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sotto la
la lente
lente
La Commedia dell’Arte nel teatro del
Novecento e oltre
Marco De Marinis

0. Due premesse (quasi) personali: La Soffit- che giovane, studente di teatro e/o attore (le due
ta, il Sud-America e la Commedia dell’Arte cose quasi coincidono in quei Paesi), che mi rivolge
sempre la stessa domanda: «Dove posso andare in
Italia a imparare (a fare) la Commedia dell’Arte?».

P
Per tanto tempo ho risposto come da manuale: la
rima premessa. Poco più di un anno fa, nel Commedia dell’Arte non esiste più in quanto tradi-
zione tecnica e genere spettacolare, diffidate di co-
febbraio 2010, il Centro La Soffitta dell’Uni- loro che vogliono insegnarvela praticamente! An-
che se ciò non vuol dire che non la si possa studiare
versità di Bologna, di cui ho la responsabilità scienti- e che questo studio non possa risultare utile anche
per un attore, etc., etc. E loro (o almeno, i più pre-
fica, ha presentato un progetto dal titolo “Aspettando parati) a obiettarmi: ma allora Jacques Lecoq, e Fer-
ruccio Soleri, e Dario Fo, e... Alla fine, di fronte al
Pulcinella. Breviario contemporaneo sull’uso della persistere del mio scetticismo, abbassavano la testa,
rassegnati ma non convinti. E infatti, quante volte li
maschera”, a cura di Silvia Mei. ho rivisti poi in Italia! A dispetto della mia dissua-
sione, avevano trovato il luogo, la scuola, il maestro
Questo progetto ha ospitato tra l’altro riflessioni e brevi dimostrazioni per “imparare” la Commedia dell’Arte e poi magari
di sei attori e pedagoghi teatrali italiani, diversissimi tra loro, in un semina- tornare nei loro Paesi a “insegnarla”. Me ne sono
rio molto partecipato, così presentato dalla curatrice: «Una sorta di tavola dovuto fare una ragione.
rotonda pratica dove si alternano le voci e i corpi contraffatti di singolari e
rappresentativi attori del teatro fisico italiano. L’antico strumento teatrale Ma in realtà, chi aveva, ha ragione? Loro o io?
diventa oggetto, negli interstizi delle dimostrazioni degli attori invitati, di Mettendo insieme le due premesse credo che la
una riflessione sul suo uso e significato, oggi, per l’attore e sulle sue ricadu- risposta diventi obbligata: avevano, hanno ragione
te nella scrittura scenica. Dall’eredità dei comici dell’arte filologicamente loro. O meglio, essi avevano ragione ad aver (forse)
ricercata da Antonio Fava alla maschera come codice espressivo transcul- torto e io torto ad aver (forse) ragione. La Comme-
turale per Eleonora Fuser e Claudia Contin, passando dal mimo astratto dia dell’Arte non esiste più da tanto tempo, però da
applicato di un allievo come Eugenio Ravo, fino alle riappropriazioni in essa/in essa un attore può imparare ancora tantissi-
chiave pop della tradizione di Pulcinella con Vanda Monaco Westerståhl. mo a patto di assumerla, anche grazie a una guida
Quali le possibili drammaturgie, quali le possibilità di sintesi tra forme adeguata, come qualcosa di vivente e di liberamente
dell’antico e corpi contemporanei, quali le maschere che ancora oggi pos- reinventabile al di fuori di qualsiasi rigidezza o or-
sono parlare?» (dal libretto della Soffitta 2010, p. 10). todossia filologica o estetica.
Pur autorevoli e rappresentativi, questi attori-pedagoghi non sono tutti Interrogarsi su come sia possibile riappropriar-
coloro che oggi fanno i conti in Italia, al di fuori di ogni ortodossia per lo si e utilizzare creativamente una forma scenica che
più, su piani diversi ma intersecantisi, con quell’universo vasto e talvolta non esiste più da tanto tempo, in quanto tale, equi-
anche vago di riferimenti, immagini, suggestioni, materiali, stereotipi, tec- vale a interrogarsi in sostanza sulle vie attraverso le
niche, miti e luoghi comuni che va sotto il nome di “Commedia dell’Arte”; quali un mito può diventare (fecondare) una tradi-
e ce li fanno – questo è importante – in maniera concreta, cioè in vista di un zione vivente.
operare, di un agire artistico. Vanno aggiunti almeno i nomi di Carlo Boso, Perché esattamente questo è accaduto con la
Eugenio Allegri, Michele Monetta e Lina Salvatore, Marco Manchisi e Commedia dell’Arte: un mito si è fatto tradizione
Marco Sgrosso, quest’ultimo presente anche lui nel progetto della Soffitta vivente nel teatro del Novecento, fra le più potenti
con lo sketch Pulcinella 1 e 2, ovvero la colpa è sempre della scarpa, proposto e feconde che esso abbia prodotto nell’ambito delle
insieme a Vanda Monaco. riforme e delle rivoluzioni sceniche che ha ospitato.
Dunque la Commedia dell’Arte esiste ancora, o è tornata ad esistere? Con la quasi completa eccezione (almeno per tutta
E ancor prima: questa domanda ha un senso oggi? la prima metà del secolo) dell’Italia, cioè proprio del
Paese che alla Commedia dell’Arte ha dato i natali
Seconda premessa. Da quando viaggio in America Latina (ma soprat- e dove sono sempre arrivati, e continuano ad arriva-
tutto in Brasile), frequentando ambienti teatrali, universitari e non, e cioè re, imperterriti e giustamente fiduciosi dall’America
da una ventina d’anni, mi capita regolarmente di essere avvicinato da qua- Latina (ma anche da altrove) per “impararla”.

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IL
ILRITORNO
RITORNODELLA
DELLACOMMEDIA
COMMEDIADELL’ARTE
DELL’ARTE

1. Alle origini del mito: ante- La sua opera – scrive la studiosa – «costituisce [...] uno dei pilastri fonda-
mentali del mito della Commedia dell’Arte» (pp. 69-70). Fra l’altro, Hof-
fatti romantici fmann «appare [...] come un canale, che raccoglie le fantasie dei romantici
tedeschi – di Goethe, di Schiller, di Tieck – sui celebri attori dell’Arte,
Il mito della Commedia dell’Arte si forma nel pie- e le trasmette, attraverso tutto l’Ottocento, fino agli uomini di teatro del
no dell’Ottocento romantico fra Germania e Francia. Novecento». E sempre nelle sue pagine affonda le radici «il mito di un te-
Da un lato i romanzi e i racconti di E.T.A. Hoffmann, atro capace di rovesciar ogni cosa usuale, dagli spettacoli fino alle normali
dall’altro le serate nel castello di Nohant, con le im- gerarchie di potere», mito che «segnerà profondamente gli studi del Nove-
provvisazioni di un gruppo di persone colte e raffinate, cento sulla Commedia dell’Arte, intrecciandosi strettamente con la visione
composto dalla poetessa George Sand, la sua famiglia della commedia all’improvviso come teatro del popolo» (p. 73).
e i suoi amici (fra i quali il grande Chopin).
A Nohant tutto cominciò nel novembre del
1846 e poi andò avanti per diversi anni con varie 2. I Padri Fondatori e la Commedia dell’Arte
modalità, anche grazie all’allestimento di un vero e
proprio teatrino. La Sand scriverà pure un romanzo
in proposito (Il Castello delle Désertes, 1851) e suo Nato come si è appena visto nell’Ottocento romantico, il mito del-
figlio Maurice, dalla nostalgia di quelle serate (de- la Commedia dell’Arte rinasce agli inizi del Novecento ad opera di due
finite da Cuppone nientemeno che «primo labora- Padri Fondatori della scena moderna come Gordon Craig e Vsevolod
torio teatrale europeo»), sarà spinto a raccogliere Mejerchol’d, e questa volta propizia fortemente l’avvento di modi nuovi di
testimonianze e documenti sulla realtà storica della concepire e praticare l’arte teatrale, all’insegna della semplicità convenzio-
Commedia dell’Arte, componendo il libro Masques nale della tradizione e dell’improvvisazione dell’attore. Un libro recente di
et Bouffons che, nel 1860, inaugura gli studi moderni Raissa Raskina ricostruisce bene questa vicenda per quanto riguarda so-
in proposito (cfr. R. Cuppone, CDA. Il mito della prattutto l’area russa, evidenziando la primogenitura teorica indiscussa di
Commedia dell’Arte nell’Ottocento francese, Roma, Craig in proposito, anche se in realtà le sperimentazioni iniziali di Mejer-
Bulzoni, 1999). chol’d sulla Commedia dell’Arte risalgono agli stessi anni (cfr. Mejerchol’d
Tuttavia – come ha ben visto Mirella Schino e il Dottor Dappertutto. Lo “Studio” e la rivista “L’amore delle tre melarance”,
(La tradizione. Illustrazioni letterarie, in F. Taviani Roma, Bulzoni, 2010).
e M. S., Il segreto della Commedia dell’Arte. La me- In principio ci fu, appunto, l’artista-teorico inglese che, nell’ottobre
moria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII del 1912, pubblica sulla sua rivista “The Mask” un articolo dal titolo The
secolo [1982] Firenze, La Casa Usher, 2007, IV ed.) Commedia dell’Arte ascending, in cui la commedia all’improvviso «è eleva-
– l’importanza di Hoffmann, e in particolare di un ta – osserva Raskina – a paradigma dell’arte ‘‘indipendente e creativa’’,
romanzo come La principessa Brambilla (1820-’21), contrapposta alla semplice interpretazione di un artista esecutore» (p.
riguardo al formarsi del mito della CDA, e del suo 52). Craig ne auspica esplicitamente un ritorno, un “risveglio”, di cui
rilancio da parte dei Padri Fondatori della regia te- coglie un sintomo incoraggiante nel successo arriso alla rappresentazio-
atrale agli inizi del Novecento, è persino maggiore. ne di uno scenario di Luigi Riccoboni al Teatro Nazionale di Budapest,
diretto da Alexander Havesi. Ma –
scrive ancora Raskina – «Craig non
sa che, anticipando di qualche mese
l’esperimento pionieristico di Havesi,
nel novembre 1911, a Pietroburgo,
Mejerchol’d ha già presentato il suo
primo e ancora incerto tentativo di
‘‘riportare nel teatro l’improvvisazio-
ne’’» (p. 52), con la prima versione
scenica della pantomima Arlecchino
paraninfo, tratta da uno scenario del
giovanissimo Vladimir Nikolaevič
Solov’ëv, fondamentale ispiratore di
Mejerchol’d circa l’importanza della
Commedia dell’Arte e suo assistente
per l’allestimento della pantomima.
Come ricorda Raskina, Solov’ëv «era
convinto che lo studio degli antichi
scenari permettesse di risalire alla
tecnica di recitazione dei comici
dell’Arte» (pp. 55-56); e fu lui il bril-
lante estensore dell’articolo-manife-
sto Tradizionalismo teatrale, apparso
nel 1914, nel quale si propugnava un
Arlecchino servitore di due padroni (foto di Luigi Ciminaghi/Piccolo Teatro di Milano)

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SOTTO
SOTTOLA
LALENTE
LENTE
Dario Fo in Hellequin-Harlekin-
Arlekin-Arlecchino (Archivio Fo-Rame) Vachtangov – secondo la Schino
– rilegge le fiabe teatrali del conte
veneziano «attraverso le immagini
di Hoffmann, così come Hoffmann
le aveva lette attraverso le incisioni
grottesche di Callot» (p. 75). Ma
soprattutto non va dimenticato che
il lavoro per Turandot si basò fon-
damentalmente sulle improvvisa-
zioni degli attori, con un costante
riferimento alle esperienze e alle
teorizzazioni di Mejerchol’d.

3. Tra Parigi e la
Borgogna: la Comédie
Nouvelle di Copeau

All’incirca negli stessi anni,


anche sulle rive della Senna il
mito della Commedia dell’Arte
rinasce a fecondare nuove visio-
movimento la cui paternità, quanto all’idea ispiratrice, veniva volentieri ri- ni teatrali. Ma più che essere ereditato dai Sand
conosciuta a Craig. e dal proprio Ottocento romantico, in Francia
L’Arlecchino paraninfo venne inserito da Mejerchol’d nel programma questo mito arriva di rimbalzo da fuori. E c’è ov-
della Casa degli Intermezzi, il cabaret artistico che lui stesso dirigeva a viamente lo zampino di Craig e di Mejerchol’d,
Pietroburgo con lo pseudonimo hoffmaniano di Dottor Dappertutto. Hof- ancora una volta. Jacques Copeau, che ha fondato
fmann, appunto, accanto a Carlo Gozzi, rappresenta l’altro grande isti- il Théâtre du Vieux-Colombier nel 1913, dovendo
gatore dell’entusiasmo per la Commedia dell’Arte nella Russia di quegli presto interrompere l’esperienza a causa dello scop-
anni e soprattutto in Mejerchol’d. Questi lo scopre nel 1912 grazie allo pio del primo conflitto mondiale, inizia a interes-
studioso Ignatov, che stava progettando per suo conto una messa in scena sarsi alla Commedia dell’Arte e all’improvvisazione
della Principessa Brambilla. E non è un caso che questi due nomi, Gozzi e nel 1916, in conseguenza dell’incontro con Craig a
Hoffmann, si trovino riuniti fin dal titolo nella rivista che il grande regista Firenze, nell’estate-autunno dell’anno precedente, e
russo fonda nel 1914 (“L’amore delle tre melarance. La rivista del Dottor della confortante scoperta di una forte consonan-
Dappertutto”), dopo il tentativo fallito, l’anno precedente, di mettere in za di idee con Mejerchol’d. E subito si instaura in
scena la fiaba teatrale omonima, con un allestimento pensato come vero e proposito un fitto dialogo a distanza tra lui e Louis
proprio manifesto del “nuovo teatro”. Jouvet al fronte (M. I. Aliverti, Il percorso di un pe-
“L’amore delle tre melarance”, nei tre anni della sua esistenza, diventa la dagogo, in J. Copeau, Artigiani di un mestiere viven-
sede per le riflessioni e le elaborazioni storico-teoriche che accompagnano te. L’attore e la pedagogia teatrale, Firenze, La casa
gli esperimenti artistico-pedagogici condotti da Mejerchol’d nello Studio Usher, 2009).
di via Borodinskaja, aperto a San Pietroburgo negli stessi anni, all’inse- Ciò che interessa Copeau, fin dall’inizio, non è ri-
gna di una vera e propria rifondazione dell’arte dell’attore che vede nella costruire, far rivivere la vecchia Commedia dell’Arte
Commedia dell’Arte, come teatro dell’attore creatore basato sull’improvvi- (cosa del resto impossibile – osserva – a causa dell’ ‘‘in-
sazione, una fonte ispiratrice di primaria importanza. Lo conferma la gran terruzione” della tradizione), ma dar vita – grazie ad
copia di articoli riguardanti in vari modi l’Improvvisa che la rivista ospita, a essa – a una comédie nouvelle, cioè – scrive Aliverti – a
cominciare da quelli dell’infaticabile Solov’ëv e di Konstantin Miklaševskij, «una commedia improvvisata, con i tipi e i soggetti del
autore per altro del primo importante studio scientifico su quel fenomeno nostro tempo» (p. 40). Ma una simile commedia nuo-
teatrale, uscito a Pietroburgo nel 1914 e ripubblicato, in una versione defi- va non avrebbe potuto mai nascere senza una preven-
nitiva notevolmente ampliata, a Parigi nel 1927 (La Commedia dell’Arte, ou tiva rifondazione dell’arte dell’attore. Ecco perché le
le théâtre des comédiens italiens des XVI, XVII et XVIII siècles, Paris, Schiffrin, migliori energie del Patron in quegli anni verranno in-
1927 [ivi, Librairie Théâtrale, 1980]) vestite nello sforzo di progettazione della Scuola, che
Il riferimento congiunto a Hoffmann e a Gozzi collega in qualche aprirà nel 1920, e della sua pedagogia. Nelle sue coeve
modo, nonostante le profonde differenze, le ricerche di Mejerchol’d a quel- riflessioni sull’attore risulta costante il riferimento alla
le di un altro grande ex attore e collaboratore di Stanislavskij, a lui rimasto Commedia dell’Arte come teatro creato da un attore che
però molto più vicino: quel Vachtangov che, pochi mesi prima di morire, possieda magnificamente tutti i propri mezzi espressivi.
con l’allestimento della Principessa Turandot (febbraio 1922), fa davvero E soltanto con il gruppo di allievi pienamente
rinascere la Commedia dell’Arte nel teatro di via Arbat a Mosca. Anche formati durante i tre anni della scuola, che lo se-

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ililritorno
ritornodella
dellacommedia
commediadell’arte
dell’arte

guiranno in Borgogna, egli cercherà di dar vita (con gnie italiane che agirono fra i secoli XVI e XVIII storicamente fecero» (Il
scarsi esiti, per la verità) ai primi tentativi in dire- segreto delle compagnie italiane note poi come Commedia dell’Arte, in Il segreto
zione di quella comédie nouvelle tanto vagheggiata. della Commedia dell’Arte, cit., p. 482). Lo conferma clamorosamente il fa-
moso Convegno Volta sul teatro dell’ottobre del 1934: esso ripropose un
dialogo tra sordi, con gli italiani a non condividere e a non capire le ragioni
4. Il ritardo italiano: la di tanto interesse nutrito da personalità come Craig, Tairov e altri per la
Commedia dell’Arte, che da noi continuava ad essere guardata con grande
Commedia dell’Arte riscoperta diffidenza e a venire soprattutto considerata un fenomeno morto e sepolto,
e riabilitata ormai inutilizzabile (pp. 480-481).
Da questo punto di vista, l’allestimento dell’Arlecchino servitore di due
padroni di Goldoni, da parte di Giorgio Strehler, nella stagione inaugura-
Bisogna aspettare il secondo dopoguerra per le del Piccolo Teatro di Milano, 1947 (riproposto in varie versioni negli
trovare in Italia, per quanto riguarda la Comme- anni successivi), riveste un significato e un valore eccezionali, anche per la
dia dell’Arte, qualcosa di analogo alle esperienze e sua altissima qualità artistica: un vero e proprio «spettacolo-capolavoro»,
all’interesse europei primonovecenteschi. Il quadro soprattutto nella versione del 1952, rimasto purtroppo quasi «un unicum,
tracciato da Ferdinando Taviani in proposito è del un’eccezione proiettata oltre le regole della produzione critico-registica»,
tutto condivisibile: tranne poche, sparute eccezioni che fa «intuire cosa sarebbe diventata la regia strehleriana se non si fosse
(fondamentalmente, quella di Anton Giulio Braga- identificata con un modo produttivo antiattorico» (C. Meldolesi, Fonda-
glia e di Mario Apollonio sul piano degli studi), il menti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, p.
teatro e la cultura teatrale italiani della prima metà 346 [nuova ed., Roma, Bulzoni, 2008]).
del Novecento risultano abbastanza impermeabili Ha sicuramente ancora ragione Taviani quando scrive che questo spet-
all’entusiasmo per la Commedia dell’Arte che – tacolo rappresentò soprattutto «un segno del collegarsi di Strehler alla
come s’è visto – aveva contagiato tutti i protagoni- grande stagione della Regia [e] del respiro europeo del teatro strehleriano»
sti del rinnovamento teatrale in Europa, per i quali (pp. 481-482). Ma non dobbiamo dimenticare che nello stesso tempo esso
essa «era o diventava una tradizione vivente, non partecipa anche, e da par suo, del fermento di studi, ricerche ed esperimenti
importa quanto distante dal teatro che le compa- pratici che in quegli stessi anni stanno finalmente propiziando una tardiva
quanto doverosa riabilitazione culturale e scenica dell’Improvvisa, con
annessi e connessi, nel nostro Paese.
L’epicentro di questo fenomeno fu Padova, e più esattamente il Tea-
tro dell’Università, diretto da Gianfranco De Bosio. E ancora una volta
non sarà certo un caso se De Bosio dovette andare in Francia, e immer-
gersi nella vague copeauiana e postcopeauiana (Dasté, Barrault, Lecoq,
etc.) per riuscire ad acquisire sulla nostra grande tradizione teatrale un
altro sguardo, meno diffidente e snobistico, quello sguardo che gli avreb-
be consentito di lì a poco (con la decisiva complicità del giovane
Ludovico Zorzi) la straordinaria riscoperta di Ruzante, altro grande
sottovalutato-rimosso della nostra storia teatrale.
L’incontro fra De Bosio, Lecoq e Amleto Sartori a Padova, tra la fine
degli anni Quaranta e l’inizio del decennio successivo, è uno degli eventi
chiave della scena italiana di quegli anni, fra i più gravidi di conseguenze
a breve e a lungo termine: fra le prime figurando sicuramente quelle ma-
schere che lo straordinario artigiano padovano prende a costruire su im-
pulso di Lecoq e che Strehler farà indossare al suo Arlecchino dal 1950
in avanti. Fra le seconde, come non pensare a Dario Fo? In fondo anche
lui è, almeno in certa misura, figlio di questo incontro, e non soltanto per
il breve apprendistato (in seguito rifiutato) con Jacques Lecoq, il quale
sarà comunque partecipe del suo debutto teatrale ufficiale con il trio
Durano-Fo-Parenti (Il dito nell’occhio e Sani da legare, fra 1953 e 1954).
E in ogni caso, visto che stiamo parlando di riabilitazione e di rilan-
cio della tradizione dell’Arte in Italia, il contributo di Fo al riguardo non
può certo essere sottovalutato: basti pensare a spettacoli come Mistero
Buffo (1969 sgg.) e Fabulazzo osceno (1982), o al suo studio sulla ma-
schera di Arlecchino per La Biennale di Venezia del 1985, mediante i
quali il futuro Premio Nobel ricostruisce nel tempo una sua personale e
anomala genealogia dell’attore-autore italiano: dai giullari al Ruzante e
da questi ai grandi comici dell’Arte, fino a Totò e Eduardo De Filippo.
Ad avere più spazio bisognerebbe soffermarsi anche su una figura
come quella di Giovanni Poli, che vanta una lunga operatività artistico-
Leo de Berardinis in Il ritorno di Scaramouche (foto di Marco Caselli) pedagogica a Venezia nel dopoguerra, prima con il Teatro di Ca’ Foscari

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SOTTO LA LENTE
e poi con il Teatro a l’Avogaria. Mi limiterò a ricordare che con lo spetta- È invece una delle nostre maggiori attrici attuali a
colo La Commedia degli Zanni egli vinse il premio per la miglior regia al ricordare un momento fondamentale della sua for-
Festival des Nations di Parigi nel 1960. mazione artistica e umana.
Dal diario di lavoro tenuto su richiesta di Leo
da Licia Navarrini, assistente alla regia, sotto l’in-
5. Come fu che Leo diventò Pantalone dicazione Lunedì 10 ottobre, settimo giorno di prova:
«Il primo lavoro della giornata verte sullo spogliarsi
di tutto quello che si è stati finora teatralmente. Si
Uno degli episodi più importanti per quanto riguarda il rilancio della tratta di ricominciare da zero, quasi di un annulla-
Commedia dell’Arte nel nostro teatro recente è senz’altro quello che ha mento del teatro, per ritornare al muto, alla parola
avuto come protagonisti Leo De Berardinis e il suo Il ritorno di Scaramou- che sta per nascere. [...] Dobbiamo fare tabula rasa
che di Jean-Baptiste Poquelin e Leòn de Berardin, del 1994: uno spettacolo di ciò che sappiamo sul teatro e cercare la base es-
memorabile, con il quale Leo volle risalire – indicandole già nel titolo, senziale della comunicazione» (“Fare tabula rasa”:
attraverso Scaramouche (al secolo, il napoletano Tiberio Fiorilli) e Moliè- sul Ritorno di Scaramouche, in La terza vita di Leo,
re – sino alle fonti moderne di quell’arte attorica che era sempre stata cit., pp. 178-179).
oggetto della sua dedizione assoluta e di cui, lungo tutta la sua movi- Taviani, grande specialista, a distanza di diversi
mentata carriera, aveva cercato di offrire una nuova, originale forma anni se lo ricorda in questo modo lo spettacolo: «Il
contemporanea, contaminata da variegati influssi extrateatrali alti e sottoscritto s’è trovato così, per la prima volta, davan-
bassi, musicali in primis. ti a un’immagine della Commedia dell’Arte che gli
Per Leo De Berardinis Il ritorno di Scaramouche rappresentò il culmi- par vera. [...] Non era uno spettacolo polemico. Non
ne e in qualche modo anche la conclusione (nonostante le prove ancora s’indignava contro i luoghi comuni traditori. Non
notevoli date negli ultimi anni di attività, tutte per altro all’insegna della li sbeffeggiava. Anzi, con essi giocava allegramen-
maschera riscoperta grazie a Scaramouche) del grande ciclo di spettacoli- te. Ma come sapendo ch’era per poco» (Una prima,
capolavoro inanellati, a un ritmo incessante, tra la fine degli anni Ottanta e vera immagine della Commedia dell’Arte, in La terza
i primi del decennio successivo, con la compagnia del Teatro di Leo, dopo vita di Leo, cit., p. 339). E dopo aver menzionato
essersi rigenerato professionalmente immergendosi ancora una volta nel la soluzione del doppio palcoscenico (che ricordava
Teatro-Mondo del Bardo inglese ed essersi ritrovato come artista e come quella strehleriana del ’52) si concentra su Leo: «Ma
uomo grazie ad alcuni “assoli” di teatro sapienziale e metafisico, auspici ora Scaramouche dov’è? Leo calza la maschera e fa
Dante, Joyce, la Bibbia, Leopardi. Pantalone, anche se Tiberio Fiorilli-Scaramouche,
Quello che Leo intraprende, a questo punto, è un viaggio di riattraver- lo sanno tutti, la maschera non l’indossava. Ed ecco
samento totale del Teatro, comprese quelle zone che aveva sempre evitato che lo si vede scendere dalla pedana comica e invece
o trascurato, viaggio che nasce anche – con Novecento e Mille (1987) – di mettersi da parte, lo si vede scendere e far rotta
come bilancio non solo teatrale del secolo declinante: Ha da passà ’a nuttata direttamente sulla platea. Avvicinarsi alla prima fila
(1989), Totò, principe di Danimarca (1990), L’impero della ghisa (1991), I di poltrone. Togliersi la maschera. [...] Con voce
Giganti della montagna (1993). In questo viaggio gli fanno da bussola alcu- piana, soave e severa, come sarebbe – se ci fosse – la
ni straordinari attori-artisti del nostro Novecento, già cari a lui da tempo voce della coscienza, Scaramouche parla come parlò
(da sempre, forse): Totò, Eduardo, Eleonora Duse. Molière» (pp. 339-340).
Un tale viaggio non poteva non concludersi, forse, con quel ritorno Si tratta del celebre monologo di Don Giovanni
alle fonti, alle origini dell’Arte, alla maschera, che fu Scaramouche (grazie contro l’ipocrisia male del secolo, uno dei culmini
anche al mascheraio Stefano Perocco di Meduna). E anche se già sedi- dello spettacolo, il punto in cui più evidente si face-
ci anni prima, in Avita murì (1978), in coppia con la straordinaria Perla va la tensione etica, civile e anche politica (perché
Peragallo, Leo aveva indossato la casacca di Pulcinella, si trattò per tante no?) che lo percorreva tutto, nell’apparente e co-
ragioni di una prima volta, con tutto il rischio, la sfida che essa comportava. munque godibilissimo abbandonarsi degli attori –
Le testimonianze dei suoi attori sono concordi in proposito. Ricorda, ad per citare ancora il nostro studioso – «alla sarabanda
esempio, Elena Bucci (interprete del personaggio più inquietante e ambi- della farsa, ai lazzi di parola e a quelli acrobatici». E
guo, la Morte): «Proprio la proposta di lavorare con la maschera fu, per noi questo non fu l’ultimo dei paradossi de Il ritorno
del Teatro di Leo, una formidabile occasione di cambiamento, rivelazione di Scaramouche: il teatro più disimpegnato della
e svelamento. [...] Ci chiese quindi, per Il ritorno di Scaramouche, di attin- storia, secondo la vulgata almeno, convocato per
gere a risorse nuove e mai usate, di cercarle e affinarle. Allo stesso tempo affilare le “armi” di uno degli artisti teatrali più
lo chiese a se stesso. Ci apprestavamo a ribaltare i confortanti assetti delle arrabbiati, più engagés (nel senso non banale del
nostre relazioni dentro la compagnia, nel mondo del teatro e fuori. [...] termine), della nostra scena contemporanea, in
quello era un tempo nel quale era necessario che ogni attore diventasse au- uno degli spettacoli più duri e amari di quegli
tore, riappropriandosi di ogni mezzo del mestiere, dal testo alla creazione anni (occhio alla data: 1994, anno I dell’Era Ber-
del personaggio, dall’allenamento fisico alla pratica dell’improvvisazione» lusconiana).
(Inquieti e senza salutare. L’incontro con Scaramouche, in La terza vita di Leo. Dovremo aspettare l’esplosione del caso Pippo
Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo a Bologna, a cura di C. Meldolesi con Delbono per ritrovare spettacoli con una miscela
A. Malfitano e L. Mariani, Pisa, Titivillus, 2010, pp. 131-132). Sembra di altrettanto irresistibile ed esplosiva di gioiosa poesia
stare in via Borodinskaja nel secondo decennio del secolo scorso o di sen- scenica e indignazione, farsa rivistaiola e lucida, im-
tir parlare un allievo della Scuola del Vieux-Colombier pochi anni dopo! placabile denuncia.

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