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Appunti di Chimica

Adriano Duatti

Parte I
1. Teoria atomica di Dalton

2. La mole

3. Introduzione alla teoria dell’atomo d’idrogeno

Università di Ferrara

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Appunti di Chimica

1. Il Modello Atomico di Dalton

1.1. Il problema delle reazioni chimiche

Si consideri il seguente problema sperimentale. In una reazione chimica, due elementi


reagiscono per trasformarsi in una nuova sostanza. Facciamo un esempio. Se si riscalda, nello
stesso contenitore, un pezzo di ferro (metallo argenteo) con un cristallo di zolfo (di un bel
colore giallo-arancio come si può osservare sulla superficie dei fiammiferi), si ottiene una
nuova sostanza chiamata pirite, che ha la stessa brillantezza dell’oro, ma che non ha più le
proprietà né del ferro né dello zolfo.

La domanda è: cosa è successo? Perché due stati della materia, come un pezzo di ferro e
un cristallo di zolfo, quando riscaldati, scompaiono per dare origine a una nuova sostanza?
Qual è la differenza fra la nuova sostanza e le due parti di materia che hanno reagito? Qual è la
quantità di nuova sostanza (pirite) che si forma da una certa quantità di reagenti (ferro e
zolfo)?

Per rispondere occorre prima chiarire un concetto fondamentale: che cosa s’intende
quando si dice che il ferro e lo zolfo sono degli elementi?

1.2 Come sono stati scoperti gli elementi

La scoperta degli elementi è stata fatta nel modo seguente (naturalmente, si tratta di una
spiegazione un po’ fantasiosa, ma serve a chiarire il concetto di elemento).

Se si raccoglie un pezzetto di materia, per esempio, un mucchietto di sabbia che troviamo


sulla spiaggia, e lo sottoponiamo a processi estremi come il riscaldamento ad altissime
temperature, quello che accade è che il campione si scompone in altre forme di materia. Nel
caso della sabbia, quando è sottoposta a intenso riscaldamento, quello che si osserva è che
inizialmente il campione fonde, trasformandosi in un liquido viscoso. Se il riscaldamento fosse
interrotto a questo punto, il liquido viscoso si raffredderebbe diventando il comune vetro delle
bottiglie. Al contrario, se si continua a somministrare calore aumentando la temperatura,
quello che accade è che si potrà osservare lo sviluppo di un gas di colore azzurrino (che in
seguito è stato chiamato ossigeno) e la formazione sul fondo del contenitore di un liquido
scuro che, lasciato raffreddare, produce un cristallo di colore grigio metallico con riflessi
bluastri (in seguito chiamato silicio). Se si continuasse a riscaldare a temperature anche molto
superiori, il campione non produrrebbe nessuna nuova sostanza: infatti, resterebbero sempre
un gas di colore azzurrognolo (ossigeno) e un cristallo grigio luccicante (silicio).

La conclusione è che le due forme di materia, che si producono in seguito a riscaldamento


estremo della sabbia e che corrispondono al gas azzurrino e al cristallo grigio, devono essere
rispettivamente attribuite a sostanze materiali la cui natura e proprietà non possono più essere
ulteriormente modificate usando il calore o altri metodi di separazione. Ne deriva che le
sostanze risultanti devono corrispondere a forme di materia che restano sempre uguali a se
stesse, anche se sottoposte a trattamenti estremi come l’esposizione a un calore sempre più

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intenso. Questa forma di materia è stata chiamata ‘elementare’ sebbene non fosse
perfettamente chiaro che cosa volesse dire ‘elementare’ (fino all’introduzione della teoria di
Dalton). L’unica definizione sperimentale del concetto di sostanza ‘elementare’ era che si
trattava di una porzione di materia che, se sottoposta a condizioni estreme, restava sempre
uguale e non cambiava le sue proprietà.

Usando questa procedura, furono identificate molte sostanze cosiddette ‘elementari’ che,
appunto, quando sottoposte ad altissime temperature (o a trattamenti chimici e fisici anche più
violenti), non cambiavano la loro identità. Ad esempio, alcuni dei metalli più importanti,
come il ferro, il rame, il cromo, l’argento e l’oro, furono scoperti nell’antichità sottoponendo le
rocce raccolte in natura ad altissime temperature nelle fornaci dei fabbri e isolando i differenti
metalli ‘elementari’ che si separavano durante il riscaldamento. In questo modo, furono
definite le cosiddette ‘sostanze elementari’ che differivano dalle ‘sostanze composte’ come un
campione di sabbia o di roccia. Naturalmente, nel tempo i metodi di separazione divennero
sempre più efficaci e si riuscì a dimostrare che sostanze apparentemente ‘elementari’ come
l’acqua erano in realtà composte da sostanze più ‘elementari’ come, nel caso dell’acqua da
idrogeno e ossigeno. Ai tempi di Aristotele, le sostanze credute ‘elementari’ erano l’aria, la
terra, il fuoco e l’acqua. Tuttavia, oggi sappiamo che tutte queste sostanze materiali sono in
realtà costituite da forme di materia più elementari come l’azoto, l’ossigeno, l’idrogeno, il
carbonio, i metalli e numerosi altri ‘elementi’.

1.3. Il quesito iniziale

Torniamo allora al quesito iniziale e proviamo a riformularlo.

L’elemento ferro reagisce con l’elemento zolfo per produrre una ‘nuova’ sostanza che non
è più uguale agli elementi di partenza e che, per questo, fu chiamata con il nome di pirite. La
domanda è: cosa è successo? Perché gli elementi, ferro e zolfo, si dissolvono e al loro posto si
forma una nuova sostanza? Che relazione esiste fra gli elementi di partenza e la nuova
sostanza?

Il problema è ancora più difficile da spiegare. Vediamo il perché.

Se si fanno reagire 20 grammi di zolfo occorrono esattamente 17,5 grammi di ferro per
trasformarli completamente in pirite (nota: nel seguito l’unità di misura di peso ‘grammo’ sarà
abbreviato con il simbolo ‘g’). Se si utilizzassero meno di 17,5 g di ferro, allora rimarrebbe
dello zolfo che non sarebbe trasformato in pirite. Allo stesso modo, se invece di 17,5 g di ferro,
ne fosse impiegata una quantità maggiore per reagire con 20 g di zolfo, allora rimarrebbe una
porzione di ferro che non reagisce, mentre lo zolfo sarebbe completamente trasformato in
pirite.

Facciamo alcuni calcoli. Nell’esempio riportato, se si divide il peso del ferro che reagisce
esattamente con lo zolfo, si ottiene il seguente numero: 17,5 g/20 g = 0,875. Una volta fissata la
quantità di zolfo da utilizzare per ottenere la pirite, per calcolare la quantità di ferro che
reagisce esattamente occorre semplicemente moltiplicare la quantità di zolfo per 0,875 secondo
la seguente relazione:

(quantità in grammi di ferro) = 0,875 × (quantità in grammi di zolfo).

Solamente se il rapporto in peso fra il ferro e lo zolfo è uguale esattamente a 0,875, allora
tutto il ferro e lo zolfo iniziali, si trasformeranno in pirite.

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Come spiegare queste osservazioni? Perché il ferro e lo zolfo nel formare la pirite
reagiscono secondo rapporti fissi in peso (nei vecchi libri di chimica quest’osservazione è nota
come ‘legge delle proporzioni definite’)?

1.4. Come si deve ragionare?

Allora, è giunto il momento di illustrare la spiegazione escogitata da Dalton, che portò


alla formulazione della moderna teoria atomica. Il ragionamento usato da Dalton è molto
semplice, e può essere paragonato all’uso di palline di vetro con peso differente. Perciò, prima
di esporre la teoria atomica, può essere utile illustrare la semplice logica usata da Dalton
proprio applicata alle palline di vetro.

Immaginiamo di avere delle palline rosse e delle palline verdi, che sono perfettamente
uguali a parte il fatto che hanno un peso differente. Si ponga che una pallina rossa pesi 10 mg
(nota: 1 milligrammo è mille volte più piccolo del grammo e si indica con il simbolo ‘mg’),
mentre una pallina verde pesi 2 mg. Ne discende che il loro rapporto in peso è: peso pallina
rossa/peso pallina verde = 10 mg/2 mg = 5. Se invece di una sola pallina si considerassero 200
palline rosse e 200 palline verdi, il loro rapporto in peso sarebbe: (200 × 10 mg)/(200 × 2 mg)
= 2000 mg/400 mg = 5. Insomma, il rapporto fra i due pesi non cambia se il numero delle
palline rosse resta esattamente uguale a quello delle palline verdi. Qualunque sia il numero di
palline rosse e verdi, per mantenere il loro rapporto in peso costante, deve sempre accadere che
il numero di palline rosse sia esattamente uguale al numero di palline verdi. Tutto questo è la
conseguenza naturale del fatto che le palline rosse pesano cinque volte di più delle palline verdi.
Che cosa significa tutto questo? Semplicemente che, se si prendesse una bilancia a due piatti e
si ponesse una pallina rossa sul piatto di sinistra, ci vorrebbero cinque palline verdi poste sul
piatto di destra per mantenere i due piatti alla stessa altezza (vedi Figura 1 in basso).

Figura 1. (a) La pallina rossa è più pesante di quella verde come si può facilmente dedurre dal fatto che il
piatto che contiene la pallina rossa si trova più in basso. (b) Ponendo 5 palline verdi su un piatto e una
rossa sull’altro, la bilancia torna in equilibrio. Ne consegue che la pallina rossa pesa 5 volte di più di
quella verde.

Si può andare oltre. Invece di esprimere il peso delle palline in grammi, si potrebbe usare
come unità di misura l’oncia (l’oncia o ‘pounds’ è un’unità di peso impiegata nei paesi
anglosassoni come l’Inghilterra). Poiché 1 grammo equivale a 0,035274 oncie, ne consegue che

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1 mg è pari a 0,000035274 oncie (cioè mille volte più piccolo). Allora il rapporto in peso fra
una pallina rossa e una pallina verde, espresso in oncie, sarà: (10 × 0,000035274 oncie)/(2 ×
0,000035274 oncie) = 0,00035274 oncie/0,000070548 oncie = 5. Usando 200 palline rosse e
verdi, il calcolo diventa: (200 × 0,00035274 oncie)/(200 × 0,000070548 oncie) = 0,070548
oncie/0,0141096 oncie = 5. Nonostante sia stata usata un’altra unità di misura per il peso, il
risultato non cambia. Se il numero delle palline rosse e di quelle verdi resta uguale, il loro
rapporto in peso è sempre uguale a 5, qualunque sia l’unità di misura di peso utilizzata. Ancora
una volta è utile ricordare che tutto ciò è la conseguenza naturale del fatto che le palline rosse
pesano cinque volte di più delle palline verdi (Figura 1). In conclusione, qualunque sia l’unità di
misura utilizzata, e qualunque sia il numero di palline rosse e verdi (purché questo numero
resti esattamente uguale per i due tipi di palline), il rapporto in peso fra le palline rosse e quelle
verdi non cambia.

1.5. La teoria atomica

Anche se può sembrare sorprendente, Dalton usò proprio la stessa logica per spiegare che
cosa succede quando lo zolfo reagisce con il ferro. Seguiamo il suo ragionamento.

Allora, Dalton immaginò che le cosiddette ‘sostanze elementari’ fossero costituite da parti
piccolissime e invisibili, che potevano essere rappresentate come sfere impenetrabili (delle
palline appunto), cui attribuì il nome di ‘atomi’ (dal greco àtomos che significa indivisibile). A
ogni elemento corrispondeva un particolare tipo di sferetta (atomo) che differiva dalle altre
semplicemente per il suo peso. Ne discendeva che la materia doveva essere concepita come
costituita da entità discrete che si potevano contare, delle palline infinitesime appunto, che
formavano quello che all’apparenza sembrava una porzione di materia continua come appare
quando si guarda un pezzo di ferro lucido e brillante. L’estrema piccolezza delle sferette
atomiche non permette di distinguerle a occhio nudo, ma per Dalton tutta la materia era
costituita da queste entità discrete.

Adesso, applichiamo questa rappresentazione della materia per interpretare il risultato


osservato nella reazione dello zolfo con il ferro per dare la pirite. Sarà facile verificare come
questo modello offra una spiegazione ‘semplice e naturale’ del fatto che i due elementi
reagiscono sempre secondo un rapporto fisso in peso pari a 0,875. E’ utile rammentare che
questo valore si ottiene quando si fa il calcolo, peso del ferro/peso dello zolfo = 17,5 g/20 g =
0,875, ma scambiando il numeratore con il denominatore, si otterrebbe, peso dello zolfo/peso
del ferro = 20 g/17,5 g = 1,14. Tuttavia, la conclusione che i due elementi reagiscono secondo
un rapporto in peso fisso non cambierebbe.

Immaginiamo che un cristallo di zolfo sia composto d’innumerevoli sferette piccolissime


corrispondenti agli atomi di questo elemento. Allo stesso modo, supponiamo che un pezzetto
di ferro sia in realtà formato da un numero enorme di piccolissime palline corrispondenti agli
atomi di ferro. Secondo Dalton, un atomo di zolfo è del tutto uguale a un atomo di ferro (sono
entrambi sferette indivisibili) a parte il fatto che i due tipi di atomo hanno pesi differenti. A
questo punto, occorre introdurre un’ipotesi aggiuntiva che riguarda la composizione della
pirite prodotta dalla reazione dello zolfo con il ferro. Che relazione esiste fra la pirite e gli
atomi di zolfo e di ferro? Se immaginiamo che la pirite sia una sostanza composta (e, quindi,
non elementare) dall’unione di atomi di zolfo e di ferro il gioco è fatto. Cerchiamo di essere
più precisi: cosa significa che la pirite è composta di atomi di zolfo e ferro? Possiamo supporre
che quando avviene la reazione fra gli atomi di zolfo e quelli di ferro, due atomi di zolfo si
leghino saldamente a un atomo di ferro per formare un aggregato di tre palline unite assieme.
Il risultato è una specie di parziale fusione dei tre atomi per generare quella che chiameremo

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una molecola di pirite. All’interno di una molecola, gli atomi degli elementi s’incollano fra loro
in modo preciso dando origine a una nuova particella che, in realtà, è composta di particelle
più piccole che sono i singoli atomi. I maestri vetrai di Murano sanno benissimo come
incollare fra loro tre palline di vetro: infatti, basta scaldare le palline a un’estremità e, quindi,
unirne le parti. Il vetro riscaldato di una pallina diventa molle e si fonde parzialmente con il
vetro riscaldato di un’altra pallina formando una specie di grappolo di palline di vetro.
Naturalmente, il vetraio può decidere di incollare quante palline di vetro vuole, ma per tornare
all’esempio della pirite, si può supporre che la più piccola parte di materia che si chiama pirite,
e che mostra tutte le proprietà della pirite, sia semplicemente un grappolo di tre atomi incollati
fra loro di cui uno proveniente dal ferro e gli altri due dallo zolfo. Una rappresentazione della
formazione della molecola di pirite è mostrata nella Figura 2 in basso.

Figura 2. Rappresentazione della reazione fra un atomo di ferro (rosso) e due atomi di zolfo (verde) per
produrre una molecola di pirite.

Una volta capito che cosa succedeva nella reazione fra lo zolfo e il ferro utilizzando la
nuova rappresentazione basata sui concetti di atomo e molecola, Dalton poteva facilmente
spiegare perché gli elementi reagiscono secondo rapporti in peso costanti. Per giungere a
questo risultato, egli ha esattamente utilizzato il ragionamento delle palline di vetro con peso
differente descritto nel paragrafo precedente. Vediamo come Dalton ha sviluppato la
spiegazione.

Supponiamo di voler formare 100 molecole di pirite. Poiché all’interno di una molecola di
pirite sono presenti due atomi di zolfo e un atomo di ferro, per formare 100 molecole di pirite
serviranno 100 atomi di ferro e 200 atomi di zolfo. Se si mescolassero 100 atomi di ferro con
250 atomi di zolfo, non ci sarebbe un numero sufficiente di atomi di ferro per combinarsi con
tutti gli atomi di zolfo e, di conseguenza, rimarrebbe dello zolfo che non ha reagito. Viceversa,
se si mescolassero 120 atomi di ferro con 200 atomi di zolfo, non ci sarebbe un numero
sufficiente di atomi di zolfo per legarsi con tutti gli atomi di ferro e, resterebbe del ferro che
non si trasforma in pirite. In breve, affinché la reazione del ferro con lo zolfo per dare la pirite
sia completa, occorre sempre che il numero di atomi di zolfo sia il doppio di quelli di ferro. Così
per reagire con 250 atomi di zolfo occorrono 125 atomi di ferro (250/125 = 2), mentre 120
atomi di ferro richiedono 240 atomi di zolfo per reagire completamente (240/120 = 2).
Insomma, quello che Dalton scoprì con questo ragionamento era che, in una reazione chimica
fra gli elementi per dare un determinato composto, il rapporto fra il numero di atomi degli elementi
che partecipano alla reazione è sempre e necessariamente un numero fisso. Se quel numero non è
rispettato, resta sempre qualche elemento che non reagisce completamente. La Figura 3 mostra
queste differenti situazioni a partire da 36 atomi di zolfo che, quindi, richiedono 18 atomi di
ferro per reagire completamente.

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Figura 3. Rappresentazione derivata dalla teoria atomica di Dalton della reazione fra gli atomi di zolfo
(in verde) e di ferro (in rosso) in tre differenti situazioni (a) gli atomi di zolfo sono in numero doppio
rispetto agli atomi di ferro e, quindi, sufficiente a formare la molecola di pirite, (b) gli atomi di ferro sono
in eccesso rispetto agli atomi di zolfo necessari per formare la pirite e, quindi, alcuni di loro non
reagiscono, (c) gli atomi di ferro sono in difetto rispetto agli atomi di zolfo e, quindi, alcuni atomi di zolfo
non possono combinarsi con il ferro e non reagiscono.

La conclusione di Dalton era la naturale conseguenza logica dell’aver pensato che la


materia fosse fatta di palline (atomi) e dalla fusione di palline (molecole), ma da questa visione
deriva anche la semplice e naturale spiegazione al quesito iniziale da cui siamo partiti. Infatti,
se è vero che i numeri degli atomi degli elementi che reagiscono stanno fra loro sempre in un
rapporto costante, allora deve essere anche vero che i loro pesi devono necessariamente
rispettare un rapporto costante. Sebbene secondo Dalton il peso di un atomo di ferro sia
diverso da quello di un atomo di zolfo, tuttavia, il rapporto in peso fra le quantità di ferro e
zolfo che reagiscono completamente deve essere costante perché è costante il rapporto fra il numero di
atomi dei due elementi (esattamente uguale a 2). In altre parole, qualunque sia il peso di un
atomo di zolfo e il peso di un atomo di ferro (valori che restano ancora sconosciuti), il rapporto
in peso fra due atomi di zolfo e un atomo di ferro, fra 200 atomi di zolfo e 100 atomi di ferro,
fra 200 000 atomi di zolfo e 100 000 atomi di ferro, fra due miliardi di atomi di zolfo e un
miliardo di atomi di ferro deve sempre essere uguale allo stesso numero che abbiamo calcolato,
in precedenza, essere uguale a 0,875 (oppure all’inverso, 1,14). Ecco ritrovato il ragionamento
delle palline di vetro (si rilegga il paragrafo 1.4).

L’argomento può adesso essere anche invertito. Infatti, è possibile adesso affermare che se
20 grammi di zolfo reagiscono esattamente con 17,5 grammi di ferro per produrre pirite, allora
nel campione di zolfo deve essere contenuto un numero doppio di atomi di zolfo di quello presente
nel campione di ferro. Questo è il grande risultato della teoria atomica e molecolare: la materia
può essere descritta sia in termini di peso sia contando il numero di atomi o molecole da cui è
costituita. Si può andare oltre e prevedere che dovrebbe esistere un fattore di conversione che
permetta di passare facilmente dalla misura del peso di un campione di materia al numero di
atomi (o molecole) in esso contenuti. Nel seguito si vedrà che lo sviluppo di questi argomenti
condurrà alla definizione della scala relativa dei pesi atomici e del concetto di mole.

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1.6. Il peso degli atomi

Occorre ricordare all’inizio che la misura del peso fornisce sempre una quantità relativa e
non assoluta. Quando si dice che un corpo pesa 30 kg questo non significa altro che se si pone
il corpo sul piatto di una bilancia come quella rappresentata in Figura 1, allora occorre porre
sull’altro piatto della stessa bilancia 30 copie uguali del peso campione di platino (conservato
al museo delle scienze di Parigi), cui è stato attribuito il valore arbitrario di 1 kg, per riportare
la bilancia in equilibrio. Una particolare scala di peso è, quindi, completamente arbitraria
(almeno fino a che qualcuno non avrà un’idea migliore) e dipende dalla scelta del peso
campione di riferimento.

La teoria atomica di Dalton offre un metodo straordinario per pesare gli atomi, anche se
essi sono entità infinitamente piccole. Tutto questo discende proprio dal fatto, come ricordato
sopra, che si può indifferentemente parlare del peso di un campione di materia oppure del
numero di atomi in esso contenuti. Vediamo come si può costruire una scala dei pesi atomici
utilizzando ancora una volta la reazione fra il ferro e lo zolfo come esempio.

Abbiamo scoperto che 20 g di zolfo reagiscono esattamente con 17,5 g di ferro per dare la
pirite. Poiché sappiamo anche che in una molecola di pirite ci sono due atomi di zolfo e uno di
ferro, allora vuol dire che in 20 g di zolfo deve essere contenuto il doppio degli atomi che sono
presenti in 17,5 g di ferro. Ne discende che si può affermare che 10 g di zolfo (esattamente la
metà del campione originale) contengono lo stesso numero di atomi presenti in 17,5 g di ferro.
Qualunque sia il peso di un atomo di zolfo o di ferro, è sicuramente vero che il rapporto 10
g/17,5 g = 0,57 fornisce anche il rapporto in peso fra un singolo atomo di zolfo e un singolo
atomo di ferro. Come già ripetuto molte volte in precedenza, il valore del rapporto in peso non
dipende dal numero di atomi nei due campioni di zolfo e ferro se, e soltanto se, i due campioni
contengono lo stesso numero di atomi. Se questa condizione è soddisfatta, il valore del rapporto
in peso sarà lo stesso qualunque sia il numero di atomi di ferro e di zolfo (purché uguali) e,
dunque, anche per 1 atomo di zolfo e 1 di ferro. La teoria di Dalton consente di sapere se il
numero di atomi nei due campioni di ferro e zolfo è esattamente uguale, anche se questo
numero non è in realtà conosciuto. In definitiva, quest’analisi permette di affermare che un
atomo di zolfo è più leggero di un atomo di ferro. Infatti, il peso di un atomo di zolfo è pari a
0,57 volte il peso di un atomo di ferro. Oppure, all’inverso, il peso di un atomo di ferro è
uguale a 17,5 g/10 g = 1/0,57 = 1,75 volte il peso di un atomo di zolfo. Ne segue che un
atomo di ferro è più pesante di un atomo di zolfo in accordo con la conclusione precedente.

Per sapere quanto pesano un singolo atomo di ferro e un singolo atomo di zolfo
utilizzando il grammo come unità di misura, sarebbe necessario conoscere quanti atomi sono
presenti in 10 g di zolfo oppure (che è lo stesso) in 17,5 g di ferro. Dividendo i due pesi per
quel numero si otterrebbe il peso in grammi di un singolo atomo di ferro e di un singolo atomo
di ferro, rispettivamente. Tuttavia, questo numero non è noto (e ai tempi di Dalton non
esistevano metodi sperimentali capaci di determinarlo). Se però si tiene conto che le unità di
misura del peso sono arbitrarie, allora si potrebbe inventare una nuova unità di peso (che
potremmo chiamare ‘unità di zolfo’ = UZ) attribuendo arbitrariamente a un atomo di zolfo,
preso come peso di riferimento, il valore 1 UZ. Allora, un atomo di ferro peserebbe 1,75 UZ.

Lo stesso ragionamento potrebbe essere esteso anche ad altri atomi permettendo, in questo
modo, di costruire una scala dei pesi atomici degli elementi utilizzando l’atomo di zolfo come
unità campione di peso. A questo scopo, facciamo un altro esempio che permette di calcolare
quanto pesa un atomo di carbonio in unità UZ. La procedura è sempre la stessa. Pesando 30 g

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di zolfo e facendoli reagire con il carbonio, si scopre che occorrono 5,63 g di carbonio per
trasformare completamente i due elementi nella molecola di solfuro di carbonio (un liquido
incolore). Una molecola di solfuro di carbonio contiene un atomo di carbonio e due atomi di
zolfo. Come descritto nell’esempio della pirite, questo significa che in 30 g di zolfo è presente
un numero doppio di atomi rispetto al numero di atomi di carbonio presenti in 5,63 g. Ne
consegue che 15 g di zolfo devono contenere lo stesso numero di atomi presenti in 5,63 g di
carbonio. Allora, il rapporto 5,63 g/15 g = 0,375 indica anche che il rapporto in peso fra un
atomo di carbonio e un atomo di zolfo deve necessariamente essere lo stesso e cioè uguale a
0,375. E’ evidente che un atomo di carbonio è più leggero di un atomo di zolfo. In particolare,
se un atomo di zolfo pesa 1 UZ ne discende che un atomo di carbonio pesa 0,375 UZ.

1.7. Altri esempi utili

Nel tentativo di approfondire ancora di più i concetti descritti sopra, è opportuno fare altri
esempi. Nell’esempio illustrato in precedenza, è stata utilizzata la reazione fra il ferro e lo zolfo
per produrre la pirite (FeS2). E’ interessante osservare che il ferro quando reagisce con lo zolfo
lo può fare anche in un altro modo. Infatti, la reazione può fermarsi alla formazione di quello
che si chiama solfuro ferroso, un solido grigio-nero, formato da molecole costituite da un solo
atomo di ferro e un solo atomo di zolfo (FeS). Il fatto che il ferro possa reagire con lo zolfo in
due modi differenti per formare FeS2 oppure FeS costituisce un esempio di quella che nel
passato era nota come legge delle proporzioni multiple, che altro non era che una generalizzazione
dell’osservazione che gli elementi possono reagire fra loro per formare molecole diverse. Tuttavia,
una volta scelta una precisa reazione (ad esempio, quella che porta a FeS2 oppure quella che
produce FeS) il ragionamento sui rapporti fra i pesi atomici degli elementi seguirà esattamente
la stessa logica usata nei paragrafi precedenti e che prende in considerazione i rapporti costanti
fra i pesi degli elementi che reagiscono per formare proprio la molecola scelta e solo quella (si
ricorda che l’osservazione che i rapporti fra i pesi degli elementi che reagiscono fra loro per
formare una certa sostanza erano sempre costanti, era anche nota come legge delle proporzioni
definite o legge di Proust).
Ritornando all’esempio del solfuro di ferro, gli esperimenti dimostrano che se si prende,
ad esempio, un campione di ferro del peso di 1,0 g (la scelta di usare un grammo di ferro è
giustificata solo al fine di semplificare i calcoli, ma si potrebbe partire da qualunque altro
campione di ferro), allora occorrono esattamente 0,57 g di zolfo perché sia il campione di ferro
che il campione di zolfo scompaiano completamente per dare origine a una sostanza nerastra che
altro non è che un aggregato di molecole di FeS. E’ evidente che se si fosse utilizzata una
quantità tripla di ferro (3,0 g) sarebbe stato necessario usare una quantità tripla di zolfo per dare
FeS (1,71 g). Ripercorrendo esattamente i ragionamenti fatti in precedenza con la pirite, si può
affermare che, poiché la molecola di FeS contiene 1 atomo di ferro e 1 atomo di zolfo, allora in un
campione di ferro del peso di 1,0 g si trova lo stesso numero di atomi che si trovano in un campione di
zolfo del peso di 0,57 g. In modo simile, si può affermare che, poiché 3,0 g di ferro reagiscono
completamente (cioè, senza lasciare nessun residuo di ferro o zolfo) con 1,71 g di zolfo, allora in
questi due campioni è presente lo stesso numero di atomi (di ferro e zolfo, rispettivamente). Se
questa interpretazione atomica è vera, ne deriva che il rapporto fra i pesi dei due campioni
deve essere anche uguale al rapporto fra le masse di 1 atomo di Fe e 1 atomo di S:

1,0 𝑔 𝑚!"
= = 1,75
0,57 𝑔 𝑚#

che, come ci si aspettava, 1,75 è lo stesso valore che era stato ottenuto considerando la
reazione che dava origine a FeS2. Lo stesso risultato sarebbe stato ottenuto se, invece di partire

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dal campione di ferro del peso di 1,0 g, si fosse utilizzato il campione del peso di 3,0 g. Infatti,
si ottiene:

3,0 𝑔 𝑚!"
= = 1,75
1,71 𝑔 𝑚#

Insomma, la conoscenza esatta della formula chimica della molecola finale (FeS), e
l’osservazione che i campioni di ferro e lo zolfo reagiscono completamente, sono un modo assai
semplice (ed elegante) per sapere se i due campioni contengono lo stesso numero di atomi (si
ricorda che, nel caso della pirite, poiché la formula della molecola era FeS2, si giungeva alla
conclusione che il campione di zolfo conteneva il doppio di atomi del campione di ferro).
Ancora una volta, sembra importante sottolineare il concetto che, se due scatole (il
campione di ferro e quello di zolfo) contengono lo stesso numero di palline (gli atomi), allora il
rapporto fra i pesi delle due scatole (è ovvio ricordare che il peso di una scatola è uguale alla
somma del peso di tutte le palline contenute nella scatola) è necessariamente uguale anche al
rapporto fra i pesi di una pallina presa da una scatola (un atomo di ferro) e di una pallina presa dall’altra
scatola (un atomo di zolfo).
Si giunge, quindi, alla conclusione che:

𝑚!" = 1,75𝑚#

che stabilisce che un atomo di ferro pesa 1,75 volte di più di un atomo di zolfo.
Un altro esempio, può essere descritto utilizzando la reazione fra carbonio e zolfo per dare
la specie solfuro di carbonio, un liquido giallastro, la cui molecola contiene un atomo di carbonio
e due atomi di zolfo (CS2). Naturalmente, il ragionamento non cambia e bisogna solo tenere
conto che la molecola contiene il doppio di atomi di zolfo rispetto a quelli di carbonio (in altre
parole, si tratta della stessa situazione incontrata con la pirite).
Gli esperimenti mostrano che se si prendono, ad esempio, 10,0 g di carbonio (ancora una
volta, la scelta di un campione di 10,0 g è totalmente arbitraria e dettata dal fatto che i calcoli
sono più semplici), occorrono 54,054 g di zolfo perché i due campioni di ferro e zolfo
reagiscano completamente per dare CS2. Allora, ciò significa che in 10,0 grammi di carbonio è
contenuta la metà (1/2) del numero di atomi che sono contenuti in 54,074 g di zolfo. Ne deriva
che:

10,0 𝑔 𝑚$
= = 0,185
54,074 𝑔 2𝑚#
Il risultato indica che il rapporto fra la massa di 1 atomo di carbonio e la massa di 2 atomi di
zolfo è uguale a 0,185 (si ribadisce il concetto che tutto questo deriva dal fatto che la scatola in
cui si trovano le palline di carbonio contiene la metà delle palline contenute nella scatola di
zolfo). Si può, quindi, scrivere:

𝑚$ = 2 × 0,185𝑚#

𝑚$ = 0,37𝑚#

Questo risultato dimostra che l’atomo di carbonio è più leggero di un atomo di zolfo poiché
pesa 0,37 volte la massa di un atomo di zolfo. Esprimendo il numero 0,37 come una frazione

11
(0,37 = 37/100), si può affermare che la massa di un atomo di carbonio vale 37/100 di quella
di un atomo di zolfo.
Prima di concludere questo paragrafo, può essere utile fare subito un altro semplice
calcolo che tornerà utile per comprendere meglio gli argomenti trattati nel seguito. In
particolare, si supponga che qualche scienziato decida di inventarsi una nuova unità di misura
che chiama unità di massa atomica (simbolo u). Si supponga, inoltre, che lo scienziato in
questione decida di attribuire arbitrariamente alla massa di un atomo dell’isotopo carbonio-12 (per
chiarire il concetto di isotopo, si veda nel seguito) il valore 12,000000 u. Quale sarà la massa di
un atomo di zolfo e di un atomo di ferro in questa nuova unità di misura? Basta ricordare i
rapporti costanti (legge di Proust) che esistono fra le masse di un atomo di zolfo con quella di
un atomo di ferro e con quella di un atomo di carbonio. Si può, allora, scrivere:

𝑚!"
= 1,75
𝑚#
𝑚$
= 0,37
𝑚#

𝑚!" = 1,75𝑚#

𝑚$ = 0,37𝑚#

Però, se 𝑚! = 12,00000 𝑢, allora si ottiene:

𝑚!"
= 1,75
𝑚#

𝑚$ 12𝑢
= 0,37 =
𝑚# 𝑚#

12,00000 𝑢
𝑚# = = 32,43 𝑢
0,37

Poiché è stato stabilito in precedenza che 𝑚"# = 1,75𝑚$ , allora la massa del ferro nella nuova
scala risulterà:
𝑚!" = 1,75𝑚# = 1,75 × 32,43 𝑢 = 56,75 𝑢

Questi concetti saranno ulteriormente ampliati nei prossimi paragrafi.

1.8. La scala relativa dei pesi atomici

Negli esempi illustrati nei paragrafi precedenti, lo zolfo era stato stato scelto come atomo
di riferimento per definire il peso (massa) degli altri atomi utilizzando la fantasiosa unità di
misura UZ. Tuttavia, la comunità scientifica ha fatto una scelta diversa che, ovviamente, è
stata dettata solamente dalla pura convenienza. In particolare, la scelta di attribuire un peso
arbitrario a un atomo preso come riferimento deve sempre condurre a una semplificazione e
12
presentare alcuni importanti vantaggi pratici. La scelta è, dunque, ricaduta sull’atomo di
carbonio. Una delle ragioni principali che hanno condotto a questa scelta è molto facile da
comprendere: il carbonio forma moltissimi composti con quasi tutti gli elementi più importanti
esistenti sulla crosta terrestre, permettendo di estendere facilmente i ragionamenti fatti sopra
alla determinazione dei loro pesi atomici relativi.

Allora, cerchiamo di capire come è stata definita la scala dei pesi atomici basata sul
carbonio e, a questo scopo, l’esempio del solfuro di carbonio ci torna assai utile. La procedura
è la seguente. A un singolo atomo di carbonio (l’isotopo chiamato carbonio-12) è stato
attribuito arbitrariamente il peso di 12 u (dove ‘u’ indica una nuova scala di peso chiamata
‘unità di massa atomica’ detta anche ‘Dalton’ abbreviato ‘Da’). Ne consegue che 1 u
corrisponde a 1/12 della massa di un atomo di carbonio-12 che, appunto, vale 12 u. Quanto
pesa, allora, un atomo di zolfo in questa nuova scala? Basta riprendere i numeri elencati
nell’esempio del solfuro di carbonio. Abbiamo visto che 15 grammi di zolfo contengono lo
stesso numero di atomi presenti in 5,63 grammi di carbonio. Il rapporto in peso è, dunque,
5,63/15 = 0,37 oppure, all’inverso, 15/5,63 = 2,66. Si può, quindi, anche scrivere:

peso di un atomo di zolfo/peso di un atomo di carbonio = 2,66.

Oppure in modo equivalente:

peso di un atomo di carbonio/peso di un atomo di zolfo = 0,375.

Allora, se nella nuova scala dei pesi atomici il carbonio vale 12 u, il peso dello zolfo in unità di
massa atomica diventa:

peso atomo di zolfo = 2,66 × 12 u = 31,97 u,

che, in prima approssimazione, diventa circa 32 u.

E’ evidente che, utilizzando lo stesso ragionamento, si può estendere la procedura a tutti


gli elementi che formano composti con il carbonio e di cui si conosce la composizione della
molecola risultante. Nei casi in cui il carbonio non forma composti con l’elemento considerato,
è possibile impiegare un elemento di cui si è già determinata la massa atomica rispetto al
carbonio-12 e che, invece, reagisce con l’elemento allo studio. Ad esempio, utilizzando i
calcoli già fatti con la pirite, è assai facile determinare il peso dell’atomo di ferro rispetto al
carbonio-12. Il procedimento è quasi banale. L’analisi della reazione fra ferro e zolfo per dare
la pirite aveva condotto al risultato che un atomo di ferro pesa 1,75 volte in più di un atomo di
zolfo. Se rispetto al carbonio-12 lo zolfo pesa 32 u, allora un atomo di ferro, nella nuova scala,
peserà 1,75 × 32 = 56 u, che è appunto il peso (o anche massa) atomico del ferro normalmente
utilizzato nei problemi chimici.

1.9. Perché l’idrogeno è l’elemento più leggero?

Facciamo un ultimo esempio che può contribuire a chiarire ulteriormente i concetti


descritti. La procedura è sempre la stessa e si vuole verificare perché l’idrogeno è l’elemento
più leggero.

Allora, si dovrà scegliere una molecola che si forma quando il carbonio reagisce con
l’idrogeno. Una delle più semplici è il metano che è formato da un atomo di carbonio legato a

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quattro atomi d’idrogeno. Si ponga di patire da 40 g di carbonio. La domanda è: quanti
grammi d’idrogeno servono per reagire completamente e generare il metano causando la totale
scomparsa degli elementi di partenza? Gli esperimenti indicano che servono 13,33 g. Di nuovo,
questo significa che in 13,33 g d’idrogeno è presente un numero di atomi quattro volte più
grande del numero di atomi che si trovano in 40 g di carbonio. Allora, 13,33/4 = 3,33 g
d’idrogeno devono contenere lo stesso numero di atomi che sono presenti in 40 g di carbonio.
Il rapporto in peso fra questi gruppi di atomi è 3,33 g/40 g = 0,083 che, però, deve valere pure
per il rapporto in peso fra un singolo atomo d’idrogeno e un singolo atomo di carbonio. Allora,
si può scrivere:

peso atomo d’idrogeno/peso atomo di carbonio = 0,083.

Ancora, se un atomo di carbonio pesa 12 u, allora un atomo di idrogeno pesa 0,083 × 12 u


= 0,999 u, che approssimato vale 1 u. Un atomo d’idrogeno, dunque, pesa 1 u e costituisce
l’elemento più leggero in natura.

1.10. Alcuni cenni storici

La teoria di Dalton deriva dall’antica filosofia metafisica di Democrito che aveva


concepito l’esistenza di costituenti indivisibili della materia cui aveva attribuito il nome di
‘atomi’.

La differenza fra una visione filosofica e una teoria scientifica (che s’ispira al metodo
scientifico sviluppato da Galileo Galilei) sta semplicemente nel fatto che le proprietà degli
oggetti la cui esistenza è postulata nel modello scientifico devono essere misurabili. In pratica,
si deve trovare un metodo sperimentale capace di misurare le proprietà attribuite agli oggetti
fisici della teoria e, quindi, di esprimerle (quantificare) mediante un numero reale.
L’individuazione del metodo sperimentale più adatto a misurare una particolare proprietà
fisica si ottiene attraverso l’osservazione dei fenomeni.

In conclusione, il modello atomico di Dalton (scientifico) differisce da quello di


Democrito (filosofico) semplicemente perché Dalton attribuisce agli atomi una proprietà
misurabile che si chiama ‘massa’. Per il resto, le due teorie sono pressoché identiche nel loro
impianto concettuale, anche se, ai tempi di Democrito, l’identificazione degli elementi era
appena all’inizio.

2. La mole

2.1. La definizione di mole

Dovrebbe essere ormai chiaro che il ragionamento illustrato nel paragrafo 1.4. è la chiave
della teoria atomica di Dalton. Gli ingredienti di questa teoria sono essenzialmente quattro: (1)
gli atomi che compongono gli elementi, (2) le molecole composte di uno o più atomi di
elementi uniti assieme, (3) le reazioni chimiche fra gli elementi per produrre le molecole, le cui
relazioni quantitative permettono di sapere se campioni in peso di elementi differenti
contengono lo stesso numero di atomi, e (4) il fatto che, se l’universo è costituito da entità
discrete (atomi e molecole), quando il numero di queste entità è uguale, i loro rapporti in peso
non dipendono da quel numero e neppure dalla scelta dell’unità di peso. In definitiva, il
ragionamento di Dalton (che è poi un ragionamento di una semplicità sconcertante) permette

14
sempre di conoscere quante volte un atomo (o una molecola) è più pesante o più leggero di un
altro.

Non resta che continuare a utilizzare questa logica per definire una grandezza
fondamentale, cui è stato attribuito il nome di mole, e che si rivelerà molto utile nei calcoli con
gli atomi e le molecole. Ancora una volta, vediamo come si arriva a questa definizione.

Nell’ambito della nuova scala dei pesi atomici, il peso di un atomo di carbonio (si
rammenti l’isotopo carbonio-12) è pari a 12 u. E’ stato anche calcolato che, nella nuova scala,
il peso atomico di un atomo di zolfo è uguale a 32 u (per semplicità, usiamo i numeri
approssimati all’intero). Di conseguenza, il rapporto in peso fra un atomo di carbonio e un
atomo di zolfo è 12 u/32 u = 0,375 (oppure, se si preferisce invertire la frazione si ottiene 32
u/12 u = 2,66). Naturalmente, questo valore corrisponde esattamente a quello calcolato
facendo il rapporto fra i pesi in grammi delle quantità di carbonio e di zolfo che, dallo studio
della reazione chimica di formazione del solfuro di carbonio, erano stati scoperti contenere lo
stesso numero di atomi (si rileggano i paragrafi 1.6 e 1.7). Sappiamo che questo rapporto deve
valere qualunque sia il numero di atomi e qualunque sia l’unità di misura del peso scelta. Se
questo è vero, allora si può subito dedurre che, se si prendono 12 g di carbonio e 32 g di zolfo,
ebbene questi due campioni devono contenere lo stesso numero di atomi perché il loro
rapporto in peso è esattamente uguale a 12 g/32 g = 0,375. Queste considerazioni si possono
ripetere in modo identico se si considerano 12 g di carbonio e 56 g di ferro, oppure 12 g di
carbonio e 1 g d’idrogeno. In generale, esse possono essere estese a tutti gli altri elementi. Ne
consegue che, se si prende un campione di un qualsiasi elemento il cui peso in grammi sia, in
valore assoluto, pari al suo peso atomico, allora quel campione deve contenere lo stesso numero di
atomi che sono presenti in 12 g di carbonio. Infatti, facendo il rapporto fra questi pesi si ottiene
sempre un valore uguale al rapporto fra i pesi atomici del carbonio e dell’elemento dato. Come
più volte spiegato, questo rapporto è sempre costante se il numero di atomi di carbonio e
dell’elemento dato è uguale. Di conseguenza, se esso vale per il rapporto fra un singolo atomo
di carbonio e un singolo atomo dell’elemento dato, allora deve valere per qualsiasi campione
in cui gli atomi di carbonio e quelli dell’elemento dato sono nello stesso numero. Invertendo il
ragionamento, se un campione di carbonio e un campione di un certo elemento stanno in un
rapporto di peso uguale a quello fra il peso atomico del carbonio e il peso atomico
dell’elemento, allora due campioni devono contenere lo stesso numero di atomi. In particolare,
se il peso del campione di carbonio è scelto uguale a 12 g, allora il peso in grammi del
campione dell’elemento dato, che conterrà lo stesso numero di atomi presenti in 12 g di
carbonio, sarà necessariamente uguale, in valore assoluto, al peso atomico dell’elemento.

Il numero di atomi che sono presenti in 12 grammi di carbonio è chiamato una mole di
atomi di carbonio (simbolo, mol) e rappresenta un’unità di misura fondamentale della quantità
di materia. Da quanto detto sopra, 32 g di zolfo, come pure 56 grammi di ferro e 1 g
d’idrogeno contengono lo stesso numero di atomi presenti in 12 g di carbonio. Di conseguenza,
32 grammi di zolfo sono definiti come il peso del campione che contiene 1 mole di atomi di
zolfo e lo stesso vale per tutti gli altri elementi (per semplicità si parla di 1 mole di zolfo, 1
mole di ferro e via dicendo). Alla massa (peso) espressa in grammi, che corrisponde a una
mole di atomi e che, in valore assoluto, è necessariamente uguale alla massa (peso) atomica, è
stato attribuito il nome di massa molare che si esprime nelle unità g/mol (g mol-1). Il significato
di quest’unità di misura è semplicemente quello di indicare il peso in grammi di un gruppo di
oggetti (atomi o qualunque altra entità discreta e numerabile) che contiene il numero di
Avogadro di elementi.

15
2.2. L’analogia fra il concetto di mole e quello di dozzina

Sorge immediata la seguente domanda: perché una mole è stata definita come il numero
di atomi contenuti in 12 g di carbonio (non si dimentichi che si tratta dell’isotopo carbonio-12
che sarà spiegato più avanti)? Dopotutto, se invece di 12 g se ne scegliessero 6 g, questo peso
conterrebbe la metà di atomi di carbonio, ma sarebbe, allora, sufficiente prendere 16 g di zolfo
per essere sicuri che conterranno lo stesso numero di atomi poiché il rapporto 6 g/16 g = 0,375,
cioè esattamente il valore costante che sempre si ottiene quando si fa il rapporto fra campioni
di carbonio e di zolfo che contengono lo stesso numero di atomi.

La risposta è semplice: la scelta è stata fatta per questioni di pura convenienza. Infatti, è
molto più facile ricordare un numero per la massa molare che è, in valore assoluto, identico al
peso atomico (espresso in unità di massa atomica) piuttosto che utilizzare un numero a caso.
Per questo, era assai più vantaggioso definire come mole un campione il cui peso in grammi
fosse esattamente uguale al peso atomico del carbonio. Il vantaggio aggiuntivo era poi che
questa scelta conduceva necessariamente a definire la mole per gli altri elementi come
esattamente uguale al loro peso atomico espresso in grammi perché solo in questo modo si
mantenevano i rapporti in peso con il carbonio. In altre parole, se si vuole che un campione
d’idrogeno contenga lo stesso numero di atomi che si trovano in 12 g di carbonio (cioè una
mole), allora occorre considerare 1 g d’idrogeno perché il rapporto in peso fra campioni
d’idrogeno e carbonio che contengono lo stesso numero di atomi è sempre 1/12 = 0,083 (oppure,
all’inverso, 12/1 = 12). Naturalmente, la stessa conclusione si può ottenere se si considerano lo
zolfo, il ferro e tutti gli elementi presenti in natura per i quali sono stati univocamente
determinati i rapporti costanti in peso con il carbonio (ovviamente, in campioni che
contengono lo stesso numero di atomi).

In definitiva, la mole rappresenta un gruppo di atomi arbitrariamente scelto che contiene


un numero di palline (atomiche) uguale a quelle contenute in 12 grammi di carbonio-12.
Quante sono le palline (atomiche) contenute in una mole? Dalton non lo sapeva e, anche se
può apparire sorprendente, nemmeno oggi se ne conosce esattamente il valore. Infatti, non
sono ancora stati sviluppati metodi di misura in grado di determinare precisamente questo
numero e, al momento, quello di cui si dispone, è una stima approssimata, anche se molto
vicina al valore reale. Naturalmente, come ci si poteva aspettare, si tratta di un numero enorme.
Di seguito il suo valore è scritto in esteso:

602 214 129 000 000 000 000 000

(dove l’approssimazione è di circa 27 atomi in più o in meno). Questo numero, chiamato


numero di Avogadro (NA), è normalmente scritto sotto forma di potenza di dieci e approssimato
nel modo seguente: 6,022 × 1023. E’ importante notare che il numero di Avogadro è una
costante naturale. Infatti, il suo valore è legato alla massa delle particelle elementari (protoni e
neutroni). Se queste particelle avessero una massa differente, il valore di NA sarebbe diverso.
Poiché NA è una costante fondamentale, essa deve essere caratterizzata da una nuova unità di
misura che indicata con il simbolo 1/mol = mol-1. In altre parole, l’unità di misura mol è stata
creata proprio per assegnare una dimensione alla costante NA.

La logica che sta dietro alla definizione del concetto di mole è la stessa che ha portato nel
passato all’uso della dozzina nella definizione dei sistemi di numerazione. Una dozzina è un
insieme di oggetti che contiene dodici elementi. Allo stesso modo, una mole è un insieme di
oggetti che contiene il numero di Avogadro di elementi. L’origine della dozzina si perde nella
notte dei tempi, ma per gli scopi di questa discussione, si vuole porre in evidenza la sua

16
analogia con il concetto di mole. Qual è stata l’utilità dell’uso della dozzina? Il vantaggio è
apparentemente molto limitato, ma permette di semplificare il numero che esprime quanti
oggetti sono contenuti in un particolare campione. Ad esempio, invece di considerare 2400
uova si può parlare di 2400/12 = 200 dozzine di uova. Non è un gran risultato, ma se si
applica la stessa procedura al conteggio degli atomi, le cose cambiano radicalmente, come si
può facilmente verificare.

Come abbiamo visto, in un campione di 12 g di carbonio è presente il numero di


Avogadro di atomi. Questo numero è grandissimo e mostra come sia più semplice parlare di
una mole di carbonio che di 602 mila miliardi di miliardi di atomi. Analogamente al caso della
dozzina, il calcolo del numero di moli si ottiene facendo il rapporto:

numero di atomi/numero di Avogadro = numero di moli.

Nella teoria atomica, la possibilità di utilizzare indifferentemente il numero di atomi


oppure il peso di un certo campione di atomi permette di calcolare il numero di moli in un
modo ancora più conveniente. Per illustrare il procedimento utilizziamo ancora una volta
l’esempio della dozzina descritto in precedenza. Si ammetta che ciascun uovo nel gruppo di
2400 uova, pesi 20 g. Ne discende che il peso delle 2400 uova è uguale a 2400 × 20 g = 48000 g
(che corrispondono a 48 kg). Allora, 12 uova (una dozzina) dello stesso tipo peseranno 12 × 20
g = 240 g. Il numero di dozzine sarà dato dal rapporto 48000 g/240 g = 200 dozzine, che è
ovviamente lo stesso numero ottenuto in precedenza facendo il rapporto fra il numero di uova
nel campione dato e il numero di uova che formano la dozzina.

Lo stesso calcolo può essere fatto per gli atomi. Quello che serve è sapere quanto pesa in
grammi un campione di un certo elemento che contiene il numero di Avogadro di atomi.
Tuttavia, questo problema è già stato risolto e sappiamo che esso è uguale al valore del peso
atomico espresso in grammi, una quantità che è stata chiamata massa molare (si rilegga il
paragrafo 2.1). A questo punto, il numero di moli può essere semplicemente trovato
calcolando il rapporto fra il peso in grammi del campione di un dato elemento e la massa
molare dello stesso elemento (che è precisamente lo stesso calcolo fatto dividendo il peso del
campione di uova per il peso di una dozzina delle stesse uova).

Facciamo alcuni esempi. Se si prende un campione di 12 g di carbonio, poiché la massa


molare del carbonio è uguale a 12 g/mol (si rammenti che l’unità di misura della massa molare
è sempre g/mol), il numero di moli contenute in 12 g di carbonio sarà 12 g/12 (g/mol) = 1
mol. Questo risultato è banale ed era stato già ottenuto in precedenza. Tuttavia, il calcolo può
essere eseguito su qualunque campione di carbonio. Ad esempio, si consideri un campione di
carbonio del peso di 4800 g. Il numero di moli in esso contenute è, 4800 g/12 (g/mol) = 400
mol.

In modo del tutto simile, il numero di moli può essere calcolato per qualsiasi altro
elemento. Ad esempio, il numero di moli contenuto in 500 g di zolfo è, 500 g/32 (g/mol) =
15,625 mol. Il generale, la formula per calcolare il numero di moli può essere scritta nel modo
seguente:

!"#$ &"' ()*!+$," (.)


! = numero di moli (mol),
*)##) *$')0" ("#$)

17
che altro non è se non la procedura utilizzata per il calcolo del numero di dozzine.

2.3. I calcoli con le molecole

Sino ad ora abbiamo parlato di semplici atomi rappresentati come sferette impenetrabili
con pesi differenti che dipendono dal tipo di elemento. Tuttavia, sappiamo che esistono anche
le molecole, che abbiamo rappresentato come entità discrete che, però, sono formate dalla
fusione di uno o più atomi. Insomma, una molecola è un oggetto ben definito che, tuttavia, se
osservato più da vicino, si scopre essere formato non una singola sferetta, ma un grappolo di
sferette incollate fra loro. E’ come osservare un vigneto in lontananza: si possono contare i
singoli grappoli che appariranno come oggetti uniformi. Tuttavia, avvicinandosi al vigneto,
sarà facile scoprire che i singoli grappoli sono costituiti da un insieme di acini legati fra loro
attraverso il graspo. Com’è possibile fare il calcolo delle moli delle molecole? Ancora viene in
aiuto la teoria atomica. Infatti, se una molecola è composta di atomi legati fra loro, allora la
sua massa (peso) sarà la somma delle masse (pesi) degli atomi componenti. Poiché stiamo
parlando di entità discrete, questa proprietà è additiva e, dunque, mantiene tutti i rapporti in
peso che esistevano fra i singoli atomi. Facciamo un esempio per chiarire meglio.

Si è detto che la pirite è composta di un atomo di ferro legato a due atomi di zolfo. Se
sommiamo i pesi atomici degli elementi che formano la molecola, si ottiene (56 u + 32 u + 32
u) = 120 u. Adesso immaginiamo di prendere un campione di pirite che contenga il numero di
Avogadro (NA) di molecole. Quanti atomi di ferro e quanti atomi di zolfo saranno presenti nel
campione? Il conto è presto fatto: il campione conterrà NA atomi di ferro e 2NA atomi di zolfo.
Il peso in grammi di NA atomi di ferro (una mole) è esattamente uguale al suo peso atomico
espresso in grammi e, quindi, 56 g. Allo stesso modo, il peso in grammi di 2 NA atomi di zolfo
(due moli) sarà, ovviamente, il doppio del peso di una mole e, quindi, 2 × 32 g = 64 g. Allora,
il peso totale del campione di pirite sarà (56 + 64) g = 120 g, che altro non è se non il peso di
una singola molecola di pirite (120 u) espresso in grammi. Insomma, la definizione di massa
molare che è stata data per gli elementi (che affermava che la massa molare di un certo
elemento corrisponde, in valore assoluto, alla massa atomica di quell’elemento espressa in
grammi), può essere ugualmente applicata alle molecole semplicemente perché il peso (massa)
di una singola molecola (che nel seguito sarà chiamato, peso molecolare o massa molecolare) non è
altro che la somma dei pesi atomici degli atomi che formano la molecola. Ne discende, di
conseguenza, che la formula per il calcolo delle moli descritta nel paragrafo 2.2, potrà essere
applicata in modo identico anche per il calcolo del numero di moli di una molecola.

2.4. Come si rappresentano gli elementi e le molecole?

Ogni teoria scientifica deve sempre sviluppare un sistema simbolico per rappresentare le
grandezze di cui si occupa ed evitare, in questo modo, di scrivere migliaia di pagine per
descrivere come si comportano queste grandezze usando le parole del linguaggio comune. E’
evidente che, come già detto in precedenza, poiché le teorie scientifiche moderne si basano sul
metodo di Galileo, le relazioni fra le grandezze dalla teoria devono essere espresse in termini
quantitativi (le proprietà devono essere misurabili) e, quindi, possono essere formulate
attraverso equazioni matematiche. Può sembrare strano, ma ai tempi di Newton e di Maxwell
non era stato ancora inventato il simbolismo vettoriale e la teoria matematica dei vettori. Di
conseguenza, le quattro equazioni fondamentali della teoria elettromagnetica di Maxwell, che
se scritte in termini vettoriali occupano non più di mezza pagina di testo, nel lavoro originale
di Maxwell occupano più di venti pagine scritte con un linguaggio poco più che discorsivo.

18
Per questo, i chimici hanno dovuto sviluppare un sistema simbolico per rappresentare gli
atomi, le molecole e le reazioni chimiche della teoria atomica che sarà esposto nel seguito.

A ogni elemento è associato un simbolo composto di una o poche lettere (a tutt’oggi si è


arrivati a tre lettere per rappresentare un singolo elemento). Così invece di scrivere sempre
l’elemento ‘carbonio’ si usa il simbolo C. Similmente, l’idrogeno è rappresentato dal simbolo
H, lo zolfo dal simbolo S, il ferro dal simbolo Fe, l’oro dal simbolo Au e l’ossigeno dal simbolo
O. I simboli degli elementi sono tutti riportati in quella che è conosciuta come la Tabella
Periodica di cui si palerà in seguito. Occorre notare che quando si scrive il simbolo chimico di
un elemento questo può rappresentare sia un singolo atomo sia una mole di atomi. Dal punto
di vista del calcolo non fa nessuna differenza poiché la massa (peso) atomica e la massa molare
hanno lo stesso valore (un altro esempio del vantaggio della definizione scelta di mole). Con la
scrittura 2H, 5O e 12Au si vuole intendere che si ha a che fare con 2 atomi di idrogeno, 5
atomi di ossigeno e 12 atomi di oro. In modo equivalente, si può parlare di 2 moli di idrogeno,
5 moli di ossigeno e 12 moli di oro.

Per quel che riguarda la rappresentazione delle molecole, la soluzione che è stata proposta
è la naturale conseguenza del fatto che una molecola è composta di atomi legati fra loro. Con
questo metodo, una molecola è rappresentata scrivendo uno di seguito all’altro i simboli degli
atomi che la compongono aggiungendo un numero intero, posto in basso (pedice), in
corrispondenza di un elemento e che indica quanti atomi di quell’elemento sono presenti nella
molecola (se questo numero è uguale a 1, non si scrive). Così, ad esempio, una molecola di
solfuro di carbonio è composta da un atomo di carbonio e da due atomi di zolfo per cui si
ottiene la rappresentazione CS2. Una molecola d’acqua è formata da due atomi d’idrogeno e
un atomo di ossigeno, da cui si ha H2O. Il perossido d’idrogeno (comunemente noto con il
nome di acqua ossigenata) è formato da due atomi d’idrogeno e due atomi d’ossigeno, per cui
si scrive H2O2. Una molecola di metano è formata da un atomo di carbonio e quattro atomi
d’idrogeno, per cui si ottiene CH4. Esistono molecole più complesse come, ad esempio, quella
del glucosio che è scritta, C6H12O6.

Le molecole descritte sopra sono composte da atomi differenti legati fra loro. Occorre
notare che esistono molecole composte da un solo tipo di atomo di un certo elemento. Ad
esempio, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’idrogeno naturale non è formato da
un unico atomo isolato bensì da una molecola composta di due atomi d’idrogeno legati
assieme. Di conseguenza, l’idrogeno naturale è rappresentato dalla molecola biatomica (cioè
formata da due atomi) H2. Un simile comportamento si trova anche per altri gas naturali come
l’ossigeno O2, l’azoto N2, il cloro Cl2, il fluoro F2. Un esempio d rilievo è offerto dallo zolfo
naturale che esiste sotto forma di molecola costituta da otto atomi di zolfo legati fra loro e,
quindi, rappresentata dal simbolo S8.

L’esistenza di molecole composte da un unico tipo di elemento permette di definire sia il


peso (massa) atomico del singolo elemento che il peso (massa) molecolare della molecola
associata. Così, ad esempio, la massa (peso) atomico dell’azoto è di circa 14 u, mentre la
massa (peso) molecolare della molecola di N2 è 28 u (il doppio). Ne discende che la massa
molare (il peso in grammi di una mole) dell’azoto è uguale a 14 g/mol, mentre la massa
molare di N2 è di 28 g/mol. Allora, se si considera un campione di azoto naturale del peso, ad
esempio, di 30 g, è possibile eseguire due calcoli differenti anche se equivalenti. In primo luogo,
si possono calcolare il numero di moli di atomi d’azoto contenuti nel campione trascurando
che questi atomi sono a due a due legati fra loro. Il risultato è 30 g/14 (g/mol) = 2,14 mol.
Invece, se si volesse calcolare il numero di moli di molecole di N2 considerando ogni molecola
come un’entità discreta a sé stante, allora il calcolo diventa 30 g/28 (g/mol) = 1,07 mol che è

19
esattamente la metà del valore precedente com’è ragionevole attendersi. In definitiva, per
elementi che possono esistere anche sotto forma di molecole, il valore del numero di moli
dipende da ciò che si vuole considerare come entità discreta finale (atomi singoli o molecole). I
valori calcolati del numero di moli sono necessariamente multipli l’uno dell’altro e il loro
rapporto è esattamente uguale al numero di atomi dell’elemento legati all’interno della
molecola. La scelta fra le differenti possibilità dipende da quanto chiesto dal particolare
problema studiato.

Le rappresentazioni di molecole descritte sopra sono note come formule chimiche. Esistono
due importanti categorie di formule chimiche, che forniscono differenti informazioni riguardo
alla natura della molecola che rappresentano. La formula molecolare indica quali tipi di atomi
(elementi) compongono la molecola e qual è il loro numero esatto presente in ciascuna
molecola. Le formule chimiche riportate sopra sono tutti esempi di formule molecolari. Ad
esempio, la formula molecolare del glucosio, C6H12O6, indica esattamente che la molecola è
composta d’idrogeno, ossigeno e carbonio e che, all’interno di ciascuna molecola, gli atomi di
carbonio sono 6, quelli d’idrogeno12 e quelli d’ossigeno 6. Questi atomi sono legati fra loro in
un modo che, al momento, rimane ignoto, ma la formula molecolare costituisce, comunque,
una rappresentazione assai esauriente della composizione molecolare. Una rappresentazione
meno precisa di una molecola è fornita dalla sua formula empirica (anche chiamata formula
bruta). La formula empirica fornisce la stessa informazione di quella molecolare sul tipo di
elementi che compongono la molecola. Però, invece di specificare l’esatto numero di atomi di
un certo elemento presenti nella molecola, ne indica solo i rapporti minimi con gli altri
elementi. Un esempio può aiutare a chiarire meglio il concetto. Si consideri ancora una volta
la formula molecolare del glucosio, C6H12O6. Poiché i pedici 6, 12, 6 sono multipli fra loro, essi
possono essere semplificati nel modo seguente, CH2O. Questa formula ci dice solamente che la
molecola è formata da carbonio, idrogeno e ossigeno e che, qualunque sia la sua composizione
reale, il numero di atomi d’idrogeno è doppio rispetto a quello degli atomi di carbonio e
ossigeno. Naturalmente, nella molecola reale, il numero di atomi di carbonio e di ossigeno
deve essere lo stesso. Questo significa che, in base alla formula empirica, tutte le seguenti
possibilità sono in accordo con la formula empirica: C2H4O2, C3H6O3, C4H8O4, e via dicendo.
In generale, qualunque formula del tipo CnH2nOn potrebbe corrispondere alla molecola reale. E’
evidente che, quando possibile, è più conveniente conoscere la formula molecolare reale per
fare i calcoli con le molecole. Tuttavia, si vedrà in seguito che per alcuni composti non è
possibile descrivere la formula molecolare e può essere definita solo la formula empirica.

2.4. Le reazioni chimiche

Il più importante processo naturale di cui si occupa la scienza chimica è lo studio delle
trasformazioni delle sostanze. Questo fenomeno pervade l’universo e sta alla base dell’essenza
della vita. Abbiamo visto che se si riscalda un campione di zolfo con uno di ferro si ottiene una
nuova sostanza dalle proprietà completamente diverse rispetto alle due sostanze di partenza.
Allo stesso modo, se si riscalda del glucosio in presenza di ossigeno, quello che si ottiene è un
gas inodore e incolore chiamato anidride carbonica. Perché la materia si trasforma in
continuazione? Come avvengono queste trasformazioni chimiche?

La teoria atomica di Dalton offre una semplice ma potente rappresentazione di cosa


succede durante una trasformazione chimica. Infatti, essa costituisce nient’altro che un
rimescolamento degli atomi che formano gli elementi e le molecole iniziali per formare nuove
molecole in cui gli atomi sono legati fra loro in modo differente rispetto alle sostanze di
partenza. Un simile processo è noto come reazione chimica. Durante una reazione chimica i
legami fra gli atomi nelle molecole si rompono e quegli stessi atomi si scontrano per formare

20
nuovi legami con altri atomi e, quindi, nuove molecole. Sebbene questa rappresentazione
possa apparire caotica, in realtà una reazione chimica è controllata da precise leggi fisiche che
ne regolano lo svolgimento e determinano la quantità e il tipo di prodotti che si formano.

Una delle leggi fondamentali che regola il decorso di una reazione chimica è quella che è
universalmente nota come legge di conservazione della massa (oggi questa legge è stata estesa fino
a comprendere l’energia, per cui è nota come legge di conservazione della massa e dell’energia, ma
per gli scopi dello studio delle reazioni chimiche la sua formulazione iniziale appare più utile).
Questa legge stabilisce che, qualunque cosa succeda durante una trasformazione chimica, la
somma delle masse degli atomi che compongono le sostanze che partecipano alla reazione deve essere
uguale alla somma delle masse degli atomi che costituiscono le sostanze finali. Questa formulazione
può essere espressa in termini di numeri discreti sfruttando l’equivalenza fra il concetto di
numero di atomi e peso degli atomi che è uno dei risultati fondamentali della teoria atomica.
La legge (che in questa formulazione va sotto il nome di legge di conservazione del numero degli
atomi) può allora essere enunciata come: la somma del numero di atomi di un certo elemento che
forma le sostanze iniziali che partecipano a una reazione chimica deve essere uguale alla somma del
numero di atomi dello stesso elemento che è presente nelle sostanze finali.

Questa legge stabilisce l’esistenza di precisi rapporti quantitativi fra le sostanze iniziali
(reagenti) e le sostanze finali (prodotti). Ne discende che una reazione chimica può essere
espressa in termini matematici come uguaglianza fra la somma del numero di atomi degli
elementi contenuti nei reagenti e la somma del numero di atomi degli stessi elementi contenuti
nei prodotti. Nel simbolismo utilizzato, le sostanze reagenti e le sostanze prodotte sono
rappresentate con le loro formule molecolari unite dal segno di addizione. L’equazione
generale può essere scritta nel modo seguente:

aA + bB + …… = cC + dD +……
(i puntini indicano che i reagenti e i prodotti possono essere un numero qualsiasi anche
grande). Occorre notare che, nel simbolismo chimico tradizionale, il segno ‘=’ è spesso
sostituito con il segno ‘®’ oppure con il segno ‘D’ mantenendo, però, lo stesso significato di
uguaglianza quantitativa.

I numeri a, b, …, c, d, …. sono chiamati coefficienti stechiometrici e sono necessari per


assicurare che il principio di conservazione del numero di atomi (o principio di conservazione
della massa) sia soddisfatto. Un esempio reale può contribuire a rendere più chiari questi
concetti.

Si è visto che l’idrogeno e l’azoto naturale esistono come molecole biatomiche H2 e N2.
Ebbene, queste due molecole reagiscono per produrre una nuova molecola (chiamata
ammoniaca) in cui gli atomi d’idrogeno e azoto hanno subito un rimescolamento conducendo
alla formazione di un legame fra i due elementi. La molecola di ammoniaca è composta da tre
atomi d’idrogeno legati ad un atomo d’azoto. La reazione può essere scritta nel modo
seguente:

H2 + N2 = NH3,
oppure

H2 + F2 " NH3.
21
Analizzando la reazione con il principio di conservazione del numero di atomi, si deduce
immediatamente che esso non è soddisfatto. Per rendersene conto basta fare un semplice
conteggio di atomi. Se si contano gli atomi d’idrogeno e azoto che si trovano scritti a sinistra
dell’equazione che rappresenta la reazione chimica, si trova che essi sono entrambi uguali a 2
proprio perché le due molecole sono biatomiche. Al contrario, nella parte destra
dell’equazione, lo stesso conteggio mostra che sono presenti un atomo d’azoto e tre atomi
d’idrogeno che sono uniti all’interno della molecola di NH3. Insomma, sia il numero di atomi
d’azoto che il numero di atomi d’idrogeno non si conserva quando si passa dai reagenti ai
prodotti violando il principio di conservazione. La risoluzione di questo problema si ottiene
semplicemente ponendo il coefficiente 2 davanti alla molecola di HF nel membro di destra.
L’equazione diventa:

3H2 + N2 = 2NH3.
Adesso, sia a destra che a sinistra dell’equazione si contano 6 atomi d’idrogeno e 2 atomi
d’azoto e, quindi, il principio di conservazione è perfettamente soddisfatto e la reazione si dice
bilanciata secondo la massa. Tutte le reazioni chimiche, per avere un significato quantitativo,
devono essere necessariamente bilanciate scegliendo opportunamente i coefficienti
stechiometrici.

Per comprendere appieno il significato dei coefficienti stechiometrici occorre ricordare il


ruolo che è stato attribuito a un numero posto di fronte a un simbolo chimico. Quando si
scrive 2Au, 5H oppure 10S, s’intende parlare di 2 atomi d’oro, 5 atomi d’idrogeno e 10 atomi
di zolfo. Analogamente, quando si scrive 5H2O, 16NH3 oppure 8CH4, si vuole intendere 5
molecole d’acqua, 16 molecole di ammoniaca e 8 molecole di metano. Tuttavia, in modo del
tutto equivalente, si può parlare di 2 moli d’oro, 16 moli di ammoniaca e via dicendo. Ancora
una volta, tutto questo deriva necessariamente dal risultato della teoria atomica che stabilisce
che insiemi di atomi o molecole che contengono lo stesso numero di elementi mantengono gli
stessi rapporti in peso. Quindi, poiché i rapporti in peso fra singoli atomi o singole molecole è
lo stesso che fra una mole di atomi o una mole di molecole, le due grandezze si possono
utilizzare in modo equivalente. Ne consegue che i coefficienti stechiometrici possono essere
indifferentemente interpretati sia come numero di atomi e di molecole che come numero di
moli di atomi e molecole.

Un altro principio di conservazione fondamentale che deve essere soddisfatto da qualsiasi


reazione chimica è quello che stabilisce che la somma delle cariche elettriche delle specie
reagenti deve essere esattamente uguale alla somma delle cariche elettriche delle specie
prodotte (principio di conservazione della carica). Le applicazioni di questo principio saranno
illustrate in seguito.

3. La Teoria dell’Atomo d’Idrogeno

3.1. L’atomo di Rutherford

La teoria atomica di Dalton rappresenta gli atomi, quali costituenti fondamentali degli
elementi, come piccolissime sfere rigide impenetrabili, la cui unica proprietà che li
contraddistingue è la loro massa (o peso). Poiché anche ai tempi di Dalton erano già note
decine di elementi, una domanda che nasceva in modo naturale era perché la natura fosse

22
talmente complessa da richiedere un così gran numero di elementi fondamentali. Tutto questo
condusse a pensare che gli atomi non fossero i costituenti ultimi della materia e che esistesse
un livello più fondamentale in cui la descrizione della natura fosse più semplice.

Come spesso accade nella storia della scienza (ma non sempre) questo livello più
fondamentale è stato realmente rivelato attraverso il lavoro di Ernst Rutherford che dimostrò
che gli atomi non erano le particelle indivisibili che aveva immaginato Dalton bensì anch’essi
erano a loro volta composti di particelle più piccole.

Fu dimostrato che gli atomi sono formati da tre tipi di costituenti elementari che presero il
nome di protone, neutrone ed elettrone. Queste tre particelle hanno le seguenti proprietà fisiche. Il
protone è una particella con carica elettrica positiva (per convenzione posta uguale a +1), e con
una massa molto più grande di quella dell’elettrone ma simile a quella del neutrone. Il neutrone
è una particella priva di carica elettrica (neutra) e, come già accennato, con una massa simile a
quella del protone. L’elettrone è una particella molto leggera (circa 2000 volte più leggera del
protone e del neutrone) e con carica elettrica negativa uguale in valore assoluto, ma opposta a
quella del protone (per convenzione posta uguale a −1).

L’atomo doveva, quindi, essere concepito come una specie di sfera cava nel cui centro si
trova un aggregato molto denso di protoni e neutroni strettamente legati assieme chiamato
nucleo atomico. In ciascun nucleo atomico è presente un determinato numero di protoni, cui è
stato attribuito il nome di numero atomico (simbolo Z). Ne discende che l’atomo associato a un
certo elemento è caratterizzato da un valore preciso del numero atomico che ne determina
univocamente l’identità. Ogni elemento si distingue dall’altro per il numero di protoni presenti
nel suo nucleo. Poiché nel nucleo si concentra la totalità dei protoni e dei neutroni, che sono
anche le particelle più pesanti, la somma del numero di protoni (Z) e del numero di neutroni
(N), chiamato numero di massa (A = Z + N), determina anche la massa totale (peso)
dell’elemento risultante. All’aumentare di A, aumenta necessariamente la massa atomica. Il
modello atomico, quindi, spiega naturalmente perché gli atomi degli elementi hanno masse
differenti, un fatto di cui Dalton non riusciva a fornire una spiegazione ragionevole.

Poiché nel nucleo sono racchiusi tutti i protoni dell’atomo, in esso è concentrata una
carica elettrica totale positiva che è uguale alla somma delle cariche elettriche dei protoni (+Z).
Il nucleo è, dunque, quella parte dell’atomo in cui compare un’intensa carica positiva che però
è neutralizzata, in tutto o in parte, dalla presenza di elettroni con carica elettrica negativa che
ruotano attorno ad esso perché attratti dall’interazione con la carica positiva dei protoni. La
struttura risultante assomiglia a un sistema planetario in cui il nucleo occupa la posizione della
stella centrale, e gli elettroni orbitano attorno come pianeti.

23
Figura 4. Modello planetario dell’atomo: protoni (rosso) e neutroni (bianco) sono concentrati nel nucleo
mentre gli elettroni (blu) si muovono su orbite esterne.

Se il numero di elettroni orbitanti è uguale al numero di protoni presenti nel nucleo, le


cariche positive sono esattamente annullate dalle cariche negative e l’atomo risultante è neutro.
Al contrario, se il numero di elettroni è inferiore al numero di protoni, si otterrà un atomo che
possiede un eccesso di carica positiva e che prende il nome di ione positivo o catione. In modo
simile, se il numero di elettroni è superiore al numero di protoni, allora si otterrà un atomo con
un eccesso di carica negativa chiamato ione negativo o anione.

3.2. Gli isotopi degli elementi

Sulla base del nuovo modello atomico scoperto da Rutherford, è possibile fornire una
descrizione molto più dettagliata delle proprietà dei singoli elementi. Un elemento è
caratterizzato da atomi dello stesso tipo che possiedono tutti lo stesso numero atomico Z. E’ il
numero atomico che definisce il particolare elemento. Il numero di neutroni può essere
variabile, anche se negli atomi più leggeri (fino al ferro) è molto spesso uguale al numero di
protoni. Atomi che hanno lo stesso numero di protoni (Z) ma un diverso numero di neutroni
(N), sono ovviamente associati allo stesso elemento, ma hanno una massa diversa. Questi
atomi dello stesso elemento con differente numero di neutroni sono chiamati isotopi. Ad
esempio, l’idrogeno possiede tre isotopi che corrispondono a tre atomi che contengono tutti un
solo protone, da cui Z = 1 che è il numero atomico caratteristico dell’elemento idrogeno, ma
un numero diverso di neutroni. In particolare, l’idrogeno più abbondante in natura non
possiede neutroni nel nucleo (N = 0), mentre l’isotopo chiamato deuterio contiene un neutrone
(N = 1) e l’isotopo trizio contiene due neutroni (N = 2). Occorre notare che il nucleo di
quest’ultimo isotopo dell’idrogeno è instabile e tende a perdere particelle per raggiungere una
maggiore stabilità dando luogo a quel fenomeno noto sotto il nome di radioattività. A questo
punto, è possibile chiarire finalmente il significato del concetto di ‘atomo di carbonio-12’
utilizzato nella definizione della scala dei pesi atomici. Il valore caratteristico del numero
atomico dell’elemento carbonio è Z = 6. Esso esiste in natura sotto forma di tre differenti
isotopi corrispondenti al diverso contenuto di neutroni. L’isotopo più abbondante è appunto il
carbonio-12 il cui nucleo atomico è composto di 6 protoni e 6 neutroni. Segue l’isotopo
carbonio-13, la cui abbondanza naturale è quasi trascurabile rispetto al carbonio-12, che ha 6
protoni e 7 neutroni (N = 7) nel suo nucleo atomico. Infine, esiste l’isotopo carbonio-14 con 6
protoni e 8 neutroni nel nucleo (N = 8). Come nel caso del trizio, il nucleo carbonio-14 è
instabile e tende a eliminare particelle per raggiungere una maggiore stabilità. In definitiva, per

24
l’idrogeno e il carbonio possono esistere isotopi con i seguenti numeri di massa 1, 2, e 3, e 12,
13 e 14, rispettivamente.

Per tenere conto dell’esistenza degli isotopi, il simbolismo sviluppato per rappresentare gli
elementi è stato ulteriormente ampliato nel modo seguente. Accanto al simbolo chimico
dell’elemento si appone in alto a sinistra il valore del numero di massa A = N + Z, mentre in
basso a sinistra si scrive il numero atomico Z. Per un generico elemento indicato con il simbolo
X il risultato finale è:

2 134
1𝑋 = 1𝑋 .
Ad esempio, i tre isotopi del carbonio sono scritti come:

67 68 69
5𝐶 , 5𝐶 , 5𝐶 .
Nella pratica scientifica, per rappresentare gli isotopi si preferisce semplificare la notazione
e riportare solo il numero di massa in alto a sinistra come indicato nel caso del trizio e del
carbonio-12: 3H, 12C.

A questo punto, può forse apparire più chiaro il motivo per cui, nella scelta dell’unità di
massa atomica, all’isotopo di carbonio-12 (12C), scelto come peso campione, è stata attribuita
arbitrariamente la massa (o peso) di 12 u. Infatti, questa scelta ha il vantaggio che, se si assume
che il contributo degli elettroni orbitanti sia trascurabile e che i neutroni e i protoni abbiano la
stessa massa, poiché il nucleo del carbonio-12 contiene 12 particelle (6 protoni + 6 neutroni),
allora a ciascun protone e ciascun neutrone dovrà essere necessariamente attribuita la massa di
1 u. Insomma, la scelta di far pesare il carbonio-12 esattamente 12 u, conduceva naturalmente
a far pesare un protone esattamente 1 u e lo stesso si ottiene per un neutrone.

Una domanda che può sorgere spontanea è la seguente. Si è detto che 12 g di carbonio-12
12
( C) corrispondono a una mole di atomi di carbonio. Tuttavia, questo è vero se e soltanto se
tutti gli atomi presenti nel campione di 12 grammi appartengono all’isotopo 12C. Poiché in
natura esistono tre isotopi del carbonio, è ragionevole supporre che, quando si raccoglie un
campione naturale di questo elemento (ad esempio un pezzo di carbone da una miniera), esso
contenga tutti e tre gli isotopi anche se in quantità differenti in dipendenza dalla loro
abbondanza in natura. Per abbondanza isotopica (o percentuale isotopica) s’intende la
percentuale in cui un certo isotopo è presente in natura e si esprime come rapporto fra il
numero di atomi dell’isotopo considerato e il numero di atomi totali moltiplicato per 100:

!"#$%& () *+&#) ($,, ! )-&+&.&


× 100 = %isotopica
-&##* ($/,) *+&#) () +"++) /,) )-&+&.) !*+"%*,) ($,, ! $,$#$!+&

Ebbene, per tenere conto del fatto che un campione naturale contiene sempre una miscela
d’isotopi, si definisce una massa (peso) atomica media che si calcola nel modo seguente:

∑(%+#$<$!+()) × (*)##) )<$*+() +#$<$!$)


= massa atomica media
6>>

25
Come esempio, si provi a calcolare la massa atomica media del carbonio naturale. In
natura, l’isotopo carbonio-12 è presente con un’abbondanza isotopica del 98,89%, mentre la
percentuale isotopica del carbonio-13 è 1,11%. L’isotopo carbonio-14 è presente solo in tracce
e, quindi, la sua quantità è trascurabile. Allora, la massa atomica media del carbonio è:

(?@,@? × 67 B) 3 (6,66 × 68 B)
= 12,011 u.
6>>
Questo risultato è quello che si usa nei calcoli pratici e corrisponde a un valore della massa
molare del carbonio naturale pari a 12,0111 g/mol.

3.3. La stabilità dell’atomo di Rutherford

Le nuove scoperte, se da un lato contribuiscono a spiegare molti fatti (a volte con grande
clamore), dall’altro fanno inevitabilmente sorgere nuovi interrogativi. Il modello planetario
dell’atomo è proprio un perfetto esempio di questa contraddizione. Infatti, sebbene esso abbia
fornito una descrizione più fondamentale della natura degli elementi, riducendo la loro varietà
a entità più semplici e elementari, esso ha contemporaneamente dato origine a domande cui è
stato ancora più difficile rispondere e che, addirittura, hanno condotto a una rivoluzione
scientifica.

Qual è il problema del modello di Rutherford? Per capirlo bisogna ricordare alcuni
concetti che provengono dalla teoria dell’elettromagnetismo che costituisce la migliore
descrizione fisica della dinamica dei corpi elettricamente carichi. Questa teoria stabilisce che
quando una carica elettrica si muove di moto accelerato, emette sempre una radiazione
elettromagnetica. Per moto accelerato s’intende una condizione in cui il corpo cambia i
parametri che caratterizzano il suo movimento come la velocità e il verso di spostamento.
L’emissione di una radiazione elettromagnetica corrisponde all’emissione di luce, che altro
non è se non semplice radiazione elettromagnetica e, dunque, di energia. Questa proprietà è
alla base della trasmissione dei segnali radio e delle comunicazioni telefoniche e televisive. Ad
esempio, il segnale elettromagnetico di una trasmissione telefonica è generato dal movimento
oscillatorio delle cariche elettriche all’interno dell’antenna. Un’oscillazione è un esempio di
moto accelerato perché periodicamente la carica cambia sia il verso di movimento (avanti e
indietro) che la velocità (accelera, poi si ferma, cambia verso e, quindi, accelera ancora). Per le
leggi dell’elettromagnetismo, durante il movimento oscillatorio una carica elettrica deve
emettere radiazione elettromagnetica che si propaga nello spazio per essere poi captata
dall’antenna ricevente. Un altro esempio di moto accelerato è costituito da un oggetto carico si
muove di moto circolare attorno ad una carica di segno opposto. Anche se l’oggetto mantiene
una velocità costante, durante il movimento il verso del moto cambia in modo continuo in
ogni punto dell’orbita e, quindi, si tratta di un moto accelerato. Del resto, se il moto circolare
fosse osservato proiettando il piano di rotazione perpendicolarmente a uno schermo, il
risultato sarebbe identico a quello del moto oscillatorio come illustrato nella Figura 5. Anche
per questo tipo di moto accelerato, la carica in movimento emette una radiazione
elettromagnetica che si propaga nello spazio.

26
Figura 5. La proiezione di un moto circolare su uno schermo piano produce un movimento oscillatorio.

E’ facile osservare che l’elettrone con carica negativa che ruota attorno al nucleo carico
positivamente, come descritto nel modello atomico di Rutherford, costituisce un sistema
perfettamente analogo a quello della carica in moto circolare. Ne consegue necessariamente
che l’elettrone ruotante deve emettere radiazione elettromagnetica. Però, l’emissione di
radiazione provoca anche la perdita d’energia e, allora, l’elettrone dovrebbe progressivamente
rallentare il suo moto fino a cadere sul nucleo che lo attrae distruggendo la struttura atomica.
La conclusione drammatica è che, secondo la teoria elettromagnetica classica, l’atomo di
Rutherford non può esistere.

Eppure esiste e, allora, era necessario capire cosa c’era di sbagliato nella descrizione
classica della dinamica dei corpi carichi. Se a volte, nella storia della scienza, la correzione di
una teoria scientifica ha richiesto solamente una parziale revisione dei suoi fondamenti teorici,
per spiegare la stabilità dell’atomo di Rutherford si è dovuto giungere alla formulazione di una
teoria completamente nuova che ha radicalmente modificato alcuni concetti di base su cui
poggiava la teoria classica (per teoria classica s’intende l’insieme della meccanica di Newton-
Lorentz-Einstein e dell’elettromagnetismo di Maxwell) e, in particolare, i concetti di onda e
particella. Questa nuova teoria è conosciuta come meccanica quantistica.

3.4. Le origini della meccanica quantistica

Sebbene l’interpretazione della stabilità dell’atomo di Rutherford fosse uno dei problemi
irrisolti più importanti di cui la teoria classica non era in grado di offrire una spiegazione
soddisfacente, è sorprendente notare come esistessero ancora fenomeni molto comuni per i
quali non era ancora stato possibile trovare alcuna descrizione adeguata. E’ stata appunto la
ricerca di un’interpretazione teorica per questi fenomeni che ha permesso di gettare le basi per
la costruzione della nuova meccanica. Il primo atto di questa rivoluzione scientifica fu recitato
da Max Planck durante la formulazione della teoria sull’emissione del corpo nero.

3.4.1. Onde e particelle

Per meglio comprendere il ragionamento di Planck è opportuno richiamare all’inizio i


concetti classici di particella e onda, anche se è opportuno notare come queste nozioni non
siano mai state precisamente definite e siano ancora oggetto di continue discussioni
epistemologiche. Tuttavia, per gli scopi di questa trattazione è sufficiente definire una
particella come un’entità fisica che segue le leggi del moto di Newton e per la quale, di
conseguenza, è sempre possibile definire esattamente la posizione e la velocità a un determinato
istante del tempo. Usando l’equazione di Newton, quando sono note le condizioni iniziali, si
può sempre calcolare la traiettoria nello spazio e nel tempo della particella.

27
Al contrario, nella teoria classica, un’onda non è associata a un’entità fisica localizzata
nello spazio e nel tempo, bensì descrive la propagazione nello spazio e nel tempo di una forza,
di un segnale o di uno stimolo meccanico (elettrico, magnetico). In altre parole, un’onda è
sempre prodotta da una sorgente e si propaga nello spazio sotto forma di oscillazione periodica.
Poiché alla trasmissione di queste proprietà è sempre associata una forma di energia, la
propagazione ondulatoria può anche essere interpretata come un trasporto di energia nello
spazio-tempo senza movimento di materia. Esempi assai comuni sono le onde meccaniche
come le increspature della superficie di uno stagno colpito dalla caduta di un sasso (la
sorgente). Queste onde hanno una forma circolare e si propagano fino a occupare tutta la
superficie dello stagno (onde a due dimensioni). Quello che avviene nello stagno non è un
trasporto di materia, poiché le molecole d’acqua restano al loro posto e semplicemente
oscillano attorno a un punto fisso, bensì la propagazione di energia meccanica (questo fatto è
facilmente dimostrato dal comportamento di una boa posta sulla superfice dell’acqua che,
quando colpita dall’onda non si sposta, ma inizia semplicemente a vibrare). Un esempio di
onde a una dimensione è fornito dalle vibrazioni di una corda sottoposta alla sollecitazione
prodotta dal movimento oscillatorio di una mano (la sorgente) che la sostiene a un’estremità.
Onde a tre dimensioni sono costituite dalle onde sonore prodotte, ad esempio, da
un’esplosione oppure dalla vibrazione della corda di una chitarra o di un violino (le sorgenti).
Queste onde si propagano nell’aria e sono, quindi, rappresentabili come sfere concentriche che
si allargano nello spazio. Le onde meccaniche hanno bisogno di un mezzo omogeneo per
propagarsi (l’acqua, l’aria, la corda) poiché altro non sono che vibrazioni di porzioni di
materia.

Tuttavia, esistono onde per le quali non serve un mezzo per la propagazione come, ad
esempio, le onde elettromagnetiche (sebbene, per la precisione, si fosse ritenuto che questo
mezzo potesse davvero esistere ed era stato addirittura chiamato ‘etere’). La ragione per la
quale la propagazione delle onde elettromagnetiche non richiede la presenza di un mezzo non
è mai stata chiarita completamente giacché, all’inizio, si pensava davvero fosse necessario
postularne l’esistenza sotto forma di etere. Si può semplicemente supporre che questo
fenomeno sia stato accettato come un’evidenza sperimentale, anche se, nel seguito, si vedrà
come la nuova meccanica quantistica ne fornirà una naturale spiegazione. Come già ricordato,
le onde elettromagnetiche sono prodotte dal moto periodico (rotazione, vibrazione) di cariche
elettriche e sono descritte dalla stretta interconnessione fra un campo elettrico e un campo
magnetico. Che cos’è un campo? Anche questo è un concetto un po’ astratto, ma si può
immaginare un campo come una regione di spazio in cui si estende l’influenza di una forza. In
altre parole, alla presenza della sorgente di una forza (ad esempio, una carica elettrica) lo
spazio circostante subisce una modificazione in ogni punto e una qualsiasi carica che entrasse
in quella regione subirebbe l’influenza della forza elettrica. Un campo elettrico è, dunque
un’entità fisica che esiste, anche quando non agisce su nessuna carica. Esso ha un’esistenza
indipendente e continuerà a essere attivo finché sarà presente la sua sorgente (un’analogia
meccanica è fornita dal campo della pressione atmosferica in cui a ogni punto dell’atmosfera
che circonda il pianeta è associato un valore di pressione). Se la sorgente inizia a vibrare, il
campo attorno comincia a sua volta a oscillare dando origine a un’onda elettromagnetica.
Questa idea può parzialmente spiegare perché un’onda elettromagnetica non ha bisogno di un
mezzo per la propagazione. Infatti, sarebbe proprio il campo quel mezzo attraverso cui l’onda
si propaga, ma si può dimostrare che questa interpretazione non è completamente rigorosa.
Un’interpretazione più classica è la seguente. Alla presenza di una carica elettrica s’instaura un
campo elettrico nello spazio circostante. Se la carica inizia a vibrare, il campo elettrico subirà
una variazione periodica oscillando fra un valore minimo e un valore massimo. Per le leggi
dell’elettromagnetismo, un campo elettrico variabile darà origine a un campo magnetico

28
variabile il quale, a sua volta, produrrà un nuovo un campo elettrico variabile. La continua
oscillazione fra il campo elettrico e il campo magnetico produce esattamente quella che va
sotto il nome di onda elettromagnetica. Una rappresentazione dell’alternarsi dei campi elettrici
magnetici in un’onda elettromagnetica è riportata nella Figura 6.

Figura 6. Diagramma che mostra l’interconnessione fra campo elettrico e campo magnetico in un’onda
elettromagnetica.

Qualunque sia il tipo di onda, la descrizione matematica di queste entità fisiche è sempre
la stessa. Le onde sono caratterizzate da un periodo di oscillazione (t) che è il tempo che
intercorre perché l’oscillazione ritorni al valore iniziale passando per il massimo e il minimo.
Lo spazio che l’onda percorre passando far due massimi (o minimi) adiacenti è noto come
lunghezza d’onda (l). Il numero di massimi (o di minimi) che passano per un punto dello spazio
nell’unità di tempo prende il nome di frequenza (n), che altro non è che l’inverso del periodo di
oscillazione (n = 1/t). Per ampiezza di un’onda s’intende l’altezza corrispondente al valore del
suo massimo (che in valore assoluto è uguale alla profondità del suo minimo). La velocità di
un’onda è data dall’espressione v = ln.

29
Figura 7. Rappresentazione di un’onda monodimensionale.

Due proprietà caratteristiche delle onde sono la diffrazione e l’interferenza, La diffrazione è


un fenomeno che si può osservare quando un’onda incontra un ostacolo. In questa situazione,
il comportamento di un’onda appare completamente diverso da quello di una particella. Infatti,
quando una particella classica urta contro un ostacolo impenetrabile, quello che si osserva è
che essa rimbalza ed è respinta all’indietro. Oppure, se l’ostacolo assorbe tutta la sua energia
cinetica, la particella si blocca e resta in quiete. In tutti i casi, la particella non riesce mai a
superare l’ostacolo (a meno di distruggerlo in seguito all’urto). Al contrario, un’onda non può
mai essere fermata e quando urta contro un oggetto, possono accadere due fenomeni: (a)
l’onda è riflessa all’indietro (riflessione) oppure (b) l’onda supera l’oggetto cambiando la sua
traiettoria di propagazione (diffrazione). La riflessione avviene quando le dimensioni
dell’ostacolo sono assai più grandi della lunghezza d’onda, mentre la diffrazione ha luogo
quando esso ha dimensioni dell’ordine della lunghezza d’onda (Figura 8). Un esempio
meccanico di questo comportamento è facilmente osservabile con le onde del mare. Se l’onda
marina s’infrange contro la costa, essa è riflessa all’indietro, mentre se trova uno scoglio sul
suo cammino, lo supera facilmente girandogli attorno. La diffrazione è il fenomeno che rende
anche conto del fatto che è impossibile localizzare un’onda come, al contrario, si può sempre
fare con una particella. Infatti, è facile ricordare che se si tentasse di bloccare la propagazione
di un’onda sulla superfice di uno stagno immergendovi una mano, il risultato sarebbe che
l’onda si scomporrebbe in tante onde secondarie che continuerebbero il loro cammino
disperdendosi su tutta la superficie.

Figura 8. Rappresentazione della riflessione e diffrazione delle onde.

L’interferenza è un altro comportamento caratteristico delle onde. In termini semplici,


l’interferenza è una proprietà che permette alle onde di sovrapporsi nello spazio e nel tempo
per formare nuove onde. Non c’è dubbio che le particelle classiche non possano occupare

30
contemporaneamente lo stesso punto dello spazio. Al contrario, questo non accade per le onde
che, quando si trovano nella stessa regione di spazio, possono combinarsi per dare origine al
fenomeno dell’interferenza. Che cosa significa che le onde possono sovrapporsi? Si è detto che
un’onda non costituisce un’entità materiale in senso classico, bensì corrisponde a un trasporto
di energia. Questo indica che, come per tutte le forme di energia, quando due o più onde
s’incontrano nello stesso punto dello spazio, la loro energia può sommarsi oppure sottrarsi
reciprocamente. Ancora una volta può essere utile l’analogia con le onde in un liquido. Come
già ricordato, durante il passaggio di un’onda sulla superficie di uno stagno, le molecole
d’acqua si comportano come microscopiche boe che non si spostano, ma semplicemente
oscillano dall’alto in basso restando nello stesso punto. S’immagini adesso di lanciare nello
stagno un altro sasso. Naturalmente, si formerà un’onda successiva che si propagherà nello
stagno. Quando quest’onda raggiungerà una molecola d’acqua, che sta già oscillando per il
passaggio dell’onda precedente, possono accadere due cose. Le due oscillazioni sono concordi
(cioè quando l’oscillazione indotta dalla prima onda si dirige, ad esempio, verso l’alto e lo
stesso avviene per l’oscillazione indotta dalla seconda onda così che esse si dicono in fase) e
allora la molecola d’acqua è sollecitata a compire un’oscillazione più ampia poiché le due
onde si sommano. Oppure le due vibrazioni non sono concordi (cioè i loro versi sono l’uno
l’opposto dell’altro e le onde si dicono fuori fase) e allora le due onde si sottraggono fino a
cancellarsi reciprocamente quando i valori delle loro oscillazioni sono esattamente uguali ma
di segno contrario. Queste due situazioni sono note con gli appellativi d’interferenza costruttiva e
interferenza distruttiva. Nella Figura 9, è rappresentata (in alto) l’interferenza di due onde che si
propagano in una stagno assieme ai due tipi d’interferenza costruttiva e distruttiva illustrati nel
caso di onde monodimensionali (in basso).

31
Figura 9. Rappresentazione dell’interferenza fra le onde.

Un’importante applicazione dei fenomeni descritti sopra è la costruzione di quello che è


chiamato uno spettro d’interferenza. Questa tecnica è utilizzata in svariate applicazioni
tecnologiche e sarà di grande importanza per capire i fondamenti della meccanica quantistica.
Brevemente, per generare questo spettro occorre costruire un reticolo di diffrazione, che è
costituito da una barriera in cui sono state praticate delle fenditure a distanze regolari. Quando
un’onda è spinta contro la barriera, essa può attraversare le fenditure e, per il fenomeno della
diffrazione, da esse emergeranno altrettante onde che si propagheranno nello spazio aldilà
della barriera. Ogni fenditura diviene, quindi, una sorgente d’onda proprio a causa della
diffrazione. Le onde emergenti si sovrapporranno nello spazio oltre la barriera dando luogo al
fenomeno dell’interferenza. Nella Figura 10, è illustrato un reticolo di diffrazione composto da
due fenditure, da cui usciranno due onde emergenti. I punti di colore rosso indicano le zone in
cui le due onde si sovrappongono in fase e, quindi, danno origine a un’interferenza costruttiva.
I punti di colore verde sono, invece, quelli dove le onde si sovrappongono in completa
opposizione di fase e, dunque, produrranno un’interferenza distruttiva completa. Come si può
vedere, l’interferenza massima si ottiene in corrispondenza di tutti i punti rossi che si trovano
sulla linea centrale che divide in due parti uguali la figura. In questa regione, la somma delle
due onde interagenti assume il valore massimo e dà origine a un’onda con l’ampiezza più
elevata. Lungo le due linee adiacenti, poste simmetricamente rispetto alla linea centrale, che
collegano punti verdi, si osserva, al contrario, la massima interferenza distruttiva che cancella
completamente le due onde. Allontanandosi dalla linea centrale l’intensità dei massimi
d’interferenza costruttiva diminuisce e l’onda risultante ha la forma illustrata in alto in Figura
10, che mostra la variazione spaziale dell’intensità dell’onda risultante. E’ interessante notare
come la massima sovrapposizione (intensità massima) sia localizzata non in corrispondenza
delle fenditure, ma esattamente a metà della distanza che le separa.

32
Figura 10. Reticolo di diffrazione con due fenditure. In alto è rappresentata l’onda risultante
dall’interferenza delle onde creare dalle due fenditure.

3.4.2. Il corpo nero

Che cosa s’intende per emissione del corpo nero? Si tratta di un fenomeno comunissimo e
noto fin dall’antichità. Si prenda un pezzo di un metallo qualsiasi e si ponga sul fuoco. Che
cosa si osserva? Il metallo inizia a riscaldarsi, poi, a una certa temperatura, comincia ad
assumere una particolare colorazione. Inizialmente appare rosso, poi giallo, poi verde, poi si
osservano sfumature bluastre e, infine, il metallo diventa molle e inizia a liquefare. Nulla di
strano, tutti sanno che un metallo riscaldato cambia colore all’aumentare della temperatura
prima di sciogliersi. Quello che forse è meno noto è che questo fenomeno è inspiegabile per la
teoria dell’elettromagnetismo classico. Durante il riscaldamento, il metallo inizia a emettere
luce, cioè radiazione elettromagnetica. Si è detto sopra che l’emissione di onde
elettromagnetiche può avvenire solo se all’interno del metallo siano presenti cariche elettriche
in movimento. Poiché adesso sappiamo che il metallo è costituito di atomi, e che dentro
all’atomo si muovono gli elettroni, allora dovrebbero essere proprio gli elettroni che orbitano
attorno al nucleo le sorgenti della luce emessa. Il problema è il seguente: per quale motivo gli
elettroni, a una certa temperatura, irraggiano in maggiore quantità solamente una luce di un
particolare colore? Il colore della luce corrisponde a un’energia ben definita della radiazione
elettromagnetica associata. Poiché la velocità della luce è sempre la stessa (c), ciò significa che
a questa energia corrisponde un’onda che ha una frequenza e una lunghezza d’onda ben
definite e date dall’espressione c = ln. Quando un oggetto riscaldato si colora di rosso, ciò
indica che la gran parte della radiazione luminosa che emette è composta di onde
elettromagnetiche con l’energia, la frequenza e la lunghezza d’onda caratteristiche della luce

33
rossa. E’ proprio questo il fatto inspiegabile per la teoria elettromagnetica classica. Infatti, dal
punto di vista classico, quando si fornisce energia a un corpo, esso si può muovere a qualsiasi
velocità proprio perché può assorbire l’energia in modo continuo. Allora, si provi a
immaginare gli elettroni che orbitano attorno al nucleo degli atomi che compongono il metallo
riscaldato. L’energia fornita dal calore può essere assorbita dagli elettroni che, quindi,
aumenteranno la loro velocità di rivoluzione attorno ai nuclei producendo, in questo modo, un
campo elettrico e un campo magnetico variabili. Come già spiegato, questi campi variabili si
propagheranno nello spazio circostante sotto forma di un’onda elettromagnetica che, in
dipendenza della variazione subita dalla velocità dell’elettrone che li ha generati, sarà
caratterizzata da una particolare lunghezza d’onda e frequenza e, dunque, da un certo colore.
Più veloce si muoverà l’elettrone, più elevata sarà la frequenza dell’onda risultante e più
piccola la sua lunghezza d’onda proprio in base alla relazione c = ln.

Tuttavia, la teoria classica non pone nessuna restrizione al valore della velocità che può
assumere l’elettrone e, di conseguenza, al valore della frequenza e della lunghezza d’onda
prodotte. Al contrario, classicamente si può ammettere che alcuni elettroni assorbano più
energia dal calore e, quindi, si mettano a ruotare più velocemente, mentre altri ne assorbano
meno e si muovano più lentamente. In generale, poiché l’energia classica varia in modo
continuo, ci si attende che gli elettroni nel metallo possano ruotare a qualsiasi velocità e,
quindi, emettano onde di tutti i colori. In altre parole, l’oggetto riscaldato dovrebbe apparire
bianco, che è il colore risultante quando si sovrappongono onde corrispondenti a tutti i colori
dell’arcobaleno. Se si continua il ragionamento classico, la situazione diviene ancora più
drammatica. Infatti, continuando ad aumentare la temperatura, gli elettroni dovrebbero
ruotare con velocità sempre più alte, producendo onde elettromagnetiche con frequenze
sempre più elevate e lunghezze d’onda sempre più piccole. Queste elevate frequenze e
microscopiche lunghezze d’onda corrispondono a colori che vanno oltre a quelli visibili
dall’occhio umano (che può percepire i colori fino al violetto), e cadono nella regione
ultravioletta. Insomma, la descrizione classica prevede che all’aumentare della temperatura, a
un certo punto, l’oggetto riscaldato scompaia lentamente per diventare completamente
invisibile (fenomeno che, per la disperazione dei fisici, era stato chiamato catastrofe ultravioletta).

Nonostante questa drammatica previsione, la catastrofe non avviene e ciò che si osserva è
la progressiva variazione del colore dell’oggetto riscaldato, fintantoché esso non liquefa o
brucia. Per studiare in modo quantitativo il fenomeno dell’emissione della radiazione
elettromagnetica da parte di corpi riscaldati, gli scienziati hanno dovuto costruire un apparato
sperimentale che fosse più robusto di un semplice oggetto o pezzo di metallo posto sul fuoco.
Infatti, questi sistemi non sono abbastanza resistenti al calore e, a una certa temperatura, sono
distrutti dalla combustione oppure passano allo stato liquido. Per far questo, hanno escogitato
il seguente apparato. Si prenda una stufa fatta di materiale refrattario molto resistente al calore,
se ne colori completamente l’esterno di nero e, infine, si riscaldi l’interno con una sorgente di
calore (legna o altro combustibile). Quello che si osserva è che, praticando un piccolo foro su
una parete di questa stufa, da quel foro si sprigionerà una sorgente di onde elettromagnetiche
generate dal calore della stufa. In altre parole, la stufa si comporterà esattamente come un
corpo riscaldato e potrà essere facilmente usata per studiare il fenomeno. La verniciatura nera
all’esterno è necessaria per evitare l’interferenza nelle misure di sorgenti di onde colorate
provenienti dall’esterno (il colore nero, infatti, corrisponde all’assenza di emissione luminosa).
Per questo motivo, la stufa è stata chiamata il corpo nero e il fenomeno ha preso il nome di
emissione del corpo nero.

34
Quando si riportano le misure dell’intensità della radiazione emessa dal foro in funzione
della lunghezza d’onda e della temperatura del corpo nero, si ottengono le curve riportate in
Figura 11 , che sono note come spettro di emissione del corpo nero.

Figura 11. Lo spettro di emissione della radiazione elettromagnetica emessa da un corpo nero riscaldato.
La linea tratteggiata rappresenta la curva prevista dalla teoria classica. Nel grafico sono mostrate le
curve corrispondenti a un numero limitato di temperature.

Lo spettro di emissione mostra come all’aumentare della temperatura, espressa in gradi


kelvin (K), la gran parte della radiazione sia emessa sotto forma di una sola lunghezza d’onda
(che corrisponde al massimo della curva a quella temperatura). A temperature più basse il
massimo è meno definito e l’effetto del colore appare meno evidente. E’ interessante osservare
come la curva che descrive la previsione classica non mostri alcun massimo e, al contrario,
cresca indefinitamente verso l’infinito, mostrando di non riuscire a descrivere alcuna
situazione reale.

Al grafico che descrive lo spettro di emissione del corpo nero, è stata attribuita una
validità universale poiché esso è stato ottenuto utilizzando un apparato sperimentale costruito
per rappresentare le proprietà di tutti i corpi riscaldati. Per questo, si ritiene che esso descriva
lo spettro di emissione di ogni corpo caldo, dal semplice metallo alle stelle delle galassie. Infatti,
per stabilire la temperatura di un qualsiasi oggetto, quello che si fa è di determinare il suo
spettro di emissione e di confrontare la curva risultante con il grafico del corpo nero. Una volta
identificata la curva del grafico che meglio rappresenta lo spettro dell’oggetto allo studio, sarà
possibile stabilirne la temperatura. Applicando questo metodo, è stata misurata la temperatura
delle stelle e dei pianeti. Anche la temperatura del vuoto assoluto dello spazio è stata calcolata
nello stesso modo. Infatti, è noto che, dalle profondità del cosmo, giunge sul nostro pianeta
una radiazione il cui spettro mostra il massimo nella regione delle microonde. Questa
radiazione di fondo a microonde permea tutto l’universo conosciuto e si ritiene che sia stata
generata dall’eco del big bang iniziale, la grande esplosione che diede origine all’universo. A
questa lunghezze d’onda (che sono dell’ordine di 100 cm fino a 1 mm) corrisponde una
temperatura di circa 3 K (−270 gradi centigradi).

35
Come spiegare lo spettro di emissione del corpo nero? Si vedrà nel seguito che la
spiegazione proposta ha permesso di derivare teoricamente la forma delle curve di emissione e,
nello stesso tempo, fornire anche un’interpretazione della stabilità dell’atomo di Rutherford.
Quest’interpretazione fa uso di un’idea semplice e intuitiva, che però richiede una modifica
fondamentale di concetti che stanno alla base della meccanica classica. In realtà, questa nuova
visione non fornisce una vera e propria spiegazione dei fenomeni, ma semplicemente accetta
che la natura sia profondamente diversa da quella che era stata descritta dalla teoria classica
(nella scienza non s’inventa niente che non sia proposto dalla natura).

Ecco l’idea semplice e quasi banale. E’ sufficiente supporre che l’elettrone non possa
ruotare a tutte le velocità possibili permesse dalla teoria classica. Poiché a ogni valore della
velocità corrisponde un’orbita circolare, e il valore della velocità classica varia in modo
continuo, di conseguenza anche l’insieme delle possibili orbite classiche è infinito e continuo.
Allora, è possibile formulare l’ipotesi che l’elettrone non possa percorrere tutte le orbite attorno al
nucleo previste dalla meccanica classica, ma solamente un insieme selezionato e discreto
(numerabile) di esse. In altre parole, occorre ammettere che la descrizione classica del moto di
una carica elettrica che si muove nel campo creato da un’altra carica di segno opposto debba
essere modificata accettando l’idea che l’energia dell’elettrone non vari in modo continuo ma discreto
per salti di energia (e di velocità). Naturalmente, non era chiaro perché tutto questo accadesse,
ma attraverso l’introduzione di questa ipotesi, l’interpretazione della forma dello spettro del
corpo nero, e del fenomeno del colore dei corpi riscaldati, ne discendeva come semplice
conseguenza logica. Vediamo come.

Poiché le orbite elettroniche sono in numero discreto, l’elettrone non potrà assumere
l’energia in modo continuo ma, per passare da un’orbita a più bassa energia (e velocità) a
un’orbita a energia (e velocità) più elevata, esso dovrà assorbire dal calore esterno una quantità
di energia che corrisponde alla differenza fra le energie delle due orbite (ΔE). Fintantoché la
temperatura non avrà raggiunto un valore sufficiente a permettere all’elettrone di saltare
nell’orbita a energia superiore, esso resterà sull’orbità in cui si trova. Tuttavia, come già detto,
la rotazione dell’elettrone attorno al nucleo è associata all’emissione di una radiazione
elettromagnetica. Durante l’emissione l’elettrone perde energia e la sua velocità diminuisce.
Nella teoria classica, l’elettrone poteva perdere energia in modo continuo perché tutte le orbite
erano possibili. Come si può, allora, descrivere l’emissione di luce quando le orbite diventano
discrete? L’unica rappresentazione plausibile è ammettere che l’elettrone possa irradiare
l’energia solo saltando da un’orbita a più alta energia a una a più bassa in energia e che,
durante il salto, sia emessa una quantità di energia esattamente uguale alla differenza fra le
energie delle due orbite discrete. Più di un secolo fa, Max Planck propose che questa differenza
si potesse esprimere con una nuova equazione fondamentale, la cui espressione è riportata in
basso.

Δ𝐸 = ℎ𝜐
Nell’equazione, DE è la differenza di energia fra le due orbite (chiamate anche livelli di
energia), n è la frequenza dell’onda elettromagnetica che si crea quando l’elettrone salta
dall’orbita a più alta energia a quella a più bassa energia, e h è una nuova costante universale
chiamata costante di Planck (questa costante ha un valore piccolissimo uguale a 6,626 × 10-34 J s).
Planck indicò la quantità hn con il nome di quanto d’azione (da cui derivò, in seguito,
l’appellativo di meccanica quantistica). Per un dato sistema atomico, il quanto d’azione
costituisce la più piccola porzione di energia che può essere assorbita o emessa da un elettrone

36
quando salta da un’orbita all’altra. In altre parole, l’elettrone in un atomo può irraggiare
radiazione elettromagnetica solamente sotto forma di ‘grumi’ discreti di energia corrispondenti
al valore fondamentale hn, oppure a multipli interi di esso. Un linguaggio molto usato è quello
che afferma che l’energia dell’elettrone in un atomo può essere emessa solo sotto forma di
pacchetti discreti.

Allora, è ragionevole pensare che, a una certa temperatura, la maggior parte degli elettroni
degli atomi che compongono il corpo nero si muova su un’orbita determinata (chiamata orbita
più popolata) perché il calore fornito è sufficiente solo a raggiungere quel particolare valore di
energia. Durante la rotazione, gli elettroni emetteranno radiazione, irraggiando pacchetti di
energia hn e saltando sull’orbita a energia inferiore. I pacchetti irradiati all’esterno
corrispondono alle onde elettromagnetiche emesse dal corpo nero. Tuttavia, a causa del
riscaldamento continuo, gli elettroni riassorbiranno rapidamente l’energia necessaria per
tornare ancora nell’orbita a energia più alta, ricominciando il processo. A una certa
temperatura, si stabilirà un equilibrio dinamico fra il numero di elettroni che perdono energia
sotto forma di radiazione elettromagnetica e, quindi, precipitano nel livello inferiore, e il
numero di elettroni che riassorbono la stessa energia dal calore e risalgono nell’orbita più
popolata. Ne consegue che, nella nuova teoria, l’emissione di luce da parte di un corpo
riscaldato è rappresentata come un continuo scambio di elettroni fra due orbite a differenti
energie che ha origine dall’intreccio di due fenomeni dovuti all’assorbimento di calore e
all’emissione di quantità discrete di energia hn sotto forma di onde luminose di frequenza n (e
lunghezza d’onda l = c/n).

Prima di procedere oltre occorre, tuttavia, discutere brevemente della natura del calore per
cercare di chiarire ancor meglio i concetti esposti, anche se quest’argomento sarà ripreso nei
capitoli successivi. Allora, si è detto che è necessario postulare che in un atomo gli elettroni
possano muoversi solo su orbite discrete e che l’emissione di una particolare onda luminosa
avvenga solamente quando l’elettrone compie un salto da un’orbita a energia più elevata a una
con energia più bassa. Però, si è anche detto che l’elettrone può ancora assorbire energia dal
calore e saltare di nuovo nell’orbita più alta e ricominciare il processo. In che modo il calore
trasferisce la sua energia agli elettroni? Se il calore fosse rappresentato come un fluido continuo,
sembra difficile capire come avvenga questo trasferimento perché l’elettrone non cambia il suo
stato energetico e fintantoché non riceve quel pacchetto di energia che è esattamente uguale
alla differenza di energia fra le due orbite. Allora, se il calore è un fluido come si genera questo
pacchetto di energia? Dobbiamo forse supporre che il fluido calorico continuo si raggrumi in
tante piccole porzioni di energia che poi sono trasferite in un sol colpo all’elettrone per
compiere il salto? Se ciò fosse vero, si dovrebbe pensare che anche il calore ha una natura
quantistica e sia fatto di entità discrete ciascuna corrispondente a un pacchetto d’energia (si
vedrà nel seguito come questo ragionamento sarà fondamentale per l’interpretazione
dell’effetto fotoelettrico). Tuttavia, nel caso del calore tutto questo non è necessario perché la
sua natura discreta era già nota dopo la scoperta che la materia è costituita di atomi e molecole.
Infatti, nella teoria di Dalton, il calore può essere interpretato come il risultato degli urti delle
particelle (atomi o molecole) che compongono un gas caldo che, dunque, costituisce il mezzo
con cui è trasferita l’energia termica (che altro non è se non energia cinetica delle particelle in
movimento caotico).

Ne consegue che se il calore è un fenomeno casuale e caotico dovuto agli urti delle
particelle di un gas, l’energia cinetica associata a ciascuna particella gassosa non è sempre la
stessa, ma varia all’interno di un intervallo finito. Nonostante ciò, anche se le particelle del gas,
a una certa temperatura, mostrano un’energia cinetica che può variare da un valore minimo a
un valore massimo, la maggior parte di esse ha un’energia cinetica che corrisponde alla media
37
di tutti i valori delle energie cinetiche possibili a quella temperatura (energia cinetica media). Si
deve allora supporre che se l’energia cinetica media di un gas di particelle è almeno uguale alla
differenza di energia fra due orbite successive, allora la gran parte degli elettroni salterà
nell’orbita a più alta energia che, di conseguenza, diverrà l’orbita più popolata. Al contrario, un
numero più piccolo di elettroni resterà nelle orbite immediatamente sottostanti perché urtati da
particelle gassose con un’energia cinetica più bassa. Ugualmente, un’altra piccola percentuale
di elettroni potrà estrarre dagli urti casuali un’energia sufficiente a saltare nelle orbite superiori
a quella più popolata. Dovrebbe essere chiaro che questi gruppi meno numerosi di elettroni
emetteranno una luce con una frequenza diversa da quella emessa dagli elettroni che occupano
l’orbita più popolata perché i loro salti di energia avverranno fra orbite differenti. Tuttavia, la
percentuale più alta di elettroni sarà sempre localizzata sul livello più popolato perché esso può
essere più facilmente raggiunto a quella temperatura poiché la gran parte delle particelle del
gas possiede l’energia cinetica media adatta. Per questa ragione, il grafico dell’intensità della
radiazione emessa dal corpo nero è sempre costituto da curve, che presentano un massimo in
corrispondenza della luce generata dagli elettroni che occupano l’orbita più popolata, e
gradualmente decrescono in corrispondenza delle orbite meno popolate a quella temperatura.
E’ interessante notare che se tutti gli elettroni si trovassero nell’orbita più popolata, la curva si
ridurrebbe a un punto (che nel diagramma corrisponde a una riga verticale) perché sarebbe
emessa un’unica onda di frequenza n e lunghezza d’onda l = c/n, che conferirebbe all’oggetto
riscaldato un solo colore ben preciso. Tuttavia, poiché la gran parte dell’intensità della luce
emessa dal corpo nero proviene dal salto di energia (DE = hn) degli elettroni che si trovano
nell’orbita più popolata, l’onda elettromagnetica di frequenza n = DE/h, sarà predominante e,
quindi, impartirà comunque una colorazione particolare all’oggetto riscaldato. Sebbene la
derivazione dell’equazione completa che descrive le curve del corpo nero, e che Max Planck
formulò più di un secolo fa, sia aldilà degli scopi della presente trattazione, può essere utile
illustrarne le caratteristiche principali.

La legge dell’emissione del corpo nero di Planck ha la seguente forma:

2ℎ𝜈 & 1
𝐵% (𝜈, 𝑇) =
𝑐 ' 𝑒 ()/+! , − 1
dove 𝐵% (𝜈, 𝑇) è la radianza spettrale, cioè il flusso di energia radiante che attraversa una
superficie a una certa temperatura T e frequenza 𝜈. Espressa in funzione della lunghezza
d’onda 𝜆, l’equazione diventa:

2ℎ𝑐 ' 1
𝐵- (𝜆, 𝑇) = . (//-+ ,
𝜆 𝑒 ! − 1

! (
E’ interessante notare come la funzione di Planck abbia la forma matematica 𝑒 &' = "!
#
che, quando è rappresentata in un diagramma, mostra un massimo come illustrato in basso:

38
! (
In breve, nella teoria di Planck, la combinazione fra la funzione 𝑒 &' = ! e l’ipotesi
#"
Δ𝐸 = ℎ𝜐 riesce a riprodurre correttamente lo spettro di emissione del corpo nero.

3.4.3. L’atomo di Bohr

A questo punto sorge una nuova domanda: è possibile calcolare quali sono le orbite
permesse agli elettroni che ruotano attorno al nucleo atomico? In particolare, si può elaborare
un modello atomico che permetta di derivare l’equazione di Planck DE = hn? Occorre anche
ricordare come, per il momento, sia stata sviluppata un’interpretazione dello spettro del corpo
nero, ma ancora non sia stata data alcuna risposta al problema di capire la stabilità dell’atomo
di Rutherford. Infatti, sebbene gli elettroni possano ruotare solo su particolari orbite, essi
emettono comunque energia sotto forma di onde elettromagnetiche saltando da un’orbita
all’altra. Una risposta preliminare a questi interrogativi fu elaborata da Niels Bohr che propose
un modello per descrivere il moto di un singolo elettrone che si muove nel campo elettrico
prodotto da un certo numero (Z) di protoni.

La teoria è molto semplice e, nel seguito, saranno descritte le sue caratteristiche principali.
Il punto di partenza è, naturalmente, il modello planetario dell’atomo di Rutherford. Si
supponga che un elettrone ruoti attorno a un nucleo formato da Z (numero atomico) protoni (i
neutroni non hanno carica elettrica e, quindi, il loro contributo alla carica nucleare è nullo)
descrivendo orbite circolari. Nella teoria classica, la forza di attrazione che si esercita fra due
cariche di segno opposto è descritta dalla legge di Coulomb. Se l’elettrone ha carica −e, un
protone avrà una carica +e, e un nucleo composto di Z protoni avrà una carica pari a +Ze.
Allora, il modulo della forza che attrae l’elettrone al nucleo sarà dato dall’espressione:

𝑘" (𝑍𝑒)(𝑒) 𝑘" 𝑍𝑒 '


𝐹 = = '
𝑟' 𝑟
1
𝑘" =
4𝜋𝜖0

dove 𝜖) è chiamata costante dielettrica del vuoto e al numeratore è stato utilizzato il valore
assoluto delle cariche elettriche del protone e dell’elettrone.

39
Durante la rotazione dell’elettrone, la forza d’attrazione è esattamente uguale alla forza
centripeta, che per un elettrone di massa me in movimento su un’orbita circolare con velocità V
è data dalla formula:

𝑚" 𝑉 '
𝐹′ =
𝑟
Le due forze hanno lo stesso verso e sono uguali in valore assoluto per cui si può scrivere:

𝑚" 𝑉 ' 𝑘" 𝑍𝑒 '


= '
𝑟 𝑟
Ricavando la velocità si ottiene:

𝑘" 𝑍𝑒 '
𝑉 = M
𝑚" 𝑟

Fin qui, le equazioni derivate sono di natura completamente classica. Fu a questo punto
che Bohr introdusse un’ipotesi arbitraria che non aveva alcuna giustificazione classica, ma che
trasformò la teoria in una descrizione quantistica. L’ipotesi è la seguente. E’ noto che un
oggetto che ruota attorno a un centro possiede un momento angolare classico che è dato dal
prodotto vettoriale della massa per il momento lineare p = mV:

𝐿 = 𝑟 × 𝑝 = 𝑟 × 𝑚𝑉

Per orbite circolari questa espressione diventa semplicemente:

𝐿 = 𝑚𝑉𝑟

Allora, Bohr postulò che il momento angolare potesse essere espresso nel modo seguente:


𝑚" 𝑉𝑟 = 𝑛
2𝜋
dove n è un numero intero che varia da 1 all’infinito (cioè appartiene all’insieme dei numeri
interi naturali). Introducendo nell’equazione l’espressione classica della velocità ricavata sopra,
si ottiene:
𝑘" 𝑍𝑒 ' ℎ
𝑚" M 𝑟 = 𝑛
𝑚" 𝑟 2𝜋

Molto spesso, la costante ℎ/2𝜋 viene indicata con il simbolo ℏ e l’equazione diventa:

𝑘" 𝑍𝑒 '
𝑚" M 𝑟 = 𝑛ℏ
𝑚" 𝑟

40
Il gioco è fatto perché con questa equazione adesso è possibile calcolare il raggio (rn) delle
orbite discrete su cui può ruotare l’elettrone nell’atomo. L’espressione è la seguente:

𝑛 ' ℏ'
𝑟1 =
𝑚" 𝑘" 𝑍𝑒 '

L’analisi dell’equazione ottenuta permette di ricavare conseguenze molto interessanti per


l’atomo d’idrogeno in cui Z = 1. Poiché il numero naturale n può assumere valori solo
nell’intervallo 1 − ∞, ne discende di conseguenza che il valore corrispondente a n = 1 (𝑟( )
costituisce il valore minimo del raggio delle orbite possibili per l’elettrone.

ℏ"
𝑟0 = = 𝑎3
## 2# $ "

La costante 𝑎0 prende il nome di raggio di Bohr e il suo valore è 5,291 × 10-11 (circa 0,053
nm). Essa rappresenta la minima distanza cui l’elettrone può trovarsi rispetto al protone
centrale all’interno dell’atomo d’idrogeno.

E’ possibile anche ricavare l’energia totale (E) di un elettrone che ruota nel campo elettrico
del nucleo è data dalla somma della sua energia cinetica (K) dovuta al movimento e
dell’energia potenziale dovuta all’attrazione elettrostatica (U): E = K + U. L’energia cinetica è
data dall’espressione:

1
𝐾 = 𝑚𝑉 '
2
L’energia potenziale si può calcolare dalla seguente formula classica:

(4
𝐹 = −
(%

da cui Fdr = −dU. L’energia potenziale U sarà data da:

T 𝐹𝑑𝑟 = − T 𝑑𝑈

Sostituendo l’espressione di F ricavata dalla legge di Coulomb si ottiene:

𝑘" 𝑍𝑒 '
T 𝑑𝑟 = − T 𝑑𝑈
𝑟'
Risolvendo si ricava:

𝑘" 𝑍𝑒 '
− + 𝐶 = 𝑈 + 𝐶′
𝑟
Ponendo le costanti d’integrazione (C e C’) arbitrarie uguali a zero, si può scrivere:

41
𝑘" 𝑍𝑒 '
𝑈 = −
𝑟
Ne consegue che l’energia totale dell’elettrone sarà data dall’espressione:

1 '
𝑘" 𝑍𝑒 '
𝐸 = 𝑚" 𝑉 −
2 𝑟
In precedenza, era stata ricavata l’espressione della velocità classica, da cui si può ottenere
anche il valore di V2 come segue:

𝑘" 𝑍𝑒 '
𝑉 = M
𝑚" 𝑟

'
𝑘" 𝑍𝑒 '
𝑉 =
𝑚" 𝑟
Sostituendo V2 nell’equazione che descrive l’energia totale, si ottiene:

1 𝑘" 𝑍𝑒 ' 𝑘" 𝑍𝑒 '


𝐸 = 𝑚" −
2 𝑚" 𝑟 𝑟
Dopo alcuni semplici calcoli, si giunge all’espressione dell’energia totale classica dell’elettrone
nell’atomo:
1 𝑘" 𝑍𝑒 '
𝐸 = −
2 𝑟
L’energia quantistica En si ricava sostituendo in quest’ultima equazione il raggio
quantistico ricavato sulla base del postulato di Bohr:

𝑛 ' ℏ'
𝑟1 =
𝑚" 𝑘" 𝑍𝑒 '

𝑘" 𝑍𝑒 ' 𝑚" 𝑘" 𝑍𝑒 ' 𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2


𝐸1 = − = −
2 𝑛 ' ℏ' 2𝑛' ℏ'
Il numero naturale n è chiamato numero quantico principale e, come si è visto, determina il
valore delle energie delle orbite (livelli) discrete dell’elettrone nell’atomo. Il segno negativo
davanti all’espressione dell’energia indica che la forza esercitata fra protone ed elettrone è
attrattiva.

A questo punto, si può ricavare la differenza di energia fra due orbite successive,
identificate da due valori differenti del numero quantico principale indicati con i simboli na e nb.

42
𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 1 1
𝐸1" − 𝐸1# = − + = [ − ]
2𝑛3 ' ℏ' 2𝑛4 ' ℏ' 2ℏ' 𝑛4 ' 𝑛3 '
Questa differenza di energia fra due livelli atomici può essere considerata equivalente a quella
postulata da Planck per descrivere lo spettro del corpo nero:

𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 1 1


𝐸1" − 𝐸1# = Δ𝐸 = ] − ^ = ℎ𝜈
2ℏ' 𝑛4 ' 𝑛3 '

Se na < nb, l’elettrone passerà da uno stato a energia più bassa emettendo una radiazione
luminosa di frequenza 𝜈 . Si può, dunque, affermare che il modello di Bohr offre
un’interpretazione dell’origine delle orbite discrete introdotte per spiegare lo spettro di
emissione del corpo nero (in realtà, un’ipotesi arbitraria è stata semplicemente sostituita con
un’altra).

Nel caso dell’atomo d’idrogeno, Z = 1 e le energie delle orbite elettroniche sono fornite
dall’espressione:

𝑚" 𝑘"' 𝑒 2
𝐸1 = −
2𝑛' ℏ'
Un’importante conseguenza di questa equazione è che essa suggerisce una spiegazione
alla domanda, rimasta ancora senza risposta, riguardante la stabilità del modello atomico
planetario di Rutherford. Infatti, come già ricordato nel calcolo del raggio di Bohr, il numero
quantico principale n assume tutti i valori interi, ma non può essere nullo. Allora, si deve
supporre che l’energia dell’atomo d’idrogeno corrispondente a n = 1 costituisca il più basso
valore dell’energia possibile e che, di conseguenza, l’elettrone che si trova su quest’orbita non
possa più emettere radiazione luminosa. In altre parole, la teoria quantistica propone per la
prima volta nella storia della fisica che un sistema fisico possa esistere in uno stato di energia
minima nel quale non sia più possibile dissipare l’energia sotto altre forme. L’energia di quello
che è chiamato il livello fondamentale dell’atomo d’idrogeno è, quindi, data dall’espressione:

𝑚" 𝑘"' 𝑒 2
𝐸5 = −
2ℏ'
che corrisponde a un valore di 1,36 eV. Quando l’elettrone nell’atomo d’idrogeno assume
questo valore minimo dell’energia, esso raggiunge uno stato di stabilità assoluta (minimo
quantistico) nel quale la sua energia non può più diminuire ma solo aumentare saltando a un
livello più alto. Come già ricordato in precedenza, il raggio dell’orbita che corrisponde alla
minima energia possibile è chiamato raggio di Bohr ed è dato dalla formula:

ℏ$
𝑟5 = 𝑎0 = 7 $
= 5,29 × 10855 m
% +% "

Nella Figura 12 è illustrata la transizione dell’elettrone dallo stato con n = 2 allo stato
fondamentale che genera l’emissione di un’onda luminosa di frequenza 𝜈 = Δ𝐸/ℎ.

43
Figura 12. Transizione elettronica dallo stato (eccitato) E2 allo stato fondamentale E1 nell’atomo
d’idrogeno.

Resta ancora un problema da capire: che cosa succede se invece di un solo elettrone ce ne
fossero molti di più come negli atomi con numero atomico più elevato (Z > 1)? Per rispondere
a questa domanda bisogna andare oltre la semplice teoria atomica di Bohr.

3.4.5. L’effetto fotoelettrico

L’ipotesi più importante su cui poggia la nuova teoria quantistica è espressa


dall’equazione Δ𝐸 = ℎ𝜈. Questa espressione afferma che un sistema quantistico non varia la
sua energia in modo continuo, ma per ‘salti’ di energia passando da uno stato all’altro
attraverso l’assorbimento o l’emissione di un ‘pacchetto’ di energia uguale a ℎ𝜈, oppure a
multipli interi di questo ‘grumo’ di energia fondamentale. Infatti, una generalizzazione
dell’equazione può essere scritta come:

Δ𝐸 = 𝑛ℎ𝜈

dove n è un numero intero naturale diverso da zero.

Sebbene questa descrizione abbia permesso di interpretare fenomeni importanti come lo


spettro di emissione del corpo nero e la stabilità dell’atomo d’idrogeno, essa appare
insoddisfacente dal punto di vista concettuale perché non chiarisce del tutto a quale entità
fisica sia riferibile la quantità ℎ𝜈. Che cosa vuol dire che l’energia si trasferisce in ‘pacchetti’ (o
altre fantasiose rappresentazioni)? La risposta venne dal lavoro di Einstein sull’interpretazione
dell’effetto fotoelettrico.

L’effetto fotoelettrico era un altro di quei fenomeni inspiegabili per la teoria classica pur
essendo molto semplice da descrivere. Quando la superficie di una lamina metallica è colpita
da un fascio di luce, si osserva l’emissione di elettroni che fuoriescono dal metallo generando
una corrente elettrica. Un’illustrazione di quest’effetto è riportata nella Figura 13.

44
Figura 13. Rappresentazione dell’effetto fotoelettrico: la lamina metallica illuminata dalla luce emette
una corrente di elettroni, ma solamente quando la luce incidente ha una frequenza 𝜈 superiore a una
frequenza minima di soglia 𝜈& .

Dove aveva origine la difficoltà della teoria dell’elettromagnetismo classico a spiegare


questo fenomeno? Il motivo era sempre lo stesso: la teoria classica prevedeva che l’energia
potesse essere scambiata da un corpo in modo continuo mentre quello che si osservava era che
i corpi assorbivano o emettevano energia in pacchetti discreti. Vediamo come questa differenza
concettuale si applica all’effetto fotoelettrico. Secondo la teoria classica, un elettrone nel
metallo può assorbire energia da tutte le onde luminose di qualsiasi frequenza e lunghezza
d’onda semplicemente perché esse trasportano energia e questa energia può essere ceduta in
modo continuo e, quindi, in qualsiasi quantità. Anche un’onda di bassa frequenza, e che di
conseguenza trasporta un’energia inferiore rispetto a un’onda ad alta frequenza, potrebbe
fornire l’energia sufficiente all’elettrone per sfuggire dalla superficie del metallo. Infatti,
basterebbe illuminare più a lungo la lamina metallica con un’onda a bassa frequenza per
fornire la stessa energia che si depositerebbe usando un’onda a frequenza più elevata per un
tempo d’irraggiamento minore. Invece, questo non accade: solo quando l’onda incidente
possiede una frequenza superiore a una frequenza minima (chiamata frequenza di soglia, 𝜈) ),
avviene l’emissione di elettroni dalla superficie metallica. A frequenze inferiori a 𝜈) , non si
genera nessuna corrente elettronica qualunque sia l’intensità dell’onda incidente e il tempo
d’irraggiamento. E’ la stessa situazione osservata per il corpo nero: solo raggiungendo una
determinata temperatura avviene il cambio di colore del corpo riscaldato, mentre a
temperature inferiori il colore resta invariato anche continuando a riscaldare e, quindi, a
fornire energia. Se si volesse utilizzare una rappresentazione quotidiana, è come se l’acqua non
fluisse da un rubinetto in modo continuo, aumentando continuamente il flusso a ogni pur
piccola rotazione della ghiera, ma potesse uscire solo quando la ghiera ha compiuto ben
precise rotazioni (che quindi possono essere ‘contate’ con un numero intero).

Per spiegare lo spettro del corpo nero è stato necessario ammettere che gli elettroni
nell’atomo potessero ruotare attorno al nucleo solo su orbite discrete (atomo di Bohr). Basta
allora utilizzare la stessa ipotesi per spiegare l’effetto fotoelettrico? Non è sufficiente perché
serve qualcosa in più per capire bene fino in fondo il fenomeno e questa comprensione deve
necessariamente mettere in discussione la natura continua delle onde luminose. Questo
problema è già stato accennato quando si è parlato della natura del calore. In quel caso, si era
detto che se il calore fosse stato interpretato come un mezzo continuo, allora sarebbe stato
necessario ammettere che, durante il trasferimento dell’energia a un elettrone quantistico, esso

45
avrebbe dovuto formare grumi discreti di energia rompendo in questo modo la sua continuità e
diventando anch’esso un’entità quantistica. Ebbene, le stesse considerazioni possono essere
fatte per la luce. Per quanto se ne sapeva ai tempi di Einstein, la luce era rappresentata come
un’entità continua. Allora, com’era possibile che un flusso continuo di energia potesse
permettere agli elettroni del metallo, che ruotano su orbite discrete, di assorbire l’energia
necessaria per saltare nell’orbita più esterna e, in questo modo, fuoriuscire dalla superficie
metallica se gli elettroni assorbono l’energia solamente se essa è sufficiente a compiere la
transizione all’orbita superiore? Se l’energia fosse fornita in modo continuo, allora sarebbe
necessario che essa fosse accumulata in qualche modo fino a raggiungere il valore richiesto e
poi trasferita all’elettrone per fare il salto. La situazione sarebbe esattamente analoga a quella
di dover utilizzare dei secchi per spegnere alcuni fuochi che hanno incendiato dei piccoli
mucchi di paglia. Bisogna attendere che il secchio sia pieno per poi versarlo sul fuoco se si
vuole sperare di spegnerlo in un sol colpo. Allora, in quale secchiello andava a concentrarsi la
luce prima di essere assorbita dall’elettrone? Non serviva inventarsi alcun contenitore ideale
perché bastava supporre che la luce non fosse fatta di onde continue, ma di particelle discrete.
Questo è stato proprio il ragionamento seguito da Einstein per spiegare l’effetto fotoelettrico.
Einstein chiamò queste particelle fotoni. Un fotone era una particella priva di massa, ma con
un’energia uguale a 𝜖 = ℎ𝜈 . Evidentemente, Einstein inventò quest’ultima equazione
ispirandosi all’ipotesi di Planck, ma nello stesso tempo forniva un’interpretazione di quale
entità fisica realmente fosse il vago concetto di quanto d’azione. Esso non era altro che una
particella di luce. E’ interessante ricordare che fu Newton il primo a proporre che la luce fosse
fatta di corpuscoli, ma quest’ipotesi fu poi scartata con l’avvento della teoria elettromagnetica.

Utilizzando l’idea di fotone, l’effetto fotoelettrico è presto spiegato. Si prenda l’atomo di


Bohr come modello della struttura atomica. Allora, bisogna pensare che, per fuoriuscire dalla
superficie metallica, l’elettrone debba saltare su orbite sempre più elevate in energia (e lontane
dal nucleo) fino a che l’attrazione nucleare sarebbe così debole da permettere all’elettrone di
liberarsi nello spazio circostante. La relazione che descrive la differenza fra l’energia di due
orbite quantistiche è stata calcolata in precedenza ed è riportata in basso:

𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 1 1


𝐸1" − 𝐸1# = Δ𝐸 = ] − ^ = ℎ𝜈
2ℏ' 𝑛4 ' 𝑛3 '

Se il salto elettronico avviene fra un’orbita interna, indicata con il numero quantico 𝑛* ,
all’orbita più esterna, indicata con il numero quantico 𝑛+ , l’equazione diventa:

𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 1 1


𝐸1' − 𝐸1( = ] − ^ = ℎ𝜈0
2ℏ' 𝑛9 ' 𝑛: '

Ne deriva che l’energia ℎ𝜈) è l’energia minima necessaria per far uscire un elettrone dalla
lamina metallica quando è irraggiato da onde luminose. A questo punto, sulla base dell’ipotesi
del fotone di Einstein, un fascio di fotoni di energia uguale a 𝜖 = ℎ𝜈) deve colpire la superficie
della lastra metallica per permettere all’elettrone di volare fuori dal metallo. Quindi, solamente
radiazioni luminose con una frequenza almeno uguale a 𝜈) potranno dare luogo all’effetto
fotoelettrico. Se il fotone della radiazione luminosa che illumina la lastra metallica possiede
un’energia superiore a ℎ𝜈) (𝜈 > 𝜈) ), allora l’energia in eccesso sarà trasformata in energia
(
cinetica (, 𝑚𝑉 , ) dell’elettrone che emerge dalla superficie e che è data dalla relazione:

46
1
𝑚𝑉 ' = ℎ𝜈 − ℎ𝜈0
2
Questo è il risultato più importante dell’ipotesi di Einstein perché rende conto
perfettamente della variazione dell’energia cinetica dell’elettrone che esce dalla lastra metallica.
In Figura 14 è riportato il confronto fra il diagramma previsto dalla teoria classica (che
prevede che l’emissione di elettroni avvenga a tutte le frequenze possibili a partire da zero), e la
osservazione sperimentale che mostra come l’emissione di elettroni avvenga solo quando è
raggiunta una particolare frequenza di soglia, 𝜈) . Il diagramma che rappresenta la relazione di
Einstein mostra lo stesso andamento della retta sperimentale come mostrato in Figura 14. La
quantità ℎ𝜈) = Φ) è chiamata potenziale d’estrazione e il suo valore è caratteristico del metallo
considerato.

Figura 14. La retta in rosso rappresenta la variazione sperimentale dell’energia cinetica degli elettroni
emessi dalla lamina metallica e coincide con il diagramma della relazione di Einstein che è anch’essa
rappresentata da una retta di pendenza h e intersezione con l’asse delle ordinate uguale a ℎ𝜈& .

3.4.6. L’ipotesi di De Broglie

L’idea del fotone di Einstein ha permesso di spiegare in modo semplice e chiaro il


fenomeno dell’effetto fotoelettrico. Tuttavia, Einstein non colse appieno le conseguenze della
sua ipotesi che, invece, non sfuggirono a Louis De Broglie, uno scienziato francese che diede
origine alla vera e propria rivoluzione della fisica quantistica. Ancora una volta, il
ragionamento di De Broglie è molto semplice.

In accordo con la descrizione classica, la luce è un’onda elettromagnetica che mostra tutte
le caratteristiche fondamentali del comportamento ondulatorio. Però, l’effetto fotoelettrico ha
rivelato che un raggio di luce deve essere pensato come composto di particelle discrete prive di
massa chiamate fotoni. Questo conduce alla conclusione paradossale che queste entità
elementari possono comportarsi sia come onde, sia come particelle. Dal punto di vista classico,
questa affermazione violava alle fondamenta la convinzione universalmente accettata che le
onde fossero entità completamente distinte dalle particelle. Tuttavia, De Broglie non solo
accettò questa conclusione, ma la condusse alle sue estreme conseguenze. Infatti, se ciò che
appariva come un’onda era in realtà anche una particella, allora poteva accadere anche il
contrario e cioè che un’entità riconosciuta essere una particella fosse in realtà anche un’onda.
Allora, De Broglie trovò il coraggio di proporre un’ipotesi rivoluzionaria: l’elettrone, che è una

47
particella, deve comportarsi anche come un’onda. La lunghezza dell’onda associata
all’elettrone è espressa dalla relazione:

ℎ ℎ
𝜆= =
𝑝 𝑚𝑉

dove p è il momento lineare dell’elettrone che è dato dal prodotto della massa della particella
con la sua velocità, mV. E’ importante far notare come l’equazione proposta da De Broglie
mescoli grandezze fisiche che, nella teoria classica, erano nettamente distinte come il momento
lineare p e la lunghezza d’onda 𝜆.

Quando si formula una nuova ipotesi, il metodo scientifico richiede sempre che essa sia
dimostrata sperimentalmente. La conferma che gli elettroni mostrano un comportamento
ondulatorio, fu ottenuta attraverso l’esperimento di Davisson e Germer. Questi due scienziati
cercarono di verificare se fasci di elettroni, fatti passare attraverso un reticolo di diffrazione,
potevano dare origine al fenomeno dell’interferenza tipico delle onde (si rilegga il paragrafo
3.4.1). Poiché la lunghezza d’onda associata a un elettrone è molto piccola (inferiore al
miliardesimo di metro), i due scienziati furono costretti a scegliere una soluzione non
convenzionale per costruire un reticolo di diffrazione adatto per le onde elettroniche. E’
opportuno ricordare che la diffrazione delle onde avviene solo quando esse attraversano una
barriera in cui le fenditure hanno una larghezza dell’ordine della lunghezza d’onda. Per
ottenere la diffrazione e l’interferenza degli elettroni era, quindi, necessario trovare un reticolo
in cui le fenditure avessero una larghezza di qualche miliardesimo di metro. L’unica soluzione
possibile fu quella di utilizzare un cristallo di una sostanza in cui la distanza fra gli atomi che
formano il cristallo fosse dell’ordine di grandezza richiesto. A questo scopo, nell’esperimento
di Davisson e Germer fu utilizzato un cristallo di cloruro di nichel su cui fu fatto passare un
fascio di elettroni. Il fascio incidente, attraversando il cristallo, produsse fasci secondari che
emergendo dal cristallo diedero origine al fenomeno dell’interferenza. Poiché il cristallo di
cloruro di nichel ha una simmetria quasi sferica, le bande d’interferenza hanno l’aspetto
circolare illustrato in Figura 15. I cerchi concentrici più chiari prodotti sulla pellicola del
rivelatore dall’impatto delle onde elettroniche, separati da zone più scure, mostrano con
certezza che gli elettroni possono interferire tra loro come le onde classiche.

Figura 15. (Destra) Spettro d diffrazione di elettroni che hanno attraversato un cristallo di cloruro di
nichel. La disposizione circolare delle bande d’interferenza è il risultato della simmetria ottagonale del

48
cristallo. (Sinistra) Se gli elettroni fanno parte di un fascio planare, le bande di interferenza elettronica si
dispongono come linee verticali.

La conferma sperimentale che l’ipotesi di De Broglie era corretta e che, dunque, i


componenti elementari della materia mostravano un comportamento sorprendente in cui le
proprietà corpuscolari coesistevano con quelle ondulatorie, obbligò a riconsiderare concetti
fisici che si credevano ben consolidati. In particolare, è apparso subito molto arduo tentare di
capire che cosa fosse realmente un’entità fisica che possedeva sia proprietà ondulatorie sia
corpuscolari. Il fatto ancora più sorprendente è che, in seguito, è stato dimostrato che questo
comportamento non è ristretto alle particelle elementari come l’elettrone, il protone e il fotone,
ma i fenomeni della diffrazione e interferenza si potevano ottenere anche con gli atomi e le
molecole. Occorre rilevare che questa discussione sulla natura intrinseca degli enti che
compongono la materia non è ancora terminata e, utilizzando una frase del fisico Richard
Feynman, si può sicuramente affermare che oggi nessuno capisce veramente quale sia il reale
significato fisico della meccanica quantistica.

Tuttavia, utilizzando la descrizione ondulatoria dell’elettrone era possibile rispondere a


domande che restavano ancora senza risposta. Ad esempio, perché esistevano le orbite discrete
dell’atomo di Bohr? Nel modello atomico, queste orbite erano ricavate introducendo un’ipotesi
arbitraria, e cioè che il momento angolare dell’elettrone che ruota attorno al nucleo potesse
variare solo per multipli interi della quantità ℎ/2𝜋 . Rappresentando un elettrone come
un’onda, l’esistenza di livelli discreti discende come una conseguenza naturale. La
dimostrazione ancora una volta è molto semplice. Si prenda una corda e la si faccia oscillare
fra due punti fissi (ad esempio, come la corda di una chitarra). Ebbene, la distanza che separa i
due punti fissi può contenere solo un numero intero di lunghezze d’onda. Se ciò non fosse,
l’onda interferirebbe con sé stessa cancellandosi. In altre parole, l’onda deve partire dal punto
iniziale e arrivare a quello finale con la stessa fase. Se invece di un percorso rettilineo, l’onda
percorresse una circonferenza, la conclusione non cambia. Come mostrato in Figura 16,
all’interno della circonferenza deve essere presente un numero intero di lunghezze d’onda per
evitare l’interferenza distruttiva. Però, se questo accade e l’elettrone è davvero un’onda, allora
deve esistere solo un numero discreto di orbite possibili per l’elettrone, quelle appunto che
contengono un numero intero di lunghezze d’onda. Le orbite discrete di Bohr sono, quindi,
una semplice conseguenza della natura ondulatoria dell’elettrone.

49
Figura 16. (In alto) Una corda oscillante fra due punti di sostegno può contenere solo un numero intero di
lunghezze d’onda. (In basso) L’onda elettronica può percorre un’orbita circolare attorno al nucleo
atomico solo se la lunghezza dell’orbita contiene un numero intero di lunghezze d’onda.

3.5. Come funziona la meccanica quantistica?

Gli esperimenti di diffrazione e interferenza elettronica sono facilmente interpretabili se gli


elettroni sono descritti come onde, ma diventano quasi inspiegabili se gli elettroni sono
considerati delle particelle. E’ allora lecito chiedersi, gli elettroni sono davvero delle particelle?
La risposta è sicuramente affermativa poiché esistono prove sperimentali inoppugnabili che gli
elettroni si comportano come corpuscoli. Ad esempio, se si osserva con un microscopio la
pellicola su cui è registrato uno spettro di diffrazione elettronica (Figura 15), si scopre che le
zone più chiare, dove le onde elettroniche hanno prodotto un’interferenza costruttiva, sono in
realtà formate dalla sovrapposizione di un numero enorme di piccoli punti generati
dall’impatto di particelle infinitesime quali sono appunto gli elettroni. In altre parole, quando
gli elettroni giungono allo schermo rivelatore, essi si depositano nelle aree corrispondenti alle
bande d’interferenza costruttiva come semplici corpuscoli indivisibili. Quello che non si riesce
a descrivere con un modello fisico semplice e intuitivo è la causa per la quale le particelle si
depositano preferibilmente solo in alcune zone dello schermo rivelatore e non in altre. In
particolare, è naturale prevedere che quando s’invia un fascio di particelle classiche (ad
esempio, delle palline di plastica) su una barriera che contiene due fenditure, esse tendono a
colpire lo schermo posto oltre la barriera proprio in corrispondenza delle due fenditure
semplicemente perché la traiettoria delle palline passa obbligatoriamente per queste due
aperture. Insomma, quello che si dovrebbe osservare con dei corpuscoli è la presenza sullo
schermo di due sole bande allineate con le fenditure. Al contrario, questa previsione appare
completamente sbagliata quando si utilizzano particelle quantistiche come gli elettroni o
singoli atomi. Infatti, queste entità si distribuiscono solo in regioni ben definite dello schermo
rivelatore (in particolare, il maggior numero di particelle quantistiche va a depositarsi nella
regione centrale dello schermo che si trova esattamente a metà strada fra le due fenditure), che
però non hanno nessuna ovvia relazione classica con la posizione delle due fenditure, ma
corrispondono sorprendentemente alle frange d’interferenza che si otterrebbero se le particelle
quantistiche fossero semplicemente descritte come onde (Figura 17).

50
Figura 17. Illustrazione dell’esperimento di diffrazione con due fenditure eseguito con onde classiche (a
destra) e con particelle quantistiche (a sinistra). Il risultato finale è analogo perché in entrambi i casi si
formano frange d’interferenza. Le particelle si accumulano solamente nelle regioni luminose dello
schermo che coincidono con le bande d’interferenza che si osservano con le onde classiche. Quale sia il
percorso seguito dalle particelle che attraversano le fenditure per dare origine allo spettro d’interferenza
resta uno dei misteri irrisolti della scienza.

Sebbene la discussione approfondita di queste problematiche esuli dagli scopi della


presente trattazione, è importante notare che non esiste un’interpretazione della meccanica
quantistica universalmente accettata e che, quindi, la profonda natura fisica dell’interferenza
quantistica resta ancora misteriosa. Allora, come si fa a utilizzare la meccanica quantistica per
descrivere la struttura degli atomi con più di un elettrone, che la teoria di Bohr non riusciva
compiutamente a spiegare? La teoria funziona nel modo seguente.

A ogni sistema quantistico è attribuita un’entità matematica che è chiamata funzione d’onda
(o vettore di stato anche se questo formalismo matematico non sarà utilizzato nella presente
trattazione). La funzione d’onda non ha alcun significato fisico, ma è solo uno strumento
matematico che serve a descrivere una quantità fisica indicata con il nome di osservabile. In
generale, si suppone che la funzione d’onda sia la più generale possibile e, quindi, possa
assumere valori complessi (cioè multipli dell’unità complessa, √−1 = 𝑖). Essa dipende dalle
coordinate spaziali x, y e z e dal tempo t ed è rappresentata dal simbolo:

𝜓(𝑥, 𝑦, 𝑧, 𝑡 ) ≡ 𝜓(𝒓, 𝑡)

Sebbene la funzione 𝜓 non abbia alcun significato fisico, essa è legata alla grandezza fisica
che rappresenta nel modo seguente. Il valore del quadrato del modulo della funzione d’onda
rappresenta la probabilità che la grandezza fisica in questione assuma determinati valori reali
che sono indicati con il nome di autovalori. Occorre ricordare che il quadrato di un quantità
complessa è sempre un numero reale che, però, può anche assumere un valore negativo.
Poiché, per definizione, la probabilità è sempre un numero positivo o nullo, allora è necessario
utilizzare il modulo del quadrato della funzione d’onda per poter attribuire ad esso un

51
significato probabilistico. La probabilità che la grandezza fisica associata alla funzione d’onda
𝜓 assuma il valore a è espressa da:

𝑃4 (𝒓, 𝑡) = |𝜓 ∗ (𝒓, 𝑡)𝜓(𝒓, 𝑡)| = |𝜓(𝒓, 𝑡)|'

dove 𝜓 ∗ (𝒓, 𝑡) è la funzione complessa coniugata di 𝜓(𝒓, 𝑡).

Fin qui, si tratta di definizioni. Com’è possibile conoscere la funzione d’onda 𝜓(𝒓, 𝑡)? Il
metodo che viene di solito seguito non è molto diverso da quello utilizzato in meccanica
classica (non si inventa mai niente di nuovo e solamente la natura indica quale strada
prendere) ed è brevemente riassunto nel seguito.

In meccanica classica, l’equazione fondamentale che descrive ogni sistema fisico è data
dall’espressione della forza di Newton:

𝑑𝑉(𝒓, 𝑡) 𝑑𝑝(𝒓, 𝑡)
𝐹 = 𝑚𝑎 = 𝑚 =
𝑑𝑡 𝑑𝑡
dove p è il momento lineare (mV) del corpo di massa m. Per determinare come si muove il
corpo occorre calcolare come varia nel tempo e nello spazio il momento lineare, 𝑝(𝒓, 𝑡), ma
per far questo è necessario conoscere l’espressione della forza F. Poiché Newton non spiegò
mai chiaramente che cosa fosse una forza, è sempre molto complicato immaginare la formula
più adatta al sistema che si vuole studiare. Tuttavia, è noto che la forza è in relazione con
l’energia potenziale U(r,t) attraverso l’equazione:

𝜕𝑈(𝒓, 𝑡 ) 𝜕𝑝(𝒓, 𝑡)
𝐹=− =
𝜕𝒓 𝜕𝑡
Ne discende che adesso il problema diventa quello di trovare un’espressione conveniente
per l’energia potenziale che, però, appare di solito come una questione molto più facile da
risolvere con un pizzico d’intuizione fisica e dei buoni dati sperimentali. Questa equazione può
essere generalizzata introducendo la funzione Hamiltoniana (dal nome del fisico e matematico
irlandese William Hamilton), 𝐻(𝒓, 𝑡), che rappresenta l’energia totale (cinetica e potenziale) del
corpo in movimento:

𝜕𝐻 (𝒓, 𝑡) 𝜕𝑝(𝒓, 𝑡)
− =
𝜕𝒓 𝜕𝑡
In meccanica quantistica si segue lo stesso procedimento. L’equazione fondamentale è
simile a quella scritta in alto per la meccanica classica (la sua derivazione non rientra negli
scopi della presente trattazione) ed è riportata nel seguito:

𝜕𝜓(𝒓, 𝑡 )
𝑖ℏ l 𝜓(𝒓, 𝑡)
=𝐻
𝜕𝑡
Il termine 𝐻 Q rappresenta ancora l’energia totale, ma è più propriamente chiamato
l’operatore Hamiltoniano del sistema. Questa terminologia riflette la differenza fondamentale
esistente fra la funzione Hamiltoniana classica e l’operatore Hamiltoniano quantistico. Infatti,
mentre la prima non è altro che una funzione continua delle coordinate e del tempo, il secondo

52
è una matrice con n righe e n colonne, dove le quantità che si trovano sulla diagonale
principale rappresentano i valori dell’energia totale dei possibili stati del sistema. Naturalmente,
un’altra differenza sostanziale con l’equazione classica sta nel fatto che l’espressione
quantistica contiene 𝜓 che è proprio la funzione che si vuole determinare. In conclusione, per
derivare la funzione 𝜓 occorre prima di tutto trovare l’espressione più adatta dell’operatore 𝐻 Qe
poi risolvere l’equazione quantistica. Una volta ottenuta la funzione d’onda 𝜓, il calcolo del
suo quadrato permetterà di conoscere la probabilità che il sistema quantistico si trovi in uno
degli stati possibili dell’energia totale.

3.5.1. Il principio di sovrapposizione

Nei testi introduttivi sulla meccanica quantistica, di solito si segue un percorso storico che
porta ad introdurre vari principi, come il principio di indeterminazione di Heisemberg, nel
tentativo di fornire al lettore un’interpretazione la più possibile ‘intuitiva’ dello strano
comportamento dei sistemi quantistici. Ad esempio, il principio d’indeterminazione è
normalmente utilizzato per mostrare che non è possibile misurare due grandezze quantistiche
simultaneamente (ad esempio, la posizione e il momento lineare di una particella) perché la
misura esatta dell’una ‘disturba’ quella dell’altra fino a generare un’incertezza nel suo valore.
Questa incertezza si calcola, appunto, con la formula ricavata dal principio
d’indeterminazione (nel caso della posizione x e del momento p, la formula si scrive ∆𝑥∆𝑝 =
ℏ/2 ). Questa impostazione sembra suggerire che l’atto della misura produca sempre un
‘disturbo’ delle proprietà di un sistema di dimensioni infinitesime come quelle di un atomo che,
di conseguenza, impedisce di rivelarne simultaneamente tutte le sue proprietà. Allora, quello che
è stato da sempre divulgato come il dualismo onda-particella, ossia la strana coesistenza di
proprietà corpuscolari e ondulatorie sulla stessa particella, altro non sarebbe che il risultato di
questa indeterminazione. In poche parole, quando si conduce un esperimento che tenta di
rivelare le proprietà corpuscolari di una particella quantistica, si genera un’incertezza che
‘nasconde’ le sue caratteristiche ondulatorie e viceversa. Purtroppo, questa interpretazione non
tiene conto del fatto che è possibile condurre esperimenti di misura della posizione di una
particella quantistica senza, in nessun modo, disturbarne il comportamento. Inoltre, un gran
numero di grandezze fisiche, che caratterizzano il moto di una particella, si possono misurate
simultaneamente senza alcun problema (ad esempio, si può misurare simultaneamente l’energia
e la quantità di moto, l’energia e il momento angolare, l’energia e la posizione).

In realtà, la misteriosa essenza della meccanica quantistica non è espressa dal principio
d’indeterminazione (che, come ricordato, non vale in tutte le situazioni) bensì da quello che va
sotto il nome di principio di sovrapposizione. Esso è formulato nel modo seguente: quando un
sistema quantistico può esistere in molti stati equivalenti (cioè indistinguibili fra loro), esso si comporta
come se potesse esistere simultaneamente in tutti questi stati. Nel momento in cui, attraverso una
misura sperimentale, si compie un’osservazione dello stato del sistema, esso sarà
invariabilmente trovato solamente in uno di questi stati equivalenti. Le equazioni quantistiche
permettono di calcolare la probabilità che, in seguito a una misura sperimentale, il sistema si
trovi in uno stato particolare dell’insieme degli stati equivalenti. Per misurare
sperimentalmente questa probabilità, occorre condurre l’esperimento nel modo seguente: si
esegue la stessa misura n volte su n sistemi tutti uguali, registrando quante volte, Ni, il sistema è
osservato trovarsi nello stato iesimo appartenente all’insieme degli stati equivalenti. Allora, la
probabilità 𝑝(𝑖) = |𝜓* |, che il sistema esista nello stato iesimo e data dal rapporto Ni/n.
Quando il sistema non è osservato, esso si comporta come se esistesse simultaneamente in tutti
gli stati equivalenti. Lo stato totale del sistema, quando non è osservato, sarà rappresentato da
una funzione d’onda Ψ che è data dalla combinazione lineare di tutte le singole funzioni d’onda
ψi associate a ciascuno stato equivalente iesimo:
53
Ψ = n 𝑎9 𝜓9

dove i coefficienti 𝑎* sono costanti arbitrarie che tengono conto del contributo di ciascuna
funzione 𝜓* alla somma totale.

Si consideri il semplice esempio di un sistema quantistico che può esistere in due stati
equivalenti, 1 e 2. Se p(1) e p(2) sono le probabilità osservate di trovare il sistema nello stato 1
o 2, rispettivamente, allora la funzione d’onda totale sarà data dall’espressione:

Ψ = 𝑎5 𝜓5 + 𝑎' 𝜓'

La probabilità totale, P(1,2) (cioè la probabilità di trovare il sistema negli stati 1 e 2), sarà
data da:

𝑃(1,2) = |𝑎5 𝜓5 + 𝑎' 𝜓' |' = |𝑎5 𝜓5 |' + |𝑎' 𝜓' |' + 2𝑎5 𝑎' 𝜓5 𝜓'

Questo risultato mostra esattamente la differenza fra la probabilità classica e quella quantistica.
Infatti, se un sistema classico può esistere in due stati equivalenti, allora la probabilità totale
sarà data dalla somma delle probabilità che ha il sistema di trovarsi nei singoli stati (la
probabilità che il lancio di una moneta produca sia testa che croce, è data dalla somma della
probabilità che la moneta indichi croce e della probabilità che la moneta indichi testa). Invece,
la probabilità quantistica contiene, oltre alle probabilità individuali per i due stati |𝑎( 𝜓( |, e
|𝑎, 𝜓, |, ,anche il termine 2𝑎( 𝑎, 𝜓( 𝜓, che descrive l’interferenza che ha origine dalla proprietà
del sistema di esistere simultaneamente in entrambi gli stati in accordo con il principio di
sovrapposizione.

3.6. Le funzioni d’onda degli atomi idrogenoidi

Per gli scopi di questo corso, è assai importante conoscere le espressioni delle funzioni
d’onda dell’atomo d’idrogeno perché queste formule costituiscono il fondamento teorico per la
comprensione della struttura di tutti gli atomi degli elementi che sono presenti in natura o che
sono stati prodotti artificialmente. La teoria dell’atomo d’idrogeno, che è stata formulata sulla
base degli sviluppi inaspettati della meccanica quantistica e, in particolare, della scoperta che il
comportamento ondulatorio e quello corpuscolare sono aspetti intrinseci e inscindibili dei
sistemi quantistici, supera il modello di Bohr e ne estende la capacità di previsione delle
proprietà atomiche che era limitata alla descrizione di un singolo elettrone ruotante attorno al
nucleo. Si può affermare che il più grande risultato della meccanica quantistica sia stato
proprio quello di aver fornito un modello razionale per spiegare le proprietà chimiche degli
elementi che, come si vedrà nei capitoli successivi, si ripetono secondo una legge periodica e,
per questa ragione, sono raggruppati in quella che è nota come la Tabella Periodica degli
Elementi. L’applicazione della teoria quantistica all’interpretazione delle proprietà periodiche
degli elementi costituisce uno degli obiettivi più importanti del presente corso.

Nel seguito, non si cercherà di illustrare in dettaglio la procedura matematica che ha


permesso di calcolare esattamente le funzioni d’onda di un atomo idrogenoide (cioè formato da
un elettrone che orbita attorno a un nucleo che contiene Z protoni) e l’energia dei livelli
elettronici corrispondenti, ma se ne fornirà solo una descrizione riassuntiva, che però dovrebbe
permettere di capire lo sviluppo logico della teoria. Inoltre, le funzioni d’onda idrogenoidi

54
saranno descritte in dettaglio utilizzando la loro rappresentazione grafica in tre dimensioni,
che corrisponde alla figura geometrica che si ottiene riportando su un diagramma delle
coordinate spaziali il valore della funzione per ogni punto dello spazio.

Come già detto sopra, la descrizione quantistica di un sistema fisico deve sempre prendere
le mosse dall’equazione fondamentale:

𝜕𝜓(𝒓, 𝑡 )
𝑖ℏ l 𝜓(𝒓, 𝑡)
=𝐻
𝜕𝑡
L’espressione dell’operatore Hamiltoniano deve essere trovata utilizzando l’intuizione fisica e
matematica (procedura che prende il nome di metodo euristico, che sta semplicemente a
significare che non si tratta di un teorema matematico ma d’immaginazione creativa). Per un
elettrone che si muove nel campo di Z protoni, esso prende la forma:

ℏ' '
l=−
𝐻 ∇ + 𝑈(𝒓, 𝑡)
2𝑚
dove U(r,t) è l’energia potenziale dell’elettrone che si muove nel campo elettrico del nucleo (già
.! .! .!
utilizzata per l’atomo di Bohr) e ∇, = .' ! + ./ ! + .0 ! . La risoluzione di questa equazione
differenziale, nota come equazione di Schrödinger, è lunga e complessa, ma essa può essere
risolta esattamente per ottenere quelle che sono chiamate le funzioni d’onda elettroniche
dell’atomo d’idrogeno e le energie dei livelli elettronici. Per gli scopi di questa trattazione, è
conveniente discutere solamente il risultato finale.

La risoluzione mostra che, proprio a causa delle proprietà ondulatorie degli elettroni,
l’energia non può variare in modo continuo, ma solo per stati (livelli) discreti che sono indicati
con il simbolo En, dove n è un numero intero naturale. E’ sorprendente notare che, sebbene la
nuova teoria quantistica poggi su ipotesi completamente diverse (la sovrapposizione dei
concetti di onda e particella), essa fornisce la stessa espressione dell’energia di quella dedotta
nella teoria di Bohr che, quindi, ha la forma:

𝑚" 𝑘"' 𝑍 ' 𝑒 2 𝑚" 𝑍 ' 𝑒 2


𝐸1 = − = −
2𝑛' ℏ' 8𝜖0 𝑛' ℏ'
5
dove 𝑘" = .
2<=)

Le soluzioni dell’equazione hanno la seguente forma matematica:

𝜓(𝑥, 𝑦, 𝑧, 𝑡) = 𝜓1,?,7 (𝑥, 𝑦, 𝑧)𝑒 89@* A

Rappresentando le coordinate spaziali collettivamente con il vettore r, la funzione può anche


essere scritta come:
𝜓(𝒓, 𝑡) = 𝜓1,?,7 (𝒓)𝑒 89@* A

La funzione totale 𝜓(𝑥, 𝑦, 𝑧, 𝑡) ≡ 𝜓(𝒓) può essere scomposta in una funzione,


𝜓1,3,4 (𝑥, 𝑦, 𝑧) ≡ 𝜓1,3,4 (𝒓), che dipende solo dalle coordinate spaziali, e una semplice funzione

55
esponenziale, 𝑒 &*5# 6 , che dipende dal tempo e dall’energia totale. Naturalmente, la funzione
esponenziale 𝑒 &*5# 6 ha una forma nota e non richiede alcuna discussione. Invece, la funzione
𝜓1,3,4 (𝑥, 𝑦, 𝑧) deve essere descritta in dettaglio (il significato dei simboli n, l e m sarà spiegato
nei paragrafi successivi).

Quale significato fisico si può attribuire alle funzioni 𝜓(𝑥, 𝑦, 𝑧, 𝑡) e 𝜓1,3,4 (𝑥, 𝑦, 𝑧)? Si è già
detto che la funzione 𝜓 è un puro ente matematico privo di ogni significato fisico e che,
dunque, quello che si può interpretare in termini di probabilistici è il quadrato del modulo della
funzione d’onda |𝜓|, . In particolare, l’espressione |𝜓(𝑥, 𝑦, 𝑧, 𝑡)|, rappresenta la probabilità che
l’elettrone che ruota attorno al nucleo dell’atomo d’idrogeno abbia energia uguale a En al
,
tempo t. Ancora più interessante è l’interpretazione dell’espressione [𝜓1,3,4 (𝑥, 𝑦, 𝑧)[ . Essa
rappresenta la probabilità che l’elettrone occupi i punti dello spazio di coordinate (x, y, z) posti attorno
al nucleo al tempo t. Per questa ragione, essa è anche chiamata distribuzione di probabilità.
Immaginando di riportare in un diagramma i valori che assume la funzione in tutti i punti
dello spazio, si ottiene un grafico in quattro dimensioni che, tuttavia, può essere proiettato
lungo le tre dimensioni spaziali convenzionali dando origine a una figura solida geometrica.

Facciamo subito un esempio per chiarire meglio i concetti. Una delle soluzioni
dell’equazione quantomeccanica che descrive l’elettrone in un atomo idrogenoide è
rappresentata dalla semplice funzione:

𝑍 &/' 8B
𝜓500 (𝑥, 𝑦, 𝑧) = 𝜓500 (𝒓) = 2 p q 𝑒
𝑎0
78
dove 𝑎) è il raggio di Bohr e 𝜎 = 9 . Se si disegna il diagramma nello spazio del modulo del
$
quadrato di questa funzione, |𝜓()) (𝒓)|, , si ottiene il grafico riportato in Figura 18:

Figura 18. Diagramma nello spazio della funzione |𝜓(𝒓)+&& |, .

E’ importante notare che si otterrebbe un grafico del tutto simile se si diagrammasse la


funzione d’onda originale 𝜓()) (𝒓) , con l’unica differenza che la funzione |𝜓()) (𝒓)|, ha
ovviamente solo valori positivi, mentre la funzione 𝜓()) (𝒓) può assumere sia valori positivi
che negativi (nel seguito, queste due rappresentazioni saranno utilizzate in modo equivalente
senza creare confusione). Il grafico di Figura 18 mostra che la rappresentazione geometrica

56
della funzione nello spazio corrisponde a una sfera. I punti della regione sferica avvolgono il
nucleo che idealmente è situato all’origine delle coordinate (x = 0, y = 0, z = 0). Ogni punto di
cui è costituita la sfera è interpretato come il valore della probabilità, P(x,y,z) º P(r), che
l’elettrone, al tempo t, si trovi esattamente in quel punto dello spazio a una distanza r dal
nucleo. L’alone posto attorno alla sfera sta a indicare che, in realtà, la sfera non ha un volume
%&
&
finito, ma si estende fino all’infinito poiché la funzione 𝑐 contiene il termine 𝑒 &: = 𝑒 '$ , che
diminuisce progressivamente, ma si annulla solo all’infinito. Poiché è difficile disegnare in tre
dimensioni una funzione che si estende fino all’infinito, si preferisce rappresentarne solo quella
porzione che contiene circa 80% di tutto il volume (cioè 80% della probabilità elettronica
totale), e questa porzione è racchiusa nella figura da un contorno nero.

Che significato ha tutto questo? Dove sono finite le orbite di Bohr? E’ ancora possibile
parlare di una traiettoria che l’elettrone percorre attorno al nucleo? Che cosa vuol dire che
l’elettrone ha una probabilità finita di trovarsi in un punto qualsiasi dello spazio attorno al
nucleo? Dov’è l’elettrone realmente? Sebbene possa sembrare paradossale, la meccanica
quantistica risponde che non è mai possibile sapere esattamente dove si trova l’elettrone
quando si muove nel campo nucleare. Se si tentasse di farlo, si distruggerebbe irreversibilmente
il suo moto e, quindi, anche l’atomo di cui fa parte. Questa conclusione deriva
necessariamente dalla rappresentazione ondulatoria dell’elettrone. Se l’elettrone si comporta
come un’onda, allora vuol dire che nell’esperimento dell’interferenza di Davisson e Germer
non è possibile cercare di determinare esattamente quale percorso esso abbia seguito per
andare dal reticolo di diffrazione allo schermo del rivelatore perché, in questo modo, si
distruggerebbe irreversibilmente lo spettro d’interferenza. Questo fenomeno è ben noto per
tutte le onde. Infatti, se si proietta la luce di una lampadina su un foglio di carta annerito su cui
siano state fatte alcune incisioni, sul muro di fronte si potrà osservare la formazione di frange
d’interferenza (come già ricordato, righe luminose separate da zone oscure). Tuttavia, basta
frapporre un oggetto fra la lampadina e il foglio, oppure fra il foglio e il muro, che le frange
scompaiono. Insomma, quando si prova a ‘localizzare’ l’elettrone in un punto dello spazio, il
suo stato di moto è inesorabilmente perturbato e si perdono tutte le informazioni che si
riferiscono a esso. Ne discende che l’unica possibilità esistente è di determinare non la
posizione precisa dell’elettrone che ruota attorno al nucleo, ma la probabilità che esso si trovi in
un certo punto dello spazio. Una conseguenza inevitabile di questa interpretazione è che le
orbite circolari di Bohr non hanno più alcun significato fisico, semplicemente perché non
esistono e l’elettrone può occupare qualunque posizione dello spazio contenuta nella sfera di
Figura 18. Ancora più paradossale è osservare che, poiché la sfera è in realtà infinita, esiste
una probabilità piccola ma finita, che l’elettrone appartenente a un certo atomo possa trovarsi
a miliardi di miliardi di chilometri lontano dal nucleo. Insomma, le posizioni che l’elettrone
può occupare attorno al nucleo sono polverizzate in una nuvola di punti e, a ogni punto,
corrisponde un valore della probabilità che genera il grafico finale della funzione |𝜓|, . Le
rappresentazioni grafiche delle funzioni |𝜓|, sono chiamate orbitali (un nome che deriva dalla
deformazione del termine ‘orbita’) e costituiscono gli oggetti teorici indispensabili per spiegare
la struttura degli atomi di ciascun elemento.

E’ possibile usare rappresentazioni in due dimensioni della funzione d’onda che possono
contribuire a chiarire ulteriormente il significato attribuitole dalla teoria quantistica.
Utilizziamo sempre la funzione |𝜓()) (𝒓)|, . Facendo una sezione bidimensionale lungo il
piano xz della sfera che rappresenta la distribuzione della probabilità (Figura 18), si ottiene una
figura come quella riportata in Figura 19. La variazione graduale dei colori che si osserva
allontanandosi dal centro della circonferenza illustra la progressiva diminuzione della
probabilità di trovare l’elettrone all’aumentare della distanza dal nucleo.

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Figura 19. Sezione trasversale sul piano xz (il piano del foglio) della sfera tridimensionale corrispondente
al grafico della funzione |𝜓(𝒓)+&& |, . La variazione dei colori dal rosso al rosa pallido indica la
progressiva diminuzione della probabilità di trovare l’elettrone in quella regione di spazio.

Questo risultato appare ancora più evidente quando si riporta in grafico il valore di
|𝜓()) (𝒓)|, in funzione del raggio. Poiché la distribuzione di probabilità è isotropa nello spazio,
è sufficiente scegliere un raggio qualsiasi della sfera e riportare in grafico i valori assunti dalla
funzione |𝜓()) (𝒓)|, in ogni punto del raggio selezionato (scegliendo un altro raggio si
otterrebbe lo stesso risultato proprio perché la funzione |𝜓()) (𝒓)|, ha una simmetria sferica) .
Il grafico di quella che è chiamata distribuzione di probabilità lineare è mostrato in Figura 20.

Figura 20. Variazione della distribuzione di probabilità lineare per la funzione d’onda 𝜓+&& (𝒓) misurata
quando ci si muove su un raggio r qualsiasi che ha l’origine nel nucleo.

Ciò che appare paradossale osservando la Figura 20 è che il grafico mostra, senza alcun
dubbio, che l’elettrone ha una probabilità che tende all’infinito di trovarsi esattamente sul nucleo
(posto all’origine delle coordinate), mentre allontanandosi da esso la probabilità diminuisce
rapidamente. Tutto questo significa che gli sforzi fatti per spiegare la stabilità dell’atomo di
Rutherford erano destinati a fallire miseramente e che la meccanica quantistica nella sua
formulazione più generale non era in grado di spiegare perché l’elettrone in realtà non
precipita sul nucleo? Il rischio era reale, ma gli scienziati sono anche molto esperti a trovare
qualche scappatoia per salvare il loro duro lavoro. Allora qual è la via d’uscita? Una possibile
soluzione è illustrata nel seguito.

58
Si è detto che la funzione |𝜓()) (𝒓)|, è isotropa nello spazio. Questo implica che in tutti i
punti che si trovano sulla superficie di sfere concentriche con il centro sul nucleo (s’immagini a
qualcosa di simile a una cipolla), la probabilità di trovare l’elettrone ha lo stesso valore. La
Figura 21 mostra come varia l’area di queste superfici sferiche all’aumentare del raggio. Poiché
l’area superficiale (A) di una sfera dipende dal quadrato del raggio (𝐴 = 4𝜋𝑟 , ), l’andamento
della funzione segue quello di un ramo di parabola (Figura 21).

Figura 21. Variazione dell’area superficiale di sfere concentriche di raggio r.

Se adesso si moltiplicano le due funzioni |𝜓()) (𝒓)|, e 4𝜋𝑟 , , ciò che si osserva è che, per
ciascuna superfice sferica di raggio r, si ottiene un unico valore del prodotto |𝜓()) (𝒓)|, 4𝜋𝑟 ,
proprio perché la funzione |𝜓()) (𝒓)|, ha un unico valore su tutta la superficie. Riportando in
grafico questi prodotti al variare del raggio, si ottiene la funzione illustrata in Figura 22, che è
chiamata distribuzione di probabilità radiale. La funzione risultante è proprio quello che serve per
salvare la teoria. Infatti, essa presenta un massimo a una certa distanza r dal nucleo (che nel
caso dell’atomo d’idrogeno corrisponde esattamente e fortunatamente al valore del raggio di
Bohr, 𝑟 = 𝑎) ), mentre decresce rapidamente allontanandosi dal nucleo. Questo è il risultato
che ci si deve sempre attendere ogni volta che si moltiplicano fra loro una funzione crescente e
una decrescente: necessariamente si dovrà osservare che la funzione prodotto presenta un
massimo. In conclusione, il vantaggio di utilizzare la funzione prodotto è dovuto al fatto che la
presenza di questo massimo permette adesso di affermare che l’elettrone mostra la più alta
probabilità di trovarsi su quella circonferenza il cui raggio corrisponde appunto al massimo
della funzione (è utile ribadire che la funzione prodotto |𝜓()) (𝒓)|, 4𝜋𝑟 , non fornisce la
probabilità in un singolo punto, ma bensì quella di trovarsi in qualunque punto di una
superficie sferica di raggio r). Il fatto che per l’atomo d’idrogeno il raggio della superficie
sferica che corrisponde alla massima probabilità per l’elettrone fosse uguale al raggio di Bohr è
stato di molto conforto per gli scienziati perché, in questo modo, era salva la stabilità
dell’atomo di Rutherford e la teoria quantistica.

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Figure 22. Diagramma della distribuzione della probabilità radiale per la funzione d’onda 𝜓+&& (𝒓).

L’interpretazione del comportamento dell’elettrone proposta dalla meccanica quantistica


può sicuramente apparire insoddisfacente perché non risponde a domande fondamentali. Ad
esempio, l’elettrone e le altre entità atomiche e subatomiche, sono onde oppure particelle? Se
sono entrambe le cose, che significato fisico si può attribuire all’essere contemporaneamente
un’onda e una particella? E’ corretto ammettere che non sia possibile determinare esattamente
la posizione di una particella quantistica senza perturbarne irreversibilmente il moto? Allora,
che cos’è veramente il moto di una particella? Nessuno conosce le risposte a queste domande e
lo strano mescolamento delle proprietà corpuscolari e ondulatorie costituisce uno dei misteri
più profondi della scienza. Quello che si può fare è di stabilire alcune regole formali e ‘usare’ il
formalismo della meccanica quantistica senza pretendere di capirne l’essenza più profonda. E’
come usare un programma di calcolo senza sapere com’è stato costruito. Date le istruzioni in
entrata e note le operazioni da fare sulla tastiera, il programma fornirà il risultato finale. Allo
stato attuale, la meccanica quantistica è qualcosa di simile: una scatola teorica entro cui sono
immesse delle entità matematiche che si chiamano funzioni d’onda (o vettori di stato) e che, in
uscita, fornisce un valore dei parametri che descrivono il sistema come l’energia o il momento
angolare. In generale, non è possibile misurare simultaneamente sullo stesso sistema fisico
tutte le variabili che lo caratterizzano dal punto di vista classico come l’energia, la posizione, la
quantità di moto (mV) e la traiettoria nello spazio e nel tempo. Queste grandezze devono
essere misurate separatamente e poste in relazione solo in termini probabilistici.

3.6.1. Quanti sono gli orbitali di un atomo idrogenoide?

Nel paragrafo precedente è stata utilizzata la funzione 𝜓()) (𝒓) per illustrare
l’interpretazione fisica della funzione d’onda quantomeccanica. E’ giunto il momento di
chiedersi da dove proviene questa funzione e, in particolare, che cosa rappresentano gli indici
100. La risposta a questa domanda permetterà di chiarire il significato degli indici n, l e m, e di
determinare quante sono le funzioni d’onda per l’elettrone che si muove all’interno di un
atomo idrogenoide.

Come già detto in precedenza, la funzione d’onda che dipende solo dalle coordinate spaziali, e
che nel seguito sarà chiamata orbitale, ha la forma generale:

𝜓1,?,7 (𝑥, 𝑦, 𝑧) = 𝜓1,?,7 (𝒓)

Gli indici n, l e m sono chiamati numeri quantici e le loro relazioni definiscono sia il
numero, sia il tipo degli orbitali idrogenoidi. Il numero n è detto numero quantico principale ed è

60
collegato al valore dell’energia totale dell’elettrone (infatti, i livelli d’energia sono indicati con
il simbolo En). Il numero l è chiamato numero quantico angolare ed è in relazione con il valore
del momento angolare dell’elettrone che orbita attorno al nucleo (si rammenti la teoria di
Bohr). Infine, il numero m è conosciuto come numero quantico magnetico e determina i valori del
momento magnetico generato dalla rotazione dell’elettrone nell’atomo (una carica in
movimento circolare dà sempre origine a un campo magnetico). Le relazioni che legano i tre
numeri quantici sono le seguenti:

n = 1, 2, 3,…………..…….., ∞
l = 0, 1, 2, 3,………...…, n − 1
m = 0, ±1, ±2, ±3,……, ±l

Utilizzando queste relazioni è possibile costruire tutte le combinazioni fra i tre numeri
quantici e ciascuna combinazione corrisponde a un orbitale. In questo modo, è facile ottenere
quella che è nota come la distribuzione degli orbitali e dei livelli di energia di un atomo
idrogenoide (si rammenta che per atomo idrogenoide s’intende un sistema costituito da un solo
elettrone che si muove nel campo elettrico creato da Z protoni). E’ facile dimostrare che il
numero di orbitali atomici presenti in un livello di energia corrispondente al numero quantico
n è uguale a n2.

Il ragionamento è assai semplice. Naturalmente si parte dal valore più piccolo che può
assumere n che è esattamente uguale a 1. Se n = 1, allora l può solamente assumere il valore 0
perché, per un dato valore di n, esso al più può valere n − 1. Di conseguenza, m deve
anch’esso essere obbligatoriamente uguale a 0 perché, al più, può diventare uguale a ±l. La
combinazione risultante dei tre numeri quantici è 100, e questa è l’unica possibile quando n =
1. Ne discende che, in corrispondenza del primo e più basso livello di energia di un atomo
idrogenoide, l’elettrone può trovarsi in un unico stato con energia E1 cui è associata la
funzione d’onda 𝜓()) (𝒓) e la distribuzione di probabilità |𝜓()) (𝒓)|, . Nella letteratura
scientifica a questo orbitale è anche attribuito il simbolo 1s. Quindi, vale l’equivalenza 𝜓()) ≡
1𝑠. La forma spaziale di questo orbitale è stata ampiamente discussa nel paragrafo precedente.

Per il secondo livello di energia En, sono possibili le seguenti combinazioni. Poiché n = 2,
allora il numero quantico angolare può assumere i due valori l = 0 e l = 1. Di conseguenza, m
può essere uguale a m = 0 e m = ± 1. Le possibili combinazioni dei tre numeri quantici sono
dunque: 200, 210, 21+1 e 21−1. Ne discende che, quando il valore dell’energia totale è uguale
a E2, l’elettrone può esistere in quattro stati equivalenti che corrispondono alle funzioni d’onda
𝜓,)) , 𝜓,() , 𝜓,(;( e 𝜓,(&( . Questi stati sono definiti come stati degeneri. I grafici delle
distribuzioni di probabilità delle quattro funzioni d’onda sono riportanti in Figura 23. Come
già visto per l’orbitale 1s, esiste una nomenclatura parallela per indicare questi orbitali. In
particolare, si utilizza la seguente simbologia: 𝜓,)) ≡ 2𝑠, 𝜓,() ≡ 2𝑝' , 𝜓,(;( ≡ 2𝑝/ , 𝜓,(&( ≡
2𝑝0 . I colori nella Figura 23 stanno ad indicare che le funzioni d’onda originali hanno valori
sia positivi che negativi corrispondenti ai differenti colori.

61
Figura 23. Le quattro funzioni d’onda elettroniche associate al valore E2 corrispondente al secondo livello
d’energia di un atomo idrogenoide.

La forma dell’orbitale 2s è sferica come osservato per l’orbitale 1s. Questo suggerisce che
tutti gli orbitali caratterizzati da una combinazione di numeri quantici del tipo n00 hanno una
forma sferica. Gli orbitali di tipo p hanno una forma apparentemente curiosa. La regione dello
spazio dove è più alta la probabilità di trovare l’elettrone è suddivisa in due lobi che sono
distribuiti lungo gli assi coordinati e si uniscono in un punto che corrisponde alla posizione del
nucleo. Per questo si utilizzano le coordinate spaziali per indicare su quale asse si trova
l’orbitale p.

E’ opportuno spendere alcune parole per spiegare brevemente che cosa significa che
l’elettrone può esistere in quattro stati equivalenti (degeneri) nei quali esso possiede la stessa
energia? Questo è un altro dei misteri della meccanica quantistica. La teoria prevede che,
quando sono possibili differenti stati degeneri, l’elettrone possa trovarsi simultaneamente in
ciascuno di essi e che, quindi, non sia possibile stabilire quale stato sia occupato dalla particella.
Poiché gli stati sono perfettamente equivalenti dal punto di vista fisico, la meccanica
quantistica afferma che l’elettrone possa esistere in una sovrapposizione degli stati possibili.
Questa sovrapposizione non è altro che la combinazione lineare dei quattro stati Ψ = 𝑎𝜓,)) +
𝑏𝜓,() + 𝑐𝜓,(;( + 𝑑𝜓,(&( dove i coefficienti a, b, c e d sono uguali se gli stati sono
perfettamente equivalenti. Come al solito, questo concetto deriva dalla teoria ondulatoria.
Infatti, è noto che le onde si possono sovrapporre nello spazio (si rammenti il fenomeno
dell’interferenza) per dare origine a un’onda che, se l’interferenza è costruttiva, è la somma
delle onde costituenti. Resta misterioso come questa rappresentazione possa essere applicata
alle particelle. Quello che è sorprendente è che, quando si tenta di fare una misura
sperimentale per capire com’è fatto lo stato complessivo, la sovrapposizione scompare e la
particella precipita in uno degli stati equivalenti. Il fenomeno è analogo all’uso di un prisma
ottico che separa la luce bianca nei colori che la compongono. La differenza sostanziale è, però,
che i colori dell’iride si vedono tutti contemporaneamente mentre, nel caso dell’elettrone, esso
si troverà confinato in un unico stato fra quelli equivalenti. Questa caratteristica degli stati
quantistici equivalenti di dare origine a sovrapposizioni che creano nuovi stati è nota come
principio di sovrapposizione.

62
Per gli scopi del presente corso, è utile ricavare anche le funzioni d’onda corrispondenti al
terzo livello d’energia E3. Seguendo la stessa procedura è facile determinare le possibili
combinazioni quando n = 3:

𝜓&00 ; 𝜓&50 ; 𝜓&5C5 ; 𝜓&585 ; 𝜓&'0 ; 𝜓&'C' , ; 𝜓&'8' ; 𝜓&'C5 ; 𝜓&'85

Si ottengono nove orbitali equivalenti la cui forma spaziale è rappresentata in Figura 24.
Questi orbitali sono anche rappresentati dai seguenti simboli (si veda anche in Figura 24):
3𝑠, 3𝑝' , 3𝑝/ , 3𝑝0 , 3𝑑'/ , 3𝑑'0 , 3𝑑/0 , 3𝑑0 ! , 3𝑑' ! &/ ! . Gli orbitali di tipo d si distribuiscono sui vari
piani e sono, quindi, etichettati con due coordinate spaziali con l’eccezione dell’orbitale 3𝑑0 ! ,
che si sviluppa lungo l’asse z.

Figura 24. Rappresentazione grafica dei nove orbitali equivalenti associati al livello di energia E3.

Poiché n può assumere tutti i valori interi fino all’infinito, è evidente che gli orbitali
costituiscono un insieme infinito numerabile di funzioni d’onda. La procedura potrebbe,
quindi, continuare indefinitamente e il numero di orbitali associati a ciascun livello sarebbe
destinato a crescere esponenzialmente (ad esempio, per il livello di energia E4, sono possibili 16
orbitali di cui uno di tipo s, tre di tipo p, cinque di tipo d e sette di tipo f). Per gli scopi della
presente trattazione, la forma spaziale degli orbitali di tipo f non sarà discussa in dettaglio. In
Figura 25, è riportata in modo schematico la distribuzione dei livelli di energia dell’atomo
d’idrogeno (Z = 1) e il numero degli orbitali presenti in ciascun livello fino al quarto livello
63
quantico (gli orbitali sono indicati con un piccolo rettangolo colorato). E’ interessante notare la
grande differenza in energia che esiste fra il primo (E1) e il secondo (E2) livello. In condizioni
ambientali, l’unico elettrone dell’atomo d’idrogeno si trova nello stato descritto dall’orbitale 1s.
Per indicare la presenza di un elettrone nell’orbitale 1s di solito si usa il simbolo 1s1.

Figura 25. La distribuzione dei livelli d’energia e degli orbitali nell’atomo d’idrogeno fino al valore n = 4.

3.7. Gli atomi polielettronici

L’atomo d’idrogeno e gli atomi idrogenoidi costituiscono dei sistemi atomici semplici
poiché costituiti da un solo elettrone. Per questa ragione le funzioni d’onda corrispondenti
sono chiamate monoelettroniche. L’unica differenza fra l’atomo d’idrogeno e un atomo di tipo
idrogenoide è costituita dal numero di protoni (Z) nel nucleo che, per l’idrogeno, vale Z = 1,
mentre per i sistemi idrogenoidi Z > 1. L’effetto più marcato dell’aumento del numero di
protoni nel nucleo è solo quello di spostare i livelli di energia a valori più negativi (si ricordi
che l’energia totale è per convenzione negativa perché l’interazione protone-elettrone è
attrattiva) perché l’elettrone è soggetto a una forza attrattiva più grande. Tuttavia, la situazione
cambia radicalmente quando all’unico elettrone se ne aggiungono altri per formare un atomo
polielettronico. Il problema più importante che subito sorge quando sono presenti più elettroni
nell’atomo deriva dal fatto che l’equazione quantomeccanica fondamentale non è più
risolvibile esattamente perché occorre introdurre un termine aggiuntivo per descrivere
l’interazione elettrone-elettrone. La presenza di questo termine rende impossibile il calcolo
delle soluzioni dell’equazione con i metodi analitici convenzionali e bisogna ricorrere a
macchinose approssimazioni (che, però, vanno oltre gli scopi del presente corso). Nonostante
questa importante limitazione teorica, sorprendentemente il modello dell’atomo d’idrogeno
elaborato nei paragrafi precedenti, può essere ancora impiegato per descrivere gli atomi
polielettronici, seppur con alcuni aggiustamenti. Infatti, è possibile mostrare che il tipo e il
numero degli orbitali idrogenoidi ricavati per gli atomi monoelettronici possono ancora fornire
una descrizione qualitativa di quella che è nota come la configurazione elettronica degli elementi,
cioè di come gli elettroni si distribuiscono nei vari orbitali di un atomo. In conformità a questa

64
descrizione sarà possibile fornire una base razionale per interpretare la posizione dei vari
elementi all’interno della Tabella Periodica. Lo sviluppo di un modello razionale che descrive
le proprietà degli elementi chimici costituisce uno dei più importanti contributi (e forse l’unico)
della meccanica quantistica alla scienza chimica e uno dei trionfi della nuova teoria. Nel
seguito, saranno descritti gli aggiustamenti teorici che sono stati introdotti nel modello
dell’atomo idrogenoide per ottenere una rappresentazione compiuta della struttura degli atomi
polielettronici che costituiscono gli elementi.

3.7.1. Lo spin elettronico

Una delle modifiche più importanti che fu indispensabile introdurre nella descrizione del
comportamento quantomeccanico dell’elettrone è stata la scoperta dell’esistenza di un quarto
numero quantico da aggiungere ai tre già noti (n, l e m). Si è già visto che i tre numeri quantici
n, l e m sono associati alle grandezze fisiche energia totale, momento angolare e momento
magnetico dell’elettrone, rispettivamente. A quale grandezza era associato il nuovo numero
quantico? Ebbene, anch’esso rappresentava un momento magnetico (si rammenti, ancora una
volta, che una carica in movimento accelerato, oppure che si muove su una traiettoria chiusa,
genera sempre un campo magnetico che può essere rappresentato da un vettore) che, però, era
generato dalla rotazione intrinseca dell’elettrone attorno al suo asse, assumendo che l’elettrone
possa essere pensato come una sferetta rigida in rotazione su sé stesso. Questa semplice
descrizione si è rivelata in seguito non corretta, ma quando fu formulata l’ipotesi dell’esistenza
di quello che fu chiamato il momento angolare intrinseco o spin dell’elettrone, essa fu elaborata
esattamente in questi termini che, quindi, sono particolarmente utili per spiegare il concetto in
un corso introduttivo. S’immagini, dunque, l’elettrone come una pallina sferica che ruota su sé
stessa. Poiché esso possiede una carica elettrica, a questa rotazione (spin) deve essere associato
un campo magnetico che, appunto, è noto come momento magnetico intrinseco dell’elettrone
associato al momento angolare intrinseco o spin elettronico. La sorpresa fu, però, quella di
scoprire che, anche in questo caso, il sistema si comportava seguendo le regole quantistiche e
non classiche. In particolare, l’elettrone non può ruotare in tutti i modi previsti per una sfera
classica, bensì solo in due modi ben definiti che possono essere descritti come una rotazione in
senso orario e un’altra opposta, in senso antiorario. Allora, se indichiamo con il simbolo s lo
(
spin dell’elettrone, il numero quantico magnetico di spin, ms, può assumere i due valori 𝑚< = ± ,.
Non è possibile spiegare qui, in modo semplice, perché ms assuma valori seminteri. Tuttavia, è
opportuno citare una semplice regola quantomeccanica che afferma che, se un momento
angolare è associato al numero quantico j, allora, gli stati possibili per un sistema che è
descritto da quella grandezza sono esattamente uguali a: 𝑤 = 2𝑗 + 1 . Utilizzando questa
formula, è facile verificare che, se il sistema è costituito da due stati possibili, come per lo spin
(
elettronico (rotazione oraria e antioraria), necessariamente 𝑗 = ,. Naturalmente, questa regola
vale anche per gli stati atomici del momento angolare associati al numero quantico l. Infatti,
quando l = 0, w = 0 + 1 = 1, che corrisponde all’orbitale 1s. Se l = 1, w = (2×1) + 1 = 3
(𝑝' , 𝑝/ , 𝑝0 ).

L’esistenza dello spin elettronico, e del numero quantico magnetico associato, richiede
che la funzione d’onda debba essere descritta da quattro numeri quantici come segue:

𝜓1,?,7- ,7. (𝒓)

dove ml indica adesso il numero quantico che descrive il momento magnetico dell’elettrone
dovuto al suo moto attorno al nucleo per distinguerlo da ms che, invece, rappresenta il

65
momento magnetico dell’elettrone che ruota attorno al proprio asse. Poiché ms può assumere
solo due valori, ciò significa che, in realtà, la funzione d’onda è composta dalle due funzioni
seguenti:

𝜓 5 (𝒓)
1,?,7- ,C'
Ψ(𝑟) = s
𝜓1,?,7 ,85 (𝒓)
- '

La funzione totale Ψ(𝑟) è chiamata spinore e può essere interpretata come un vettore a
due componenti (ecco spiegato perché le funzioni d’onda sono anche chiamate vettori di stato).
Una maniera pittorica per rappresentare i due stati di spin dell’elettrone, è quella di usare una
freccia rivolta verso l’alto oppure verso il basso come illustrato di seguito e nella Figura 26:

1
𝑚D = + ≡ ↑
2
1
𝑚D = − ≡ ↓
2

Figura 26. Rappresentazione dei due stati di spin dell’elettrone generati dalla rotazione della particella attorno al
proprio asse. La carica in rotazione dà origine a un campo magnetico che è analogo a quello prodotto da una
calamita. Poiché l’elettrone può ruotare solo in verso orario o antiorario, il vettore del momento magnetico può
essere rivolto verso l’alto oppure verso il basso.

In parole semplici, l’elettrone in un atomo si comporta come una microscopica calamita


che, se posta in un campo magnetico esterno (ad esempio, quello generato da una normale
calamita) può orientarsi in modo parallelo (il polo nord dell’elettrone rivolto dalla stessa parte
del polo nord del campo magnetico esterno), oppure antiparallelo (il polo nord dell’elettrone
rivolto dalla parte opposta del campo magnetico esterno).

3.7.2. Il principio di esclusione

Se l’elettrone possiede la proprietà di ruotare su se stesso, anche se soltanto in due modi


possibili, nell’atomo d’idrogeno qual è il verso di rotazione dell’elettrone che si trova
nell’orbitale 1s? La risposta è sempre la stessa. Se non si cerca di misurare il momento

66
magnetico di spin, l’elettrone si comporta come se potesse simultaneamente esistere in
entrambi gli stati. Lo stato dell’elettrone può essere descritto come una combinazione lineare
delle due funzioni 𝜓1,3,4 ,;) e 𝜓1,3,4 ,&) . In particolare, nel suo stato a più bassa energia,
( ! ( !
l’elettrone sarà descritto dalla combinazione lineare Ψ = 𝜓());) + 𝜓())&) . La domanda
! !
successiva allora è: cosa succede quando si aggiunge un secondo elettrone? La risposta che
propone il modello idrogenoide è che i due elettroni vanno a occupare lo stesso orbitale, ma
con spin opposti. In altre parole, un elettrone sarà associato alla funzione 𝜓());) e l’altro alla
!
funzione 𝜓())&) . Per illustrare questa condizione si utilizzano varie simbologie come, ad
!
esempio,

1𝑠 ' oppure ÓÔ

e il linguaggio che è comunemente impiegato afferma che i due elettroni occupano lo stesso
orbitale con spin opposti (antiparalleli).

Naturalmente, il processo può continuare e, allora, bisogna chiedersi che cosa succede
quando si aggiunge il terzo elettrone. Dove va a finire? Per rispondere a questa domanda si è
dovuto inventare un nuovo principio che va sotto il nome di principio di esclusione (formulato da
Wolfgang Pauli quasi un secolo fa). Esso recita nel seguente modo: in un sistema atomico, non
possono esistere due o più elettroni che siano descritti dallo stesso insieme di numeri quantici. In altri
termini, in un atomo che possiede un numero di elettroni superiore a uno, ciascun elettrone
deve essere descritto da un insieme diverso dei quattro numeri quantici n, l, ml e ms. La
conseguenza pratica più importante di quest’affermazione è che in un orbitale atomico possono
esistere non più due elettroni con spin antiparallelo. Infatti, poiché ogni orbitale è sempre
identificato dai tre numeri quantici n, l e ml, per ospitare più elettroni, questi ultimi devono
necessariamente differire nel numero quantico di spin ms. Tuttavia, poiché per una particella
con spin semintero sono possibili solo due stati di spin, si giunge alla conclusione che in un
orbitale possono esistere solamente due elettroni con spin opposti.

3.7.3. La configurazione elettronica degli elementi

Questo principio è la chiave per riuscire nel tentativo di descrivere la configurazione


elettronica degli elementi sulla base del modello idrogenoide dell’atomo e, di conseguenza,
ottenere una spiegazione più razionale delle loro proprietà periodiche. Il procedimento che è
stato impiegato per la costruzione delle configurazioni elettroniche degli elementi contenuti
nella Tabella Periodica è chiamato metodo aufbau (termine derivato dal tedesco, in inglese
building-up, che significa appunto costruzione). Ecco come funziona.

Per descrivere la configurazione elettronica degli elementi più leggeri, è sufficiente


restringere la discussione ai primi tre livelli d’energia previsti per un atomo idrogenoide. Il
passaggio agli atomi più pesanti costituisce una semplice estensione della procedura. Il
modello idrogenoide prevede che ai primi tre livelli di energia E1, E2 e E3, siano associati i
seguenti orbitali:

𝐸5 = 1𝑠
𝐸' = 2𝑠, 2𝑝E , 2𝑝F , 2𝑝G
𝐸& = 3𝑠, 3𝑝E , 3𝑝F , 3𝑝G , 3𝑑EF , 3𝑑FG , 3𝑑EG , 3𝑑E$ 8F$ , 3𝑑G $

67
Adesso, cominciando dal livello di energia più basso, si aggiungono gli elettroni uno per
volta rispettando il principio di esclusione (e altre regole che saranno descritte durante
l’applicazione della procedura). Se si suppone di introdurre contemporaneamente un protone
nel nucleo per ogni elettrone aggiunto, allora si potrà ottenere la struttura di tutti gli atomi
degli elementi più leggeri. Cominciamo con i primi quattro atomi della Tabella Periodica,
Idrogeno (H), Elio (He), Litio (Li) e Berillio (Be).

𝐻 = 1𝑠5
𝐻𝑒 = 1𝑠 '

In accordo con il principio di esclusione, dopo l’atomo di He, non è più possibile
sistemare elettroni nel livello di energia E1 perché esso è associato a un solo orbitale. Nel
linguaggio chimico si dice che è stato completato il primo guscio quantico, che corrisponde anche
al completamento della prima riga della Tabella Periodica (primo periodo) dove, dunque, sono
presenti solamente due elementi. Il terzo e il quarto elettrone devono necessariamente essere
posti sugli orbitali del secondo livello di energia E2. In quale dei quattro orbitali associati a E2
essi andranno a collocarsi?

Nell’atomo d’idrogeno, questi orbitali hanno la stessa energia, ma questo risultato non
appare più corretto quando sono presenti molti elettroni. Infatti, come già accennato, occorre
sempre tenere conto della repulsione inter-elettronica dovuta alla loro carica negativa. Ebbene,
s’immagini di porre il terzo (o il quarto) elettrone nell’orbitale 2s. L’elettrone risentirà della
repulsione dovuta alla presenza dei due elettroni nell’orbitale a più bassa energia 1s. L’energia
potenziale generata dalla repulsione elettronica è proporzionale alla densità del campo elettrico
=
𝜀 nello spazio, che sarà espressa dal rapporto 𝜀/V = 𝜀 ∕ j>k 𝜋𝑟 > . Adesso, si supponga di porre
il terzo elettrone in un orbitale di tipo p. Anche se in modo qualitativo, è possibile
comprendere che il volume di un orbitale p è inferiore a quello di un orbitale sferico s. Ne
consegue che il valore del rapporto 𝜀 ∕ 𝑉 per un orbitale p è superiore a quello calcolato per un
orbitale s. In conclusione, l’energia potenziale dovuta alla repulsione di un elettrone che si
trova in un orbitale di tipo p è più grande di quella che lo stesso elettrone avrebbe se occupasse
un orbitale di tipo s. Allora, è possibile concludere che l’energia totale (cinetica + potenziale)
di un elettrone che si trova in un orbitale di tipo s, e che risente della repulsione di un guscio
sferico di elettroni sottostante, è inferiore di quella che lo stesso elettrone avrebbe se si trovasse
in un orbitale di tipo p. Insomma, in presenza della repulsione di un guscio di elettroni sferico,
gli orbitali di tipo p si trovano a un’energia più elevata di quelli di tipo s. Finalmente si può
rispondere al quesito inziale che si domandava dove porre il terzo elettrone: l’analisi
qualitativa ha mostrato che esso va a occupare l’orbitale 2s, poiché questo orbitale si trova a un
energia più bassa rispetto agli orbitali 2p che sono aumentati in energia a causa della
repulsione inter-elettronica. Si può, allora, scrivere:

𝐿𝑖 = 1𝑠 ' 2𝑠5
𝐵𝑒 = 1𝑠 ' 2𝑠 '

L’analisi qualitativa descritta sopra suggerisce che il risultato ottenuto abbia un valore
generale. Questo si può riassumere dicendo che negli atomi polielettronici l’energia dei livelli
elettronici non dipende solo dal numero quantico n, ma da una combinazione più complessa
dei numeri quantici n e l (la cui discussione non fa parte degli scopi della presente trattazione).
Il risultato porta, quindi, alla conclusione che gli orbitali con differente numero quantico l (si
rammenta che il numero quantico l determina il tipo di orbitale) non hanno la stessa energia

68
negli atomi polielettronici. Di conseguenza, il diagramma dell’energia degli orbitali atomici
per un atomo idrogenoide deve essere modificato come riportato in Figura 26:

Figura 27. Diagramma dei livelli energetici e degli orbitali in un atomo idrogenoide polielettronico.

Se si confronta il diagramma riportato in Figura 27 con quello di Figura 25, appare


evidente come, negli atomi polielettronici, l’energia degli orbitali idrogenoidi associati allo
stesso numero quantico principale n sia diversa mentre, nell’atomo d’idrogeno, essi hanno
rigorosamente la stessa energia. Come già ricordato, questo effetto è dovuto al fatto che,
quando nell’atomo è presente più di un elettrone, l’energia totale dipende da entrambi i numeri
quantici n e l.

A questo punto, è possibile continuare nella costruzione della configurazione elettronica


degli atomi considerando gli elementi successivi al Berillio che sono il Boro (B), il Carbonio
(C), l’Azoto (N), l’Ossigeno (O) e il Fluoro (F). Il Boro ha cinque elettroni (Z = 5) e,
applicando i metodi e principi descritti in precedenza, la sua configurazione elettronica è la
seguente:

𝐵 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝5

Come si può verificare dal diagramma in Figura 27, i tre orbitali 2p sono degeneri (hanno
cioè la stessa energia) e, di nuovo, non è possibile stabilire in quale di essi si trovi l’ultimo
69
elettrone dell’atomo di Boro. In realtà, esso è descritto da una combinazione lineare dei tre
orbitali (𝑝' + 𝑝/ + 𝑝0 ), ma questo dettaglio non cambia il risultato finale. Invece, una nuova
domanda sorge quando si passa all’elemento successivo Carbonio che possiede sei elettroni in
totale (Z = 6). Il problema è, allora, dove si sistema il sesto elettrone poiché esistono due
possibilità: esso si dispone con spin antiparallelo nello stesso orbitale p, dove già si trova il
quinto elettrone, oppure entra in un altro dei tre orbitali p. La possibilità scelta dalla natura è la
seconda e, per questo, è stata formulata come una nuova regola che recita: quando in un atomo
esiste un numero di orbitali degeneri superiore al numero di elettroni, questi si dispongono in ciascun
orbitale libero uno per volta con spin parallelo fino a esaurire gli orbitali disponibili (regola di Hund).
L’uso di questa regola permette, allora, di stabilire che la configurazione elettronica del
carbonio è la seguente:

𝐶 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝E5 2𝑝F5

Naturalmente, la scelta degli indici x, y e z per gli orbitali p è del tutto arbitraria, per cui
anche le configurazioni mostrate in basso sono teoricamente accettabili:

𝐶 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝E5 2𝑝G5

𝐶 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝F5 2𝑝G5

Dal punto di vista grafico, nella letteratura scientifica si usa anche la rappresentazione
riportata in basso.

Ó Ó
2p
ÓÔ
2s
ÓÔ
1s

Dopo l’atomo di C si giunge a quello d’azoto (N), che possiede sette elettroni e la cui
configurazione elettronica è:

𝑁 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝E5 2𝑝F5 2𝑝G5

Una volta riempiti i tre orbitali 2p con un elettrone posto in ciascun orbitale con spin
paralleli (noti come elettroni spaiati), l’ottavo successivo elettrone deve essere introdotto in uno
degli orbitali p già occupati con spin antiparallelo per rispettare il principio di esclusione.
L’elemento con otto elettroni è l’Ossigeno (O) che ha la configurazione:

𝑂 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝E' 2𝑝F5 2𝑝G5

dove, ancora una volta, la scelta degli indici x, y e z è completamente arbitraria.

Gli elementi che seguono sono il Fluoro (F) e il Neon (Ne) cui sono attribuite le seguenti
configurazioni elettroniche:

70
𝐹 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝E' 2𝑝F' 2𝑝G5
𝑁𝑒 = 1𝑠 ' 2𝑠 ' 2𝑝E' 2𝑝F' 2𝑝G'

A questo punto, non è più possibile inserire elettroni negli orbitali caratterizzati dal
numero quantico principale n = 2 e, nel linguaggio chimico, si dice che è stato completato il
secondo guscio elettronico o, in modo equivalente, che è stato completato il secondo periodo della
Tabella Periodica corrispondente alla seconda riga che ospita otto elementi. E’ interessante
fare le seguenti osservazioni. Un periodo (riga) della Tabella Periodica corrisponde al
completamento di un particolare livello di energia che, a sua volta, è associato a un
determinato valore del numero quantico principale n. Il numero di elementi che sono
contenuti all’interno di un periodo dipende, allora, dal numero di orbitali che appartengono a
quel dato valore di n. Ad esempio, il primo periodo contiene solo due elementi (H e He)
perché, quando n = 1, esiste un solo orbitale che può ospitare non più di due elettroni. Allo
stesso modo, il secondo periodo contiene otto elementi perché, quando n = 2, esistono quattro
orbitali che possono contenere non più di otto elettroni. Aggiungendo un elettrone per volta si
ottengono, appunto, otto elementi. Insomma, il semplice modello idrogenoide è capace di
prevedere, in modo razionale, di quanti elementi è costituito un particolare periodo. Questa
previsione è stata uno dei trionfi della meccanica quantistica applicata alla spiegazione dei
fenomeni chimici.

Si può verificare questa capacità predittiva facendo un altro esempio. Se si osserva ancora
una volta la Figura 27, si vede che, dopo il livello con n = 2, gli orbitali disponibili a più bassa
energia sono l’orbitale 3s e i tre orbitali 3p. Ne consegue che, anche nel terzo periodo della
Tabella Periodica, devono essere presenti otto elementi che, infatti, sono Sodio (Na),
Magnesio (Mg), Alluminio (Al), Silicio (Si), Fosforo (P), Zolfo (S), Cloro (Cl) e Argon (Ar). Si
può continuare cercando di comprendere quanti elementi formeranno la quarta riga della
Tabella Periodica. La Figura 27 mostra ancora che, dopo gli orbitali 3p, si trovano gli orbitali
4s, 3d e 4p che sono in totale nove orbitali che possono contenere 18 elettroni. Di conseguenza,
il quarto periodo è formato da 18 elementi che sono nell’ordine: Potassio (K), Calcio (Ca),
Scandio (Sc), Titanio (Ti), Vanadio (V), Cromo (Cr), Manganese (Mn), Ferro (Fe), Cobalto
(Co), Nichel (Ni), Rame (Cu), Zinco (Zn), Gallio (Ga), Germanio (Ge), Arsenico (As), Selenio
(Se), Bromo (Br) e Kripton (Kr).

E’ possibile andare oltre nell’interpretazione razionale delle proprietà degli elementi.


Infatti, ponendo una sopra l’altra le righe degli elementi che corrispondono ai periodi della
Tabella Periodica, si formano delle colonne che sono chiamati gruppi. Gli esperimenti
mostrano che gli elementi che appartengono a un determinato gruppo hanno proprietà
chimiche simili anche se non identiche. Il modello idrogenoide fornisce una spiegazione di
questo fenomeno? Per trovarla, basta inserire le configurazioni elettroniche degli elementi,
dedotte con il modello idrogenoide, all’interno della Tabella Periodica. Per far questo, è
conveniente usare la seguente notazione per risparmiare spazio. Invece di scrivere
esplicitamente tutti gli orbitali, si può raggruppare gli orbitali contenuti nei gusci pieni con un
unico simbolo corrispondente all’elemento che possiede quella configurazione. Ad esempio,
invece di scrivere 1𝑠 , si può scrivere He, perché l’elemento Elio (He) ha proprio quella
configurazione elettronica. Ugualmente, invece di scrivere 1𝑠 , 2𝑠 , 2𝑝', 2𝑝/, 2𝑝0, , si può usare il
simbolo Ne corrispondente all’elemento (Neon) che, appunto, ha quella configurazione
elettronica. Con questa notazione, la Tabella Periodica può essere scritta nel modo seguente
(per semplicità, si scriveranno solo i primi tre periodi:

71
1𝑠* 1𝑠 +
He2𝑠* He2𝑠 + He2𝑠 + 2𝑝* He2𝑠 + 2𝑝+ He2𝑠 + 2𝑝, He2𝑠 + 2𝑝- He2𝑠 + 2𝑝. He2𝑠 + 2𝑝/
Ne3𝑠* Ne3𝑠 + Ne3𝑠 + 3𝑝* Ne3𝑠 + 3𝑝+ Ne3𝑠 + 3𝑝, Ne3𝑠 + 3𝑝- Ne3𝑠 + 3𝑝. Ne3𝑠 + 3𝑝/

Una rapida osservazione della Tabella mostra che gli elementi che appartengono alla
stessa colonna (gruppo) sono caratterizzati dalla stessa configurazione elettronica esterna. Con
questo termine, s’intende quella parte della configurazione elettronica di un elemento che
contiene orbitali incompleti. Gli unici elementi della Tabella Periodica che sono caratterizzati
da un guscio completo sono quelli che compaiono nell’ultima colonna i cui simboli sono,
appunto, usati per indicare i gusci chiusi. Questi elementi si chiamano gas nobili. I rimanenti
elementi hanno tutti il guscio più esterno incompleto e, per quelli che si trovano sulla stessa
colonna, il tipo di orbitali esterni e il numero di elettroni presenti sono gli stessi. Allora, se si
formula l’ipotesi che le proprietà chimiche di un elemento sono strettamente collegate alla sua
configurazione elettronica esterna, ne discende necessariamente che gli elementi che
appartengono allo stesso gruppo devono anche mostrare proprietà chimiche simili. Questo
risultato costituisce un altro dei successi ottenuti dall’interpretazione quantomeccanica della
struttura atomica degli elementi.

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