sfinita dall’ozio, Coco si era guadagnata la rentrée con-
tro il new look di Christian Dior, tutto costrizioni e guêpiere. Di nuovo,
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to… Il rifugio della campagna sta per andare in pezzi. Per rag-
giungere Albert, che in una lettera annuncia di essersi stabilito a
Brive-la-Gaillarde, Jeanne si rimette in viaggio con le due figlie
maggiori. A Brive, il nonno Henri-Adrien ha una sorella sposata
a un notaio, senza figli.
Jeanne sarebbe morta lì. Trentatré anni appena. La piccola Co-
co rimase ossessionata dalla sua agonia. Il padre, assente, non
avrebbe più rivisto le lacrime vive di Jeanne. Solo il suo pallore
brillava, già cereo, sulle lenzuola bianche. Quando il vedovo si
alzò in mezzo alle prefiche, prese Coco tra le braccia. La corona
della sposa, sotto la campana di vetro, si era seccata.
Albert mise Coco sul carretto trainato dal cavallo e la portò dai
suoi genitori insieme alla sorella Julia e alla piccola Antoinette.
Henri-Adrien si mise a sbraitare: che cosa ci doveva fare con altri
bambini? Le sue finanze non dovevano essere intaccate. La sorel-
la, moglie del notaio, era in amicizia con la superiora della Con-
grégation du Saint-Coeur-de-Marie, che dirigeva un orfanotrofio
tra i muri austeri e spogli dell’antico monastero romanico di Oba-
zine, nei pressi di Brive. Virginie-Angélina pianse invano tutte le
sue lacrime… I figli di Albert Chanel furono mandati all’ospizio.
Poi Albert portò Coco e le sue sorelle a Obazine. Le nere braccia
dell’orfanotrofio si richiusero. Coco non avrebbe più rivisto il suo
diletto, suo padre.
Per tutta la vita Coco avrebbe lottato contro questo abbando-
no. La sua brama di piacere, di essere desiderata, riconosciuta,
copiata, non sarebbe mai bastata a sconfiggerlo. Eppure, mai e
poi mai l’ho sentita biasimare il padre, il bello e focoso Albert
Chanel. Il suo paradiso perduto. Se la prese con la filossera che
aveva attaccato i vigneti… Di suo padre fece sempre ciò che egli
aveva sognato di essere: «Mio padre era di Nîmes e faceva il com-
merciante di vino». La sua unica vigna, e di gran pregio, fu lei.
Non si era sbagliato nella scelta del vitigno.
«La leggenda resiste più del suo soggetto. Alla triste realtà pre-
feriremo sempre quel bel parassita che è l’immaginazione». Feri-
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che Coco doveva aggirare, rifuggire, negare. Sì, lui l’aveva ab-
bandonata. Da quel momento in poi l’abbandono fu sepolto nel
suo inconscio, sigillato con la morte della madre. Quando mo-
riranno i suoi amanti e gli altri uomini a lei cari, prenderà le di-
stanze dal dolore con il suo inconscio di allora: «Lui mi ha ab-
bandonata». Morendo. Mi diceva: «Quando muore qualcuno
che mi ha amata, subito mi dico che mi ha abbandonata». Era
necessario insorgere contro questo abbandono-morte, le sue di-
fese dovevano soffocare il singhiozzo di allora che l’aveva qua-
si sommersa.
Non si sarebbe mai rivolta a nessuna delle suore chiamandola
«Madre». Il suo dolore di bambina apparteneva a lei sola. Coco lo
aveva chiuso con un chiavistello pesante quanto la sua disillusio-
ne. «L’orgoglio mi ha salvato», mi ripeteva sempre.
Il suo cuore è incarcerato, all’ombra di Obazine. La bambina
ritrosa avrebbe voluto abbandonarsi alla tenerezza. «Volevo esse-
re sicura di essere amata e vivevo con persone spietate…». No,
non vuole le braccia delle serve, uniche laiche tra le suore infles-
sibili. «Sono stata allevata da donne». Questa rivendicazione
sgorgava sempre. Coco sedurrà l’altro sesso senza tregua. Sarà
una provocatrice.
L’orfanotrofio di Obazine le impresse a fuoco il marchio del-
l’abbandono. In uniforme. Non importa quale: persino a Obazi-
ne, le ragazze di buona famiglia avevano i loro diritti. Sono allie-
ve «paganti». Tra di loro c’è Adrienne, figlia di Henri-Adrien
Chanel nonché zia di Coco e sua coetanea dalla carnagione fresca
e luminosa. Anche Louise Chanel, la sorella di Adrienne e di Al-
bert, che ha sposato un certo Costier, ha messo la figlia Marthe in
convitto a Obazine, con Coco e le sue sorelle. Queste ultime, però,
sono state ammesse per spirito di carità e hanno diritto solo a ve-
stiti confezionati in serie. Antoinette e Julia non se ne curano, ma
Coco si ribella…
Già all’epoca lottava contro la sua uniforme anonima e non si
sarebbe fermata fino ad averla avuta vinta: entità inseparabile dal
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Tutto il suo essere insorge contro questa gente che l’ha relegata
nell’orfanotrofio dei senza famiglia. Il colpo di ferro della zia Loui-
se, che le bambine chiamavano però zia Julia, il fischio stridente del
treno della piccola stazione le fanno venire voglia di darsela a gam-
be. Dove sono i giorni di un tempo? La devozione di Jeanne, i glo-
riosi fischi di Albert quando rientrava a casa e Coco affondava i ric-
cioli nella sua spalla? Rabbrividì sentendosi un’intrusa. A testa bas-
sa, ricama a punto croce le sue camicie da notte perché abbiano
un’aria russa, ma sbaglia l’orlo e il sopraggitto. Per quanto Louise
si sforzi, Coco detesta cucire. Il suo rifugio è il granaio: là sono con-
servati i giornali, i feuilleton cuciti insieme e le copie di «Illustra-
tions» legate con lo spago. Instancabile, Coco scopre il romanzo a
puntate e si getta sui feuilleton. Questi gareggiano con «Les Veil-
lées des Chaumières» nel rivelarle la vita… Infine, incontra il suo
doppio romanzesco. Fame di sognare… «Ho avuto un educatore,
un sentimentale scialbo di nome Pierre Decourcelle». Per tutta la
vita gli sarebbe stata grata per le sue eroine. L’adolescente si com-
muove per la dama in bianco: quella che si toglie la lunga giacca
sul campo da corsa perché accaldata, scoprendo così la sua raffina-
ta camicia, oppure quella che è vestita di astrakan contro la neve
dell’inverno e in testa porta un toque ornato di violette di Parma.
Sono loro che per la prima volta la prendono per mano, all’ombra
del tiglio di Varennes-sur-Allier.
Miracolo delle iniziazioni. Il cuore in tumulto di Coco le rive-
la che i cattivi sono i buoni e le insegna a odiare i borghesi. Nel-
l’angustia della sua solitudine, ha già cominciato a difendere
un’esistenza trincerata, inespugnabile. Sembra di sentire Colette,
l’altra provinciale: «Così ho fatto da bambina, abbandonata in
una biblioteca dove tutto è diventato nutrimento, e dove non si
sarebbe trovato nulla di conveniente per i miei sei, i miei dieci, i
miei quattordici anni… Libri proibiti, libri troppo seri, anche libri
troppo leggeri, libri abbastanza noiosi, libri meravigliosi che si il-
luminano per caso e richiudono sul bambino incantato le loro
porte di tempio… Il disordine della lettura è nobile. Ogni libro,
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