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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI

ROMA “LA SAPIENZA”

CORSO DI
GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO
A.A. 2010-2011

APPUNTI DALLE LEZIONI

Prof. Carlo Lefebvre

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INTRODUZIONE

La crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2007 sta producendo gli effetti più gravi
e profondi sui paesi emergenti e in via di sviluppo, in particolare su quelli a più basso
reddito.
La crisi ha frenato del tutto i progressi in atto in questi paesi nell'ultimo decennio,
tradottisi in una crescita sostenuta, nel risanamento dei conti pubblici, nella riduzione
del debito estero, nell'espansione delle attività commerciali, nell'aumento dei prezzi
delle materie prime e in maggiori aiuti allo sviluppo.
In questo scenario, sebbene con difficoltà e strumenti insufficienti, si stava lentamente
spianando la strada verso il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio.
Tuttavia, negli anni precedenti la crisi finanziaria, i paesi poveri avevano già subito i
colpi della crisi alimentare, caratterizzata da un aumento dei prezzi dei beni che ha
compromesso la capacità di sussistenza di centinaia di milioni di esseri umani, della
crisi energetica, che ha comportato un maggior consumo di risorse da parte dei paesi
non produttori di petrolio e gas per poter mantenere le loro attività, nonché della crisi
climatica, le cui conseguenze si sono abbattute più pesantemente sui paesi in via di
sviluppo, che hanno affrontato danni alle colture e distruzione delle infrastrutture.
La crisi finanziaria ha pertanto accentuato in misura esponenziale il deterioramento
delle condizioni in cui già versavano i paesi a basso reddito.
I primi sintomi di questa crisi si sono manifestati nella seconda metà del 2007 e gli
effetti sull'economia produttiva nel corso del 2008. Secondo gli esperti, poco più di un
anno fa, a seguito del fallimento della Lehman Brothers, ci siamo trovati sull'orlo
dell'abisso finanziario, sulla soglia di una Grande Depressione.
Da un'analisi dell'evoluzione della crisi finanziaria sin dal suo inizio emergono alcune
considerazioni:
a) I paesi in via di sviluppo non sono all'origine della crisi, non ne rappresentano la
causa, tuttavia ne subiscono le conseguenze più disastrose. Le cause sono da
attribuirsi ai paesi industrializzati, all'espansione, nel loro interno, di pratiche
opache del sistema finanziario, alla creazione di bolle speculative, a profitti rapidi e
artificiali rispetto a quelli dell'economia produttiva, all'irresponsabilità di molti
dirigenti di importanti istituzioni finanziarie. Tutto questo nel quadro di una
concezione della globalizzazione che lottava per una totale deregolamentazione e
per il rifiuto di qualsiasi strumento di governabilità pubblica.
b) Quella che inizialmente era stata diagnosticata come una crisi finanziaria, per la
quale si era affermata o ipotizzata una scarsa incidenza sui paesi in via di
sviluppo, dal momento che questi ultimi non erano ancora molto integrati nel
sistema finanziario globale, si è delineata sempre più come una devastante crisi
economica, sociale, di sviluppo e umanitaria. Come sottolinea la Commissione,
dopo aver colpito i paesi avanzati e quelli dell'economia emergente, la "terza
ondata" della crisi ha coinvolto pesantemente i paesi in via di sviluppo e, in questo
caso, "l'ondata" sembra trasformarsi in uno "tsunami".
c) Di fatto, i paesi in via di sviluppo subiscono gli effetti di questa crisi in tutti i settori
di attività:
 minore crescita economica e maggiore disoccupazione. Nel 2009 la crescita
dei paesi emergenti e in via di sviluppo si è ridotta a un quarto del valore

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registrato nel 2007 e a un terzo di quello del 2008. In questo senso, le
prospettive prevedono una continua debolezza per il futuro, almeno per i
prossimi cinque anni. Di conseguenza, il numero di disoccupati e di lavoratori
poveri è in forte aumento, soprattutto nelle zone urbane, un fenomeno che,
inoltre, potrebbe incrementare i flussi migratori cui si aggiungono quelli
prodotti dalle migrazioni climatiche;
 caduta dei prezzi e del reddito derivante dalle materie prime. Si prevede che
nel 2009 il prezzo di tali prodotti (senza considerare il petrolio) si ridurrà di
oltre il 20%;
 riduzione degli scambi e aumento delle restrizioni commerciali. Si prevede
che nel 2009 il volume globale degli scambi diminuirà di oltre il 10% e che le
esportazioni di beni dai paesi emergenti e in via di sviluppo registreranno
tassi negativi, anche del 17%, come nel caso dell'Africa, mentre nel 2008 si
era osservata una crescita positiva dell'11,3%. Tutto questo provocherà un
significativo peggioramento delle bilance delle partite correnti, aumentando
seriamente la possibilità di indebitamento e diminuendo la capacità di
investimento;
 più difficile accesso al finanziamento internazionale e minori investimenti
esteri. Si è registrato un calo vertiginoso dei flussi finanziari esteri verso i
paesi emergenti e in via di sviluppo e si prevede che il fabbisogno finanziario
esterno dei PBR per il 2009-2010 raggiungerà i 25 miliardi all'anno, di cui
l'FMI potrà coprire solo un terzo;
 reazione protezionista dei paesi industrializzati, che frenano la capacità di
esportazione dei paesi in via di sviluppo. La Commissione ha sottolineato la
necessità di mantenere i mercati aperti, al fine di combattere la recessione e
stimolare la ripresa della crescita, a beneficio tanto dei paesi sviluppati che di
quelli in via di sviluppo. Al contempo ha tuttavia constatato l'aumento di
pratiche protezioniste, esplicite e occulte, e ha richiesto alle economie
sviluppate di mantenere la coerenza tra le dichiarazioni pubbliche formulate e
le politiche adottate;
 diminuzione delle risorse e delle rimesse degli emigranti, che nel 2009 hanno
subito una calo del 7% rispetto al 2008 e che nel 2010 e 2011 dovrebbero
registrare solo una debole ripresa, che interesserà principalmente i paesi a
più basso reddito, per i quali le rimesse rappresentano il 6% del PIL;
 minori aiuti allo sviluppo, nel momento in cui, di fatto, occorrono risorse
aggiuntive. Nel 2008 gli aiuti sono stati inferiori di 25 miliardi rispetto
all'obiettivo prefissato da Gleaneagles per il 2010 e la tendenza sembra
orientata al ribasso. Secondo le stime della Commissione, nel 2009 i flussi di
aiuti dovrebbero registrare una contrazione di 22 miliardi;
 maggiore indebitamento. Il totale del debito estero dei paesi emergenti e in
via di sviluppo è salito in un solo anno di due punti percentuali rispetto al PIL.
Il risultato di tutti questi effetti negativi sulla vita delle persone è che, secondo i calcoli
generalmente condivisi di società come Intermón Oxfam nonché sulla base di relazioni
di istituti finanziari internazionali come la BM e della dichiarazione del Vertice mondiale
sulla sicurezza alimentare (novembre 2009), circa 100 milioni di individui si
aggiungeranno al miliardo di persone che già vivono in condizioni di povertà estrema;

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sono inoltre previsti un aumento delle morti infantili compreso tra i 30 000 e i 50 000
bambini nell'Africa subsahariana e una riduzione della spesa destinata all'istruzione,
alla salute, alle infrastrutture e alle già oltremodo precarie reti di sicurezza e protezione
sociale.
Al contempo, data la situazione di crisi, gli aiuti pubblici, i piani di stimolo fiscale e la
liquidità straordinaria sono stati utilizzati per risolvere i problemi dei paesi più sviluppati,
secondo un inaccettabile rapporto di 20 a 1. Dei nuovi prestiti dell'FMI, a seguito delle
riunioni del G20, solo l'1,6% è stato destinato all'Africa. Dei 250 miliardi totali di diritti
speciali di prelievo accordati dal G20, solo 17 sono stati stanziati a favore dell'Africa.
D'altro canto, i prestiti provocheranno l'incremento del debito dei paesi impoveriti. Infine,
la necessità di consolidamento fiscale dei paesi sviluppati mette a rischio il rispetto degli
impegni degli APS.
Se la crisi si è alleviata nei paesi sviluppati, è evidente che si è intensificata nei paesi in
via di sviluppo. Mentre i paesi avanzati stanno uscendo dalla crisi, quelli che più hanno
bisogno di uscirne continuano ad affondare.
Per il mondo industrializzato, questa crisi rappresenta un vuoto transitorio del
benessere, sia a livello di intensità che di durata. Per molti paesi in via di sviluppo,
invece, minaccia di essere un baratro che ingoierà un decennio di lotta contro la povertà
e l'esclusione, danneggiando pesantemente un'intera generazione.
Il persistere della crisi nei paesi in via di sviluppo rappresenta, inoltre, di per sé un
freno alla crescita mondiale. La Commissione riconosce tale situazione e segnala che
"la crescita nei paesi in via di sviluppo creerà occupazione, crescita e prosperità anche
negli altri paesi, contribuendo alla pace e alla stabilità a livello mondiale". Nella
dichiarazione del G20 di Pittsburgh, si afferma che "misure volte a ridurre il divario dello
sviluppo possono essere una forza trainante della crescita globale".
Tuttavia, nonostante la comunità internazionale abbia sottolineato a più riprese come lo
sviluppo sia la chiave di volta per il superamento dell'attuale crisi mondiale e sebbene in
occasione delle conferenze internazionali di New York, Accra e Doha, delle riunioni del
G20 di Washington, Londra e Pittsburgh, e in particolare del vertice del G8 all'Aquila,
siano emerse posizioni forti e impegni precisi finalizzati al raggiungimento degli obiettivi
di sviluppo del Millennio, al mantenimento degli obiettivi in materia di aiuti, a una
maggiore efficacia degli aiuti e al coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo nel
processo di riforma della governance mondiale, è un dato di fatto che le risorse
impegnate continuano a non raggiungere questi paesi e che le riforme annunciate
devono ancora essere avviate.
Di fronte a questa realtà, il mondo sviluppato deve rispondere in modo vigoroso e
rapido. Gli aiuti che riducono la povertà e l'esclusione, le misure che contribuiscono allo
sviluppo, gli strumenti per uscire dalla crisi sono necessari adesso, nel 2010. Occorre
trovare strumenti di erogazione rapida e modalità per anticipare l'aiuto promesso per i
prossimi anni.
A questa risposta rapida deve seguirne un'altra a più lungo termine che non potrà
essere una misura isolata, per quanto attraente sia, ma dovrà far parte di un impegno di
largo respiro, con un insieme di azioni coordinate più adeguatamente e gestite con
maggiore efficacia e trasparenza, ricercando accordi ampi tra i principali donatori, paesi
partner, istituzioni finanziarie e società civile.

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Durante la fase di avvio di questa dinamica di azione, l'UE deve continuare ad
assumere la leadership e la massima determinazione per i quali dovrà essere rafforzato
l'impegno di tutti gli organismi dell'Unione e dovrà farsi sentire la voce inequivocabile
del Parlamento.

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PARTE PRIMA

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I

CRESCITA, SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO

1. LO “SPAZIO GEOGRAFICO”
In numerose teorie dello sviluppo sono stati introdotti fattori non economici per spiegare
le differenziazioni e le discontinuità dei processi di crescita o le cause del take-off in un
Paese piuttosto che in un’altro: Hagen con le modificazioni della personalità culturale
della popolazione (Hagen, 1962), Levy con le relazioni che intercorrono tra individuo e
società (Levy, 1952), Rostow con le modificazioni del comportamento umano
(riassumibili sotto forma di "propensioni": propensione a sviluppare la scienza, ad
applicarla, propensione alla informazione, ecc.), Adelman con la variabile Ut, che
rappresenta l'intero complesso sociale, culturale, istituzionale della società (Adelman,
1961).
Nell’ultimo decennio è stato ripreso ed utilizzato spesso il concetto di “milieu”, in senso
più ampio e complesso del milieu géographique di Le Lannou (Le Lannou, 1949), non
assimilabile ad una unità geografica precisa ma definibile come “un quadro organico nel
quale si inseriscono un insieme territorialmente integrato di relazioni non solo tra
imprese, ma di partenariato, di cooperazione, di scambi di informazione che si
strutturano all’interno di reti il cui sviluppo si attua secondo un asse orizzontale” (Lecoq
e Maillat, 1990).
Il milieu non è dato a priori, ma si costruisce e prende forma nelle reti che sono la
duplice espressione delle strategie degli attori localizzati e della storia del territorio,
della sua cultura, della sua identità. E’, in pratica, un insieme permanente di caratteri
socio-culturali, osserva Dematteis, “sedimentatisi in una certa area geografica
attraverso l’evolvere storico di rapporti intersoggettivi, a loro volta in relazione con le
modalità di utilizzo degli ecosistemi naturali locali” (Dematteis, 1994).
Alcuni autori recentemente hanno approfondito le valenze interpretative definendo il
milieu come categoria analitica ed interpretativa dell’insieme delle condizioni ambientali
di un determinato sistema locale.
Essi fanno riferimento a “tutti quei caratteri sociali, culturali, politici ed economici che si
sono sedimentati in un luogo nel corso del tempo, e che possono essere intese come
proprietà specifiche del luogo stesso (Emanuel e Governa, 1997).
Di fatto, attraverso il concetto di milieu – che si approssima al concetto di “spazio
geografico”- si identificano le discontinuità che caratterizzano il territorio e che, in parte,
ne spiegano la crescita e lo sviluppo differenziato.
L’originalità dell’approccio del milieu risiede, infatti, nell’attribuire “un valore di
produzione alla funzione spazio, come variabile indipendente rispetto alle componenti
più strettamente economiche, basate sull’apprendimento collettivo e sulla riduzione
dell’incertezza nei processi innovativi” (Silvani, 1995).
A partire dagli anni cinquanta, lo "spazio geografico" come "principio organizzatore"
(Harvey, 1969) è un tema centrale della geografia, soprattutto con Dardel, che lo
considera una condizione assoluta dell'esistenza dell'uomo (Dardel, 1952), e con
Gottmann che lo definisce un fattore di organizzazione e di compartimentazione di
società distinte e di sistemi di valori relativi (Gottmann, 1952).

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Lo "spazio geografico" non è, quindi, la semplice estensione spaziale ma un principio,
che organizza le diverse attività ed i soggetti che costituiscono la struttura territoriale.
Lo spazio geografico, come spazio prodotto dall'uomo e dalle sue attività, può essere
definito come "organizzazione del territorio" (Landini e Massimi, 1986).
Un carattere strategico dello "spazio geografico" è l'eterogeneità, che è determinata
dalle discontinuità (Hubert, 1993): l'insieme di queste discontinuità - che articolano i
diversi ambiti dello spazio - rappresenta la struttura dell'organizzazione geografica, la
cui complessità è data dalla compresenza e dall’interazione di caratteri culturali, sociali,
funzionali, economici, storici, politici, per i quali diverse aree si sviluppano con tassi
differenziati e seguono traiettorie di crescita diverse.
Lo spazio conferisce allo stock dei caratteri, al loro mix ed alle loro relazioni, "posizioni"
che condizionano le interazioni, e che designano lo spazio geografico non come una
misura geometrica ma come un fenomeno.
Anche il concetto di "posizione" è presente da tempo nella tradizione geografica. Con
Ratzel, la posizione non è un semplice attributo astratto di un luogo dello spazio, ma il
risultato di fenomeni di varia natura e di diversa intensità, non più dedotto dalle sole
condizioni locali della geografia fisica (Ratzel, 1897). L'identità del luogo va concepita,
quindi, come la risultante globale di molteplici relazioni nello spazio, che sono implicate
da quel luogo.
Lo stesso Gottmann afferma che "di tutti i caratteri del territorio, sembra che il più
importante sia la posizione. E' anche il più difficile da definire, il più complesso perché
esprime il ruolo del territorio nel sistema di relazioni che determina sia la sua
personalità politica che la sua situazione geografica. Ciò che permette di definire la
posizione ed anche di seguire l'evoluzione della definizione, è la circolazione. L'insieme
dei movimenti, dei trasporti, degli scambi di uomini, cose, idee attraverso il mondo, è ciò
che ne determina la compartimentazione, il significato di ciascun compartimento in
rapporto agli altri e, dunque, in gran parte, ciò che un popolo può fare del proprio
territorio." (Gottmann, 1952).
Il concetto di posizione non deve, quindi, essere riferito alla griglia dei meridiani e dei
paralleli, ma “ad una griglia assai più complessa disegnata sulla faccia della terra dai
flussi di persone, beni materiali, informazioni, decisioni, ecc., corrispondenti a tutti i tipi
di scambi: economici, politici, culturali. Il valore di un luogo diviene, quindi, il valore di
scambio che, in un dato sistema di rapporti intersoggettivi, viene attribuito a certe sue
specifiche caratteristiche ambientali ” (Dematteis, 1995).
Spazio geografico e "valore posizionale" in realtà sono presenti anche nel pensiero di
alcuni economisti.
Osserva Aydalot che "l'economia nazionale è sempre servita da unità spaziali di
riferimento fin dalle origini della scienza economica" (Aydalot, 1976). In alcuni casi,
l'analisi economica presuppone, implicitamente, l'esistenza di una "posizione
geografica" degli attori, di cui studia l'interazione, tanto che le stesse relazioni
economiche sono in rapporto alle relazioni tra posizioni.
Discontinuità, complessità e valore posizionale caratterizzano, quindi, lo spazio
geografico che ha, come elemento cardine, la città, intesa come nodo o carrefour
complesso, costituito da relazioni tra le attività che contribuiscono alla generazione delle
discontinuità (determinate da quel fenomeno che Krugman definisce "concentrazione"),
qualificano la complessità, identificano la posizione, quantificano la capacità del nodo di

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attivare relazioni interne e di avere relazioni con l'esterno e, quindi, di connotarsi come
elemento complesso di strutturazione dello spazio geografico.
La valutazione delle relazioni all'interno del nodo e delle relazioni tra i nodi, permettono
d’identificare lo specifico dello spazio geografico che concorre ai processi di sviluppo
regionale.
La definizione di un paradigma in grado di generare una teoria geografica dei fattori che
incidono sui processi di sviluppo deve prendere in conto l'individuazione dei connotati
dello spazio geografico in cui "discontinuità", "complessità", "posizione" e "relazioni"
assumono un ruolo chiave.
La "discontinuità", che caratterizza ogni spazio geografico, è strettamente correlata alla
reticolarità ed al grado di reticolarità. Rappresenta la maggiore o minore coesione della
rete e può costituire, attraverso l'individuazione del "grado di discontinuità geografica",
la capacità maggiore o minore di determinare quei fattori economici che incidono sullo
sviluppo regionale.
La lettura unitaria delle discontinuità - con un processo inverso a quello delle
discontinuità storiche di Geschenkron - e l'individuazione di modelli strutturali,
permettono di contribuire all’individuazione delle specificità dello spazio geografico.
Va osservato, a questo proposito, che l'elevata coesione della discontinuità geografica
(ad esempio sotto forma d’interazione di funzioni, di attività, di caratteri sociali e culturali
della popolazione, di aspetti ambientali in senso lato) è l'ingrediente base di un elevato
grado di reticolarità, che è in antitesi ad uno spazio geografico continuo. La Megalopoli
di Gottmann è uno spazio geografico discontinuo con elevato grado di coesione e di
complessità, mentre le imponenti urbanizzazioni del Sud-Est asiatico sono uno spazio
geografico dotato di maggiori caratteri di continuità ma caratterizzato da una debole
complessità e da uno scarso grado di coesione.

2. CRESCITA E SVILUPPO
Crescita e sviluppo sono termini spesso usati come sinonimi, mentre in realtà
rappresentano concetti sostanzialmente diversi tra loro.
La crescita di un Paese può essere definita come un aumento complessivo della
produzione per unità di fattori produttivi.
Lo sviluppo è un termine più generale che riguarda il miglioramento, non solo
quantitativo, ma anche qualitativo, del sistema socio-economico, con cambiamenti nella
distribuzione settoriale dei fattori produttivi e nella distribuzione del reddito.
Se il prodotto interno lordo (PIL) rappresenta un adeguato indicatore della crescita, la
distribuzione del reddito - più ancora che il reddito pro capite - misura lo sviluppo, dato
che permette di apprezzare la cosiddetta "qualità della vita" (Meier, 1984).
Un incremento della produzione, infatti, non necessariamente incide in modo rilevante
sulla distribuzione del benessere economico della popolazione in tutte le sue
componenti.
La distinzione tra crescita e sviluppo, tuttavia, è meno netta di quanto si possa pensare,
soprattutto perché, alle sue origini, la teoria dello sviluppo economico ha considerato,
come prioritaria, la crescita del prodotto nazionale lordo, trascurando gli effetti
distributivi e ponendo l’ipotesi che i benefici della crescita economica, acquisiti

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inizialmente solo dalle classi sociali più ricche, si diffondono, in tempi successivi, alle
classi più povere.
Nel secondo dopoguerra, tra il 1950 e il 1960, il tema delle relazioni tra crescita
economica e distribuzione del reddito acquista maggiore importanza, soprattutto ad
opera di Kuznets (Kuznets, 1963). Lo sviluppo diviene nozione molto più ampia e
complessa, con caratteri dinamici e si caratterizza come un processo che ha luogo nel
tempo e nello spazio. Esso viene definito come un miglioramento qualitativo e
quantitativo del benessere economico della popolazione ed implica cambiamenti nella
struttura della produzione e della distribuzione settoriale dei fattori produttivi.
Se il PIL rappresenta un adeguato indicatore della crescita, la distribuzione del reddito -
più ancora che il reddito pro capite - misura lo sviluppo, dato che permette di
apprezzare la cosiddetta "qualità della vita".
Molti autori tendono ad inglobare, nel concetto di sviluppo economico, quello più
generale di sviluppo. Lo sviluppo economico presuppone un modello di crescita e di
distribuzione di grandezze economiche, che determina effetti sul sistema complessivo
della “qualità della vita” e sul grado di sviluppo sociale, culturale, sanitario, abitativo,
politico, dei diritti civili e, quindi, sul grado di sviluppo complessivo di un Paese.
Molti economisti dello sviluppo affermano il ruolo e l’importanza di aspetti non
economici nel processo di sviluppo economico. Essi introducono, implicitamente,
differenziazioni e discontinuità sulla superficie della terra in grado di spiegare, in diversa
misura, la non omogeneità dei processi di sviluppo. Non è un caso che, un economista
come Hagen affermi che la variabile strategica fondamentale dello sviluppo economico
è da ricercarsi nelle modificazioni della personalità culturale della popolazione
(Hagen, 1962).

3. SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO
Un punto che merita attenzione è la differenza sostanziale tra sviluppo e
“sottosviluppo”.
La teoria dello sviluppo può essere considerata come quella parte della teoria che
riguarda le tendenze di lungo periodo del sistema economico (Hicks, 46). E’ quindi parte
della dinamica economica o, meglio, uno dei metodi della dinamica economica.
Lo sviluppo è quindi un processo, un mutamento delle condizioni oggettive e
soggettive della produzione e dei rapporti tra i diversi livelli delle attività sociali che
modificano la forma del modo di produzione e della formazione sociale senza
eliminarne i caratteri essenziali.
I fattori dello sviluppo erano stati già affrontati dai classici (Smith, Ricardo) e in parte
anche se marginalmente in Marx. Lo stesso Malthus, come si vedrà in seguito, trattava
del problema delle risorse e dei vincoli alla crescita.
La teoria dello sviluppo economico di fatto prescinde – almeno fino agli anni quaranta -
dalle problematiche del sottosviluppo.
Lo stesso modello di Harrod sulla crescita regionale (Harrod, 1939; 1948) e le
successive formulazioni di Domar (Domar, 1946; 1947) determinano l'andamento che
deve avere la produzione del reddito perché la crescita di un sistema economico
(composto da un solo settore, chiuso, e senza finanza pubblica e moneta) continui
indefinitamente in equilibrio

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L’affermazione di un ramo della teoria economica relativa allo sviluppo economico in un
periodo nel quale il problema del sottosviluppo costituiva una delle maggiori
preoccupazioni degli economisti, ha contribuito a far pensare che fra le due ci fosse una
effettiva connessione.
In realtà, l’economia del sottosviluppo non rappresenta un’area di ricerca formale o
teorica. Si tratta di un ramo di rilevanza pratica nel quale si richiedono i contributi di ogni
ramo della teoria, includendo contributi non economici come quelli della sociologia o
della geografia.
Mentre lo sviluppo è un processo che investe sia i paesi avanzati che quelli con livelli di
reddito e qualità della vita arretrati, il sottosviluppo individua uno stato in cui si trova un
Paese ed è sinonimo di povertà.
Il sottosviluppo in senso statico definisce lo stato di una economia in confronto ad
altre e, in particolare, lo scarto esistente tra esso e un determinato standard assunto
come rappresentativo dello stato di sviluppo.
Il sottosviluppo in senso dinamico può essere interpretato come un processo che si
svolge nell’arco di un tempo storico e che determina l’incapacità dell’economia di un
paese di riprodursi nelle dimensioni e nelle forme che la caratterizzavano in un dato
momento. Viene quindi concettualizzata una crisi e una decadenza di un sistema
economico e sociale che hanno come effetto di portarle ad uno stato di sottosviluppo. Il
sottosviluppo come processo analizzato nei fattori che lo determinano e nelle modalità
che presenta in diverse situazioni spiega il sottosviluppo come stato.
Il non sviluppo è un concetto che definisce una situazione di stagnazione in cui una
economia tende a riprodursi nelle stesse forme e dimensioni che l’hanno caratterizzata
a lungo nel passato o che si sono determinate in un certo momento. Questa situazione
può presentarsi sia per Paesi che in seguito ad un processo di sottosviluppo si trovano
nello stato di Paesi sottosviluppati sia per Paesi che non hanno conosciuto la crisi e la
decadenza che caratterizzano quel processo.
Lo sviluppo si distingue anche da un altro processo definito come transizione, che
consiste nel passaggio di una economia e di una società da un modello di produzione e
sociale ad un modello diverso.
Se il sottosviluppo non viene considerato uno stato originario ma il risultato del
processo storico nel corso del quale si è formato un sistema mondiale con aree centrali
ed aree periferiche, lo studio dei paesi sottosviluppati deve partire dai modi in cui nel
tempo si è formata la periferia e si sono determinati i rapporti con il centro.
Lo studio del sottosviluppo è quindi prima di tutto uno studio del processo di
perifericizzazione di una parte del mondo in cui la decolonizzazione è solo un
aspetto - anche se rilevante - dei mutamenti che nei decenni del dopoguerra avvengono
nei Paesi periferici e nei suoi rapporti con i Paesi sviluppati.
Alla dottrina economica di tipo evoluzionistico prevalente negli anni Cinquanta, basata
in gran parte sulla convinzione che anche i paesi sottosviluppati, dopo la
decolonizzazione, avrebbero potuto seguire gli stessi schemi dei paesi industrializzati
arrivando ad un risultato analogo, si sono affiancate teorie per le quali il sottosviluppo
non è una questione di semplice arretratezza dello stadio di sviluppo, ma di
sfruttamento dovuto alla divisione internazionale del lavoro di origine coloniale.
4. IL SOTTOSVILUPPO

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La definizione di Paese sottosviluppato è relativa e si riferisce ad una vasta gamma di
caratteristiche economiche, demografiche, sociali e politiche che non possono venire
attribuite in egual misura a tutti i Paesi.
In generale, il sottosviluppo è caratterizzato da bassi indici di industrializzazione e di
reddito procapite, associati ad indici elevati di mortalità infantile (congiunti a un forte
incremento demografico), di dipendenza dalle esportazioni di materie prime, di debito
estero, di analfabetismo.
La problematica del sottosviluppo era stata affrontata in un articolo di Wilfred Benson
dedicato al progresso economico delle aree sottosviluppate, ma l’introduzione del
sottosviluppo come un tema di politica economica internazionale è avvenuto nel 1949
quando il presidente americano Harry Truman mise in evidenza l’esistenza di profondi
squilibri tra le diverse aree del mondo e la necessità di definire politiche di aiuti ai paesi
sottosviluppati (underdeveloped countries) con l’obiettivo di rendere disponibili i benefici
del progresso tecnico per il miglioramento dei paesi in stato di sottosviluppo.
Su questa linea, la CEPAL, Commissione Economica per l’America Latina costituita
dall’ONU, mise in rilievo negli anni ’50 le profonde asimmetrie che caratterizzavano gli
scambi internazionali
Il tema del sottosviluppo è stato approfondito a partire dagli anni sessanta da numerosi
studiosi tra cui André Gunder Frank, uno dei fondatori della Teoria della Dipendenza e
del World Systems Theory (Teoria del Sistema Mondo).. Egli sosteneva che i paesi
ricchi e industrializzati hanno in vario modo bloccato i processi di sviluppo dei paesi
poveri ad economia prevalentemente agricola, con politiche ed interventi mirati a
proteggere la propria posizione privilegiata nel commercio internazionale.
Negli anni cinquanta, fu introdotta una ripartizione del sistema mondo che si basava
essenzialmente sugli allineamenti politici dei Paesi. Nel 1952 l'economista e demografo
francese Alfred Sauvy (Alfred Sauvy, L'Europe et sa population, Paris, Editions
internationales , 1953, 221, XVI; Theorie generale de la population / par Alfred Sauvy . -
Paris : PUF, 1956-1959. - 2 v.) introduceva la ripartizione del sistema mondo in “Tre
Mondi”: il Primo Mondo era identificato con le vecchie e nuove potenze coloniali e, più
in generale, con i paesi industrializzati e ad economia di mercato; il Secondo Mondo era
costituito dai Paesi con economie pianificate centralmente (di fatto i Paesi appartenenti
al blocco comunista); il Terzo Mondo raggruppava i paesi ex coloniali e non allineati, in
prevalenza dell'Asia e dell'Africa, accomunati oltre che dalla posizione economica e
politica subalterna, dal fatto di non collocarsi in nessuno dei primi due mondi. Nel corso
degli anni, la distinzione fra i Tre Mondi è andata assumendo una connotazione più
marcatamente economica, inserendo il terzo Mondo nei Paesi più arretrati e poveri.

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Ripartizione del sistema mondo in “Tre Mondi”

In anni più recenti, per differenziare in modo migliore i Paesi posizionati in un’area di
sottosviluppo ma con prospettive di miglioramento (i c.d. paesi in via di sviluppo, PVS)
dai paesi con livelli di forte povertà e arretratezza e con scarse prospettive di crescita, è
stato introdotto il termine Quarto Mondo, anche se la letteratura anglosassone – e in
particolare le Nazioni Unite - utilizzano l’espressione least developed countries, riferita a
circa cinquanta Paesi rappresentanti circa il 12% della popolazione mondiale e lo 0,6%
del PIL mondiale (a titolo di esempio, Liberia, Bangladesh, Congo, Sierra leone,
Sudan). I criteri utilizzati dalle nazioni Unite per l’identificazione di questi Paesi sono,
oltre al reddito pro capite, anche la qualità della vita degli abitanti e la vulnerabilità della
base economica.

Least developed countries

Per meglio interpretare la varietà di situazioni geografiche che caratterizzano le aree


sottosviluppate, sono stati elaborati ulteriori schemi e classificazioni geografiche. Un
contributo di particolare interesse è stato proposto da Bjorn Hettne (1990) che individua
in un cluster i Paesi meno svantaggiati e con maggiori possibilità di sviluppo all’interno
dei Paesi del Terzo Mondo, che di fatto possono essere associati alla semiperiferia.
Questi sono paesi che stanno acquisendo un sempre maggiore rilievo per dimensioni
demografiche (Cina e India), per buona dotazione di risorse strategiche (Medio
Oriente), per rapida espansione industriale (Sud Est asiatico) e in un altro cluster i paesi
caratterizzati da profonda arretratezza, colpiti da forti recessioni e da crisi congiunturali,

13
o paesi che per la loro collocazione geografica creano situazioni di isolamento dai
circuiti economici mondiali. Rientrano in questa categoria numerose realtà dell’Africa
centrale.

Paesi emergenti od in transizione o di recente industrializzazione

Nel 1985 Kenichi Ohmae osservò che l’economia mondiale è di fatto organizzata
intorno ad una struttura macroregionale tripolare (la Triade Globale) i cui pilastri
sono gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone che insieme dominano l’economia
mondiale costituendo quasi i due terzi del PIL mondiale, più di metà delle esportazioni,
elevati investimenti diretti esteri. La presenza all’interno della Triade di mercati
interconnessi e di regimi politici ed economici simili ha portato a complesse forme di
cooperazione e di competizione. Tuttavia, all’inizio del terzo millennio, la Triade sta
acquisendo altri paesi come la Cina, l’India, altre realtà del sud est asiatico il cui peso
economico e la cui integrazione vanno crescendo sempre più nel sistema economico
mondiale.
Uno degli approcci ricorrenti per l’individuazione dei Paesi con caratteristiche di
sottosviluppo è nota come modello centro-periferia. La rappresentazione del sistema
mondiale come contrapposizione tra Paesi centrali e periferici risale ai lavori di Meier e
Baldwin (1957) i quali individuarono i Paesi del centro come quelli caratterizzati da un
ruolo attivo e dominante nel commercio mondiale. Si tratta di Paesi caratterizzati da una
economia ricca di tipo industriale in grado di generare elevati flussi commerciali e
finanziari. Al contrario i paesi periferici assumono un ruolo passivo o marginale nel
commercio mondiale ed hanno la caratteristica principale - oltre ad una economia
povera, prevalentemente agricola e dotata di scarsa o nulla tecnologia – di essere
dipendenti dalle aree centrali per le importazioni di prodotti trasformati e dai capitali
esteri.
La contrapposizione tra centro e periferia del sistema – mondo è alla base di
numerose catalogazioni del mondo in chiave di partizione geografica.
Una delle più note classificazioni è la rappresentazione contenuta nel Rapporto Brandt
(Indipendent Commission on International Development Issues, 1980) in cui la
contrapposizione tra Paesi centrali e periferici viene sintetizzata con i termini Nord (tutti i
Paesi dell’emisfero settentrionale più Nuova Zelanda e Australia) e Sud del mondo
(geograficamente posto sotto la linea immaginaria di Brandt che divide i Paesi sviluppati

14
dai Paesi in via di sviluppo).

Linea di Brandt

La ripartizione del sistema economico mondiale in centro, semiperiferia e periferia si


fondò principalmente sulla teoria del sistema-mondo di Wallerstein (1985) in cui
considera il mondo come un unico sistema capitalistico all’interno del quale i vari Paesi
assumono ruoli diversi in relazione alla divisione internazionale del lavoro, al commercio
mondiale, alla tecnologia adottata. Ne deriva un rapporto gerarchico tra Paesi centrali e
periferici che non esclude variazione di composizione: alcuni paesi possono migliorare
e nel tempo divenire Paesi centrali mentre altri possono decadere e passare ad uno
stato di semiperifericità o di periferia.

5. FATTORI STRUTTURALI DEI PVS CHE CAUSANO SQUILIBRI MACROECONOMICI.


Sono definiti paesi in via di sviluppo (in un acronimo, PVS) tutti quei paesi che
presentano bassi tassi di crescita del Reddito Nazionale e del Reddito pro capite,
ristretta base industriale, scarsa accumulazione del capitale, alta percentuale di povertà
assoluta, basso tenore di vita – come da indicatori ISU circa sanità, mortalità, fame ed
educazione.
I fattori principali che portano alcuni Paesi a presentare un marcato sottosviluppo
possono essere sintetizzati come segue:
– specializzazione internazionale sfavorevole, vulnerabilità e ciclo economico
pronunciato. I PVS meno sviluppati si specializzano spesso nella produzione ed
esportazione di beni di consumo ad alta elasticità rispetto al prezzo e bassa
elasticità rispetto al reddito pro capite dei paesi importatori. Importano al contrario
macchine, beni intermedi e beni di consumo ‘inferiori’ (alimenti) e cioè beni ad alta
elasticità rispetto al loro PIL/c e bassa elasticità rispetto al loro prezzo
d’importazione. Molti di questi paesi tendono ad avere economie aperte, con
ridotto controllo sui prezzi dei beni che importano ed esportano. Le loro ragioni di
scambio (terms of trade) sono dunque esogene, data la piccola quota di
commercio internazionale che controllano. Sono generalmente dei price takers e
per questo la loro domanda aggregata è più soggetta a shocks esogeni che quella
di economie con maggiore quota di mercato che influiscono maggiormente sulla

15
formazione dei prezzi dei beni esportati/importati. Inoltre, le esportazioni dei PVS
sono molto concentrate sia per tipi di beni esportati che per paesi di destinazione.
Questo basso grado di diversificazione espone i paesi a shocks esogeni maggiori
di quelli di paesi con esportazioni differenziate sia per composizione merceologica
che per paesi di destinazione. Inoltre, l’offerta di beni di esportazione coloniali è
rigida nel medio termine a causa della lunga gestazione iniziale degli investimenti
nelle colture d’esportazione (ad esempio tè, caffè, ecc sono colture arbustive che
fruttificano solo dopo vari anni). Questo significa che, di fronte ad una caduta della
domanda internazionale di tali beni, l’aggiustamento avviene più sui prezzi che
sulle quantità. Il contrario avviene per i prodotti industriali a offerta elastica per i
quali una contrazione della domanda internazionale porta ad una maggiore
contrazione della offerta.
Questa maggiore vulnerabilità esterna si riflette spesso in un ciclo economico
molto marcato che è più difficile da stabilizzare rispetto a quello di paesi con
fluttuazioni economiche pronunciate, e che può causare perdite di benessere non
solo temporanee ma anche permanenti, perdite cioè che modificano anche il
livello di benessere futuro. Infatti, di fronte a shocks di forte intensità, una parte
importante della popolazione non è spesso più in grado di adottare ‘strategie di
sopravvivenza sostenibili’ (che non modificano il livello di benessere di lungo
periodo) come ad esempio la sostituzione di calorie costose con calorie a buon
mercato e deve adottare ‘strategie di sopravvivenza non-sostenibili’ come ad
esempio, la riduzione del consumo alimentare che nei bambini può portare – se
protratta un periodo di tre mesi - a malnutrizione acuta;
– forte dipendenza dalle importazioni di beni intermedi e d’investimento. Nei PVS, le
importazioni di tali beni (che hanno bassa elasticità rispetto al prezzo e alta
elasticità rispetto al reddito) superano spesso il 70-80% delle importazioni totali.
Inoltre, il forte contenuto in input importati sulla produzione finale fa sì che le
‘svalutazioni competitive’ generino benefici limitati;
– basso risparmio interno, dipendenza dai capitali stranieri e fughe di capitali. Causa
la loro debole capacità di generare risparmio interno, per accelerare la loro
crescita molti PVS si indebitano verso l’estero a tassi di interessi variabili. In
questo modo divengono debitori netti verso l’estero e sono esposti ovviamente a
mutamenti dei tassi d’interesse, delle fluttuazioni del cambio e delle condizioni di
rimborso. L’indebitamento estero è quindi una questione centrale nella politica
macroeconomia di molti PVS, un problema che condiziona la scelta del regime di
tasso di cambio e la politica fiscale. Il fatto che i PVS siano importatori netti di
capitali limita il ricorso alla svalutazione del tasso di cambio: il debito infatti è
espresso in dollari, e ogni qualvolta il cambio cede il valore del debito espresso in
moneta nazionale, aumenta proporzionalmente all’ammontare della svalutazione.
Paradossalmente, molti PVS sono anche esportatori di capitale. A volte infatti,
mentre il settore pubblico (e a volte le imprese) si indebitano, i privati esportano
legalmente o illegalmente capitali (in questo caso si parla di ‘fughe di capitali’). Si
giunge spesso dunque ad una situazione in cui il settore pubblico è fortemente
indebitato (e paga interessi elevati su tale debito) mentre il settore privato detiene
attivi finanziari esteri;

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– rigidità strutturali, mercato dei beni e pressioni inflazionistiche. Nei PVS l’inflazione
è spesso influenzata da conflitti distributivi fra classi sociali (i lavoratori, i rentiers, i
capitalisti, i commercianti) che innalzano continuamente il livello dei prezzi dei beni
che controllano, modificandone i prezzi relativi e generando così un’inflazione
inerziale; meccanismi di formazione dei prezzi che propagano l’inflazione; rigidità
strutturali che, in presenza di un aumento di domanda, spingono verso l’alto il
prezzo o le importazioni dei ‘beni salario’ (cibo, abitazioni) invece che portare ad
un aumento significativo dell’offerta. Questo è il caso tipico dell’agricoltura, un
settore dove l’offerta di alimenti cresce lentamente ed in maniera instabile causa
carenze strutturali e dipendenza dall’alea climatica. Un aumento della domanda
d’alimenti in PVS a basso reddito porta spesso ad un aumento dei prezzi dei
generi alimentari che, visto il loro elevato peso nei consumi complessivi, trascina
verso l’alto l’inflazione complessiva;
– import-export gap. In molti PVS, la crescita è frenata da un elevato squilibrio del
rapporto Export-Import e da fughe di capitali;
– finanza pubblica debole e bilancio dello Stato in disavanzo. La spesa pubblica è
‘rigida’, non può cioè essere facilmente ridotta, specie in virtù del suo basso livello.
In molti PVS il gettito tributario è al di sotto del livello desiderabile a causa delle
difficoltà incontrate nel tassare élites politicamente importanti o accertare i redditi
del settore agricolo. Lo strumento tributario è dunque inadeguato e poco flessibile
e la possibilità di collocare debito pubblico sul mercato domestico modesta. Il
gettito tributario (tasse/PIL) fluttua fortemente con il ciclo economico ed ha
un’elasticità rispetto al PIL più pronunciata che nei paesi sviluppati a causa delle
caratteristiche strutturali dell'economia. Alcune ricerche rivelano che una riduzione
dell'1% del PIL provoca una riduzione delle entrate tributarie del 5% nei PVS e
dell’1.8% nei paesi sviluppati. Tutto ciò riduce la possibilità d’usare la politica
fiscale per sostenere o raffreddare la domanda aggregata, incoraggia l’emissione
di moneta per il finanziamento del disavanzo di bilancio e genera maggiori
pressioni sull’inflazione;
– inflazione inerziale: tende cioè ad autoriprodursi spontaneamente anche in
assenza di shock inflazionistici specie se si adottano meccanismi di indicizzazione
automatica di prezzi e salari. Ma l’inflazione può rimanere elevata anche in
assenza di indicizzazione di prezzi e salari. Ciò avviene in paesi caratterizzati da
forti aspettative inflazionistiche (spesso non giustificate dai fondamentali macro).
In questo caso, gli agenti economici non hanno ‘aspettative razionali’, non
riescono cioè a prevedere correttamente il futuro.

I divari tra paesi sviluppato e sottosviluppati non si attenuano ma anzi, in alcuni casi
aumentano:
 La differenza di ricchezza tra Nord e Sud del Mondo era nel 1965 di 30:1 mentre
oggi è di 70:1;
 Il 20% più ricco dell’umanità possiede l’86% della ricchezza (il 70% nel 1965);
 il 20% più povero dispone dell’1,3% della ricchezza mondiale;
 1,3 miliardi di persone vivono con meno di 1 $ al giorno e 800 milioni soffrono la
fame;

17
 negli ultimi 25 anni 200 milioni di persone sono morte a causa della fame, più del
quadruplo rispetto ai morti della Seconda guerra mondiale.
All’inizio del terzo millennio, nuovi fattori tendono a ridisegnare la fisionomia
geoeconomica e politica del mondo. Si ha un graduale ma costante processo di
differenziazione e ridistribuzione delle gerarchie interne ai paesi del Terzo Mondo e
processi analoghi si verificano nei paesi ex Unione Sovietica.
Tra i paesi che erano caratterizzati da sottosviluppo, si individuano oggi alcuni cluster di
paesi che tendono agli standard delle economie più avanzate, configurando un Nord del
Sud del mondo.
Un primo cluster riguarda i paesi a rendita petrolifera (Algeria, Arabia Saudita, Bahrein,
Brunei, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Iran, Iraq, Indonesia, Kuwait, Libia, Oman,
Venezuela ecc.). Un secondo cluster è quello delle Newly Industrialized Economies: le
cosiddette "tigri " dell'Asia orientale (Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore),
caratterizzate da sostenuti ritmi di crescita economica e da una forte presenza sul
mercato internazionale. Allo stesso cluster, sia pure con tassi di crescita inferiori,
appartengono i cosiddetti "quattro dragoni "(Filippine, Indonesia, Malaysia e Thailandia)
Il paese senz'altro a più rapida industrializzazione dell'Asia, se non del mondo, è la
Cina, con un tasso costante di crescita a due cifre per oltre un decennio e in procinto,
dopo l'annessione di Hong Kong e Macao, di ricoprire un ruolo leader mondiale anche
in campo economico.
Il terzo cluster di paesi emergenti è eterogeneo e comprende paesi di grandi dimensioni
che dispongono di una forte base agricole o mineraria e un discreto apparato industriale
(Argentina, Brasile, India, Messico e Sudafrica), o che sono in una fase di decollo
industriale più o meno avanzato (Egitto, Turchia).
La Banca Mondiale ha ripartito i paesi del mondo, comprese alcune dipendenze, in
quattro classi di reddito secondo il seguenti parametri: paesi a reddito basso con reddito
pro capite annuo inferiore a 900$; paesi a reddito medio-basso, compreso tra 900$ e
3.700$; paesi a reddito medio-alto compreso tra 3.700$ e 11.500$; paesi con reddito
pro capite superiore a 11.500.

Classificazione dei paesi del mondo sulla base del reddito pro capite (World Bank)

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Le prime tre classi corrispondono alla categoria dei paesi in via di sviluppo (PVS).
La quarta classe comprende paesi a reddito pro capite molto basso, localizzati
prevalentemente nell’Africa sub sahariana che sembra avere le peggiori prospettive
future: mancanza di infrastrutture, scarsa qualificazione della forza lavoro, scarsa
disponibilità di materie.
A partire dal 1990, il United Nations Development Programme (UNDP) ha elaborato un
Rapporto sullo Sviluppo Umano nei paesi del mondo.
Il concetto di Sviluppo Umano supera il rigido parametro del reddito pro capite e prende
in esame alcuni ambiti fondamentali dello sviluppo economico e sociale: la promozione
dei diritti umani e l'appoggio alle istituzioni locali con particolare riguardo al diritto alla
convivenza pacifica, la difesa dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile delle risorse
territoriali, lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali con attenzione prioritaria ai problemi
più diffusi ed ai gruppi più vulnerabili, il miglioramento dell'educazione della
popolazione, con particolare attenzione all'educazione di base, lo sviluppo economico
locale, l'alfabetizzazione e l'educazione allo sviluppo, la partecipazione democratica,
l'equità delle opportunità di sviluppo e d'inserimento nella vita sociale.
Il Rapporto introduce il nuovo Patto di Sviluppo del Millennio che prevede nuove
politiche per attivare un processo di crescita economica e di sviluppo sociale e di
riduzione della povertà.

Rapporto UNDP 2005

Un metodo usato dalla World Bank per misurare la povertà è basato sul livello di reddito
pro capite o di consumo pro capite. Una persona è considerata povera, se il suo
consumo o reddito è al di sotto di una soglia minima per soddisfare i suoi bisogni di
base che devono essere parametrati al costo della vita e, quindi, al sistema dei prezzi
per i singoli beni di consumo. La World Bank traccia una soglia di povertà di 1$ e 2$ al
giorno: nel 2001, 1.1 mld di persone ha avuto livelli di consumo < 1$/g e 2.7 mld < 2$/g.

19
Spezzare il sottosviluppo è fondamentale per mettere in moto un qualsiasi processo
evolutivo nei Paesi del Sud, ma il perseguimento di tale obiettivo deve fare i conti anche
con un elemento decisivo: la natura del commercio internazionale, che ha un ruolo
fondamentale nell'aggravio del differenziale di sviluppo esistente tra Nord e Sud del
mondo.
L'attuale dimensione planetaria degli scambi ha consentito, infatti, un enorme aumento
del volume dei commerci e nello stesso tempo accentuato le interdipendenze tra i
diversi Paesi.
I flussi di merci, che interessano il mercato internazionale, possono essere suddivisi in
due principali settori: le materie prime e i prodotti ottenuti dalla lavorazione industriale.
Dal punto di vista della direzione dei flussi, invece, l'analisi si concentra sugli scambi
che avvengono tra Nord e Sud e tra Sud e Sud.
Lo scambio Sud - Sud è difficile da quantificare con precisione, perché gran parte di
esso avviene con il sistema del baratto che non sempre viene registrato. Ciò accade
perché molti dei paesi coinvolti in questi tipi di scambio non dispongono di valuta da
utilizzare nelle transazioni tradizionali.
Allo stato attuale comunque l'importanza economica degli scambi Nord - Sud è di gran
lunga preponderante.
Per quanto concerne la produzione agro - alimentare, carni e cereali si dirigono in
prevalenza dal Nord al Sud del mondo, mentre caffè, tè, frutta tropicale, ecc… fanno il
percorso inverso. Questa composizione degli scambi è assai penalizzante per i PVS,
che sono costretti ad acquistare alimenti indispensabili alla sopravvivenza delle loro
popolazioni, con una conseguente posizione di debolezza sul mercato.

20
La stessa condizione precaria si manifesta nella commercializzazione dei prodotti
agricoli destinati alle lavorazioni industriali. Anche in questo caso il flusso, che interessa
prodotti come il cotone, la seta, il legname, il tabacco, si svolge in prevalenza in
direzione Sud - Nord.
Risorse minerarie e prodotti industriali finiti si intrecciano a comporre l'altro grande
segmento dei traffici commerciali, quello Nord - Sud.
Nel complesso si può affermare che i Paesi del Terzo Mondo offrono sul mercato
materie prime, dalla cui vendita traggono l'unica possibilità di ottenere la valuta pregiata
necessaria all'acquisto di prodotti finiti indispensabili per la sussistenza della
popolazione e per tentare di incrementare lo sviluppo economico.
Pertanto, essendo il valore delle materie prime complessivamente inferiore a
quello dei prodotti industriali, ne scaturiscono ragioni di scambio negative per i
PVS, costretti a vendere quantità sempre maggiori di materie prime per procurarsi
un'immutata quantità di manufatti.
Il deterioramento dei termini reali di scambio costituisce dunque una perdita di potere
d'acquisto dei PVS, a favore dei Paesi sviluppati.
I rapporti commerciali internazionali sono quindi regolati da uno scambio ineguale
determinato proprio dal diverso grado di sviluppo economico e tecnologico che
contraddistingue i due gruppi di Paesi.
Questa situazione però, è finita anche bene per alcuni Paesi che hanno avuto un
consistente aumento del reddito. Essi sono riusciti ad attirare investimenti delle
multinazionali e a creare una rete industriale specializzata nei manufatti a basso valore
aggiunto; i vantaggi sono stati rilevanti, a partire dalla loro crescente quota di
partecipazione al commercio internazionale. Anche i Paesi produttori di petrolio sono
riusciti a conseguire una posizione di rilievo, rispetto ad altri Paesi del Sud del mondo,
in virtù del forte afflusso di valuta pregiata ottenuta dalla vendita di petrolio e di gas
naturale.
Caratteristica della maggior parte dei Paesi a sviluppo intermedio è un forte
indebitamento con l'estero che in molti casi ha finanziato alcune fasi del loro sviluppo
economico.
Creditori sono soprattutto la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e
diversi istituti bancari, pubblici e privati, dei Paesi più industrializzati
La restituzione dei finanziamenti ottenuti avviene tramite il pagamento del servizio sul
debito, cioè di parte del capitale a cui vengono aggiunti gli interessi passivi.
Il servizio sul debito è spesso molto oneroso e lo è stato ancora di più in passato, prima
che accordi tra i Paesi e gli istituti finanziari portassero ad una riduzione e dilazione nel
tempo (la cosiddetta rinegoziazione).
I nuovi accordi più favorevoli sono stati però concessi in cambio di aggiustamenti
strutturali, cioè di interventi statali basati su privatizzazioni, riduzione della spesa
pubblica e una più ampia apertura agli scambi con l'estero.
Queste iniziative economiche hanno in molti casi comportato gravi costi per la
popolazione meno abbiente poiché la riduzione delle spese sociali ha ristretto per molti i
margini di sopravvivenza.

21
II
TEORIE DI SVILUPPO REGIONALE

1. SVILUPPO E POPOLAZIONE
1.1. La trappola malthusiana
Con I Principi della popolazione pubblicato nel 1798, T.R. Malthus sostiene che la
crescita demografica non è una ricchezza per la nazione, come teorizzava la maggior
parte degli studiosi dell'epoca e introduce una stretta relazione tra aumento della
popolazione e disponibilità di generi alimentari.
Malthus identifica la causa principale della povertà nel fatto che la popolazione tende ad
aumentare più rapidamente di quanto non aumentino i generi alimentari. La
popolazione cresce infatti secondo una progressione geometrica (successione di
numeri tali che il rapporto tra due elementi consecutivi è sempre costante) per cui ogni
singolo aumento è principio di moltiplicazione degli aumenti successivi. Al contrario, le
risorse dei generi alimentari aumentano secondo una progressione aritmetica
(successione di numeri tali che la differenza tra ciascun termine e il suo precedente è
costante) per cui l'aumento delle risorse non riesce a tenere il passo con la crescita
della popolazione. Malthus dimostrò che qualsiasi tasso d’incremento della
popolazione, per quanto piccolo, avrebbe portato alla fine all’esaurimento di tutte le
risorse alimentari.
Malthus introduce il concetto di salario di sussistenza, ossia il livello medio del salario
necessario per soddisfare le esigenze ritenute fondamentali: ad un aumento del salario
al di sopra dei livelli di sussistenza, in genere si assiste a un miglioramento del tenore di
vita e quindi ad un aumento della popolazione (maggiori nascite, minore mortalità
infantile). L’incremento di domanda di generi alimentari spinge la popolazione a
coltivare terre sempre meno fertili con conseguente penuria di generi di sussistenza per
giungere all'arresto dello sviluppo economico dato che il rendimento dei terreni tende a
decrescere con la messa a coltura di terre non adatte alla coltivazione.
Di conseguenza, politiche e azioni finalizzate a migliorare le condizioni sociali avrebbero
generato, per Malthus, un aumento della popolazione e quindi un successivo
peggioramento di disponibilità di risorse alimentari contrapponendo quindi una ipotetica
capacità della popolazione di aumentare secondo un determinato saggio ad una
effettiva incapacità della produzione alimentare di crescere allo stesso saggio.
Malthus diede molta importanza alla teoria sistematica dello sviluppo. Egli definisce il
problema dello sviluppo come la spiegazione della differenza tra il prodotto nazionale
lordo potenziale – ossia la capacità di produrre ricchezza – e il reddito nazionale lordo
effettivo. Egli osserva che l’affermazione secondo cui l’incremento della popolazione è
sufficiente da solo a creare lo sviluppo economico è sbagliato. In primo luogo l’aumento
della popolazione è un prodotto finale dell’intero processo economico. Una crescita
della popolazione non può avere luogo senza un proporzionale aumento del reddito. In
secondo luogo, il semplice aumento numerico non fornisce uno stimolo allo sviluppo
economico. L’aumento di popolazione incoraggia lo sviluppo solo se fa aumentare la
domanda effettiva. A sua volta la domanda dipende dal saggio di accumulazione del
capitale.

22
La popolazione si mantiene stazionaria per redditi al livello di sussistenza dato che
nascite e mortalità si equiparano. Per il reddito pro capite che cresce al di sopra del
livello di sussistenza, sarebbe aumentata la natalità e un maggiore numero di persone
avrebbe avuto abbassato il proprio reddito. Il reddito è così intrappolato, incapace di
espandersi a causa della pressione demografica.
Sebbene il modello della trappola maltusiana sia stato il caposaldo della economia della
popolazione esso ha uno scarso potere esplicativo se applicato alle economie dei paesi
sottosviluppati del XXI secolo. Il punto centrale della teoria di Malthus è che il reddito
pro capite è la sola variabile determinante della crescita della popolazione mentre altri
fattori rilevanti sono la crescita e la distribuzione del reddito e le variabili endogene alla
famiglia.

1.2. La transizione demografica


Negli ultimi due secoli l’industrializzazione ha provocato un mutamento delle modalità di
incremento della popolazione. Questo mutamento nelle tendenze demografiche -
denominato transizione demografica - si manifesta con una caratteristica sequenza di
cambiamenti di tassi demografici. All’interno di tale successione è possibile distinguere
quattro fasi: nella prima fase alto stazionaria,i tassi di natalità e mortalità sono elevati
per cui la popolazione si mantiene ad un livello basso nonostante le fluttuazioni. La
seconda fase di prima espansione è caratterizzata da un elevato tasso di natalità e da
una caduta dei tassi di mortalità, dovuti ad un complessivo innalzamento del reddito e
della qualità della vita e dei servizi sociali. La terza fase di tarda espansione è
caratterizzata da un consolidamento del tasso di mortalità a bassi livelli e da una
riduzione del tasso di natalità. Come risultato, si ha u rallentamento del tasso di
espansione della popolazione. La quarta fase, basso stazionaria è un periodo in cui i
tassi di natalità e di mortalità sono consolidati a livelli bassi per cui la popolazione risulta
stazionaria. Questo periodo differisce dalla fase alto stazionaria in quanto il tasso di
mortalità è più stabile di quello di natalità.
All’inizio del 2009, le Nazioni Unite hanno stimato la popolazione mondiale pari
complessivamente a 6.829.360 persone. Il numero totale degli abitanti del globo è quasi
quadruplicato nel corso del XX secolo registrando, a partire dagli anni ’70, un
incremento netto di un miliardo di persone ad intervalli regolari di 12-13 anni. In
prossimità della fine del primo decennio del XXI secolo,tuttavia, la variazione di 67
milioni intervenuta tra il 2007 e il 2008, pari cioè all’1,0%, sembra preannunciare un
progressivo rallentamento della crescita demografica che dovrebbe andare a
caratterizzare il resto del secolo.
In prospettiva, la soglia degli 8 miliardi di abitanti dovrebbe essere raggiunta nel 2025,
anche se diversi demografi ipotizzano che le proiezioni delle Nazioni Unite possano
essere ridimensionate da una rapida stabilizzazione della popolazione mondiale per
effetto del progressivo miglioramento degli standard di vita.
Stando tuttavia alla revisione delle proiezioni demografiche mondiali, curata nel 2008
dalle Nazioni Unite sulla base dei dati censuari e delle indagini più recenti e della stima
sull’andamento del tasso di fertilità, anche dal punto di vista demografico trova
conferma la tendenza ad una progressiva divaricazione tra Nord e Sud del mondo.
Nei prossimi decenni, infatti, si registrerà nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) una crescita

23
di popolazione tale da colmare di gran lunga gli effetti del declino demografico dei Paesi
a Sviluppo Avanzato (PSA). Nel 2050, pertanto, ad ogni persona in età lavorativa (15-
64 anni) che vivrà in uno dei PSA, ne corrisponderanno 4 nei PVS. Mettendo a
confronto i trend demografici stimati tra il 2005 e il 2050 per il continente europeo e per
quello africano, le previsioni tracciano per il primo un quadro di declino della
popolazione pari ad almeno 38 milioni di persone, mentre nello stesso periodo per il
secondo l’aumento della popolazione dovrebbe superare il miliardo.
La ripartizione per continenti e per grandi aree continentali registra all’inizio del 2009 in
Asia 6 abitanti della Terra ogni 10 (59,2%), ovvero oltre 2 miliardi e 45 milioni di
individui, dei quali più della metà si concentra nell'Estremo Oriente (nella sola Cina 1,3
miliardi).
Al secondo posto della graduatoria delle aree continentali si colloca il Sub-continente
Indiano (1 miliardo e 620 milioni di persone, pari al 23,7% del totale mondiale), dove
l'India registra 1,2 miliardi di persone. Nel corso dell’ultimo anno all’India va riferito un
quinto della crescita della popolazione mondiale e, alla luce delle tendenze in atto, si
stima che entro 20 anni la popolazione indiana possa superare quella cinese (secondo
le previsioni delle Nazioni Unite nel 2050 i cinesi saranno 1.417 milioni e gli indiani
1.614 milioni).
Se, da una parte, due soli paesi come Cina e India, insieme, totalizzano 2 miliardi e
mezzo di cittadini del mondo, dalla parte opposta si collocano quelle che possono
essere definite le aree meno popolose della Terra, come il Vicino e Medio Oriente e i
Paesi asiatici ex sovietici dell’Asia Centrale e del Caucaso Meridionale, dove abitano
rispettivamente 211 milioni e 77 milioni di persone (pari a il 3,1% e l’1,1% della
popolazione mondiale).

2. FATTORI DI DISCONTINUITA’ NEL PROCESSO DI SVILUPPO REGIONALE


Crescita e sviluppo, come già osservato in precedenza, sono termini spesso usati
come sinonimi, mentre in realtà rappresentano concetti sostanzialmente diversi tra loro.
La crescita di un sistema regionale può essere definita come un aumento complessivo
della produzione per unità di fattori produttivi, mentre lo sviluppo, al contrario, è un
termine più generale, che riguarda il miglioramento, non solo quantitativo, ma anche
qualitativo, del sistema socio-economico, con cambiamenti nella distribuzione settoriale
dei fattori produttivi e nella distribuzione del reddito (Meier, 1984). Un incremento della
produzione, infatti, non necessariamente incide in modo rilevante sulla distribuzione del
benessere economico della popolazione in tutte le sue componenti.
Il concetto di crescita economica è descritto dalla teoria dell'equilibrio economico
generale di tipo walrasiano, secondo cui il processo economico nasce dall'incontro, sul
mercato, di tre categorie di soggetti, che hanno, come obiettivo, il conseguimento della
massima utilità individuale: i consumatori, coloro che offrono servizi produttivi, gli
imprenditori.
Uno dei problemi, per i soggetti economici, riguarda la necessità di confrontare
strumenti e risultati delle scelte effettuate. Questo confronto è attuato attribuendo dei
prezzi ai beni ed ai servizi che si formano nello scambio, in modo da ricondurre
quantità, tra loro eterogenee, a valori tra loro omogenei.

24
La relazione prezzo - quantità raggiunge un equilibrio, quando i prezzi e le quantità
sono tali che la posizione di massimo che ciascun soggetto persegue attraverso le
proprie scelte, è compatibile con le posizioni di massimo perseguite da tutti gli altri
soggetti.
La teoria dell'equilibrio economico generale è lo studio di questa configurazione: si
tratta di determinare - sulla base di quantità definite di risorse produttive, di tecniche di
produzione adottate, del sistema di preferenze dei soggetti economici - le quantità dei
beni prodotti e scambiati, ed i prezzi ai quali tali scambi hanno luogo nella
configurazione di equilibrio.
Questo sistema presuppone che le tecniche di produzione e le preferenze dei
consumatori e degli imprenditori siano date e immodificabili. In una economia in cui la
tecnica di produzione e le preferenze dei consumatori non cambiano, il sistema
economico è destinato a raggiungere uno stato stazionario, dove si può verificare una
"crescita " (di tipo prettamente quantitativo), che può avere luogo in corrispondenza
dell'aumento di popolazione e, quindi, della disponibilità di forza lavoro.
La crescita di un sistema economico - e quindi anche dell’economia di una regione - è
interpretabile, secondo questa linea, come un incremento del reddito e della
produzione, distribuito in modo uniforme all'interno di tutti i settori produttivi e di tutti i
soggetti economici del sistema in esame.
Lo sviluppo, si è detto, ha al contrario un significato più ampio. Si può avere crescita
economica con uno sviluppo economico modesto, e con forti squilibri nella distribuzione
del reddito.
La distinzione tra crescita e sviluppo, tuttavia, è meno netta di quanto si possa
pensare, soprattutto perché, alle sue origini, la teoria dello sviluppo economico ha
considerato, come prioritaria, la crescita del prodotto nazionale lordo, trascurando gli
effetti distributivi, e ponendo l’ipotesi che i benefici della crescita economica, acquisiti
inizialmente solo dalle classi sociali più ricche, si diffondono, in tempi successivi, alle
classi più povere.
Nel secondo dopoguerra, tra il 1950 e il 1960, il tema delle relazioni tra crescita
economica e distribuzione del reddito acquista maggiore importanza, soprattutto ad
opera di Kuznets (Kuznets, 1963).
Lo sviluppo diviene, di conseguenza, nozione molto più ampia e complessa, con
caratteri dinamici, e si caratterizza come un processo che ha luogo nel tempo e nello
spazio.
Viene definito come un miglioramento qualitativo e quantitativo del benessere
economico della popolazione, ed implica cambiamenti nella struttura della produzione
e della distribuzione settoriale dei fattori produttivi.
Se il prodotto lordo rappresenta un adeguato indicatore della crescita, la distribuzione
del reddito - più ancora che il reddito pro capite - misura lo sviluppo, dato che permette
di apprezzare la cosiddetta "qualità della vita".
Molti autori tendono ad inglobare, nel concetto di sviluppo economico, quello più
generale di sviluppo.
Lo sviluppo economico presuppone un modello di crescita e di distribuzione di
grandezze economiche, che determina effetti sul sistema complessivo della
“qualità della vita” e sul grado di sviluppo sociale, culturale, sanitario, abitativo,
politico, dei diritti civili e, quindi, sul grado di sviluppo complessivo di una

25
regione. Su queste basi, sviluppo economico e sviluppo regionale sono due termini
diversi, in quanto il secondo ingloba il primo.

Molti economisti dello sviluppo affermano il ruolo e l’importanza di aspetti non


economici nel processo di sviluppo economico. Essi introducono, implicitamente,
differenziazioni e discontinuità sulla superficie della terra, in grado di spiegare, in
diversa misura, la non omogeneità dei processi di sviluppo. Non è un caso che, un
economista come Hagen, affermi che la variabile strategica fondamentale dello sviluppo
economico è da ricercarsi nelle modificazioni della personalità culturale della
popolazione (Hagen, 1962).
I fattori che concorrono alla nozione di sviluppo regionale sono numerosi: il
comportamento dell'individuo nella società, la famiglia, le classi sociali, le differenze
rurale-urbano, l'estensione dell'unità sociale, l'effetto della cultura sulle istituzioni,
l'interazione tra i valori culturali, le caratteristiche morfologiche e climatiche della
regione in cui la popolazione vive.

2.1. Teoria degli stadi e sviluppo regionale.


Agli inizi degli anni sessanta, Gerschenkron definisce la continuità storica come
"stabilità di alcuni elementi in una realtà per altri aspetti in piena trasformazione",
con problemi di rapporti tra elementi di stabilità ed elementi di variabilità in un processo
storico, o come "permanenza di qualche cosa che, per essenza, è comune all'intera
storia dell'uomo" (Gerschenkron, 1962).
Negli storici dell'economia, sono presenti due diversi tipi di approcci:
− Il primo si basa sul principio che la storia è un insieme di fenomeni irripetibili e non
generalizzabili. La storia ha il compito di analizzare ed interpretare la realtà nelle
sue individualità e particolarità, attraverso la sommatoria di singoli eventi.
− Il secondo approccio, al contrario, ricerca leggi generali, in grado di descrivere un
ampio numero dei fenomeni che sono ritenuti i più significativi.

La teoria degli stadi rappresenta l'esemplificazione di questa seconda linea, attraverso


l’individuazione, almeno per quanto riguarda gli aspetti presi in esame da ciascun
modello, di leggi generali, valide in ogni tempo e in ogni luogo.

2.1.1. La teoria degli stadi di Rostow e Gerschenkron.


L'approccio stadiale è stato ampiamente seguito dagli storici dell'economia: secondo le
teorie degli stadi, derivate dalla storia economica, lo sviluppo di un sistema segue una
dinamica strutturata in una successione deterministica di sviluppo.
Un approccio stadiale tipico è quello con cui Hoover e Fisher descrivono il processo di
sviluppo regionale:
− Il primo stadio è caratterizzato da una economia di sussistenza, autosufficiente, in
cui sia gli investimenti che il commercio incidono, in modo molto modesto, sul
complesso delle attività, di tipo prettamente agricolo;
− Nel secondo stadio, il miglioramento delle infrastrutture e dei mezzi di trasporto
accentua gli scambi commerciali e di scambio, la produzione agricola ed
industriale si specializzano;

26
− Nel terzo, l'agricoltura subisce una profonda trasformazione, dovuta all’adozione di
innovazioni (meccanizzazione) ed alla realizzazione di produzioni intensive, e si
registra un rafforzamento complessivo degli scambi interregionali;
− Nel quarto stadio, si sviluppa il processo d’industrializzazione, con un aumento dei
differenziali tra redditi agricoli e redditi industriali e commerciali;
− Nel quinto stadio, infine, la regione si specializza in attività terziarie ed esporta
capitali, manodopera qualificata, prodotti, servizi.

Per Hoover e Fisher, il commercio che si genera nelle regioni nelle quali è presente
una specializzazione produttiva, è un fattore di attivazione dello sviluppo. Il
passaggio da una economia agricola ad una industriale rappresenta, per gli autori, un
nodo strategico.
Una regione non industrializzata può, tuttavia, essere in grado di assicurare un livello di
reddito crescente, con la specializzazione in attività estrattive o nello sfruttamento di
risorse petrolifere, anche se si determina una dipendenza da altre regioni.
Nel quadro delle teorie sugli stadi di sviluppo, la teoria di Rostow contiene requisiti di
estremo interesse sul versante geografico.
La capacità di un sistema economico di passare da uno stadio di sviluppo ad un altro è,
per Rostow, ascrivibile soprattutto a fattori non economici ma riconducibili, in prima
approssimazione, a differenziazioni culturali dello spazio geografico (Rostow, 1960).
La variabile strategica di partenza dello sviluppo è, infatti, quella che Hagen chiama la
"modificazione della personalità culturale della popolazione", mentre le variabili
economiche sono considerate come condizioni ambientali su cui agiscono le
modificazioni culturali, spingendo il sistema da uno stadio di stagnazione ad uno di
crescita.
Hagen affronta il tema delle cause che incidono sull’attivazione di un processo
sviluppo, interpretato come una successione di stadi e definito come "una serie di
progressi tecnologici ed un aumento del reddito pro capite abbastanza rapidi da
trasformare il mercato nel giro di una generazione e, di fatto, ogni dieci anni" (Hagen,
1962).
Fattori culturali, modificazioni del comportamento umano (riassumibili sotto forma di
"propensioni": propensione a sviluppare la scienza, ad applicarla, propensione alla
informazione, ecc.) assumono, per Rostow, un ruolo chiave nella attivazione del
processo di sviluppo economico.
Il prerequisito - peraltro non sufficientemente approfondito e valorizzato - che spiega
l'inizio del processo, non è economico ma geografico. Risiede nelle discontinuità
regionali, nella diversa composizione culturale, sociale, ambientale delle regioni che
costituiscono il pianeta, deriva dagli effetti che i diversi caratteri morfologici, climatici,
ambientali hanno sulle scelte delle popolazioni, delle imprese, dei soggetti economici.
Secondo Rostow, la società tradizionale è in equilibrio statico fino a quando non si
generano delle perturbazioni che la allontanano da questo "stato di equilibrio". "
Il processo di sviluppo economico è centrato su intervalli temporali relativamente
brevi, di due o tre decadi ciascuno, quando l'economia e la società di cui fa parte si
trasformano in modo tale che lo sviluppo economico ne segue più o meno
automaticamente.
Questa trasformazione decisiva viene chiamata decollo (take-off).

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Anche Rostow, come Hoover e Fisher, individua cinque stadi di crescita:
− lo stadio della società tradizionale,
− lo stadio delle condizioni che precedono il decollo,
− lo stadio di decollo, lo
− stadio che conduce alla maturità,
− lo stadio dei consumi di massa.
Nel primo stadio, le tecniche produttive sono immutabili, i rendimenti decrescenti, la
popolazione è stabile lungo linee malthusiane.
Nel secondo stadio (condizioni che precedono il decollo), si registrano cambiamenti di
ridotta entità: si modifica l'organizzazione della società, vi è un miglioramento
economico - che tuttavia si scontra con le rigidità ancora presenti del sistema, e che
consente una ridotta mobilità sociale, geografica e nell’occupazione - i costi dei trasporti
si riducono, aumentano le attività commerciali e di scambio, l’agricoltura e l’industria
adottano funzioni di produzione migliori. Tutto il processo è caratterizzato da ridotto
dinamismo e da lente trasformazioni.
Il terzo stadio (del decollo o take-off) rappresenta il punto di rottura dell'equilibrio
iniziale: si introducono, nei settori produttivi, innovazioni di più ampia portata, il tasso di
crescita degli investimenti aumenta, si incrementa il tasso globale di sviluppo.
E’ necessario che si realizzi il rafforzamento del settore manifatturiero con un
ampliamento delle categorie merceologiche, si generino alti saggi di crescita, vi sia un
sistema politico e sociale che in grado di sfruttare, in modo corretto ed adeguato, il take-
off, garantendo un carattere di continuità.
Con il quarto stadio, si perviene alla maturità: le industrie presentano una crescita
regolare, le innovazioni si diffondono in quasi tutti i settori, il tasso di sviluppo
economico supera il tasso di aumento della popolazione, aumenta il reddito pro capite.
Dallo stadio della maturità, il sistema economico trasla verso il quinto stadio,
denominato dei “consumi di massa”, caratterizzato dalla diffusione dei consumi dei beni
durevoli, dall’istruzione a tutte le classi sociali, da un miglioramento complessivo della
qualità della vita.
La teoria di Rostow ha attivato un ampio dibattito, soprattutto per quanto riguarda i
caratteri delle precondizioni che precedono il decollo economico ed il decollo stesso.
Per Rostow, infatti, lo sviluppo è attivato dalle industrie principali di un paese, nel
momento in cui queste riescono a superare gli ostacoli che si oppongono alla loro
crescita. In particolare, le imprese nei settori leader svolgono un ruolo trainante,
generano una crescita autosostenibile, influiscono sul sistema politico, sociale,
istituzionale.
Sulle orme di Rostow, Gerschenkron ha elaborato una teoria degli stadi secondo cui,
nella storia economica, "tutti i modelli hanno in comune una caratteristica fondamentale:
almeno per quanto riguarda gli aspetti specifici presi in esame da ciascun modello, la
vita economica si è sviluppata in conformità a leggi generali, valide in ogni tempo e in
ogni luogo" (Gerschenkron, 1968).
Egli osserva che lo schema rostowiano presuppone la rigida consequenzialità e la
totalità, sempre e dovunque, dei cinque stadi, attribuendo a tutti i Paesi, una
unica traiettoria di sviluppo.
Gerschenkron, nella sua teoria, tratta una sola componente dello sviluppo,
l'industrializzazione, identificando "tutte quelle varianti, tutte quelle differenze che

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possono essere definite come tipi di sviluppo"(Gerschenkron, 1968). L’identificazione
delle varianti e delle diverse tipologie di sviluppo permettono di effettuare una sorta di
classificazione delle traiettorie di sviluppo regionale in modelli unitari, all’interno dei
quali ricondurre i diversi casi osservati.

3. PROGRESSO TECNICO E INNOVAZIONE COME ELEMENTI DI DISCONTINUITA’ NEL PROCESSO DI


SVILUPPO REGIONALE.
Una impresa può essere definita come una unità tecnica in cui si producono beni:
l'imprenditore definisce quantità e qualità del bene da produrre, traendone un profitto o
sopportandone una perdita, trasformando i fattori di produzione in prodotti, secondo
regole tecniche determinate dalla funzione di produzione prescelta.
La "funzione di produzione" indica, quindi, la relazione che si stabilisce tra le quantità
dei fattori impiegati e la quantità dei prodotti ottenuti.
Si consideri un processo produttivo nel quale l'imprenditore utilizza due fattori variabili
(X1 e X2), ed uno o più fattori fissi per ottenere un singolo prodotto P. La funzione di
produzione stabilisce la quantità del prodotto p come una funzione delle quantità dei
fattori variabili (x1 e x2):
p = f(x1 , x2 )

Si possono utilizzare diverse combinazioni di X1 e X2 per ottenere una data quantità di


output produttivi e, poiché la funzione è continua, il numero delle combinazioni possibili
è teoricamente infinito.
La tecnologia che viene utilizzata deriva dall'insieme di tutte le informazioni tecniche
sulla combinazione dei fattori necessari all'ottenimento del prodotto. Secondo la
tecnologia utilizzata, X1 e X2 possono essere combinati in modo diverso, ottenendo
differenti livelli di produzione. La funzione di produzione si distingue dalla tecnologia, in
quanto presuppone l'efficienza tecnica, e stabilisce il massimo di produzione ottenibile
da ogni possibile combinazione di fattori. La scelta della combinazione di fattori migliori
per il conseguimento di un particolare livello di produzione, dipende dai prezzi dei fattori
e dei prodotti.
Quando si introduce il progresso tecnico nella produzione di un dato bene, si definisce
una nuova gamma di combinazioni produttive che determinano la sostituzione di una
funzione di produzione con un'altra. Con il progresso tecnico, le nuove conoscenze
tecnologiche permettono di ottenere una maggiore quantità di prodotto con le stesse
quantità di fattori, o la stessa quantità di prodotto con una minore quantità di fattori.
Nella terminologia della produzione, quindi, avviene un progresso tecnico quando
cambia la funzione della produzione.
Le innovazioni possono essere suddivise in due categorie principali:
– le innovazioni "di processo", quando si adottano nuovi processi produttivi;
– le innovazione "di prodotto", quando vi è l'introduzione di nuovi prodotti.

L'adozione di un nuovo processo cost reducing, è accompagnata talvolta da un


mutamento nella composizione del prodotto, mentre nuovi prodotti richiedono spesso la
progettazione di nuove attrezzature.

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Si hanno anche innovazioni "di mercato", quando un'impresa decide di cambiare, o
ampliare, il proprio mercato di vendita dei prodotti, e "di organizzazione", quando
l'impresa introduce modifiche parziali, o sostanziali, nelle procedure produttive.
L’adozione di un nuovo metodo produttivo riguarda qualunque miglioramento tecnico,
capace di ridurre i costi medi per unità di prodotto, mentre i prezzi dei fattori di
produzione rimangono invariati.
Le innovazioni si possono classificare in due categorie distinte:
− innovazioni che risparmiano lavoro,
− innovazioni che risparmiano capitale,
Le prime (labour saving) innalzano il rapporto capitale/lavoro, mentre le seconde
(capital saving) riducono tale rapporto.

3.1. Discontinuità nel processo di sviluppo economico.


Nella letteratura si distingue spesso tra il concetto d’invenzione e quello di
innovazione.
Questa distinzione è stata introdotta ed approfondita da Schumpeter, secondo il quale
le invenzioni, ossia il puro e semplice progresso della scienza, non necessariamente si
inseriscono nel processo produttivo, ossia non introducono nuovi modi di combinare le
risorse a scopi produttivi.
L'adozione di innovazioni non comporta, quindi, la presenza di invenzioni.
Si possono formulare alcune osservazioni nella distinzione tra invenzione e
innovazione:
− non vi è una coincidenza temporale ed effetto diretto tra i due fenomeni. Infatti,
solo se l'imprenditore decide la "industrializzazione" dell’invenzione, questa si
traduce in una innovazione, ossia nella produzione industriale dell'invenzione.
− L'invenzione, e la successiva realizzazione dell'innovazione, sono due momenti
profondamente diversi, e competono sfere di attività separate.
− L'invenzione non sempre comporta, quindi, innovazione, e non necessariamente
genera effetti economici e sociali rilevanti.
− l'innovazione spesso è introdotta senza invenzione. Anche se la maggior parte
delle innovazioni possono essere, in qualche modo, ricondotte ad una conquista
della conoscenza teorica o pratica, in molti casi ciò non si verifica e le innovazioni
sono il frutto di aggiustamenti continui del prodotto;

Schumpeter osserva che le invenzioni non appaiono in modo continuo nel tempo, ma in
modo "discontinuo", "a grappoli" in determinati periodi, con effetti di discontinuità
temporali nella produzione di innovazioni e nel cambiamento tecnologico di un sistema.
Il cambiamento tecnologico procede, quindi, nel tempo attraverso progressi
infinitesimali, con improvvise e brusche accelerazioni in particolari momenti, che
generano invenzioni ed innovazioni.
Le invenzioni - che in tal modo sintetizzano i numerosi contributi dati anche da
invenzioni e scoperte scientifiche secondarie - si succedono nel tempo, dando luogo a
invenzioni strategiche. Fasi di accumulazione di informazioni e di conoscenza - che si
alternano a fasi creative che generano grappoli di invenzioni - costituiscono un

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processo continuo, ma - nei momenti di comparsa di invenzioni strategiche – costellato
da fenomeni di discontinuità.
L'introduzione delle innovazioni nel sistema produttivo è effettuata dall'imprenditore-
innovatore, che attua - a seguito di invenzioni, di processi innovativi incrementali, di
processi imitativi - nuove combinazioni dei fattori produttivi.

I concetti di invenzione e d’innovazione rappresentano, per Schumpeter, le due


categorie che permettono, allo stato di equilibrio walrasiano, di destabilizzarsi e
squilibrarsi.
L'analisi di Schumpeter inizia da un sistema, in equilibrio stazionario, caratterizzato da
un flusso circolare che si ripete continuamente. L'equilibrio stazionario ha, come
fondamento, un sistema economico in equilibrio generale.
Il fattore chiave che determina la rottura dello stato stazionario, è rappresentato dalla
figura dell'imprenditore-innovatore il quale, introducendo innovazioni nel processo
produttivo, permette al sistema di passare da uno stato di equilibrio ad uno di sviluppo.
L'innovazione può assumere diverse forme e contenuti. Può riguardare:
− l’introduzione di un nuovo bene;
− di un nuovo sistema produttivo,
− l’apertura di un nuovo mercato,
− l’acquisizione di nuove fonti di materie prime,
− una nuova organizzazione dell'impresa.

Il concetto di sviluppo economico acquista quindi, grazie a Schumpeter, un significato


molto più ampio e complesso della crescita che, come già osservato, non provoca
fenomeni qualitativamente nuovi, ma solo processi di adattamento, dello stesso tipo di
quelli provocati dai cambiamenti dei dati naturali.
All'incirca negli stessi anni, Kuznets, studiando le modalità di adozione delle
innovazioni dell'industria manifatturiera americana, osserva che il cambiamento
tecnologico deriva, almeno in parte, da un processo cumulativo, soggetto a fasi di
saturazione (Kuznets, 1929).
Secondo questo modello, una industria che introduce una innovazione tecnologica, se
non procede a successivi interventi, può perdere la competitività acquisita sul mercato,
in quanto i propri prodotti, da innovativi diventano "maturi", e subisce una contrazione
nel il tasso di espansione.
L'introduzione di una innovazione, a seguito di una invenzione, rappresenta quindi una
perturbazione che si diffonde, in vario modo e con diversa intensità, ad una parte del
sistema produttivo, determinando uno squilibrio a cui le imprese non coinvolte
nell'adozione dell'innovazione reagiscono ricercando nuove tecnologie ed innovazioni.
Il cambiamento tecnologico in un settore genera fasi di rapida crescita, a cui succedono
fasi di accrescimento graduale sempre più lente, fino ad arrivare ad una sorta di
saturazione delle opportunità tecnologiche.

31
3.2. L'andamento ciclico dello sviluppo.
Lo sviluppo economico di un paese o di una regione non procede in modo continuo, ma
attraverso delle discontinuità che possono agire in modo contrario rispetto al trend
tendenziale.
Queste discontinuità temporali, che derivano dall’introduzione di invenzioni e
innovazioni, sono in realtà anche discontinuità spaziali, dovute alla capacità delle
singole regioni, reti, città, di generare invenzioni ed innovazioni.
Di fatto, le economie dei paesi non si espandono ad un tasso di sviluppo uniforme: se,
infatti, mutamenti nella tecnica produttiva e nella quantità di popolazione determinano,
nel lungo periodo, un trend positivo di crescita quantitativa e qualitativa, a tale trend si
sovrappone, il più delle volte, nel breve periodo, una struttura dinamica che produce fasi
alterne di espansione e contrazione.
Lo sviluppo di un sistema economico con progresso tecnico si attua, quindi, attraverso
una successione alterna di "onde espansive" e di "pause".
Le fasi alterne di espansioni e di pause sono legate alla dinamica strutturale del sistema
economico, e possono essere considerate, in linea con quanto detto precedentemente,
come un effetto del progresso tecnico e dell’introduzione di innovazioni nel processo
produttivo.
Esse sono, di fatto, costitutive lo sviluppo economico di un paese o di una regione, e
rappresentano quel fenomeno che viene chiamato “ciclo economico”.
In termini generali, si può definire ciclo economico "una oscillazione del prodotto
lordo, del reddito e della sua distribuzione, dell'occupazione, contrassegnata da
una diffusa espansione o contrazione in molti settori del sistema economico
"(Samuelson, 1992).
La causa della presenza dei cicli nello sviluppo di una economia, è stata oggetto di
ampi studi e ricerche, sia nel campo della storia economica (ossia, come frutto di analisi
di eventi osservati e osservabili), sia nel campo più squisitamente teorico, con la
produzione di modelli (non necessariamente formalizzati).

Una importante analisi del ciclo è stata effettuata da Schumpeter, come logica
derivazione degli approfondimenti sulla natura e comportamenti delle invenzioni e
innovazioni nel processo produttivo e, quindi, sui modelli di sviluppo che ne
conseguono.
Per Schumpeter, riprendendo quanto detto in precedenza, le innovazioni che
determinano nuove combinazioni produttive non sono distribuite in modo uniforme nel
tempo, ma si concentrano, in genere, in determinati periodi "a gruppi o a sciami"
(Schumpeter, 1936). Questo modello di comportamento deriva dal fatto che
l'apparizione di uno o più imprenditori innovatori attiva la nascita di altri imprenditori, che
possono essere, sia innovatori che imitatori. Questi ultimi nascono per la presenza, sul
mercato, di innovazioni già collaudate in altre imprese o settori collegati, ed il loro
numero è tanto maggiore quanto più elevata è la quantità di coloro che hanno già
attuato le innovazioni, e per i quali è stato verificato il successo dell'iniziativa.
Parallelamente, l'adozione di una innovazione in uno specifico settore produttivo stimola
il processo innovativo anche nei settori ad esso collegati, determinando effetti diffusivi
di tipo settoriale.

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In seguito alla crescente introduzione di innovazioni e, quindi, di prodotti più competitivi
- in termini di prezzi e di qualità - la domanda di beni si amplia, dando luogo a quel
"clima di fiducia" che è la base per attuare nuovi investimenti ed innovazioni, e che
determina, per il paese o la regione, condizioni di boom.
Nella fase depressiva del ciclo, si determina una selezione dell'apparato produttivo: le
imprese che non riescono ad essere competitive nella fase di contrazione della
domanda, escono dal mercato, mentre quelle più efficienti - mediante opportune
ristrutturazioni - si adattano e si predispongono per le successive fasi di espansione.
Parallelamente, le innovazioni sono assimilate da buona parte del sistema produttivo
che si ristruttura secondo le nuove esigenze.
Il processo di sviluppo ciclico - in cui la crescita non è solo quantitativa e, comunque,
non distribuita in modo uniforme tra tutti i settori, ma anche qualitativa - si identifica con
una diversa distribuzione dei redditi e dei consumi, e delle capacità di investimento.
La teoria dello sviluppo si occupa delle tendenze di lungo periodo: ogni serie temporale
può essere scissa nel trend e nelle fluttuazioni intorno al trend.
La teoria delle fluttuazioni - che si occupa delle oscillazioni cicliche - può essere allora
associata alla teoria dello sviluppo.
Secondo Hicks, la teoria dello sviluppo è una parte di quel ramo della teoria economica
che si occupa sia del trend che delle fluttuazioni cicliche. E', quindi, una parte - o
meglio, uno dei metodi - della dinamica economica. Poiché si può definire statica una
condizione nella quale alcune variabili chiave rimangono fisse, una condizione dinamica
è quella in cui queste variabili mutano, e la teoria dinamica suggerisce l'analisi dei
processi tramite i quali i valori di tali variabili subiscono delle variazioni.
Gran parte delle teorie spiegano il movimento ciclico come conseguenza della doppia
interazione tra investimenti e reddito: il reddito dipende dagli investimenti attraverso il
moltiplicatore, e gli investimenti dipendono dal reddito attraverso variazioni connesse
alle aspettative di profitto.
Secondo Schumpeter, sviluppo e ciclo non sono due fenomeni distinti, ma le
espressioni di un unico processo definito come sviluppo ciclico.

3.3. L'analisi storica del ciclo


L'analisi del ciclo effettuata con il metodo storico-economico, ha come oggetto
l'individuazione e la classificazione di eventi empiricamente osservati, mentre la teoria
del ciclo economico opera una formulazione teorica ed una modellizzazione di tali
eventi.
Con l'analisi storico-economica, la registrazione quantitativa dei fenomeni e la
catalogazione degli eventi osservati nei sistemi economici, ha permesso d’individuare
andamenti ciclici della economia, in linea con alcuni presupposti delle teorie dello
sviluppo.
La storia economica degli ultimi centocinquant’anni si articola, secondo numerosi autori,
in una serie di cicli non uniformi, che differiscono l'uno dall'altro in misura sensibile,
anche se "non vi è dubbio che vi sia tra loro un'aria di famiglia".
Schumpeter ha analizzato e sistematizzato analisi di lungo periodo, relative
all’individuazione di "onde lungo dello sviluppo", di durata compresa tra i

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quarantacinque ed i sessant’anni, identificate in precedenza da Spiethoff, e misurate,
con maggiore dettaglio, da Kondratiev (Kondratiev, 1925).
Il lavoro di Kondratiev ha costituito il primo tentativo sistematico di analisi delle
oscillazioni di lunga durata dei prezzi e della produzione, dando origine a due linee di
ricerca: una prima, centrata sulla nozione di ciclo dei prezzi, ed una seconda, riferita
alle onde lunghe, come fenomeno riferito a grandezze reali.
Secondo Kondratiev, i cicli lunghi sono dovuti alle caratteristiche dell'economia
capitalistica che, a sua volta, influenza le condizioni che favoriscono l'innovazione
tecnologica.
Le innovazioni tecnologiche acquisiscono il ruolo di variabili dipendenti, i cui valori e
la cui successione temporale sono dovuti alle forze che regolano i ritmi dell'economia
capitalistica.
I cicli dovuti ai sistemi tecnologici si articolano in cinque fasi:
a) il primo sistema si riferisce alle forme iniziali di meccanizzazione (idraulica e
vapore, crescita dell’industria tessile del cotone, lavorazione delle ceramiche e del
ferro, realizzazione delle reti fluviali, dei canali e delle strade);
b) il secondo sistema tecnologico riguarda lo sviluppo della macchina a vapore, dei
prodotti siderurgici, delle macchine utensili, delle ferrovie, della navigazione;
c) il terzo è dovuto all’introduzione del motore a scoppio, con lo sviluppo dell’industria
petrolifera, delle materie plastiche, delle macchine elettriche, della meccanica
pesante, dell’industria automobilistica ed aeronautica, della radio e delle
telecomunicazioni;
d) il quarto riguarda lo sfruttamento dell’energia nucleare, lo sviluppo delle
infrastrutture di strasporto, delle industrie aerospaziali, elettroniche, petrolchimiche
e della produzione dei beni di consumo durevoli;
e) il quinto sistema è quello tecnologico, basato sulla microelettronica, sulle
telecomunicazioni digitali, sulla biotecnologia, sulla robotica, sulla chimica fine e
sui sistemi informatici.
I periodi storicamente individuati dei cicli di Kondratiev sono:
- la prima onda è collocata tra il 1790 e il 1840;
- la seconda, tra questa data e la fine dell'800;
- la fase ascendente della terza onda parte intorno al 1895, per esaurirsi con la
prima guerra mondiale, e comunque con il crollo del 1929 della borsa di New York,
mentre la successiva fase recessiva giunge fino alla seconda guerra mondiale;
- la fase espansiva della quarta onda parte nel dopoguerra, per concludersi intorno
al 1973 quando comincia l'attuale fase depressiva.

Schumpeter ritiene che i cicli lunghi sono causati dal processo innovativo; l'innovazione
tecnologica incide fortemente sia sull'instabilità ciclica, sia sui processi di sviluppo, con
una direzione causale che va dalle fluttuazioni nelle innovazioni, alle fluttuazioni negli
investimenti, e da questi ai cicli di crescita economica. I grappoli di innovazioni
schumpeteriani danno luogo a cicli lunghi, generano, nei tassi di crescita aggregata,
periodi di accelerazione e, successivamente, di decelerazione,.
Schumpeter ha definito "ciclo di Kondratieff" quello che descrive un andamento
di lungo periodo del livello dei prezzi, del tasso di interesse, della occupazione, e
di altri indicatori economici.

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All’interno di questi cicli, Schumpeter individua la presenza di cicli più brevi: all'interno
di ogni ciclo di Kondratieff, possono essere identificati circa sei cicli di minore durata,
detti di Juglar e, all’interno di ogni ciclo di Juglar, altri tre cicli - denominati di Kitchin,
dagli studi che Kitchin e Crum hanno effettuato in merito - di durata pari a circa
quaranta mesi.

4. IL MODELLO DI DERIVAZIONE NEOCLASSICA E IL MODELLO KEYNESIANO


In molta parte della letteratura economica, si trova una contrapposizione tra i modelli
neoclassici di crescita regionale, e modelli neo-keynesiani.
I più noti rappresentanti della impostazione neoclassica sono Solow (1956), Swan
(1956), Meade (1961), Samuelson (1962).
Il modello neoclassico si basa su un assunto abbastanza semplice e, nei suoi contenuti,
lineare: la crescita regionale è dovuta agli spostamenti interregionali di due fattori di
produzione: il capitale e il lavoro. Coloro che possiedono un capitale, orientano gli
investimenti verso le regioni in cui vi è un maggiore tasso di redditività; i lavoratori, al
contrario, tendono a localizzarsi in regioni che offrono un saggio di salario più alto.
I differenziali di crescita tra regioni derivano, quindi, non solo dalle differenze regionali
nei tassi di espansione dell'offerta locale di capitale e di lavoro (dovuta alla quota dei
risparmi ed alla crescita della popolazione), ma anche dagli spostamenti di questi due
fattori.
In particolare, la forza lavoro si sposta verso le regioni in cui il livello dei salari è più alto,
e in cui, quindi, si determina un rapporto tra capitale e lavoro maggiore. Parallelamente,
i capitali tendono a spostarsi da queste regioni - in cui il rendimento netto
dell'investimento di capitale risulta ridotto - verso quelle aree in cui i salari sono più
bassi, ed in cui il rapporto tra capitale e lavoro è minore e, quindi, più vantaggioso.
Le conoscenze tecniche - che hanno una elevata mobilità interregionale - non
influenzano in modo significativo i tassi di crescita.

La Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta è considerata il


caposaldo dell'opera dell'economista britannico John Maynard Keynes che, con essa,
ha gettato le fondamenta del moderno pensiero macroeconomico.
L'opera fu pubblicata per la prima volta nel 1936, suscitando la cosiddetta "rivoluzione
Keynesiana" nel modo in cui gli economisti e gli uomini di governo vedono l'economia
della nazione, specialmente riguardo all'opportunità dell'intervento pubblico
nell'economia, tramite l'azione sulla domanda aggregata.
La Teoria Generale rappresentò il principale tentativo di Keynes di cambiare il quadro
analitico di riferimento per il pensiero macroeconomico.
La Teoria Generale argomenta che il livello della domanda aggregata in un'economia
moderna è determinato da una serie di fattori, dalla propensione marginale al consumo
(la percentuale di un aumento di reddito che i cittadini scelgono di spendere per
l'acquisto di beni e servizi) dalla propensione marginale al risparmio (la percentuale di
aumenti nel reddito dedicata invece al risparmio), dall'investimento in beni capitali (a
sua volta dipendente dal tasso di interesse, che ne influenza il costo e il tasso di
rendimento atteso), e dal livello del tasso di interesse.

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La principale argomentazione di Keynes è che in un'economia caratterizzata da una
debole domanda aggregata (come nel caso della Grande depressione), con una
sentita difficoltà a procedere verso la crescita del reddito nazionale, il governo - o, più in
generale, il settore pubblico - ha la possibilità di incrementare la domanda
aggregata tramite la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi. Ciò potrà
essere finanziato anche tramite politiche di deficit di bilancio; l'indebitamento pubblico,
sotto determinate ipotesi, non aumenterà il tasso di interesse al punto da scoraggiare
l'investimento privato.
Keynes previde nella Teoria Generale che il suo lavoro avrebbe condotto a una
rivoluzione nel modo di intendere la politica economica e l'intervento dello Stato
nell'economia; il pensiero keynesiano ebbe in effetti un'enorme influenza nel periodo
successivo alla Seconda Guerra Mondiale.
La stagflazione degli anni '70 (stagnazione economica in presenza di alta inflazione)
rese tuttavia l'approccio keynesiano meno popolare tra economisti teorici e uomini di
governo. Economisti quali Milton Friedman predissero il crollo del sistema di Bretton
Woods, basato sulle idee introdotte da Keynes nella Teoria Generale e presto si fece
rilevare come la Teoria Generale stessa fosse debole per quel che riguarda i problemi
relativi all'inflazione.
In economia inflazione indica un incremento generalizzato e continuativo del
livello dei prezzi nel tempo.
Vi sono diverse possibili cause dell'inflazione:
L'aumento dell'offerta di moneta superiore alla domanda, stimolando la domanda di
beni e servizi e gli investimenti, è unanimemente considerata dagli economisti una
causa dell'aumento dei prezzi nel lungo periodo.
Altre cause sono:
 l'aumento dei prezzi dei beni importati,
 l'aumento del costo dei fattori produttivi e dei beni intermedi, in seguito all'aumento
della domanda o per altre ragioni.
Nell'ambito dell'aumento del costo dei fattori produttivi, è significativo il ruolo svolto
dall'aumento del costo del lavoro. Il costo del lavoro aumenta sotto la spinta della
domanda, ma anche in seguito alle rivendicazioni salariali, a meccanismi automatici o
semiautomatici di adeguamento di salari e stipendi a precedenti aumenti dei prezzi e al
rinnovo dei contratti di lavoro.
L'aumento del livello generale dei prezzi determina una perdita di potere d'acquisto
della moneta: con la stessa quantità di denaro si può cioè acquistare una minore
quantità di beni e servizi.

In economia, per stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed inflazione) si


intende indicare la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti - su
un determinato mercato - sia un aumento generale dei prezzi (inflazione) che una
mancanza di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione economica).
La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni
sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali; precedentemente inflazione e
stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente.
La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John
Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era

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stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che
valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato.
Milton Friedman, Nobel in Economia nel 1976, era stato tra i pochi a discostarsi dalle
visioni keynesiane e roosveltiane e a prevedere, nei suoi due libri Capitalism and
Freedom e Storia Monetaria degli Stati Uniti, l'avvento della stagflazione.

Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente


della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato
raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto
all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non
espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del
prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità.
Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile con
prezzi in aumento, ma con prezzi in diminuzione, per effetto della recessione.

5. DISCONTINUITÀ SOCIALE, ECONOMICA E GEOGRAFICA: DUALISMO SOCIOLOGICO, DUALISMO


TECNOLOGICO E DUALISMO REGIONALE
5.1. Il dualismo
In buona parte delle teorie dello sviluppo, le distinzioni tra individui e classi di
individui all'interno delle strutture sociali ed economiche regionali, sono state, il più delle
volte, considerate disposte lungo un continuum, senza caratteri di discontinuità.
In realtà i vari segmenti della società si organizzano intorno a ruoli, processi e istituzioni
differenti, che danno luogo a vari sistemi di incentivi e disincentivi per gli individui.
Questi segmenti formano dei complessi omogenei che derivano la loro unità, sia dalla
compattezza delle loro regole interne e della loro organizzazione, sia dalla stabilità dei
loro rapporti con gli altri segmenti della società" (Berger e Piore, 1982).
Questo modello di segmentazione sociale ed economica è stato definito dualistico:
la divisione di un sistema economico in due o più settori, che procedono con livelli di
sviluppo fortemente differenziati, è definita “dualismo economico”, mentre una
economia che presenta queste caratteristiche è detta “economia duale”.
Si possono citare due tipi di approcci:
− il primo identifica, all'interno di un sistema economico, due settori separati e
paralleli. Un settore ha caratteristiche moderne, mentre l’altro è di tipo tradizionale.
In questo sistema, il settore economico moderno è in espansione, ma non è in
grado, o non ha la forza, di agire da volano e di modernizzare l'intera struttura
produttiva. Si crea, quindi, una forte frattura tra il settore moderno, composto da
imprese di grandi dimensioni, ad alta intensità di capitale e ad alta produttività, che
adottano tecnologie avanzate, e il settore tradizionale, in cui sono presenti
imprese di piccole dimensione, ad alta intensità di lavoro, ed a tecnologia locale
non innovativa.
La discontinuità riscontrabile in un’economia duale di questo tipo, deriva in buona
misura dalla dicotomia nella struttura produttiva, tra grandi imprese di tipo
monopolistico od oligopolistico, ed una frangia, o periferia, di piccole imprese.
Parallelamente, la struttura del mercato del lavoro si stratifica in due gruppi, il
primo, formato dagli occupati nelle imprese avanzate (in cui sono presenti

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posizioni di tipo professionale e manageriale da un lato, e di tipo salariale
dall’altro), il secondo, costituito dagli occupati nelle imprese marginali e arretrate;
− il secondo approccio è quello marxista, secondo cui l'industrializzazione crea
forme di differenziazione sociale radicalmente distinte le une dalle altre, tra loro in
conflitto, non collegate, all'interno di un sistema sociale fondamentalmente
omogeneo.
I sintomi del dualismo sono stati analizzati e individuati sia in economie sviluppate,
che in economie sottosviluppate.
Nei sistemi produttivi delle economie sviluppate, le grandi imprese monopolistiche
od oligopolistiche costituiscono quello che Averitt chiama "settore centrale", mentre la
struttura delle piccole imprese, orientate al mercato locale che determina prezzi, livelli di
produzione, investimenti, viene definito periferico (Averitt, 1968).
− I sistemi centrali, sono formati da imprese di grandi dimensione, che beneficiano
di economie di scala, adottano innovazioni di prodotto, di processo, di
organizzazione, di mercato, si posizionano su frontiere tecnologiche, investono
quote rilevanti degli utili nella R&S.
− I sistemi periferici, formati da piccole imprese, a mercato locale di ridotte
dimensioni, adottano tecniche di produzione mature, e con un livello di profitti e
d’investimenti, di gran lunga inferiori a quelli delle imprese centrali.
La classificazione duale di Averitt risulta di notevole interesse per l’approccio geografico
allo sviluppo regionale, in quanto permette di studiare le coincidenze localizzative tra
imprese centrali ed imprese periferiche, e d’introdurre un dualismo territoriale che
distingue gran parte dei sistemi economici in regioni centrali e in regioni periferiche.
Holland osserva che "la maggior parte delle industrie meso-economiche moderne sono
concentrate nelle regioni più sviluppate, mentre quelle microeconomiche tradizionali
sono per lo più localizzate nelle regioni meno sviluppate" (Holland, 1976).
In altri termini, viene introdotto il principio di un modello localizzativo che pone, da un
lato, le grandi imprese multisettoriali - che adottano innovazioni con frequenza e rapidità
- nelle regioni più sviluppate e, dall'altro, le imprese di piccola dimensione, con scarsa
propensione all’innovazione e con debole grado di competitività sui mercati, nelle
regioni meno sviluppate.
Si verrebbe a creare, quindi, una sorta di coincidenza spazio-settoriale tra imprese
centrali in aree centrali, e imprese periferiche in regioni periferiche.
Tale articolazione presenta, tuttavia, alcuni problemi analitici di non trascurabile
importanza, dato che la dimensione di una impresa non è un parametro sufficiente
a discriminare la gamma delle differenze qualitative e tecnologiche presenti in
una struttura intrasettoriale dualistica.
Accanto a grandi imprese con alto tasso tecnologico ed innovativo, si possono trovare
imprese di media e piccola dimensione di tipo centrale, che si collocano su frontiere
tecnologiche avanzate, localizzate anch'esse in regioni centrali, là dove la disponibilità
di informazioni, di manodopera qualificata e di economie di agglomerazione tecnologica
garantiscono la maggiore efficienza, competitività e capacità di produzione.
Per i sistemi produttivi delle economie sottosviluppate è emerso che, nel sistema
sia sociale che economico, coesistono spesso, a fianco di attività tradizionali, che
utilizzano metodi di produzione propri di società nello stadio pre-industriale, strutture
produttive che adottano tecniche avanzate ad elevata produttività.

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Parallelamente, in un sistema duale sono in genere presenti due livelli salariali, uno
decisamente elevato e proprio del settore industriale, l'altro che appartiene a settori non
industriali.
Il settore moderno, nei sistemi economici caratterizzati da sottosviluppo, in genere,
non è integrato con il resto dell'economia della regione, in quanto la produttività è molto
più alta, i salari sono anch’essi più elevati, la forte produttività per addetto riflette,
almeno in parte, una maggiore intensità di capitale nel processo produttivo.
Sulle orme di Averitt, due geografi, Taylor e Thrift hanno sviluppato in chiave
geografica il concetto di segmentazione del mercato, articolando le piccole imprese -
che coincidono con il settore periferico di Averitt - in tre parti:
− le imprese arretrate, in cui un elevato numero riesce a sopravvivere, ma non a
crescere ed a svilupparsi;
− le imprese intermedie, costituite dalle due categorie che Averitt chiama “imprese
satelliti” ed “imprese competitive marginali”;
− le imprese leader, che rappresentano la parte dinamica con propensione
all’innovazione, sia di prodotto che di processo, e con nicchie di mercato
consolidate.
Nella seconda metà dell'ottocento, nei Paesi arretrati ed in condizione di stazionarietà
economica e sociale, in cui si sono riversati capitali ed attività provenienti da paesi
sviluppati, si è determinata una spinta all’esportazione di prodotti agricoli e minerari e
all’importazione di beni dai paesi sviluppati.
Parallelamente, una quota ridotta di popolazione locale governa i flussi di export, ad
elevato reddito, con la creazione di squilibri sociali interni, dovuti ai differenziali di
reddito tra l’élite ed il resto della popolazione locale, a cui sono corrisposti bassi salari
per mantenere competitivi i costi di produzione ed i prezzi dei beni esportati sui mercati
internazionali.
Il dualismo che si determina, è di due tipi:
− sociale, dovuto alla profonda differenziazione di reddito tra le classi,
− tecnologico, derivante dalla presenza di imprese, a capitale estero, che utilizzano
tecnologie avanzate per lo sfruttamento delle risorse naturali locali, e di una
struttura produttiva locale molto arretrata, con bassi costi produttivi, ridotta
produttività, scarsa qualità, rivolta solo al soddisfacimento della domanda locale.

5.2. Dualismo economico e geografico: il modello di Vera Lutz.


Il tema del dualismo economico è stato oggetto di numerosi e qualificati contributi.
Nell'ampio dibattito che si è sviluppato nel nostro Paese negli anni sessanta e settanta,
l'approccio teorico al tema ha costituito una componente strategica di rilievo per le
diverse visioni e soluzioni del problema.
Il contributo di Vera Lutz ha il merito di "aver tentato di impostare per la prima volta il
problema economico italiano su basi scientifiche rigorose, portandolo al di fuori della
polemica impressionistica, semigiornalistica e semipolitica.
Anche se le tesi della Lutz non possono esser condivise, non si può riconoscerle il
merito di avere impostato una discussione feconda" (Graziani, 1963).
Vera Lutz si interessa dell'economia italiana nel 1950, seguendo un percorso che va
dall'osservazione empirica dei fenomeni e delle loro regolarità statistiche (Lutz, 1956),

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alla costruzione di un modello interpretativo, con grande attenzione sia agli assunti
teorici (Lutz, 1958), sia all’applicazione dell'analisi del dualismo alla questione
meridionale (Lutz, 1961).
Tralasciando l'ampio dibattito presente in quegli anni, a cui parteciparono noti
economisti come Fuà, Graziani, meridionalisti come Compagna e Saraceno, in questa
sede viene approfondito lo schema teorico a cui la Lutz fa riferimento.
L'ipotesi di partenza è che due o più regioni, con diversi livelli di reddito pro capite, in
condizioni di equilibrio interno, e senza relazioni esterne, quando instaurano relazioni
reciproche, sviluppano un movimento interregionale, non solo di merci, ma anche di
fattori produttivi (capitale e lavoro). L'apertura delle relazioni provoca una rottura dei
precedenti equilibri interni e determina - a seconda delle caratteristiche tecniche,
istituzionali, economiche - una diminuzione od un incremento dei divari regionali, in
termini di reddito disponibile pro capite.
La Lutz adotta, per le proprie tesi, un modello neoclassico, caratterizzato dalla presenza
di diversi livelli di salari, e dalla scarsa mobilità del capitale e del lavoro.
Per quanto riguarda i differenziali salariali, l'autrice suddivide i lavoratori occupati in due
gruppi:
− i lavoratori con salari elevati, remunerati sulla base di contratti nazionali,
− i lavoratori con salari bassi, formati da lavoratori indipendenti, la cui
remunerazione non è contrattualizzata, e da lavoratori salariati alle dipendenze di
piccole imprese, che non si attengono ai termini dei contratti collettivi.
In relazione a questa classificazione, e con riferimento alla produttività dei singoli
lavoratori presso le unità produttive, la Lutz ripartisce la forza lavoro in tre categorie:
− i lavoratori pienamente occupati, appartenenti al gruppo alto dei salari;
− i lavoratori sottoccupati, costituiti dalla maggioranza degli appartenenti al gruppo
con bassi salari;
− i disoccupati involontari, in cui sono inclusi anche i sottoccupati.

A causa degli alti salari, si mette in moto un meccanismo che produce effetti cumulativi
su tutte le parti del sistema economico, per cui le variazioni del livello dei salari reali
incidono sulla dimensione degli investimenti da cui dipendono gli effetti sull’occupazione
e sulle altre variabili del sistema.
Questo tipo di relazione genera nel sistema squilibri o dualismi, quando, per la
contrattualità sindacale, il salario nel settore delle grandi imprese si eleva al di sopra
dell'ipotetico salario unificato di un sistema normale.
La struttura dell'economia si segmenta così in due parti: attività che, per ragioni
tecniche, possono essere condotte solo su larga scala, e attività che possono essere
svolte efficacemente in piccole unità produttive. Nelle prime, vi è sempre più
contrattazione sindacale mentre, nelle seconde, è diffuso il sottosalario. Vi è poi un
terzo settore misto, in cui sono presenti le attività "flessibili, nelle quali l'effetto negativo
della piccola dimensione sul livello di produttività, è compensato dai vantaggi che
derivano del basso costo del lavoro” (Lutz, 1961).

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6. LO SVILUPPO REGIONALE TRAINATO DALLE ESPORTAZIONI.
6.1. Teoria della base economica
La teoria neoclassica, per individuare i differenziali di crescita della produzione tra
regioni, attribuisce una notevole importanza ai fattori di offerta (forza lavoro, stock di
capitale, progresso tecnico), mentre non prende in esame il ruolo espresso dalla
domanda sul mercato dei prodotti.
Questo ultimo aspetto costituisce, al contrario, uno dei principali caratteri della teoria
della base di esportazione, secondo la quale le regioni crescono e si sviluppano
se sono in grado di produrre ed esportare beni e servizi in altre regioni.
La teoria della base di esportazione presuppone che esista una domanda esterna alla
regione, e che tale domanda rappresenti il fattore di attivazione della produzione di
beni; inoltre, l'economia della regione deve esser in grado di produrre beni ad un livello
di prezzi e di qualità tale da risultare competitiva con l'offerta di beni prodotti in altre
regioni.
Le regioni si sviluppano ed ampliano la propria struttura produttiva, se sono in grado di
produrre reddito che sia il corrispettivo monetario di beni prodotti ed esportati.
La quota dei risparmi che deriva da questo nuovo reddito, determina nuovi investimenti
ed una maggiore capacità produttiva.
La regione produce, oltre a beni destinati all'esportazione, anche servizi, la cui
domanda è rappresentata dalla popolazione locale: tale domanda, pur mettendo in
moto processi moltiplicativi, non genera flussi di nuovo reddito in entrata, ma attiva solo
una circolazione di risorse, già esistenti all'interno della regione.
Il reddito che proviene dalle attività di export, in alcuni casi, è controbilanciato da flussi
in uscita di reddito locale, speso per acquistare all'esterno beni e servizi non prodotti
localmente, o non prodotti in quantità sufficiente, o di livello qualitativo non adeguato.
La teoria della base suddivide, quindi, l'economia della regione in due settori:
− un settore, detto di base, orientato alla produzione di beni per l’esportazione,
attivato dalla domanda esterna;
− un settore, detto non di base o di servizio, rivolto a soddisfare la domanda locale.

6.2. Teoria della base economica e teoria del commercio internazionale.


La teoria della base economica può essere ricondotta, nei suoi contenuti, al
mercantilismo, alla teoria keynesiana, alla teoria neoclassica del commercio
internazionale.
La componente mercantile è riscontrabile nel ruolo che è attribuito allo sviluppo degli
scambi con l'esterno della regione, e nel peso che la bilancia commerciale regionale ha
nel processo di sviluppo (Andrew, 1953; Greenhut, 1959).
La derivazione keynesiana è presente, sia in alcune ipotesi di base (lo sviluppo della
regione trainato dalla domanda), sia nei contenuti: l'introduzione di coefficienti
moltiplicativi applicati alla variazione degli occupati nelle attività di base, permette di
stimare la variazione del numero di occupati nelle attività di servizio. Si ritrovano, in altri
termini, le due versioni del paradigma keynesiano: il moltiplicatore di occupazione
(moltiplicatore di Kahn), ed il moltiplicatore della bilancia regionale, in linea con quanto
affermava Hoyt.

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La componente neoclassica è presente nei fattori per cui alcune regioni si
specializzano nella produzione e nella esportazione di un dato bene. Questo aspetto è
riconducibile alla teoria dei costi e dei vantaggi comparati, secondo cui una regione si
specializza in quei beni che è in grado di produrre in modo più efficiente rispetto ad altre
regioni (quindi con minori costi e migliore qualità), mentre non ha convenienza a
produrre quei beni per i quali non si verificano queste condizioni.
Secondo la teoria dei vantaggi comparati (Ricardo, 1817; Mill, 1848; Marshall), in
assenza di barriere nel commercio, le regioni si specializzano nella produzione di quei
beni che producono relativamente a buon mercato e per i quali godono di un vantaggio
comparato, mentre importano i beni per i quali altre regioni hanno un analogo
vantaggio.
La struttura “ottima” della produzione e dello scambio è determinata, quindi, dal
confronto tra il "costo di opportunità" di produrre un determinato bene, ed il prezzo al
quale il bene può essere importato od esportato.
In una situazione di equilibrio, non si produrrà alcun bene che possa essere importato
ad un costo inferiore, mentre le esportazioni si espanderanno fino al punto in cui il
ricavo marginale eguaglia il costo marginale.
Le regioni con abbondante dotazione di materie prime, si specializzano in prodotti ad
alta intensità di materie prime, quelle con alta intensità di forza lavoro, in prodotti ad alta
intensità di lavoro, le regioni con alta intensità di capitali, in prodotti ad alta intensità di
capitale.
Uno dei limiti della teoria risiede nel fatto che Hecksher e Ohlin ipotizzano che i fattori
della produzione non si spostano da una regione all'altra, fatto questo che, se può
essere ragionevole per le materie prime, lo è molto meno per il lavoro, ed è nullo per i
capitali.
Una regione può competere, nel tempo, per i beni in cui è specializzata, con la
concorrenza esterna, in quanto il processo di crescita tende ad essere cumulativo.
La domanda di esportazioni ha effetti moltiplicativi sul reddito regionale, ed accelerativi
sugli investimenti (Hartman e Seckler, 1967).
Inoltre, la remuneratività crescente dei fattori attrae, dalle altre regioni, capitale che
attiva nuovi investimenti e lavoro, con un incremento di domanda dei beni prodotti
internamente per il mercato locale.
Le esportazioni non determinano, tuttavia, sempre un vantaggio competitivo che può,
nel tempo, esaurirsi nel caso in cui la regione sia specializzata in beni di tipo
elementare, la produzione utilizzi grandi quantità di lavoro non qualificato, vi sia una
ridotta remunerazione del capitale, non vi sia propensione ad adottare innovazioni di
prodotto e di processo. In questo caso, la regione ha una struttura statica di export, che
determina una ridotta competitività sui mercati, ed un basso livello di profitti, mentre il
vantaggio del commercio si misura nella capacità, in senso dinamico, assicurata dai
mutamenti delle combinazioni dei fattori produttivi e, quindi, dal mutamento dei vantaggi
comparati.

6.3. Commercio internazionale e base economica


Le relazioni commerciali tra regioni arretrate e paesi sviluppati provocano, in molti casi,
rapporti di tipo subalterno, tanto che il commercio è sembrato essere, non tanto un
fattore di sviluppo, quanto di povertà (Emmanuel, 1972).

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Per risolvere alcuni limiti della teoria di Heckscher-Ohlin, Whitman ha costruito un
modello formato da due regioni, una prima, caratterizzata da elevato livello di sviluppo e
dotata di una struttura industriale avanzata, una seconda, con economia arretrata e con
tassi di crescita molto bassi (Whitman, 1967).
Nella regione sviluppata, la crescita delle esportazioni sposta verso l'alto la funzione
dell'efficienza marginale del capitale nel settore di esportazione, con un conseguente
flusso di capitali e di manodopera dalla regione arretrata verso quella sviluppata, e con
effetti moltiplicativi sul reddito e sull’occupazione.
Nella regione arretrata, la flessione delle esportazioni sposta verso il basso la funzione
della efficienza marginale del capitale, riducendo gli investimenti nel settore di
esportazione, ed attivando effetti moltiplicativi discendenti sia sul reddito che sulla
occupazione. Il vantaggio competitivo della regione sviluppata aumenta rispetto a quella
arretrata, per effetti congiunti di tipo moltiplicativo ed accelerativo.
Negli anni settanta, North ha studiato l’influenza delle attività di base e non di base sul
livello di reddito regionale, osservando che le attività di servizio, pur dipendendo
principalmente dalla domanda interna, si sviluppano, in forte misura, se crescono le
esportazioni.
Le esportazioni hanno, per North, anche un ruolo importante sulla sensibilità
della regione ai cicli economici, "in quanto agiscono da mezzo di trasmissione delle
variazioni del livello del reddito delle altre regioni.
Le regioni specializzate in un numero limitato di beni risentono delle fluttuazioni del
reddito, in misura maggiore rispetto alle regioni con numerosi settori orientati
all’esportazione.
Per raggiungere adeguati livelli di sviluppo, le regioni arretrate devono quindi
sostituire, alla base di esportazione formata da prodotti agricoli e da industrie estrattive,
una base di prodotti manifatturieri, in grado di attivare la crescita di funzioni terziarie -
legate al mercato locale - che si realizzano solo a valle dell'aumento del reddito derivato
da queste esportazioni.

7 SVILUPPO REGIONALE E RELAZIONI CENTRO-PERIFERIA


7.1. La "convergenza" nel processo di sviluppo regionale
Un’interpretazione semplificata delle disparità regionali è quella di tipo diacronico,
secondo la quale, in tutte le regioni, indipendentemente dalla loro collocazione
geografica, culturale, sociale, si registra - sulla base dello schema degli stadi di Rostow
- una stessa consequenzialità delle fasi di sviluppo, che non necessariamente hanno la
stessa ampiezza temporale.
Alcune regioni iniziano prima la crescita, mentre altre rimangono nello stadio iniziale per
periodi molto più lunghi.
Tutte le regioni, comunque, partono da una situazione analoga, in cui l'agricoltura di
sussistenza è l'attività economica prevalente.
In un secondo momento, l'attività agricola è affiancata da una produzione industriale
con mercato locale, mentre in una terza fase, al sistema di imprese locali, si affiancano
e si sostituiscono imprese rivolte all’esportazione.
Infine, con la maturità del sistema produttivo e con i consumi di massa, l’economia si
terziarizza.

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Questo schema “stadiale” associa una gerarchia temporale allo sviluppo dei tre settori
produttivi (primario, secondario, terziario), mentre le differenziazioni dello spazio
geografico non vengono in alcun modo prese in esame.
Anche se le condizioni di partenza sono diverse, e la crescita non procede in modo
uniforme, l’evoluzione dei sistemi economici tende, secondo questa visione, comunque
ad uno stadio finale che è uguale per tutte le regioni, e, quindi, ad una "convergenza"
dei divari.
Questa impostazione è stata seguita da Williamson, il quale sostiene che la crescita
economica di un paese non è omogenea in tutto il suo territorio, ma dà luogo a sensibili
diseguaglianze dei livelli del reddito pro capite delle diverse aree che lo compongono,
divari che, nel tempo, tendono ad attenuarsi ed a scomparire (Williamson, 1965).
Williamson inoltre afferma - sulla base di analisi cross section e time series - che il
divario tra regioni segue un andamento a "U" rovesciata.
Nello stadio iniziale, in una situazione di complessiva arretratezza del paese, il divario
regionale è, in genere, di dimensioni contenute, aumenta nelle fasi di crescita
economica, e si attenua e scompare nella fase di sviluppo.
Egli spiega l’iniziale divergenza delle traiettorie di sviluppo delle regioni, con la presenza
di discontinuità nello spazio geografico: alcune aree, per fattori storici, culturali,
geografici, ambientali, si trovano in una situazione di vantaggio iniziale che incide sulla
velocità della crescita. Williamson si colloca nel filone di pensiero neoclassico, anche se
in modo meno rigido e restrittivo: per il modello di sviluppo regionale neoclassico, come
è stato ricordato nel capitolo precedente, gli squilibri regionali sono fenomeni
temporanei che vengono eliminati dai flussi incrociati di capitale e lavoro, mentre per
Williamson, la fase di permanenza.degli squilibri regionali è una fase piuttosto lunga, e
non rappresenta semplicemente un problema di breve periodo, strettamente
congiunturale e immediatamente risolvibile.

7.2. La “divergenza” nel processo di sviluppo regionale,


In opposizione al pensiero neoclassico della convergenza regionale, sono state
elaborate numerose teorie che si basano sulla differenziazione progressiva, nello
spazio e nel tempo, della crescita e dello sviluppo e, quindi, sulla "divergenza
regionale”, introducendo fenomeni moltiplicativi e cumulativi che si attivano sia in
termini settoriali che spaziali.
I principali filoni sono quelli dello sviluppo equilibrato, squilibrato, dello sviluppo come
processo di causazione circolare cumulativa, e dello sviluppo polarizzato.

7.2.1. Le teorie dello sviluppo equilibrato


Nel quadro della divergenza regionale, le teorie dello sviluppo equilibrato partono dal
presupposto che, in una regione, per rompere l'inerzia di un sistema economico in stato
stazionario e di ristagno, e per spingerlo su una traiettoria di crescita e sviluppo, è
necessario che si realizzi una rottura ed una spinta, un big push, che determini uno
sviluppo simultaneo di più settori produttivi.
L’equilibrio non deve, quindi, essere interpretato nel senso neoclassico del termine, ma
come un modello di crescita produttiva allargato a più settori.

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Rosenstein-Rodan dimostrò che, per la presenza di relazioni verticali ed orizzontali tra
settori produttivi, l'investimento genera maggiori effetti se viene effettuato in comparti
collegati tra loro.
Dati due settori S’ e S”, l’investimento nel settore S’ incide anche sulla redditività
dell'investimento nel settore S”, sia perché aumenta la domanda, sia perché si riducono
i costi di produzione.
Rosenstein-Rodan espone un esempio a supporto della sua teoria. Egli ipotizza che, in
una economia chiusa, una quota di popolazione sia occupata in una fabbrica che
produce un solo tipo di prodotto (scarpe, nell'esempio di Rosenstein), e che i salari dei
lavoratori costituiscano il reddito addizionale.
Se gli operai spendessero tutto il loro reddito addizionale in scarpe, l'impresa avrebbe
un mercato e, quindi, l’investimento risulterebbe appropriato.
In realtà, i lavoratori non spendono il loro reddito addizionale solo in scarpe e, quindi,
l'impresa rischia di non avere un mercato sufficiente.
Se, al contrario, si ipotizza che la popolazione venga impiegata in un numero più ampio
di imprese che producono diversi beni, allora gli occupati spenderanno il loro salario nei
diversi beni, permettendo alle imprese di avere un mercato di sufficiente ampiezza.
I produttori diventano, quindi, acquirenti l'uno dell'altro, e si dovrebbe verificare la legge
di Say (che, di solito, è schematicamente espressa con la frase che “l'offerta crea la
propria domanda”), con la creazione di un mercato addizionale.
Rosenstein-Rodan sostiene, inoltre, che è necessaria una quantità minima di
investimenti per produrre una serie di beni-salario su cui gli operai addizionali potranno
spendere i loro redditi. Sforzi isolati ed esigui possono non dare un impulso sufficiente
allo sviluppo, ed una atmosfera di sviluppo si può svolgere solo con investimenti che
abbiano un minimo di rapidità e di dimensione.
Se il mercato è ridotto, una buona parte della produzione non trova sbocchi mentre, se
il mercato è ampio, si creano “industrie che producono il paniere di beni in cui i
lavoratori spenderanno i loro salari.
Nurkse riprende questa teoria, ed afferma che solo un big push o un critical minimum
effort può fornire una domanda adeguata ad una produzione che, altrimenti,
difficilmente si può realizzare: "un basso reddito reale riflette una bassa produttività che
è dovuta, a sua volta, a deficienze di capitale; la deficienza di capitale deriva dalla
esigua capacità d risparmio e, in tal modo, il circolo è completo" (Nurkse, 1953).
La propensione all’investimento è condizionata dalla dimensione del mercato che
dipende, a sua volta, dalla produttività che deriva "in gran parte, per quanto non
interamente, dal grado con cui il capitale viene utilizzato nella produzione.
Ma, per ogni singolo imprenditore, l'uso del capitale è ostacolato dalle esigue
dimensioni del mercato" (Nurkse, 1953). Si crea, quindi, un circolo vizioso che può
essere interrotto se gli investimenti riguardano un ampio numero di settori produttivi e di
imprese che, implicitamente, portano ad un aumento della dimensione del mercato.

7.2.2. Le teorie dello sviluppo squilibrato.


7.2.2.1. La teoria di Hirschman
Rosenstein-Rodan, Nurkse, Scitovsky, sostenevano che i settori di una economia in via
di sviluppo devono progredire in modo armonico: l'industria non deve crescere in modo
eccessivo rispetto all'agricoltura, i servizi devono costituire un supporto ed uno stimolo

45
per lo sviluppo del sistema industriale, il modello di sviluppo deve risultare equilibrato in
tutte le sue parti, soprattutto per i problemi che possono nascere sul versante della
domanda.
Se infatti in un paese sottosviluppato si crea una sola industria, difficilmente la sua
produzione può essere assorbita dalla popolazione che è in una situazione di "equilibrio
di sottosviluppo" mentre, al contrario, la crescita di un gran numero di nuove industrie
può determinare le condizioni perché si generi una dimensione di mercato sufficiente
ampia.
Singer critica la teoria dello sviluppo equilibrato di Rosenstein-Rodan e di Nurkse ed
osserva che:
• gli investimenti sono concentrati solo sui settori industriali, mentre viene trascurata
la produzione agricola. L’incremento del reddito e, quindi, dei consumi in paesi
sottosviluppati, determina, infatti, anche un aumento della domanda di beni
alimentari, per cui gli investimenti devono essere attivati anche nel settore
primario, attraverso un aumento di produttività (Singer, 1958);
• per una popolazione che è in una condizione di sottosviluppo, l'applicazione di una
sviluppo equilibrato richiede una forte quantità di risorse che sono, al contrario,
scarse. E’ una teoria, quindi, più adatta ad un Paese in cui sia già iniziato un
processo di sviluppo dato che, in un sistema economico arretrato, difficilmente
sono disponibili capitali e risorse tali da promuovere politiche di sviluppo in tutti i
settori produttivi. Più realistica è una strategia che concentri inizialmente gli
investimenti solo su alcune industrie.

Hirschman ha ampliato i temi dello sviluppo squilibrato, sostenendo che il processo è


determinato da una sequenza di squilibri, e che ogni sequenza ulteriore, generata da
una precedente situazione di squilibrio, a sua volta ne provoca una successiva che
determina un ulteriore progresso.
Il processo di sviluppo, secondo Hirschman, è caratterizzato da tre fattori principali:
− le economie esterne,
− i processi moltiplicativi,
− i fenomeni cumulativi.
L’espansione di un’impresa genera delle economie esterne che possono essere
acquisite anche da un'altra impresa che, a sua volta, produce delle economie esterne
sia per per sé stessa che per l’altra impresa, ed eventualmente anche per una terza
impresa. Ad ogni sequenza, una unità produttiva si avvantaggia delle economie esterne
create precedentemente da un’altra unità e, nello stesso tempo, crea nuove economie
esterne.
Hirschman parte dalla considerazione che la ricerca di maggiori profitti produce una
naturale concentrazione geografica degli investimenti nelle regioni che presentano
fattori adeguati per la localizzazione.
La presenza in tali regioni di capitali, attiva investimenti che, a loro volta, determinano,
per la creazione di economie esterne, nuove localizzazioni. Si generano, quindi, quelli
che Hirschman chiama investimenti indotti, che si rifanno alla teoria del moltiplicatore:
ogni investimento è considerato come un fattore di attivazione di una serie di
investimenti successivi.

46
La capacità di un investimento di attivarne altri permette di stabilire una connessione tra
l'investimento del periodo precedente e quello del periodo successivo. Inoltre, i processi
d’investimento indotto determinano un incremento dell’occupazione e, quindi, del
reddito e dei consumi della regione, con effetti moltiplicativi del reddito.
Hirschman prende in esame anche le relazioni tra i settori produttivi.
Il legame può essere costituito da connessioni (linkage) di produzione, che si possono
determinare a monte o a valle del processo produttivo.
Si ha una connessione a monte, quando un’impresa utilizza input provenienti da altre
fasi produttive, mentre si ha una connessione a valle quando l'output di una impresa è
usato come input da altre imprese.
In altri termini, Hirschman introduce i backward linkage effects, per i quali ogni attività
economica che utilizza input intermedi, stimola l'offerta degli input che gli sono
necessari, e i forward linkages effects, per i quali ogni attività che produca beni non
destinati alla domanda finale, rivolge la propria produzione come input di nuove attività.

7.2.2.2. La teoria di sviluppo regionale come processo di causazione circolare cumulativa.


Myrdal osserva che il commercio tra paesi sottosviluppati e paesi sviluppati non tende
all'uguaglianza della produttività marginale e dei redditi, ma dà luogo ad un
allontanamento dall'equilibrio, con un incremento della divergenza tra produttività dei
paesi sviluppati e quella dei paesi sottosviluppati (Myrdal, 1957).
Secondo il principio di causalità cumulativa, alcune regioni si avvantaggiano a scapito di
altre, determinando disuguaglianze sempre maggiori tra aree relativamente ricche ed
aree relativamente povere.
Uno dei punti di partenza di Myrdal è la critica alla teoria del commercio internazionale,
che non sarebbe in grado, a suo giudizio, di spiegare adeguatamente i motivi per cui si
generano disuguaglianze economiche tra regioni, e le cause per le quali si registra una
tendenza al loro aumento.
Il commercio viene considerato da Myrdal come uno dei fattori attraverso il quale le
forze di mercato tendono a produrre maggiori disuguaglianze ed a concentrare lo
sviluppo solo in alcune regioni.
Gran parte degli studiosi che si sono occupati dello sviluppo economico, fanno
riferimento al concetto di "circolo vizioso".
La causazione circolare di uno sviluppo cumulativo è il processo secondo il quale un
paese sottosviluppato può sperare di "sollevarsi con le proprie forze" solo se è in grado
di mettere in atto quello che Rostow chiama "l'avvio di un processo di sviluppo che si
sostiene da sé, e di sostenere il sacrificio nell'attesa di una piena ricompensa di tutti i
propri sforzi.
Myrdal confuta l'impostazione neoclassica in quanto un cambiamento in un sistema
economico e sociale introduce nel sistema stesso alterazioni che, nel complesso, si
muovono in direzione opposta alla modificazione iniziale.
Il sistema, infatti, non si muove verso una posizione di equilibrio tra le componenti ma,
al contrario, tende ad allontanarsi progressivamente da questa posizione, ed a
procedere con moto accelerato.
Egli parte dall'ipotesi che, se in una regione si insedia una nuova impresa, od una già
esistente introduce importanti innovazioni, si attivano una serie di eventi che hanno

47
effetti diretti, sia sulla crescita che sullo sviluppo regionale: si creano nuovi posti di
lavoro, il reddito ed i consumi subiscono una variazione positiva, le imprese locali
beneficiano della dinamica con un aumento della produzione e, successivamente, in
seguito alla disponibilità di una maggiore capacità d’investimento, si determinano livelli
crescenti di produttività.
Con l'aumento dei redditi e, quindi, dei consumi, la domanda aggregata assume
maggiori dimensioni con risvolti positivi sui profitti d'impresa e, quindi, sugli investimenti,
mentre l'espansione complessiva del sistema genera economie esterne che accelerano
il processo di concentrazione di altre attività. Queste condizioni ambientali favorevoli
attraggono manodopera, capitale ed imprese, favoriscono la nascita di servizi di elevata
qualità.
Questo complesso di fattori spingono ad una sempre maggiore concentrazione d’attività
e di capitali – che, in un’economia in fase di sviluppo, tendono a dare una
remunerazione superiore alla media - producendo l'aumento delle ineguaglianze
regionali.
I processi di progressivo squilibrio tra regioni soggette a crescita (centrali), ed aree
soggette a progressivo impoverimento (periferiche), sono spiegati da Myrdal come la
combinazione di processi di causazione circolare cumulativa ascendente nelle aree
centrali, e discendente - ossia operante in senso inverso - nelle aree periferiche.
La concomitanza della cumulatività ascendente e discendente si registra in misura
massima nella prima fase, quando operano quelli che Myrdal chiama "effetti di riflusso".
Si osservano "effetti di riflusso" quando la manodopera ed i capitali - che sono il mezzo
attraverso il quale si svolge il processo cumulativo in senso ascendente o discendente -
sono attratti dalle aree periferiche verso quelle centrali, dove l'attività economica è in
espansione. Poichè il fenomeno migratorio - almeno nelle prime fasi - ha carattere
selettivo, il processo di riflusso riguarda soprattutto la manodopera più qualificata, i
capitali di maggiore dimensione, le capacità imprenditoriali più vivaci, dando luogo,
nell'area centrale, ad un processo di causazione cumulativa ascendente.
Nelle aree periferiche, la migrazione della manodopera e dei capitali verso le regioni
centrali, influisce negativamente sugli investimenti, la struttura produttiva si indebolisce
ulteriormente e perde di competitività, la manodopera si svaluta, i redditi ed i consumi si
riducono ulteriormente. Di conseguenza, le aliquote delle imposte locali tendono a
diminuire, con effetti sulla qualità ed efficienza del sistema delle infrastrutture e dei
servizi. Ciò si ripercuote anche sulle risorse che possono essere destinate alla
formazione della manodopera, con effetti negativi sulla specializzazione. In queste aree
i fattori negativi si cumulano, dando luogo alla causazione circolare cumulativa
discendente.
Il processo di riflusso si può attenuare in una fase successiva, quando si delineano
effetti di diffusione dalle regioni centrali verso quelle periferiche, sotto forma di domanda
da parte delle aree sviluppate di produzioni tipiche delle economie periferiche, come ad
esempio i prodotti agricoli o le materie prime.
La diffusione può coinvolgere sia aree contigue che confinano con quella in espansione,
sia regioni più distanti, dove si registrano condizioni favorevoli alla produzione di
materie prime necessarie alle industrie localizzate nelle aree centrali.

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Se la domanda esogena è sufficientemente elevata, in queste aree periferiche aumenta
la domanda di manodopera - e quindi l'occupazione - con conseguente incremento dei
redditi e dei consumi.
Si determina quindi, se l'impulso all'espansione è sufficientemente forte da annullare gli
effetti di riflusso, un’inversione nella direzione del processo cumulativo (da discendente
in ascendente).
L'azione degli effetti di diffusione non determina, tuttavia, come fase conseguente, una
posizione di equilibrio del sistema secondo i dettami neoclassici, in quanto riflusso e
diffusione si possono "bilanciare reciprocamente", determinando condizioni di ristagno
(sia nelle aree centrali che in quelle periferiche), ma non di equilibrio, in quanto "ogni
cambiamento delle forze determinerà un processo cumulativo ascendente o
discendente" (Myrdal, 1958). Quando un paese, nel suo complesso, raggiunge un
elevato livello di sviluppo in cui gli effetti di diffusione superano gli effetti di riflusso, la
neutralizzazione di questi ultimi diviene un fattore di sviluppo ed un fattore del processo
cumulativo.
La presenza di diseconomie esterne rappresenta uno dei principali motivi per cui, nelle
aree centrali, il processo di causazione circolare cumulativa può manifestare un minore
tasso di crescita o, nel caso in cui sia stato raggiunto un elevato grado di sviluppo,
invertire la direzione.
Tali diseconomie possono essere determinate da:
- un aumento della spesa pubblica e, quindi, delle aliquote impositive;
- un incremento eccessivo di salari e stipendi, che può favorire regioni meno
sviluppate;
- un invecchiamento delle tecniche di produzione, in una fase in cui si manifesti un
rapido sviluppo tecnologico;
- una lievitazione dei costi di produzione delle imprese, che possono determinare
produzioni più competitive in periferia, o delocalizzazioni delle unità di produzione;
- una diminuzione e contrazione della domanda interna;
- un processo cumulativo dei prezzi, legato alle aspettative da parte della popolazione
di ulteriori aumenti.

7.2.2.3. Lo sviluppo polarizzato.


Negli anni in cui Myrdal approfondiva i processi cumulativi che si originano nelle
fasi di sviluppo, François Perroux terminava la parte più corposa della sua teoria,
iniziata nel 1950, e basata su un modello di crescita polarizzata.
Nella teoria della polarizzazione sono presenti numerosi principi propri delle teorie di
sviluppo, basate sulla "divergenza regionale":
- il princio della dominazione;
- il principio dell'agglomerazione e della diffusione settoriale dello sviluppo e gli effetti
agglomerativi legati a economie di scala esterne;
- il principio della cumulatività degli effetti;
- il ruolo delle esportazioni nei processi di crescita regionale;
- il ruolo delle politiche economiche e sociali, riprese in chiave neoclassica da Vera
Lutz.

49
Il concetto di polo e di polarizzazione collocano la teoria di Perroux negli studi che
pongono, come elemento fondativo, il processo di differenziazione progressiva, nello
spazio e nel tempo, della crescita e dello sviluppo.
Perroux sottopone la teoria neoclassica a una profonda analisi critica. Egli osserva che,
nei modello di economia in regolare crescita e senza cambiamenti nelle proporzioni tra i
flussi sono presenti tutti i presupposti tipici della impostazione walrasiana, secondo cui
"l'economia di un certo periodo è l'esatta ripetizione dell'economia del periodo
precedente; le quantità sono solo moltiplicate per un certo coefficiente".I prodotti, i
servizi, la moneta descrivono gli stessi percorsi; i flussi aumentano senza mutamenti di
struttura, nè fluttuazioni.
Perroux non condivide questa impostazione, ed interpreta, al contrario, lo sviluppo
come "processi cumulativi che compongono una catena di squilibri", e come "una
combinazione di mutamenti mentali e sociali, in grado di far crescere cumulativamente
e durevolmente il prodotto di una popolazione".
La non identità tra crescita e sviluppo - sottoscritta da Perroux - viene avvalorata dal
fatto che, nella storia economica, diversi periodi di crescita, caratterizzati da
accelerazioni o rallentamenti del saggio di incremento del prodotto, non
necessariamente coincidono con i periodi di sviluppo.
Uno dei punti di partenza della teoria di Perroux riguarda il principio della dominazione
che, da un lato, costituisce il fulcro della sua critica alla teoria dell'equilibrio e, dall'altro,
permette di definire i caratteri salienti del polo di sviluppo.
L'effetto di dominazione consiste in un’influenza irreversibile o parzialmente reversibile,
esercitata da una unità su un'altra. Una unità economica esercita questo effetto in
ragione delle sue dimensioni, del suo potere di negoziato, della natura delle sue attività
o della appartenzenza ad una zona di attività dominante.
Contrariamente alle condizioni espresse dai modelli di concorrenza perfetta, le imprese
operano in situazioni diverse e si collocano in due tipologie di spazi differenziati:
− lo spazio geografico, costituito dall'ambito territoriale all'interno del quale
un’impresa controlla (domina) l'attività economica;
− lo spazio economico, che può essere assimilato al mercato di un prodotto, ed alle
relazioni di dominazione che l'impresa (dominante) esercita su altre imprese, in
termini di acquisizione di input produttivi o semilavorati, a determinate condizioni
ed a determinati prezzi.
La teoria di Perroux si basa sul principio della differenziazione spaziale dello sviluppo,
che si manifesta in poli di crescita con intensità variabile. La nascita e la crescita di poli
deriva da un forte aumento, in alcune aree, del numero di unità produttive che
possiedono caratteristiche proprie della grande industria moderna (separazione tra loro
dei fattori di produzione, elevata specializzazione, adozione di innovazioni), in grado di
raggiungere saggi di incremento della produzione che risultano più elevati dei saggi
medi di incremento del prodotto industriale e dell'economia nazionale.
Per descrivere il meccanismo che genera in alcune regioni un tasso di sviluppo
maggiore rispetto ad altre, Perroux introduce i concetti di industria motrice, industria
chiave e industrie mosse.
La crescita e lo sviluppo di alcune imprese, localizzate in determinate regioni, provoca
un incremento di produzione e, quindi, di acquisti di semilavorati e di servizi da parte di
altre aziende che forniscono tali prodotti e che, di conseguenza, aumentano la propria

50
produzione. Questa capacità di attivare e/o incrementare la produzione in altre
industrie, connota l'impresa come “impresa motrice”, in grado di incidere direttamente
sulla produzione di altre imprese, denominate “imprese mosse”, posizionate a monte o
a valle del processo produttivo dell'impresa motrice.
L'impresa motrice tende ad utilizzare al massimo i suoi capitali fissi, in modo da
posizionarsi - grazie anche alle innovazioni introdotte, ed alle capacità tecniche e
manageriali - su punti più bassi della curva dei costi. In tal modo, può attuare - se non si
trova in una condizione di monopolio - una riduzione dei prezzi dei prodotti che
permettono un incremento delle vendite, ed un conseguente aumento di produzione
nelle imprese mosse, incremento che sarà proporzionale all'aumento di produzione
dell’unità motrice.
Rispetto all'impresa motrice, l'industria chiave ha un significato più ampio, e può essere
definita come quel settore che induce, nel sistema economico regionale o nazionale, un
incremento della produzione globale maggiore dell'incremento della propria produzione.
Ad esempio, le attività che estraggono materie prime, che producono energia, che
operano nel settore dei trasporti hanno, per Perroux, una vocazione ad acquisire il ruolo
di industrie chiave.
Perroux introduce, inoltre, il principio dell’agglomerazione secondo il quale, in un polo
industriale complesso in fase di crescita, si registra un incremento complessivo delle
attività economiche, dovuto ai vantaggi che derivano dalla prossimità geografica delle
attività e dagli scambi d’informazione che si instaurano tra i diversi operatori.
La concentrazione, in un'area ristretta, di imprese di vario tipo, operanti in più settori,
genera effetti moltiplicativi dell'occupazione e del reddito anche in settori collaterali
come quello dei servizi.
Gli effetti moltiplicativi dovuti alla concentrazione delle attività, si ripercuotono anche a
livello spaziale in quanto - specie se l'impresa motrice si posizione nell’industria chiave -
non solo si modifica l'economia delle aree circostanti, ma tali effetti si possono
espandere e diffondere su tutto lo spazio regionale, rafforzando il ruolo e la
dominazione di una regione rispetto ad altre, e determinando, in misura sempre
maggiore, processi di differenziazione e di polarizzazione economica.
Le disparità regionali derivano, quindi, dalla presenza di un polo di sviluppo, che
provoca una serie di squilibri economici e sociali. Il polo, infatti, distribuisce salari e
redditi aggiuntivi, attira manodopera, determina concentrazioni di capitali in specifici
settori, sollecita la presenza di strutture rivolte alla R&S, facilita l'acquisizione di
informazione e l'adozione di innovazioni, senza che ciò procuri, nel breve periodo,
vantaggi ad altre regioni la cui crescita e il cui sviluppo possono essere, al contrario,
ritardati dai processi di polarizzazione.
Gli investimenti che si concentrano in un polo determinano ulteriori investimenti
complementari che, se riguardano attività collocate a monte del processo produttivo
dell'impresa motrice, generano "effetti ascendenti" mentre, se sono riferiti ad attività a
valle dell'investimento motore, determinano "effetti discendenti".
Un aspetto di rilievo nella teoria è costituito dall’individuazione di tre tipologie di effetti
che possono essere generati da una grande unità produttiva:
- gli effetti diretti, generati dall’impresa motrice in termini di occupazione, redditi,
partecipazione al prodotto locale;

51
- gli effetti indiretti, che riguardano l'incremento di occupazione e di reddito derivati
dalla maggiore produzione delle imprese situate a monte ed a valle del processo
produttivo motore;
- gli effetti indotti, che derivano dai redditi distribuiti dall'unità motrice e dalle imprese
mosse sulla economia locale (commercio, servizi, ecc.).
La crescita e lo sviluppo si possono estendere progressivamente ad altre regioni solo
se si registrano processi di diffusione interregionale degli effetti del polo.
Come si può rilevare, nella teoria di Perroux sono presenti molti dei meccanismi di
sviluppo descritti da Myrdal: i processi agglomerativi del polo sono assimilabili, ad
esempio, ai fenomeni di causazione circolare e cumulativa che determinano i processi
di riflusso, così come successive fasi di sviluppo possono attivare processi di diffusione
spaziale e di coinvolgimento di aree periferiche.
La “divergenza regionale” che si determina a seguito della crescita di un polo di
sviluppo può attenuarsi nel tempo, per il gioco combinato di due fattori:
- i processi di diffusione e di propagazione degli effetti da parte del polo, che
investono nuove aree e diversi settori produttivi;
- nel polo di sviluppo e nel suo ambiente, si possono determinare periodi di
momentanea flessione produttiva, dovuta al fatto che le risorse, inizialmente
disponibili in larga misura, non sono più disponibili nelle stesse dimensioni, le
innovazioni hanno una minore diffusione, i profitti della fase iniziale diminuiscono.

7.2.2.4. Contributi alla teoria dello sviluppo polarizzato.


La teoria dei poli di sviluppo si presenta come una teoria della crescita
squilibrata, sia da un punto di vista settoriale che spaziale.
Gli effetti della crescita non si propagano in modo uniforme, in quanto vengono
privilegiati i settori produttivi che sono più strettamente legati alle attività motrici, e le
aree più vicine alle zone in cui sono localizzate le imprese motrici.
L'agglomerazione delle attività determina economie esterne che si trasmettono ai settori
che sono in relazione con l'attività che ha introdotto innovazioni, e si generano effetti
moltiplicativi dovuti al fatto che i settori fornitori beneficiano dell'aumento della
domanda, mentre i settori compratori beneficiano del miglioramento della qualità e del
minore prezzo.
Il polo di sviluppo di Perroux può essere, quindi, definito come "una unità motrice in un
ambito determinato o meglio, come un insieme di unità motrici che esercitano effetti di
trascinamento su altri insiemi definiti nello spazio economico e geografico.
Questo concetto è stato ripreso e sviluppato da altri autori, che hanno precisato il
meccanismo di sviluppo indotto dai poli, e ne hanno sottolineato la portata ed i limiti
(Hirschman, 1958; Hansen, 1967; Hoover, 1971; Paelink e Boudeville, 1972).
Alcuni hanno introdotto una distinzione - che Perroux non esplicita chiaramente - tra
polo di sviluppo e polo di crescita:
− Il polo di sviluppo corrisponde ad una agglomerazione di imprese motrici, le cui
dinamiche hanno effetti trainanti rilevanti sull’economia della regione in cui il polo è
localizzato.
− Il polo di crescita è una agglomerazione "passiva", in cui i ritmi di crescita della
popolazione e dei redditi derivano dagli effetti di trascinamento generati dal polo di

52
sviluppo, senza che, tuttavia, siano in grado di esercitare, attraverso i propri
investimenti, un impatto di rilievo sull’economia regionale.
Lo sviluppo squilibrato che si determina a seguito dello sviluppo di un polo, è dovuto
quindi al fatto che esso esercita, inizialmente, un’influenza centripeta sui fattori di
produzione, attira popolazione grazie alla disponibilità di posti di lavoro e dei salari
distribuiti, drena capitali, attrae flussi commerciali (che determinano un processo
cumulativo di crescita del mercato), genera l'incremento dei redditi, promuove la
diversificazione delle attività.
L'impresa motrice può esercitare un impatto sulla regione agendo sui flussi di beni e
servizi scambiati - e quindi sul livello del reddito disponibile - e adottando innovazioni
che si riflettono anche sul livello tecnologico del sistema produttivo locale,
interconnesso a monte e a valle del processo produttivo.
Se l'impresa motrice è in grado di anticipare l’evoluzione della domanda, è in grado
anche di acquisire un vantaggio competitivo che incide positivamente sul livello della
produzione e, quindi, sul valore aggiunto complessivo della regione, sul livello degli
investimenti, sulla produzione del sistema produttivo locale. Inoltre, si determinano
effetti anche sul livello dei prezzi dei prodotti. Se l’impresa motrice fa ricorso a tecniche
più efficienti di quelle utilizzate nel passato, trasmette al sistema produttivo una
maggiore efficienza sotto forma di una diminuzione dei prezzi degli input intermedi, che
si riflettono sui prezzi dei prodotti finali. Se la produzione è rivolta a beni i cui consumi
sono elastici rispetto ai prezzi, la loro diminuzione determinerà un incremento delle
quantità domandate, che si aggiunge all’aumento tendenziale.

53
CAPITOLO III
SVILUPPO ENDOGENO E SPAZIO GEOGRAFICO

Premessa
Una delle ricorrenti critiche alle teorie dello sviluppo regionale, riguarda la mancata
considerazione dei parametri dello spazio e del tempo.
Nei modelli neoclassici e neokeynesiani non viene introdotta una differenziazione nei
processi di sviluppo, dato che si prefigura, in genere, un unico percorso, valido in ogni
tempo ed in ogni luogo, destinato ad essere seguito da tutti i paesi e da tutte le regioni.
Non sono, quindi, tenute in debito conto le diverse condizioni storico-culturali e le
caratteristiche socio-economiche regionali che stanno sempre più acquisendo, al
contrario, un ruolo centrale e strategico, e le cui differenze costituiscono un fattore
chiave nella spiegazione dei diversi sentieri di sviluppo seguiti.
Nelle strutture produttive dei paesi più avanzati, numerosi fattori (il costo dei fattori di
produzione, i cambiamenti delle caratteristiche della domanda, la velocità ed i caratteri
dell’innovazione tecnologica, il forte aumento della concorrenza internazionale, i
processi d’internazionalizzazione e di globalizzazione, la dematerializzazione sempre
più spinta delle produzioni, l’allargamento del confronto competitivo, il ruolo crescente
dei servizi), incidono, non solo sui modi di produzione e sulle strategie dell’impresa, ma
anche sulle strutture organizzative e sui modelli localizzativi.
Ciò influisce sulla formazione di modelli territoriali differenziati, che risentono della
progressiva deindustrializzazione e terziarizzazione delle economie delle grandi città, si
configurano in strutture urbane di tipo reticolare, si caratterizzano per
l’industrializzazione non metropolitana e la crescita di sistemi produttivi locali di PMI.
Il cambiamento dei modi di produzione - riconducibili soprattutto all’affermazione del
nuovo paradigma dell’Information Technology, trasversale a gran parte dei settori
produttivi - ha inciso, anche se con tempi e velocità diverse, sui processi e sui modelli di
sviluppo regionale, e sulle caratteristiche, sul ruolo, sulla configurazione delle reti
urbane.
L’organizzazione della produzione assume modalità molto differenziate, difficilmente
riconducibili a semplici schemi di efficienza, dato che sul territorio, sistemi di
organizzazione produttiva molto differenziati (la grande impresa verticalmente integrata,
la grande impresa con rete gerarchica di sub fornitori, i sistemi integrati di PMI, le
piccole imprese innovative) che partecipano allo stesso meccanismo competitivo,
operando sugli stessi mercati finali,

1. L’APPROCCIO ENDOGENO ALLO SVILUPPO REGIONALE


Il modello dello sviluppo endogeno rompe con la lunga tradizione dei modelli esogeni,
ed introduce, nell’analisi dei fattori che sono alla base dello sviluppo, nuovi indicatori
che hanno rilevanza nelle strategie, negli investimenti, nelle logiche localizzative delle
imprese (rapporti tra imprese, tra sistema produtttivo e sistema sociale, culturale,
istituzionale, le capacità imprenditoriali, la manodopera qualificata, le istituzioni locali).

54
Questi indicatori sono alla base di modelli di organizzazione della produzione e
dell’interazione tra attori economici e sociali: il processo di sviluppo regionale acquisisce
un “carattere di processo sociale” (Garofoli, Mazzoni, 1994). Molti dei fattori critici che
incidono sullo sviluppo sono sedimentati storicamente nelle società locali, e non
facilmente esportabili in altre aree.
Le differenziazioni geografiche acquistano, di conseguenza, un ruolo chiave
nell’individuazione, descrizione, quantificazione delle diverse opportunità o dei diversi
vincoli che determinano traiettorie differenziate di crescita.
L’approccio di tipo "endogeno" si basa sul principio che i più importanti fattori di sviluppo
sono in molti casi "localizzati"; riguardano, prevalentemente, la capacità dei sistemi
produttivi locali d’elaborare, acquisire, adottare innovazioni, le potenzialità della forza
lavoro locale, la cultura imprenditoriale, l'ambiente tecnologico e scientifico, le
infrastrutture ed i servizi presenti sul territorio (che determinano per le singole aree la
capacità di produrre, con un vantaggio comparato, i beni domandati a livello nazionale e
internazionale), la rete delle relazioni funzionali e gerarchiche tra imprese.
L’approccio di tipo endogeno introduce una parziale autonomia del sistema economico
locale nel processo di trasformazione, dato che introduce la centralità dei processi
decisionali degli attori locali e la loro capacità di controllare ed internalizzare
conoscenze ed informazioni esterne, e considera quasi immobili i più importanti fattori di
crescita (infrastrutture, forza lavoro specializzata, strutture settoriali locali, know-how
tecnico e organizzativo, economie d’urbanizzazione e di localizzazione, strutture sociali
ed istituzionali locali).
La teoria dello sviluppo endogeno, nelle sue formulazioni originali, ha come campo
privilegiato di analisi i distretti industriali ed i sistemi produttivi locali, una tipologia
questa che non esaurisce certamente la vasta gamma delle attività e funzioni che
generano sviluppo, ed i cui principi devono essere generalizzati. Inoltre, le condizioni
genetiche locali dello sviluppo, in alcuni casi, non sono adeguatamente integrate nel
quadro macro economico e macro territoriale in cui l’economia delle singole aree si
trova inserita, e nelle reti di relazioni funzionali e gerarchiche che l’area stessa ha con
l’esterno.
Le profonde modificazioni ricordate in precedenza (costo dei fattori, ritmo di crescita e
caratteristiche della domanda, innovazione tecnologica, livello della concorrenza
internazionale, processi di internazionalizzazione, ecc.) e la declinante importanza delle
proprietà che avevano sostenuto gli stadi iniziali di crescita dei sistemi produttivi locali,
rendono lo sviluppo endogeno non un modello assoluto, ma un importante contributo
teorico a specifici sentieri di crescita.
Nello sviluppo endogeno deve essere necessariamente introdotta l’interazione tra
variabili endogene ed esogene, tra locale e globale, tra l’internalizzazione di
conoscenze e fattori esterni, in una dinamica di circolazione dell’informazione e
dell’innovazione.
E’ quindi opportuno, all’interno di modelli di sviluppo regionale, combinare fattori
esogeni ed endogeni, soprattutto in una fase storica delle economie avanzate in cui
internazionalizzazione e globalizzazione delle economie, trasferimento delle tecnologie,
dematerializzazione della produzione, organizzazione a rete delle imprese e reticolarità
delle informazioni, difficilmente possono essere relegate solo all’interno di un approccio
endogeno, ed in cui le città assumono sempre più un ruolo di “centri nodali" e di poli di

55
scambio commerciale, tali da costituire il "motore" dello sviluppo regionale (North,
1955).

2. PROCESSO DI APPRENDIMENTO E SPAZIO GEOGRAFICO


Nel progresso tecnico sono identificabili due componenti, una di natura esogena,
relativa all'insieme di contributi esterni non direttamente spiegabili, o non direttamente
riconducibili, alla dinamica dell'attività produttiva, ed una componente endogena che è,
al contrario, un risultato.
Il progresso tecnico, per Schumpeter, è costituito, a monte, da un insieme di
invenzioni e, a valle, da innovazioni radicali che determinano campi di opportunità
che consentono all'imprenditore di conseguire profitti inizialmente al di sopra della
media. In questo senso, il progresso tecnico è una componente esogena attraverso la
costituzione d’opportunità che l'imprenditore coglie attuando investimenti.
Una parte rilevante del progresso tecnico è anche spiegata da fattori endogeni: la
tecnologia adottata da un’impresa è, infatti, il risultato di scelte e strategie attuate nel
corso della sua attività, in particolare di processi innovativi che hanno dato luogo, nel
tempo, all'insieme delle capacità e dei mezzi di produzione.
La capacità d’introdurre ed adottare innovazioni è dovuta a questo patrimonio
conoscitivo: la tecnica data, l'insieme dei modi e dei mezzi di produzione, delle
competenze acquisite, rendono, in alcuni casi, il processo innovativo come un processo
continuo di soluzioni di problemi circoscritti in un ambito tecnico definito, che si esprime
anche in forme limitate (innovazioni incrementali), e che determina un processo
sostenuto nel tempo.
In questo quadro, possono essere definiti due processi d’apprendimento che hanno
tante possibilità di realizzarsi quanto maggiore è la specializzazione a cui è pervenuta la
tecnica di un’impresa:
− il primo è un processo d’apprendimento che riguarda il modo di produrre un
prodotto specifico (learning by doing);
− il secondo è un processo d’apprendimento che riguarda le proprietà stesse dei
mezzi di produzione utilizzati e, quindi, i modi di migliorarli (learning by using).

Il learning by doing ed il learnig by using sono processi nettamente distinti:
− Il learning by doing, introdotto da Arrow, riguarda i miglioramenti interni al
processo produttivo, connessi alla produzione
− il learnig by using fa riferimento ai miglioramenti come risultato dell’utilizzo del
prodotto. Non è, quindi, funzione dell'esperienza maturata nella fase di
produzione, come il learning by doing, ma del suo impiego da parte dell'utilizzatore
finale.
Le caratteristiche principali del processo innovativo caratterizzato da apprendimento
sono la continuità e la cumulatività.
Ogni innovazione genera, infatti, un assetto tecnico ed organizzativo che costituisce la
base per successive innovazioni che determinano, nel tempo, quello che Arrow
definisce il modello del "learning by doing", secondo il quale "ogni nuova macchina
prodotta ed installata, cambia l'ambiente in cui la produzione si realizza" (Arrow, 1962).

56
Le diverse fonti di apprendimento - la cui importanza relativa cambia a seconda della
natura delle competenze di base dell'impresa - riguardano (Pavitt, 1991):
- l’apprendimento attraverso la produzione o learning by doing, che acquista la
massima importanza nelle imprese ad alta intensità di produzione d’informazione;
- l’apprendimento che deriva dalla messa in uso dei prodotti o learning by using,
rilevante soprattutto per i fornitori di beni capìtali e di beni intermedi;
- l’apprendimento acquisito dall’analisi degli errori compiuti (con la modifica delle
innovazioni di prodotto che si sono rivelate sbagliate);
- l’apprendimento mediante prove e valutazioni nei laboratori di R&S;
- l’apprendimento dalla concorrenza, esaminando le prestazioni dei concorrenti.
L'innovazione tecnologica deriva da numerose tipologie differenziate di apprendimento,
ed è costituita, non tanto da innovazioni radicali di derivazione schumpeteriana, quanto
dai miglioramenti incrementali di minore entità, che determinano il tasso di crescita della
produttivà (Rosemberg, 1991).
Connessa al processo d’apprendimento è la path-dependence, ossia la sequenza di
cambiamenti economici che dipendono dal percorso che l’impresa ha compiuto in
precedenza. Gli investimenti effettuati in un periodo precedente dall’impresa ed il suo
repertorio di routines pongono vincoli al comportamento futuro, in quanto le opportunità
di apprendimento tendono a raggrupparsi intorno alle precedenti attività e produzioni.
Il concetto di path-dependence può essere arricchito di significato, se si prendono in
esame le opportunità tecnologiche di un’azienda che non sono, in genere, esogene, ma
alimentate dalla sua stessa attività innovativa. L'individuazione delle “opportunità”
deriva quindi dalla capacità della struttura organizzativa dell’impresa di saper coniugare
output della R&S e output delle funzioni aziendali commerciali.

3. LA DIFFUSIONE DELLE INNOVAZIONI NEL PROCESSO DI SVILUPPO REGIONALE.


3.1. Discontinuità dell'innovazione: opportunità tecnologiche e convergenza
Nelle teorie di sviluppo regionale, sia di matrice economica che geografica, il processo
di diffusione delle innovazioni costituisce uno dei fattori chiave per l’attivazione della
crescita e dello sviluppo. L'esperienza acquisita dalle singole imprese in specifici campi
produttivi e tecnologici può diffondersi nell'ambiente circostante, ed essere disponibile
per il tessuto produttivo, sia attraverso l'acquisizione di manodopera specializzata e di
management, sia attraverso la diffusione interaziendale.
La diffusione di un’innovazione può essere analizzata sulla base di due parametri:
− la diffusione interaziendale, intersettoriale e intrasettoriale,
− la diffusione spaziale tra imprese variamente localizzate, appartenenti allo stesso
settore, o che utilizzano analoghe tecnologie.
Diffusione interaziendale, inter e intra settoriale, e diffusione spaziale sono strettamente
interconnesse e suscettibili d’interpretazioni congiunte.
I modelli di diffusione delle innovazioni - che identificano tempi e modi secondo i quali le
imprese riescono ad imitare ed incorporare innovazioni sviluppate da altre imprese -
devono tenere conto di due aspetti di particolare rilievo:
− le “opportunità tecnologiche”, secondo cui il tasso del cambiamento delle
tecnologie deriva anche da un processo di accumulazione delle conoscenze
scientifiche autonome (Mowery e Rosemberg, 1979),

57
− la "convergenza tecnologica", caratteristica di variazioni significative nelle tecniche
di produzione comuni a più filiere tecniche. In questo caso, si possono attivare
processi di diffusione che determinano fenomeni di specializzazione produttiva e
di disintegrazione verticale dei processi produttivi, con la nascita di nuove imprese
e, in alcuni casi, di nuovi settori (Rosemberg, 1976).
Con la "convergenza tecnologica", le nuove tecniche produttive attraversano
orizzontalmente alcuni settori. La dinamica dei sistemi tecnici si sviluppa, secondo
Rosemberg, "attraverso fasci di innovazioni che s’irradiano orizzontalmente nel
sistema economico, e che producono cambiamenti sensibili nelle strutture
produttive e nello stock di conoscenze tecnologiche di ciascuna filiera".

Facendo riferimento alla diffusione interaziendale, "la diffusione di nuovi prodotti e


processi comporta periodi di tempo di estensione variabile: alcune imprese adottano
un’innovazione subito dopo la sua comparsa sul mercato, mentre altri lo fanno solo in
tempi successivi. Inoltre, durante il processo di diffusione, mutano le posizioni
competitive delle imprese adottanti e non adottanti.
Lo stesso vale per gli incentivi economici all'adozione e per la capacità degli agenti
economici di fare un uso efficiente dell'innovazione. Infine l'innovazione cambia nel
corso del tempo in seguito a miglioramenti più o meno incrementali delle sue
prestazioni che sono il risultato di un suo più ampio utilizzo.
La diffusione dell'innovazione interaziendale (e, come vedremo in seguito, anche
spaziale) è, quindi, un processo che avviene nel tempo, con maggiore o minore
velocità.
Possono essere individuate diverse cause per le quali le imprese potenzialmente
interessate non adottano tutte contemporaneamente un’innovazione:
− le tecnologie hanno, per le imprese, differenziati gradi di appropriabilità, di esiti
tecnici e commerciali, di "opportunità tecnologiche". Inoltre, si registrano fenomeni
diversi di cumulatività nei modelli d’innovazione e nello sfruttamento della
conoscenza tecnologica;
− le tecnologie si sviluppano lungo traiettorie delineate da proprietà tecniche
specifiche, regole di ricerca, imperativi tecnici e competenze cumulative
incorporate in ciascun paradigma tecnologico" (Silverberg e altri, 1988). Secondo
Winter, "regimi tecnologici" differenziati si possono determinare, a seconda che la
conoscenza che genera la ricerca innovativa sia esogena (e, quindi, esterna alle
singole imprese), o endogena (specifica della singola impresa);
− la diversità tra imprese - che è una caratteristica fondamentale e permanente degli
ambienti industriali interessati da progresso tecnico (Metcalfe, 1985) - dipende in
larga misura da una serie di fattori quali la presenza di divari tecnologici che
dipendono da diverse capacità tecniche, i differenti gradi di successo conseguiti
nell'adozione ed utilizzazione di innovazioni di prodotto e di processo, i diversi
costi di produzione interni all’impresa. Queste diversità sono definite da Dosi come
"asimmetrie tecnologiche", ossia come differenze inequivocabili tra imprese che
possono essere classificate come migliori e peggiori in termini di costi di
produzione e di caratteristiche di prodotto.

58
Di conseguenza, le procedure di ricerca, le combinazioni produttive, i segmenti di
mercato su cui le imprese si orientano, possono acquisire caratteri differenziati, definiti
"varietà tecnologiche", ossia differenze tecnologiche che "non corrispondono a
gerarchie non equivoche (tecnologie e prodotti migliori e peggiori)" (Silverberg e altri,
1988).
Infine, all'interno di un settore produttivo, le singole imprese possono delineare strategie
differenziate per diversi motivi (livello e composizione degli investimenti, prezzi, livello
della R&S), e prendono il nome di "varietà comportamentali".
Silverberg incorpora il problema della diffusione in quello più ampio della transizione di
un’industria da una triettoria tecnologica ad un’altra. La scelta della tecnica non è più
una scelta tra due macchinari con caratteristiche date, ma coinvolge anche la loro
capacità d’utilizzazione, che può essere accumulata endogeneamente attraverso
l'apprendimento per esperienza, o traendo profitto dall'esperienza di altri (imitazione).
La diversità nelle capacità delle imprese e nelle loro aspettative sul grado di successo
sul mercato, è un fattore che incide in misura elevata sul processo di diffusione delle
innovazioni, sia in termini intra e intersettoriale, sia in termini spaziali.

4. SISTEMI PRODUTTIVI LOCALI E SVILUPPO ENDOGENO


4.1. Modelli locali di sviluppo
Sia i modelli di ispirazione keynesiana che neoclassica hanno attribuito a fattori
prevalentemente esogeni non solo l’origine delle disparità regionali, ma anche le
politiche di sviluppo.
Nei modelli di sviluppo endogeno viene esaltata la relazione tra sistema economico ed
ambiente, che è alla base dell’esistenza di economie esterne all’impresa, ma interne
all’area, e che dipendono dal reticolo di interdipendenze sia a livello produttivo che a
livello socio-culturale.
Entrambi gli approcci riconoscono l’intervento e l’interazione sia di fattori esterni che di
fattori locali.
Ma, mentre nel caso dello sviluppo esogeno, sono i fattori esterni che guidano il
cambiamento e ne spiegano le caratteristiche fondamentali, nel caso dello sviluppo
endogeno il ruolo guida è attribuito agli elementi interni, propri dell’ambiente in cui
l’impresa opera. I processi di sviluppo locale avvengono, quindi, lungo percorsi e
traiettorie che utilizzano l’addensamento e la socializzazione delle conoscenze
attraverso progressivi meccanismi di connessione a monte ed a valle.
Il sistema produttivo locale di PMI viene visto come un caso di modello locale di
sviluppo endogeno.
In questa accezione, il concetto di sistema produttivo locale riguarda un modello di
organizzazione della produzione in cui il territorio gioca un ruolo attivo, con forti
interrelazioni tra sistema produttivo e sistema socio-istituzionale, con forte
sedimentazione di conoscenze non trasferibili, con significative economie esterne.
Sistema produttivo locale e distretto industriale sono tipologie differenziate:
− Il sistema produttivo locale può essere definito come una agglomerazione di PMI
non necessariamente organizzate in filiera, che solo in alcuni casi può essere
dominata da uno o più settori produttivi.

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− Con “distretto industriale” si definisce un sistema locale di PMI caratterizzato da un
sistema di produzione locale principale e da un sistema produttivo di filiera e da un
sistema sociale particolarmente coeso, interrelato, con una coincidenza
generalizzata della residenza e del posto di lavoro..

4.2. Il distretto industriale


Le riflessioni di Alfred Marshall sui distretti industriali costituiscono una base di partenza
insostituibile per l’individuazione e lo studio dei sistemi produttivi locali e dei modelli di
sviluppo endogeno, e per il ruolo attribuito allo “spazio geografico”.
Il distretto industriale si afferma nell’ambito dell’analisi economica, come categoria
concettuale ancorata al sistema teorico marshalliano in materia di industria, ed offre uno
schema interpretativo della crescita di sistemi di PMI in aree geograficamente
circoscritte.
E’ definito come un sistema produttivo locale che ha una forma particolare, identificata
dalla compresenza attiva di una comunità aperta di persone e di una popolazione di
piccole imprese caratterizzate da un particolare sistema di produzione locale principale,
caratterizzata da un insieme interconnesso di produzioni di un gruppo limitato di beni
simili, realizzati sulla base di competenze e di regole organizzative proprie.
In Marshall, il concetto di industria, più flessibile del concetto di settore, è "un insieme di
imprese che, disponendo di attrezzature tecniche, di esperienze e conoscenze tecniche
comuni, sono in condizioni di produrre l'una gli stessi prodotti dell'altra” (Becattini 1962).
Secondo Marshall, almeno in alcuni settori manifatturieri, "i vantaggi della produzione
su larga scala possono in generale essere conseguiti sia raggruppando in uno stesso
distretto un gran numero di piccoli produttori, sia costruendo poche grandi imprese".
Infatti, "per molti tipi di merci è possibile suddividere il processo di produzione in
numerose fasi, ciascuna delle quali può essere eseguita con la massima economia in
un piccolo stabilimento. Se esistesse un gran numero di questi piccoli stabilimenti
specializzati per l'esecuzione di una particolare fase del processo produttivo, vi sarebbe
spazio per redditizi investimenti di capitale nelle organizzazioni industriali sussidiarie
rivolte a soddisfare i loro bisogni particolari." (Marshall, 1920).
Un sistema di PMI può raggiungere la piena utilizzazione di strumenti di produzione
specializzati, se il processo produttivo è scomponibile e le sue componenti sono ripartite
tra le imprese del sistema.
I distretti industriali sono, il più delle volte, caratterizzati fortemente in termini
settoriali, anche se la monosettorialità non indica necessariamente l’omogeneità
produttiva delle imprese all'interno di ogni distretto.
L'industria che caratterizza un distretto può comprendere, infatti, un’ampia gamma di
sotto-industrie, con configurazioni che possono essere
− di tipo verticale, nel caso in cui sono presenti, in diverse imprese, fasi diverse dello
stesso processo produttivo,
− di tipo trasversale, nel caso in cui alcune imprese svolgono attività di servizio, di
trasporto, commerciali.
L’efficienza economica del distretto riguarda, per Marshall, le capacità di produzione e
competitive del sistema di imprese, che si realizzano attraverso un incremento delle
economie di scala interne, dipendenti “dalle risorse delle singole imprese, dalla loro

60
organizzazione e dall’efficienza della loro amministrazione”, ed esterne, “dipendenti
dallo sviluppo generale dell'industria”.
Le economie esterne “si possono ottenere mediante la concentrazione di numerose
piccole imprese di natura simile in località particolari; o come si dice comunemente,
mediante la localizzazione dell’industria”.
L’elevata efficienza dei distretti deriva per Marshall, in buona misura, dalla presenza di
economie esterne di agglomerazione, ossia di quelle economie che si realizzano sui
costi di produzione e di transazione, quando l’impresa è localizzata in un’area
geografica ristretta in cui sono presenti numerose altre imprese dello stesso tipo, ed è
inserita in termini cooperativi nella catena del valore della produzione distrettuale.
Alcune di queste economie di agglomerazione sono spiegate dalla presenza delle
imprese sussidiarie, altre economie esterne sono connesse alla circolazione
dell’informazione e, in particolare, ai contatti “faccia a faccia” per l’acquisizione di
conoscenze tecnologiche, commerciali, produttive.
Ulteriori economie esterne sono generate dalla presenza di manodopera specializzata e
dal processo cumulativo di apprendimento che deriva dal fatto che la collettività umana
è localizzata in un territorio di ridotta estensione e ad elevata concentrazione di PMI, e
prevalentemente occupata nelle attività distrettuali.
L’organizzazione distrettuale ha, per Marshall, importanti ripercussioni sulle capacità di
adozione di innovazioni da parte delle PMI. Sono noti i vantaggi delle grandi imprese
nel campo della R&S: la dimensione della produzione e del fatturato permettono, o il
ricorso a strutture esterne, o il ricorso parziale all’esterno, complementare ad attività
interne, o la completa internalizzazione della ricerca, con un’appropriazione dei profitti
dell’innovazione e del vantaggio competitivo che ne deriva.
I problemi legati all’innovazione per le piccole imprese - che hanno limitate risorse
tecnologiche, organizzative e finanziarie, soprattutto a fronte delle soglie di indivisibilità
che molte attività di R&S richiedono – possono essere, almeno in parte, risolti con la
localizzazione in un distretto.
Le condizioni di carattere ambientale del distretto - che Marshall chiama industrial
atmosphere – garantiscono la circolazione delle informazioni e delle idee. "Quando il
numero di uomini interessati ad una attività è molto grande, si troveranno tra loro molti
che, per intelligenza e carattere, sono idonei a concepire nuove idee. Ciascuna di
queste sarà analizzata e migliorata da numerosi cervelli, ed ogni nuovo esperimento,
accidentale o deliberato, fornirà materiale di riflessione per nuovi suggerimenti non a
poche ma a molte persone" (Marshall, 1920).
Il sistema di produzione distrettuale, che interagisce come un soggetto unitario nel
sistema di mercato, è dato dall’insieme delle relazioni cooperative di soggetti
specializzati per fasi, che afferiscono ad uno stesso ciclo di produzione, e che sono uniti
da una coincidenza territoriale, storica, culturale, che si esprime nel concetto di
industrial atmosphere, definibile come l’insieme degli intangible assets indivisibili
appartenenti al sistema di produzione nel suo complesso.
L’industrial atmosphere si configura, quindi, come un vantaggio comparato rispetto a
sistemi di produzione organizzati in modo diverso, in quanto riduce i costi di relazione
tra i soggetti interagenti ed i costi d’informazione, senza innalzare dello stesso grado i
costi di coordinamento.

61
Si tratta, quindi, di vantaggi di costo che derivano dalla stratificazione storica di legami
connessi alla situazione sociale e produttiva, e di sunk cost (effetto costi sommersi), che
configurano barriere all’entrata per le imprese esterne all’area, ma che possono tradursi
in barriere all’uscita per il sistema distrettuale, se devono essere cambiate in tempi brevi
le relazioni interne ed i prodotti.

Nel contesto dell'economia comportamentale, il mental accounting è una teoria


sviluppata dall'economista statunitense Richard Thaler, che ipotizza che le scelte
economiche delle persone siano mediate da un vero e proprio sistema di contabilità
mentale, che non è neutrale e produce comportamenti non del tutto coerenti col modello
microeconomico neoclassico standard, basato sulla perfetta razionalità degli agenti. Si
tratta quindi di un tentativo di affiancare ai metodi e ai risultati della scienza economica
alcune intuizioni psicologiche, per cercare di arricchire il valore descrittivo dei modelli
economici ("misurato" con metodi sperimentali), che, insieme a pochi altri contributi
fondamentali, ha ispirato la nascita del filone di ricerca chiamato behavioral economics.
Il fondamento della teoria è la funzione del valore descritta da Daniel Kahneman e
Amos Tversky (1979) nel loro lavoro sulla teoria dei prospetti nell'ambito della
psicologia cognitiva e della teoria della decisione. Kahneman e Tversky introducono i
concetti fonadamentali di framing, ovvero dipendenza dell'utilità dal contesto di
riferimento, e loss aversion, per cui una perdita produce una diminuzione di utilità
superiore, in valore assoluto, all'aumento di utilità generato da un guadagno di pari
entità.
Sulla base dell'ipotesi del mental accounting, Thaler (1980) trova una possibile
spiegazione a due interessanti anomalie, ovvero comportamenti frequentemente
riscontrati ma non spiegati dalla teoria economica.
La prima è nota come endowment effect (o "effetto dotazione"), e consiste nella
discrepanza, osservata sperimentalmente anche da Kahneman, Knetsch e Thaler
(1990), tra la valutazione che si dà ad un bene nel caso in cui lo si possieda e la
valutazione che si dà dello stesso bene nel caso in cui non lo si possieda.
In particolare, i ricercatori hanno notato che si tende a valutare di più un bene che già si
possiede, ovvero che fa parte della nostra dotazione: ciò risulta in una attività dei
mercati ridotta. Questa anomalia è causata dall'incapacità delle persone di considerare
il costo opportunità del bene che si possiede (che consiste al denaro cui si rinuncia non
vendendolo) allo stesso modo dei costi vivi che occorre affrontare per acquistare un
bene che non si possiede, contrariamente alla prescrizione della teoria economica.
La spiegazione di questo fenomeno basata sul mental accounting vuole che le persone
interpretino i costi opportunità come mancati guadagni e i costi vivi come perdite: il
principio euristico dell'avversione alle perdite (o, con voce inglese, loss aversion)
darebbe quindi luogo all'effetto dotazione.
L'altra rilevante anomalia è nota come sunk cost effect o effetto costi sommersi. Anche
in questo caso è violata un'ipotesi della teoria economica normativa standard: essa
vorrebbe che i costi relativi a scelte già compiute e irreversibili (detti costi affondati) non
influenzassero le scelte successive.
Nella pratica ciò spesso non avviene, e nel valutare un investimento o un progetto
spesso si considerano, oltre a costi e benefici marginali, le risorse già impegnate e non
più recuperabili. Il mental accounting ipotizza che questo effetto insorga perché gli

62
agenti economici tentano in ogni modo di evitare "sprechi" ovvero pagare per beni che
non si utilizzano, in quanto questo genera loss aversion, e quindi forte diminuzione
dell'utilità.
Un'altra componente importante del mental accounting è l'intuizione che l'acquisto
genera utilità non solo in quanto permette la fruizione di un certo bene, ma anche
perché le persone amano l'idea di "aver fatto un affare". Questo è il significato della
utilità di transazione: essa si aggiunge all'utilità derivata dal bene in sé, e dipende dalla
differenza tra il prezzo d'acquisto e il prezzo "di riferimento" che il consuatore associa al
bene acquistato. Secondo Thaler (1985), se il prezzo è assai inferiore a quello che il
consumatore considera normale o giusto, la forte utilità di transazione generata può
consigliare l'acquisto di beni che in realtà non sono molto utili. È evidente come il
marketing spesso cerchi in ogni modo di creare utilità di transazione, suggerendo prezzi
di riferimento elevati.

L’area geografica del distretto è caratterizzata da uno o più piccoli centri urbani, con
ridotte funzioni terziarie, e da una localizzazione delle residenze meno concentrata
rispetto alla tipica città industriale. "Quasi ogni distretto è imperniato su uno o più centri
urbani. Ognuno di questi centri urbani o città è stato, all'inizio, alla testa della tecnica
dell'industria come del commercio, e la maggiorparte dei suoi abitanti sono stati
artigiani. Dopo un certo tempo, le fabbriche richiedendo più spazio di quanto fosse
facile a trovarsi dove il valore del terreno era alto, cominciarono a spostarsi nei
sobborghi delle vcittà e nuove fabbriche crebbero in numero sempre maggiore nei
distretti rurali e nei centri urbani minori vicini " ( Marshall, 1919).
Il distretto industriale viene definito come “una entità socio territoriale circoscritta
naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una
popolazione di imprese industriali (Becattini, 1991)”.
Becattini mette in luce l’importanza dell’insieme dei rapporti di natura complessa che
legano persone, imprese e territorio e che rappresentano, da un punto di vista
sociologico, uno dei presupposti concettuali dai quali prende corpo l’idea di distretto.
L’unità di osservazione non è tanto la piccola impresa singola, quanto l’insieme delle
relazioni che ne determinano l’attività: è, quindi, un’unità di indagine elementare,
assume una valenza meso-economica, presenta una stretta intersezione tra le
componenti economiche e sociali.

4.3. Sistemi produttivi locali, sviluppo endogeno e transizione postindustriale.


I processi d’internazionalizzazione e di globalizzazione dell’economia, le innovazioni
organizzative nelle grandi imprese, l’adozione su vasta scala delle innovazioni
tecnologiche legate anche alle tecnologie dell’informazione, tendono a ridurre o,
comunque, a modificare i punti di forza dei sistemi produttivi locali, ponendo seri
interrogativi circa la loro competitività sul mercato nazionale ed internazionale.
I tradizionali generatori di economie esterne nel sistema produttivo locale hanno perso
in questi ultimi anni, efficiacia in quanto i cambiamenti radicali nelle tecnologie e nei
mercati sono difficilmente acquisibili dalla piccola imprese, mentre si creano barriere
economiche che, in genere, riducono l’accesso della piccola impresa alla R&S. Difficoltà
si registrano sul versante dell’adozione di innovazioni che richiedono investimenti più

63
elevati di quelli occorrenti per i macchinari tradizionali, per i quali è necessaria una
qualificazione della manodopera difficilmente acquisibile localmente.
Di conseguenza, si riduce il peso del learning by doing che non è più sufficiente per
riprodurre competitività e innovazione. Inoltre, l’adozione di innovazioni di processo ad
alto contenuto tecnologico, a cui devono uniformarsi anche le PMI per adeguare costi e
qualità alla concorrenza, con l’introduzione di processi produttivi meccanizzati e
automatizzati, capital intensive e labour saving, genera effetti negativi nei sistemi
produttivi locali, caratterizzati in genere da un’elevata intensità di lavoro, e riduce
parzialmente l’elasticità e la flessibilità, mentre l’automazione flessibile ed i processi
produttivi integrati adottati dalla grande impresa possono incidere sul gap di flessibilità
che rappresentava uno dei punti di forza delle PMI distrettuali. Anche nel campo dei
servizi alle imprese, soprattutto di quelli di assetto e strategici, si registrano fattori di
pressione, dato che la sempre maggiore rilevanza di componenti immateriali nella
catena del valore e la sempre maggiore specializzazione e professionalità nei servizi ad
alto contenuto di informazione che operano nel campo tecnologico, finanziario, del
marketing, della pubblicità, determinano la necessità di soglie dimensionali di mercato
difficilmente raggiungibili all’interno di un distretto.
Parallelamente cresce la necessità di informazione per cui i rapporti faccia a faccia, pur
mantenendo una loro funzione importante, non sono più sufficienti a causa dei processi
d’internazionalizzazione e di globalizzazione dei mercati e del peso crescente di
relazioni interpersonali e interimpresa formalizzate.
Per quanto concerne la manodopera, infine, si registra in misura minore l’origine sociale
comune di lavoratori e imprenditori, tipica del distretto per cui, mentre la mobilità sociale
si esprimeva nel frequente cambiamento dei ruoli dei soggetti, in questi ultimi anni, il
passaggio in ascesa è molto più difficile e meno frequente (Bianchi, 1994).
Rispetto alle economie d’agglomerazione di derivazione marshalliana, oggi si possono
individuare due tipologie di economie di agglomerazione:
− le economie di localizzazione più vicine alla teoria di Marshall, sono collegate
all'associazione spaziale di una o più industrie, e sono connesse ai vantaggi che
derivano dai legami che si possono instaurare tra attività economiche correlate
settorialmente. I benefici che derivano da un raggruppamento di questo tipo,
includono l'economia di specializzazione di una impresa in un particolare processo
produttivo, che permette l'impiego di tecniche specializzate, difficile da
raggiungere in una unità locale di piccole dimensioni con l'intera sequenza
all'interno. Inoltre, queste industrie collegate hanno spesso bisogno dello stesso
tipo di manodopera specializzata, il che determina un alto livello di turn over a
vantaggio dell'efficienza economica. Le imprese sussidiarie marshalliane sono
identificabili parzialmente con i servizi specializzati associati ad industrie che
permettono un notevole risparmio di personale e di sevizio. E' tipico che alcune
piccole imprese si specializzino in processi produttivi piuttosto che in prodotti,
come ad esempio le lavorazioni industriali, che rientrano nella definizione di
“servizi alla produzione”.
Le economie di localizzazione permettono, quindi, il rafforzamento delle
connessioni di produzione e di mercato, la presenza di vantaggi indiretti che
derivano dal particolare livello delle informazioni di natura tecnica e di mercato
presenti nell'area, una cultura industriale che garantisce una maggiore diffusione

64
dell'informazione e, quindi, dei processi tecnologici e innovativi, con un aumento
della competitività.
− Le economie di urbanizzazione si discostano, al contrario, sensibilmente da quelle
di agglomerazione marshalliane. Si realizzano prevalentemente nelle città e nelle
grandi aree urbane, determinando le condizioni di vantaggio localizzativo che
difficilmente vengono ottenute in un distretto od in un sistema produttivo locale,
dove il centro od i centri urbani di riferimento sono in genere di piccole dimensioni,
e dotati raramente di servizi di elevato livello qualitativo. Le economie di
urbanizzazione sono quindi di tipo orizzontale, non connesse a specifici settori
produttivi, ma relative a quelle economie che le attività direzionali, gestionali, di
controllo delle imprese ricercano con l’accesso a servizi alle imprese di livello
superiore, a personale qualificato in competenze intersettoriali come la finanza, il
marketing, la R&S, i rapporti commerciali, le transazioni, alle informazioni. Sono
economie acquisibili da grandi imprese che hanno le attività direzionali separate
dagli impianti produttivi, localizzate nelle città, da imprese di piccole e medie
dimensioni operanti in settori ad alta tecnologia, da imprese ad economie esterne,
ossia imprese caratterizzate da un brevissimo ciclo di vita del prodotto, o per le
quali l’elemento chiave della competizione è la possibilità e la capacità di innovare
continuamente mantenendo le tecnologie fluide, da aziende che preferiscono
rimanere di piccole dimensioni per privilegiare la localizzazione urbana e per
beneficiare delle economie di urbanizzazione, dalle soft company, ossia imprese
operanti nel campo della R&S, per le quali la dimensione ridotta e, quindi la
possibile localizzazione urbana, è data dalla necessità di mantenere alte le
barriere all’entrata, mantenendo la tecnologia fluida per ridurre il rischio di
imitazione.

4.4. NATALITÀ DELLE IMPRESE E SVILUPPO ENDOGENO.


Nell’individuazione dei fattori che concorrono a determinare un processo di sviluppo
endogeno, un indicatore significativo deriva dalla localizzazione delle imprese, che
possono essere di natura esplicita od implicita.
− I processi di localizzazione esplicita riguardano essenzialmente due tipologie di
comportamento spaziale:
 la prima riguarda la localizzazione di una impresa come risultato di una
delocalizzazione di una azienda esistente in altra area,
 la seconda è riferita alla localizzazione di un impianto di una impresa la cui
casa madre resta nell’area di origine.
La localizzazione esplicita deriva dalla valutazione, da parte di una impresa già
esistente, delle proprie convenienze localizzative in relazione a numerosi motivi:
processi di ristrutturazione aziendale, innovazioni organizzative, di processo, di
prodotto, aumento della produzione, diversificazione, deverticalizzazione, fase del
ciclo di vita del prodotto, convenienze basate sulla ricerca di migliori economie
esterne, domanda di terreni a costi inferiori, minore costo della manodopera,
migliore dotazione di infrastrutture e servizi, presenza di agevolazioni pubbliche di
vario tipo, minore conflittualità sindacale. La localizzazione esplicita dipende da
fattori che generano una natalità tipicamente esogena nell’area in cui l’impianto si
colloca, legata alle caratteristiche attrattive per determinate tipologie settoriali e

65
dimensionali, tecnologiche, e non rientra, quindi, nel processo di nascita di nuove
imprese.
− La localizzazione implicita riguarda, al contrario, la nascita di una nuova azienda
e, di conseguenza, è frutto della decisione da parte dell’imprenditore di investire in
una determinata industria e in una specifica area geografica. La dimensione e
l’intensità della natalità imprenditoriale in un determinato intervallo temporale,
deriva da una somma di fattori come l’ambiente economico, sociale, culturale
locale dell’area geografica e, quindi, dallo “spazio geografico”, con effetti diretti sul
processo di sviluppo endogeno, e da politiche pubbliche di incentivazione e di
animazione economica.

4.5. Ciclo di vita del prodotto e processi localizzativi.


Un supporto alle interpretazioni dei processi di localizzazione esplicita -e, solo
parzialmente, di quella implicita - viene dato dalla teoria del ciclo di vita del prodotto -
che può essere applicata per mettere in relazione le convenienze localizzative delle
imprese con le fasi del ciclo - e dalla teoria del ciclo di vita dei settori.
La teoria del ciclo di vita del prodotto (Vernon, 1966; 1979) fissa, a livello
macroeconomico, le regole della deriva delle industrie dai paesi avanzati a quelli meno
avanzati e, a livello microeconomico, le regole delle scelte di decentramento di attività
produttive collegate alla localizzazione esplicita e, parzialmente, il modello territoriale di
localizzazione implicita, generato dalla nascita di nuove imprese imitative.
Nel ciclo di vita del prodotto sono identificabili quattro fasi:
 una prima fase “di introduzione”, in cui il prodotto è all'inizio del suo sviluppo, il
ritmo di espansione della domanda è ridotto, la tecnologia è concentrata in un
limitato numero di imprese che utilizzano risorse qualificate e manodopera con
elevata professionalità. I fattori tipici di questa fase sono le elevate conoscenze
tecnologiche e di mercato, il peso delle economie di urbanizzazione presenti
soprattutto nei centri urbani e nelle grandi aree metropolitane delle regioni più
sviluppate. Da un punto di vista geografico, le preferenze localizzative riguardano
soprattutto le aree urbane che forniscono le condizioni ambientali migliori;
 una seconda fase “di crescita”, che coincide con una accelerazione del ritmo di
espansione della domanda, che nel tempo tende ad aumentare più che
proporzionalmente. L’impresa che introduce il prodotto, conserva un vantaggio
relativo, anche se inizia il processo imitativo da parte di altri produttori. Molti di
questi possono essere localizzati nella stessa area urbana, ma anche in centri di
rango inferiore. La possibilità di imitare fa sì che un numero crescente di imprese
che sfruttano contemporaneamente le economie di localizzazione e di
urbanizzazione, si affianchino alle prime unità produttive. Si realizza un fenomeno
di allargamento della base produttiva, con l’inserimento, o di imprese già esistenti
che introducono un nuovo prodotto nel proprio processo produttivo, o di imprese
che nascono per il nuovo prodotto. Gli elevati costi delle aree centrali e la minore
necessità di input e di servizi altamente qualificati per la fase imitativa, rendono la
localizzazione più decentrata in centri dotati di funzioni urbane di più basso livello;
 una terza fase “della maturità”, nella quale il prodotto è caratterizzato da un
mercato parzialmente di sostituzione, la domanda tende ad un livello di

66
saturazione, i costi di produzione devono essere ridotti per consolidare e ampliare
il mercato. Parallelamente, la produzione standardizzata permette all’impresa di
decentrare gli impianti dalle aree centrali verso quelle periferiche, con l’obiettivo di
ridurre i costi della manodopera e del suolo, ed i costi da congestione. Si
determina, in tal modo, un processo di delocalizzazione degli impianti verso aree e
regioni periferiche, mentre le attività direzionali mantengono una localizzazione
centrale. Questo processo identifica alcuni ingredienti della terziarizzazione delle
grandi aree urbane e, in qualche misura, il passaggio dalla città fordista a quella
postindustriale;
 la quarta fase “di declino”, è caratterizzata da una contrazione della domanda e,
quindi, dalla necessità di introdurre innovazioni radicali.

La teoria è stata parzialmente verificata, soprattutto su industrie o su grandi aggregati di


prodotti, e per decentramenti produttivi operati prevalentemente da grandi imprese
anche multinazionali.
Molti assunti della teoria sono troppo semplificati, in un contesto come quello attuale
caratterizzato da un’alta presenza di impianti di imprese multinazionali, le cui decisioni
di trasferimento della produzione verso regioni anche molto distanti da un punto di vista
geografico non sono strettamente legate alle sequenze delle fasi del modello del ciclo di
vita. Il peso dato dalla teoria solo alle innovazioni di prodotto rispetto a quelle di
processo, di organizzazione, di mercato, la mancata considerazione della
disintegrazione verticale degli stadi di produzione e della diffusione interindustriale delle
innovazioni, l'assenza di ipotesi di cumulatività del progresso tecnico, la mancanza di
ipotesi di scambi intragruppo dei prodotti intermedi, incidono sulla sua applicabilità, sia
in termini di analisi settoriale, che di modello di localizzazione geografica.
Questi fattori incidono, infatti, in modo rilevante sulle decisioni di delocalizzazione
internazionale delle produzioni. Le differenze tra le imprese e tra i settori in termini di
caratteristiche dell'organizzazione del processo produttivo e delle innovazioni, e dei
fattori geografici, socio-economici, infrastrutturali, dei differenziali del costo unitario del
lavoro, delle politiche pubbliche dei diversi paesi, non sono riconducibili unicamente agli
stadi di maturità tecnologica e dei comportamenti della domanda.
Inoltre, secondo lo schema del ciclo di vita del prodotto, molti settori produttivi, per i
caratteri assunti dalla domanda e per le opportunità che si sono venute a creare nelle
tecnologie e nei modelli organizzativi, si posizionano oggi nella fase di maturità, con
conseguente teorico declino e morte di molti settori, senza tenere conto delle
innovazioni di tipo incrementale, e delle innovazioni organizzative che incidono in modo
molto maggiore sui processi localizzativi delle imprese.
Balloni osserva che può essere inserito "allo stadio del declino economico della tecnica
e del prodotto, successivo alla maturità, uno stadio di de-maturità" (Balloni,1985). Lo
stadio di de-maturità “è associato a quelle innovazioni tecnologiche che creano nuove
interdipendenze nelle condizioni di offerta (struttura dell'industria) e della domanda
(esigenze del consumatore)” (Balloni, 1985), e introduce una modificazione delle
capacità produttive esistenti, della tecnologia, della struttura dell'industria, della natura
della concorrenza.

67
4.6. Natalità imprenditoriale e barriere all’entrata.
L’ingresso di nuovi imprenditori sul mercato e la creazione di nuove imprese in un
determinato settore, possono essere ostacolate da “barriere all’entrata”, la cui
dimensione incide sui tassi d’ingresso di nuove imprese sul relativo mercato.
La presenza e la dimensione di barriere all’entrata possono dipendere dalle economie
di scala, dalle differenze nei costi di produzione tra imprese, dovute all’utilizzo di
tecniche di produzione diverse, dalle diverse caratteristiche del prodotto, dal fabbisogno
di capitali, dai costi di riconversione, dall’accesso ai canali di distribuzione, da politiche
pubbliche.
Le economie di scala, in particolare, dipendono, come noto, dalle caratteristiche delle
funzioni di produzione proprie dei diversi settori industriali.
Oltre alle economie di scala statiche, dove i costi unitari diminuiscono all'aumentare
della produzione, sono presenti anche economie di scala dinamiche, nelle quali i costi
unitari diminuiscono all'aumentare del volume totale cumulativo del prodotto.
Ciò è dovuto ai processi di apprendimento, dato che l'esperienza può consentire di
ridurre i costi di produzione specie se il prodotto è nuovo.
L'analisi delle economie di scala presenta risvolti rilevanti dal punto di vista geografico,
in quanto spiega, ad esempio, i motivi per cui una impresa può preferire delocalizzare
parte della propria produzione in un numero maggiore di impianti, piuttosto che
concentrare tutta la produzione in un unico luogo.
In questo caso, un primo motivo può essere ricercato nel fatto che l'incidenza dei costi
manageriali aumenta in misura molto ridotta all'aumentare delle localizzazioni, tanto che
le imprese di maggiori dimensioni multimpianto possono ottenere, per questo aspetto,
economie di scala più significative che le imprese monoimpianto (Scherer, 1970). Un
secondo motivo può essere ricondotto al caso in cui l'impresa multimpianto - che
produce beni omogenei - ha una posizione vantaggiosa rispetto ad una monoimpianto
se, in presenza di costi di trasporto elevati, è market oriented.
Un’impresa di questo tipo può localizzare gli impianti in aree con elevata domanda, ed
avrà una curva di costo in cui si assume che, se i costi generali sono proporzionali alle
quantità prodotte, l'impresa può - se la domanda aumenta - aggiungere un ulteriore
impianto di dimensioni ottimali.
Un terzo motivo generatore di economie di scala per le imprese plurimpianto può
essere dato dall’incremento di nuove capacità produttive. Se si pone che un mercato
cresca nel tempo ad un determinato tasso, e che l'impresa deve organizzare il proprio
programma di investimenti in modo da essere in grado di soddisfare la domanda, la
creazione di più impianti - a ciascuno dei quali è associata una determinata scala ed i
costi relativi - permette di definire investimenti programmati in linea con l'incremento
della domanda. Un ulteriore motivo riguarda la possibilità di attribuire, a ciascun
impianto, una specializzazione e, di conseguenza, definire la localizzazione migliore in
relazione al tipo di produzione e di tecnologia adottata (con riflessi evidenti sulla
manodopera, sulla vicinanza o meno a mercati, a servizi alla produzione, ad
infrastrutture, ad altre attività produttive). Infine, le imprese con più impianti hanno una
maggiore flessibilità nella loro attività produttiva, per cui possono raggiungere costi
inferiori rispetto ad imprese monoimpianto e rispondere, in modo più efficiente, ad una
contrazione od a una modificazione della domanda.

68
Le economie di scala determinano, quindi, la diminuzione dei costi unitari di prodotto
quando aumenta il volume assoluto di produzione relativamente ad un intervallo
temporale. Le economie di scala costituiscono “barriere all’entrata” in quanto
impongono, alle imprese esterne al settore, di entrare con volumi elevati di produzione,
o con volumi di attività più bassi, accettando svantaggi di costo
Ulteriori barriere all’entrata possono essere generate da: i) la necessità di investimenti
in pubblicità o in R&S, che hanno tempi di recupero lunghi; ii) l’accesso ai canali di
distribuzione (se questi sono già utilizzati dalle imprese presenti nel settore, la nuova
impresa deve operare su prezzi competitivi o su altre iniziative che incidono sui costi di
produzione e sull’utile di impresa), iii) gli svantaggi di costo - che derivano da tecnologie
di prodotto esclusive, dall’accesso privilegiato a materie prime o semilavorati, dalle
difficoltà di localizzazioni adeguate per eccessivi prezzi delle aree, dalle curve
dell’esperienza o di apprendimento, per cui le nuove imprese non possono usufruire
della diminuzione dei costi unitari di prodotto, conseguenza del cumularsi di esperienze
nel processo di produzione.
Le nuove imprese possono, tuttavia, aggirare le barriere date dell’esperienza,
introducendo innovazioni di prodotto e di processo che conducono ad una tecnologia
sostanzialmente nuova, creando in tal modo una nuova curva di esperienza, e
spiazzando le aziende già consolidate sul mercato (Abernaty e Wayne, 1974).

4.7. Natalità imprenditoriale e spazio geografico.


Secondo una prima linea interpretativa, la nascita per spin off avviene più facilmente
nelle prime fasi del ciclo di vita del prodotto, in quanto prevalgono fattori che facilitano la
natalità imprenditoriale (concorrenza basata sulle caratteristiche del prodotto, ruolo
della R&S e delle informazioni, tecnologia fluida), mentre un ambiente locale poco
favorevole è quello in cui prevalgono imprese operanti in settori maturi, con ridotta
dinamica produttiva, concorrenza basata sui prezzi, tecnologia standardizzata.
I tassi di natalità di nuove imprese sono, quindi, ridotti nelle aree di antica
industrializzazione e nelle regioni meno sviluppate, mentre risultano più elevati – in
linea con l’ipotesi dell’incubatrice - nelle aree urbane ad elevato grado di sviluppo o di
recente industrializzazione, con particolare riferimento ai settori ad alta intensità di
tecnologia e di innovazione, come conseguenza delle peculiarità dello spazio urbano
che incide positivamente sulle opportunità di contatti con attività di R&S e con istituzioni
universitarie, e sulla presenza di manodopera con specifiche vocazioni in grado di
avviare una attività imprenditoriale (manager, ricercatori, ecc.).
Una seconda linea interpretativa non attribuisce alle aree urbane ad alta intensità di
attività ad elevata tecnologia una capacità specifica di attivare una natalità di nuove
imprese per spin off, mentre ritiene strategico il grado di diffusione delle conoscenze e
la presenza di PMI che, da un lato garantiscono minori barriere all’entrata per i nuovi
imprenditori e, dall’altro agiscono da incubator per la natalità imprenditoriale (Fothergill
e Gudgin, 1982; Lloyd e Mason 1984). Le PMI giocano, quindi, secondo questi autori,
un ruolo importante per la nascita di nuovi imprenditori, soprattutto per le ridotte barriere
all’entrata, per le ampie varietà di compiti che il personale svolge e, quindi, per la
maggiore flessibilità professionale di cui gode il futuro imprenditore, la maggiore
familiarità con il mondo ed i mercati, la retribuzione minore, minore sicurezza del posto

69
di lavoro rispetto agli occupati nelle grandi imprese, anche se la qualità del
management potrebbe sfavorire le PMI a vantaggio delle grandi imprese.
L’azione di sollecitazione alla nascita è determinata anche dalle caratteristiche dello
spazio geografico che si riflette in modo significativo sulle possibilità di formazione del
futuro imprenditore. Incidono, in particolare, le attitudini sociali verso l’imprenditorialità,
l’atmosfera imprenditoriale, la disponibilità di capitale di rischio, l’offerta di aree a basso
costo, la dotazione di servizi alle imprese soprattutto nel campo della consulenza
aziendale e finanziaria, la presenza di manodopera specializzata, la disponibilità e la
circolazione di informazioni.
In termini settoriali, la natalità di nuove imprese può derivare da un alto tasso di
profittabilità del settore, misurata, secondo Mansfield, dalla dimensione e dalla tipologia
delle barriere all’entrata, e dai costi di produzione necessari per costituire un’impresa di
dimensione minima ottima in un determinato settore, anche se non necessariamente i
potenziali imprenditori iniziano l’attività in settori dove la profittabilità è massima ma,
piuttosto, nelle produzioni più conosciute e più accessibili.
La dimensione della localizzazione implicita ed esplicita deriva anche dal ricambio tra le
imprese, soprattutto PMI, e da processi di deverticalizzazione produttiva.
Per Marshall, nel sistema delle PMI, il processo continuo di ricambio determina elevati
tassi di natalità ma anche di mortalità, generati dal principio sociobiologico di ricambio di
un settore industriale che genera un “continuo flusso e riflusso tra la massa dei
lavoratori edei piccoli redditieri, e le imprese più piccole di ogni industria….La
concorrenza, nel senso tipicamente anglosassone di competizione, verrebbe ad essere
così la forma di movimento propria di una struttura di industria, in cui un nucleo stabile
di imprese di media e grande dimensione coesiste con un nucleo di piccole imprese,
individualmente destinate alla sconfitta, ma socialmente condannate a riprodursi e
perpetuarsi. “ (Beccattini 1960).
In particolare, nei distretti industriali, la nascita di nuove imprese è dovuta anche al
particolare ciclo produttivo che, organizzato sulla base di un’elevata e crescente
divisione del lavoro tra le imprese, crea continuamente domanda di prodotti intermedi
specifici, di lavorazioni particolari, di servizi alla produzione e di servizi alle imprese (le
attività sussidiarie marshalliane).
Per quanto riguarda la deverticalizzazione produttiva che incide sulla nascita di nuove
imprese, si può osservare che, negli ultimi anni, hanno preso piede modelli organizzativi
della produzione, orientati alla separazione dei processi per quanto riguarda sia la
localizzazione, sia la proprietà e il controllo aziendale.
Le imprese attuano un processo di disintegrazione verticale
 per l’introduzione di nuove tecnologie, in quanto lo sviluppo di nuovi processi
tecnologici per la produzione di un particolare prodotto può portare a differenti
modelli di organizzazione,
 ii) per innalzare la qualità della produzione, dato che processi troppo integrati
possono ridurre le possibilità di controlli completi,
 iii) per ridurre la dimensione degli impianti, nel caso in cui gli stadi di produzione
siano efficienti a scale ottimali di capacità operative più basse, iv) per ridurre i
problemi di gestione aziendale.

70
Sono state misurate significative variazioni regionali relative ai tassi di natalità ed alle
performance delle PMI, variazioni che potrebbero causare, o riflettere, variazioni della
crescita regionale e dell’occupazione complessiva.
Sulla base dei cicli di vita regionali, sono state individuate da alcuni autori relazioni
causali tra sviluppo regionale e tasso di natalità delle imprese (Booth, 1986).
Secondo queste relazioni, le imprese di maggiori dimensioni tendono ad acquisire, nella
fase di crescita e sviluppo del sistema economico regionale, capacità manageriali che
sono sottratte ad una possibile attività imprenditoriale fino alla fase di maturità del ciclo
mentre, nella fase di declino, con la contrazione della produzione e dei profitti, le risorse
manageriali sono rese disponibili e, quindi, possono incidere sulla nascita di nuove
imprese. La contrazione del tasso di natalità nella fase di crescita, e il suo aumento
nella fase di declino, determinerebbero, quindi, un andamento anticiclico della natalità
rispetto a quello dell'economia regionale, andamento favorito dalla riduzione dei costi
dei fattori di produzione.

71
CAPITOLO IV
LE TRASFORMAZIONI DEL SISTEMA PRODUTTIVO

Premessa
La revisione delle teorie dello sviluppo regionale e l’approccio endogeno derivano, in
parte, dalle profonde modificazioni che ha subito il sistema produttivo nei Paesi di più
antica industrializzazione ed a più elevato stadio di sviluppo, con i nuovi modelli
organizzativi della grande impresa, la sempre maggiore sostituzione della produzione di
beni fisici con beni immateriali, e con il peso crescente della componente tecnologica.
Questa revisione deriva anche dalla rielaborazione delle teorie economiche
dell'innovazione, in quanto è stato rilevato che la performance innovativa di una regione
non dipende solo dal livello degli input nella R&S, ma anche dall'efficienza con cui
queste risorse sono organizzate (Freeman, 1987).
La dimensione della R&S non è una garanzia per il successo delle innovazioni
introdotte (Freeman, 1982): nella maggioranza dei casi, è una condizione necessaria,
ma non sufficiente, per il "grado di correlazione piuttosto basso, a livello di singola
impresa, tra la dimensione dell'attività di R&S e la crescita del fatturato e della
profittabilità. Come le imprese variano nel grado di efficienza del coordinamento delle
loro attività innovative, così le varie regioni differiscono per la diversa efficienza dei loro
sistemi innovativi” (Freeman, 1987).
I concetti di convergenza ed interdipendenza tecnologica, introdotti da Rosemberg,
mettono in rilievo la presenza di economie esterne attivate dalle interdipendenze
settoriali nei processi di diffusione delle innovazioni tecnologiche, che sempre più
tendono a superare i confini settoriali, coinvolgendo, non solo diversi cicli produttivi, ma
anche diversi settori.

1.1. LE DETERMINANTI DEL PROCESSO INNOVATIVO


Nelle teorie dello sviluppo regionale, l’individuazione delle determinanti del processo
innovativo, ossia le "questioni fondamentali concernenti i meccanismi di generazione e
le direzioni del progresso tecnico" (Dosi, 1983), sono tese ad identificare se ed in quale
misura la tecnologia e il cambiamento tecnologico sono autonomi rispetto all'ambiente
economico, sociale, culturale in cui essi si sviluppano, e come le discontinuità presenti
sul territorio influenzano l’adozione di innovazioni.
Le determinanti dell'attività innovativa possono essere ricondotte a due modelli:
- nel primo modello “demand pull”, la domanda, originata dal mercato, influenza
direttamente l'attività di R&S e l’attività scientifica;
- nel secondo modello “technology push”, le scoperte in campo scientifico e
tecnologico determinano i cambiamenti nella composizione dell'output e nel suo
modo di produzione.
In relazione ai modelli demand pull, Schmookler ha analizzato l'influenza della domanda
di mercato sull’invenzione, osservando che "le invenzioni scaturiscono dal desiderio

72
degli uomini di risolvere problemi economici o di capitalizzare opportunità economiche"
(Schmookler, 1966).
Per Schmookler, la crescita del mercato ed il suo potenziale rappresentano, quindi, le
determinanti principali della direzione e dell’intensità dell'attività inventiva. "L'ammontare
delle invenzioni è governato dalla dimensione del mercato" (Schmookler, 1966). E "la
domanda e la profittabilità attesa generano un sistema di necessità e di aspettative che,
tenendo conto delle potenzialità scientifiche, si traducono in un flusso di invenzioni
coerente e parallelo all'andamento dell'attività economica" (Antonelli, 1983).
In una posizione opposta rispetto al modello “demand pull” si pone il modello
technologyl push, secondo il quale il cambiamento scientifico prima, ed il mutamento
tecnico poi, sono considerate attività "neutrali" che non dipendono in alcun modo dal
quadro economico di riferimento e dal mercato.
Alcuni autori hanno condotto ricerche empiriche per individuare "i fattori che stimolano o
promuovono l'applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche nei settori
dell'economia" (Myers e Marquis, 1969). Essi hanno approfondito soprattutto le
modalità con cui le imprese sviluppano nuovi prodotti e processi, e la natura e le fonti
delle informazioni utilizzate nel successivo sviluppo delle innovazioni, pervenendo alla
conclusione che la domanda "è un fattore che influisce sulla innovazione più
frequentemente di quanto non faccia l'individuazione del potenziale tecnico" (Myers e
Marquis, 1969) (fig. 5.1).
Pavitt ha effettuato una mediazione tra l'impostazione demand pull e technology push,
osservando che le opportunità tecnologiche hanno un ruolo prevalente, ma non
esclusivo, come determinanti del processo innovativo. "L'avanzamento della tecnologia
è il risultato dell'insieme di alcuni eventi precursori e di un gran numero di miglioramenti
secondari. La direzione del cambiamento tecnologico può essere determinata dai primi,
ma il tasso di crescita sarà dettato da questi ultimi" (Pavitt, 1971).
Il contributo di Christopher Freeman parte dall'analisi degli studi di Schmookler ed
effettua la ricerca su un solo settore industriale (il chimico) perchè "ha una intensa
attività di R&S e un elevato contenuto scientifico" (Freeman, 1979). Egli studia le
relazioni tra serie storiche di articoli scientifici, brevetti, investimenti, e produzione nei
vari settori dell'industria chimica. Per la teoria del technology push, osserva Freeman, si
dovrebbe registrare una gran quantità di articoli scientifici negli anni che precedono una
successiva ondata di invenzioni, seguita a sua volta da un’ondata di nuovi investimenti
nella produzione di un particolare gruppo di prodotti, in contrapposizione a quanto
scriveva Schmookler. Se, al contrario, la crescita o la diminuzione degli investimenti in
innovazioni per un particolare gruppo di prodotti, precede un’analoga crescita o
flessione dell'attività di ricerca scientifica e di brevetti, si dovrebbe concludere che
l'ammontare delle invenzioni è soprattutto demand pull, e scarsamente influenzata
dall'avanzamento scientifico.
Se inoltre, come osserva ancora Freeman, si riscontrasse che ondate di pubblicazioni
scientifiche seguono, invece di precedere, la crescita degli investimenti e delle
invenzioni, si potrebbe dimostrare che il mercato traina la tecnologia e che la stessa
tecnologia traina la ricerca scientifica, così come ipotizzato da Hessen molti anni prima
(Hessen, 1931).
I risultati di Freeman sembrano confermare, a seconda dei casi, come determinanti
dell'attività innovativa sia l’ipotesi del technology push che del demand pull. Si può

73
registrare, infatti, inizialmente un modello technology push che, dopo alcuni anni, si
modifica, nello stesso settore produttivo, in un modello demand pull.
D'altronde, le relazioni tra scienza, tecnologia e industria si sono modificate nel corso
degli anni (Bernal, 1953) e, quindi, mentre un modello technology push può essere
caratteristico della nascita e dei primi stadi di sviluppo di una nuova industria, dato che
nuovi sviluppi nella ricerca scientifica possono innescare un’ondata d’invenzioni che, a
loro volta, portano al riconoscimento di nuove rilevanti opportunità d’investimento e di
produzione. Ad uno stadio più avanzato di crescita, lo spostamento del modello di
domanda dei consumatori e la necessità di innovazioni di processo, rappresentano la
determinante principale della direzione e dell’intensità delle invenzioni, dando luogo al
modello di Schmookler, ossia di invenzioni indotte dalla domanda, e di scienza
influenzata dalla tecnologia.
Freeman ha introdotto un terzo approccio che, pur riconoscendo la validità degli altri
due, fornisce una spiegazione dei fattori che danno impulso, e che dipendono da
combinazioni di innovazioni radicali che mettono in relazione i principali progressi nel
campo della scienza e della tecnologia, con le innovazioni sociali e organizzative.
Per Freeman e Soete (Soete 1985, Freeman e Soete 1987), tutti i settori, sono in una
fase di transizione, da un paradigma basato su tecnologie capital ed energy intensive
(che presupponevano tecniche di produzione di massa scarsamente flessibili), ad uno
strutturato su tecnologie flessibili information intensive, trasversale a tutti i settori
dell'economia, in cui sono presenti innovazioni incrementali, radicali, sistemi tecnologici,
paradigmi tecno-economici.
Per quanto riguarda le innovazioni incrementali, queste possono essere definite come
un processo innovativo a carattere continuativo, variabile a seconda del tipo di settore,
la cui intensità dipende da combinazioni di fattori originati, da un lato, dalla domanda
finale e, dall’altro, dalle opportunità tecnologiche presenti nel settore. Anche se molte
innovazioni incrementali sono il risultato di un’attività di R&S, le innovazioni di questo
tipo, spesso, non sono il risultato di un'azione deliberata nell'ambito delle attività di
ricerca, ma sono dipendono da miglioramenti attuati nel corso della produzione, o da
suggerimenti degli utilizzatori del prodotto o del processo produttivo.
Per quanto riguarda le innovazioni radicali, una delle principali critiche alla teoria del
demand pull parte dall'analisi della generazione del cambiamento tecnologico e della
capacità di originare e sviluppare innovazioni radicali (Freeman, Clark, Soete, 1982).
Schumpeter aveva affermato che è difficile che "un’invenzione di portata planetaria
possa emergere da una combinazione di innovazioni incrementali". Le innovazioni
radicali sono eventi discontinui e rappresentano il risultato di un’attività di R&S,
distribuita nel tempo e differenziata a seconda dei settori.
Per quanto riguarda i sistemi tecnologici, questi presuppongono cambiamenti di grande
portata, che possono coinvolgere uno o più comparti del sistema economico, o dare
origine alla costituzione di settori completamente nuovi. I sistemi tecnologici si basano
sulla combinazione d’innovazioni radicali ed incrementali, e sono associati ad
innovazioni organizzative. In alcuni casi, i cambiamenti tecnologici sono di così grande
portata che influenzano l'andamento di tutta l'economia: si tratta del fenomeno della
"tempesta di distruzione creatrice", che è il cuore della teoria di Schumpeter sulle onde
lunghe dello sviluppo.

74
2. IL RUOLO DELLA GRANDE IMPRESA FORDISTA NEL PROCESSO DI CAMBIAMENTO TECNOLOGICO.
2.1. Fordismo e taylorismo
Con il termine fordismo si usa indicare una peculiare forma di produzione basata
principalmente sull'utilizzo della tecnologia della catena di montaggio (assembly-line) al
fine di incrementare la produttività.
Utilizzata a partire dal 1913 dall'industriale statunitense Henry Ford (1863 - 1947),
ispiratosi alle teorie proposte dal connazionale Frederick Taylor (1856 - 1915), la catena
di montaggio fu in seguito adottata in modo considerevole nel settore dell'industria
manufatturiera, tanto da rivoluzionare notevolmente l'organizzazione della produzione a
livello globale e diventare uno dei pilastri fondamentali dell'economia del XX secolo, con
notevoli influenze sulla società.
Con il termine fordista si usa indicare un regime di produzione ispirato al - o stretta
evoluzione del - paradigma adottato da Ford
Il fordismo è quindi l'insieme delle teorie sull'organizzazione della produzione
industriale elaborate da Henri Ford e da F. Taylor e nasce come risposta ai limiti della
tecnologia e dell'economia del capitalismo che ne avevano frenato lo sviluppo date le
limitate potenzialità della meccanizzazione del secolo diciannovesimo.
L'aspetto principale, la 'filosofia' del metodo fordista, trasformatosi poi in un vero e
proprio modello economico, era l'idea della possibilità di una crescita illimitata, sia della
quantità di merce prodotta, sia degli insediamenti produttivi, delle fabbriche, sul
territorio.
Tipico sarà, infatti, il gigantismo degli impianti. Questa certezza quasi assoluta della
crescita progressiva e inarrestabile rappresenterà per quasi un secolo la condizione
essenziale del modello fordista.
I metodi fordisti possono essere considerati quindi una combinazione di alcuni elementi:
 L'organizzazione produttiva taylorista,
 La meccanizzazione spinta dei processi produttivi (in seguito all'introduzione della
catena di montaggio)
 La standardizzazione dei prodotti finali.
Il taylorismo, fondato sui principi del "management scientifico" sviluppati da Frederick
Winslow Taylor, comporta una profonda razionalizzazione dell'attività produttiva.
Questo tipo di approccio si basa infatti sulla netta separazione tra progettazione ed
esecuzione dei compiti, ossia sulla separazione tra coloro che organizzano l'attività
produttiva (manager, tecnici, ecc.), e coloro che la svolgono (manodopera
semispecializzata ecc.).
I cambiamenti imposti dall'applicazione di questi nuovi schemi organizzativi
incontrarono inizialmente la resistenza dei sindacati: alla fine, con un ristretto numero di
imprenditori, tra i quali Henry Ford, fu raggiunto un compromesso che prevedeva il
riconoscimento ai lavoratori di una parte degli utili derivanti dalla razionalizzazione e
dall'intensificazione del lavoro. L'approccio fordista riuscì ad abbinare la produzione in
serie o di massa, resa possibile dal progresso tecnico, con il consumo di massa, in
quanto iniziò a considerare i lavoratori non soltanto come un fattore di produzione, ma
anche come consumatori dei prodotti finali.

75
L'età dell'oro del capitalismo, dal dopoguerra alla metà degli anni settanta, fu infatti
caratterizzata dalla piena occupazione, da considerevoli investimenti di capitale, dalla
piena utilizzazione della capacità produttiva degli impianti e da elevati livelli di redditività
delle imprese.

La piena occupazione è una condizione del sistema economico che si manifesta


allorquando tutti coloro che in una certa area vogliono lavorare, hanno effettivamente un
posto di lavoro.
Da questa definizione discende che la piena occupazione dipende da tre vincoli:
 Non si tiene conto dei disoccupati volontari, ovvero di coloro che non vogliono
lavorare;
 Non si tiene conto dei disoccupati temporanei, ovvero coloro che siano in una fase
di "trasferimento occupazionale";
 Ci si riferisce ad una precisa area geografica e ad un particolare momento.

Tuttavia, come la maggior parte dei compromessi, anche quello fordista racchiudeva in
sé i germi della propria distruzione.
L'intensificazione del lavoro e l'alienazione dei lavoratori portò a forme di resistenza
sporadiche e prive di coordinamento, ma in grado di condizionare un sistema produttivo
reso vulnerabile dall'alto grado di automazione e di complessità.
L'elevato volume di capitale investito negli impianti rendeva sempre più penalizzanti le
fermate degli operai e i cali di produttività, con la conseguenza di deprimere il tasso di
profitto. Verso la fine degli anni sessanta i presupposti del fordismo vennero messi in
discussione dal crescente antagonismo delle parti sociali, proprio mentre l'impegno a
mantenere la piena occupazione e i costi crescenti dello stato sociale creavano forti
tensioni a livello di governo.
Questa "crisi" del fordismo ha indotto molti osservatori a sostenere che il capitalismo di
mercato è passato a un sistema postfordista di produzione e di relazioni sociali.
È opinione diffusa che i metodi produttivi basati sulle nuove tecnologie, in particolare
sulla microelettronica e l'informatica, abbiano determinato il capovolgimento di molte
caratteristiche del fordismo associate all'accresciuto livello di automazione e alla
complessità della produzione. Alla fiducia, propria dell'era fordista, nella contrattazione
collettiva, è subentrato un nuovo individualismo; il ruolo sociale svolto dai sindacati si è
ridimensionato e, nello stesso tempo, si è verificata una sensibile contrazione
dell'intervento dello stato nell'economia, in particolare nel settore industriale, come
attesta il diffuso processo di privatizzazione avvenuto nelle economie di mercato
sviluppate.
La natura e gli effetti delle istituzioni economiche, che caratterizzano l'epoca
postfordista (dal predominio del terziario privato alla proliferazione del lavoro autonomo
e parasubordinato, dalle privatizzazioni al ripristino di una struttura antiegualitaria delle
retribuzioni), a causa della loro eterogeneità e della conseguente divergenza di
andamenti e risultati, sono ancora difficilmente determinabili e restano oggetto di vasti
dibattiti.
Fordismo e postfordismo non devono quindi essere considerati semplicemente come un
tipo di organizzazione industriale.

76
Gramsci nei Quaderni del carcere scriveva che il fordismo aveva aperto una nuova
epoca nella storia del capitalismo, plasmando con i suoi effetti non solo l’organizzazione
di fabbrica, ma il complesso della società arrivando a creare un “nuovo tipo di lavoratore
e di uomo”.
A partire dalle sue analisi il concetto di fordismo è stato letto non solo come una
tipologia di produzione industriale, ma come un paradigma economico e tale lettura è
oggi predominante nella cultura socioeconomica.
Quindi consideriamo il fordismo, così come il postfordismo, dei paradigmi, ovvero dei
modelli ideali e regolativi per orientarci nella complessità, senza pretendere che essi la
inquadrino in modo totalizzante.
Tuttavia, confrontando fordismo e postfordismo, è necessaria un’avvertenza: si tratta,
infatti, di analizzare due modelli economici asimmetrici.
Quando diciamo fordista parliamo di un modello economico già passato, definito,
analizzabile e coerente.
Con postfordismo invece non definiamo un modello economico, ma come dice il nome
solo ciò che viene dopo il fordismo, anzi una transizione.
Il nome postfordista dice solo che il fordismo è superato, ma non dà indicazioni sul
nuovo e questo sostanzialmente per due ragioni:
 il nuovo modello è in evoluzione, questa è una fase di transizione, quindi i contorni
sono in fase di definizione (bisogna peraltro considerare che la transizione è
endemica allo sviluppo economico capitalista e ogni modello risulta in perenne
revisione),
 il nuovo modello è per definizione flessibile, ossia più che un modello indica un
principio: adattarsi, quindi assume di volta in volta le forme più efficaci: l’assenza
di un modello è parte del modello.
E’ perciò congenitamente impossibile definire compiutamente un modello dominante,
ma questo non significa non si possano individuare delle tendenze generali utili alla
costruzione di un modello orientativo nella comprensione degli aspetti economico-
culturali delle società postindustriali, né che queste tendenze debbano necessariamente
essere alternative al fordismo: aspetti del modello fordista convivono infatti entro il
nuovo modello che, come rilevato, ha nella sua “programmatica assenza di un modello”
proprio una delle caratteristiche essenziali.
Nel taylorismo, l’annullamento della discrezionalità del lavoratore, conseguente alla
separazione del lavoro manuale da quello intellettuale (appannaggio esclusivo del
manager), rappresenta nel mondo capitalista il filo conduttore che guida l’evoluzione
delle tecnologie di processo.
A Ford spetta il merito di aver ripensato il processo manifatturiero come un flusso
unitario in cui l’attività parcellizzata e standardizzata dei lavoratori si integra con le
lavorazioni svolte da macchine utensili dedicate e da transfer opportunamente dislocati,
in modo da minimizzare le distanze e facilitare il procedere della produzione.

2.2. Grande impresa fordista e cambiamento tecnologico


Negli anni cinquanta, nel pieno sviluppo dell’impresa di stampo fordista, le capacità di
sviluppare, introdurre ed adottare innovazioni erano valutate in modo diverso a seconda
che si trattasse di PMI, o di unità di grandi dimensioni.

77
Queste ultime erano considerate un importante strumento per l’adozione di innovazioni,
"mirabilmente fornite per il finanziamento dello sviluppo tecnologico" (Galbraith, 1952),
favorite dalle stesse caratteristiche del progresso tecnico, in grado di mediare il rischio
globale di investimenti in R&S con la dimensione del loro mercato.
Al contrario, le PMI, con quote di mercato ridotte, presentavano maggiori difficoltà ad
intraprendere attività di R&S, per gli alti costi unitari e per l’elevato rischio di insuccesso.
Per Galbraith, quindi, le imprese di grandi dimensioni e con forti caratteri monopolistici
hanno maggiori probabilità di introdurre innovazioni.
Il processo innovativo infatti:
– è legato ad “economie di soglia”, dato che è difficile intraprendere R&S senza una
disponibilità minima di risorse produttive e finanziarie, e senza una dimensione
probabile di mercato;
– è caratterizzato da indivisibilità e discontinuità, per cui è possibile attuare
innovazioni solo in presenza di forti economie di scala;
– è caratterizzata da indivisibilità e inappropriabilità, tali che la remunerazione degli
investimenti necessari per ottenerla è possibile solo sulla base di una dimensione
di mercato già acquisita, che consenta uno sfruttamento intensivo nel lasso di
tempo tra introduzione del nuovo prodotto e produzione da parte di imprenditori
imitatori.
Il ruolo della grande impresa nel processo di cambiamento tecnologico ha subito, in
questi ultimi anni una profonda rivalutazione, alla luce delle grandi trasformazioni
dovute, in buona misura, al paradigma dell’Information Technology.
Rispetto ai fattori che avevano provocato la crisi dell’impresa fordista ed il successo dei
sistemi di PMI, la ripresa della centralità della grande impresa nei processi di
elaborazione, sviluppo, adozione di innovazioni riflette, in modo abbastanza speculare,
gli elementi che stanno mettendo in crisi alcuni sistemi produttivi locali:
i) l’automazione flessibile, che spiazza uno dei fattori di maggiore successo delle
PMI, e che garantisce alla grande impresa un’elevata flessibilità operativa,
affiancata anche dai processi di deverticalizzazione della produzione e dalla
decomponibilità dei processi di produzione;
ii) l’accesso facilitato all’aggiornamento tecnologico, più difficile da raggiungibile per
la piccola impresa se non a costi elevati;
iii) la concentrazione di servizi alle imprese ad elevata qualificazione prevalentemente
nelle grandi aree urbane e nelle principali città dove sono localizzate le funzioni di
direzione, gestione, controllo delle grandi imprese e, al contrario, la minore offerta
nei centri di piccole e medie dimensioni, dove sono localizzati i sistemi di PMI;
iv) i crescenti costi della R&S dovuti a tecnologie sempre più avanzate e raffinate, che
necessitano di mercati sufficientemente ampi per ammotizzare le spese in R&S;
v) la crescente competizione internazionale dove è necessario battere la concorrenza
soprattutto per qualità e livello tecnologico;
vi) la durata sempre minore del ciclo di vita del prodotto, che determina la necessità di
innovazioni continue e ravvicinate nel tempo.

78
3. IL NUOVO PARADIGMA TECNICO-ECONOMICO
Ogni ciclo d’innovazione, sia esso di processo, di prodotto, di organizzazione, deriva
dalla nascita e dall’affermazione di un nuovo paradigma tecnologico.
Ogni sistema economico si fonda su un sistema tecnologico, costituito da pochi
elementi di base, generati da alcuni settori avanzati, in grado di fertilizzare tutti gli altri
settori attraverso un processo progressivo di mutamento delle loro tecnologie”.
I principali tipi di cambiamento tecnologico riguardano, come noto, le innovazioni
radicali, che avvengono in modo “discontinuo”, le innovazioni incrementali, che vengono
introdotte in modo quasi continuo, e che riguardano miglioramenti nella gamma di
prodotti e nei processi, le innovazioni epocali o rivoluzioni tecnologiche.
Una rivoluzione tecnologica è caratterizzata da una drastica riduzione dei costi di molti
prodotti e servizi, dalla nascita di una gamma interamente nuova di prodotti e di
processi, da un elevato miglioramento delle caratteristiche tecniche e qualitative di molti
altri prodotti e processi.
Una nuova tecnologia modifica radicalmente e strutturalmente il comportamento
dell’intero sistema economico, se incide sulle decisioni e sulle modalità di investimento
in quasi tutti i settori.
Una rivoluzione tecnologica rappresenta, quindi, un importante mutamento
paradigmatico che coinvolge buona parte delle decisioni nei settori, ed influenza
l’andamento di tutta l’economia..
Un “nuovo paradigma tecnico-economico” può essere definito come un nuovo insieme
di principi guida, che diviene il senso comune progettuale in ogni nuova fase dello
sviluppo, e che implica l’adozione di nuovi metodi che si differenziano in modo rilevante
rispetto al passato.
L’Information Technology può essere definita come un nuovo paradigma tecnico-
economico che “interessa la gestione ed il controllo dei sistemi di produzione e di servizi
nell’intera economia, basato su un sistema di innovazioni radicali ed interagenti nei
settori degli elaboratori elettronici, della progettazione del software, dei sistemi di
controllo e dei circuiti integrati e delle telecomunicazioni che hanno drasticamente
ridotto il costo dell’immagazzinamento, della manipolazione, della comunicazione e
della disseminazione dell’informazione.
Con il paradigma tecnico-economico, le “best-practice technology” influenzano tutti i
settori (industriale, terziario, quaternario, quinario). Oltre alla nascita di nuovi settori, si
genera un processo di diffusione intersettoriale attraverso la disseminazione di
tecnologie che permettono l’ingresso di nuove tecnologie in tutti i settori.
Il nuovo paradigma tecnico-economico basato sull’Information Technology si basa su
una costellazione di settori e comparti produttivi che attraversano orizzontalmente tutta
l’economia, la cui fortissima crescita caratterizza le economie dei paesi post industriali
alle soglie del terzo millennio.
La diffusione intersettoriale dell’innovazione che si viene a generare, mette in relazione i
concetti di sistema economico e di sistema tecnologico che, insieme, danno luogo ad
un “paradigma tecnico-economico che comprende un modo di produzione e un
corrispondente modo di organizzazione sociale della produzione.
I principali fattori che caratterizzano il paradigma dell’Information Technology sono:

79
− un elevato tasso di cambiamento tecnologico nei settori delle tecnologie
dell’informazione, analogamente ad un’ampia gamma di settori connessi con le
loro applicazioni,
− l’integrazione delle fasi di progettazione, lavorazione, rifornimento,
commercializzazione, amministrazione all’interno di ogni impresa,
− il miglioramento della qualità dei prodotti, dei processi, dei servizi,
− il collegamento della rete di fornitori di componenti e di materie prime con imprese
di assemblaggio o con imprese di servizi,
− elevata flessibilità produttiva (economie di gamma),
− la riduzione delle componenti elettromeccaniche e dei vari stadi di trasformazione
delle componenti, a seguito della ridefinizione di prodotti e processi,
− elevate possibilità di cambiamenti rapidi dei prodotti/processi,
− una maggiore integrazione internazionale nel settore dei servizi e dei mercati che
deriva dalla trasmissione più rapida dell’informazione e da migliori flussi di
comunicazione

La cross industries fertilization dell’Information Technology introduce anche significativi


cambiamenti organizzativi nelle imprese, che hanno l’obiettivo di perseguire l’efficienza
attraverso il coordinamento delle attività, e l’efficacia attraverso un riposizionamento
strategico e competitivo delle aziende che fanno parte del modello organizzativo stesso.
I fattori classici di localizzazione influiscono sempre meno sulla geografia delle attività
economiche, mentre acquistano sempre più importanza il complesso di decisioni
aziendali, in particolare:
− le decisioni strategiche, che riguardano le grandi decisioni di politica aziendale
ossia la determinazione degli obiettivi a lungo termine di un’azienda, e l’adozione
delle linee di condotta più importanti, congiuntamente con l’allocazione delle
risorse necessarie per raggiungere tali obiettivi
− le decisioni operative, prese all’interno del quadro delle decisioni strategiche, con
l’obiettivo di “ massimizzare la redditività delle operazioni correnti”
− le decisioni amministrative, relative al coordinamento delle attività aziendali e della
comunicazione.
Lo sviluppo delle telecomunicazioni, la specializzazione e la divisione del lavoro,
l'internazionalizzazione dei mercati, il cambiamento tecnologico - che ha generato
processi di decentramento delle produzioni legati al ciclo di vita del prodotto – incidono
sull'organizzazione e sulle strategie delle imprese e, quindi, sui modelli localizzativi
delle attività.
La definizione di modelli di sviluppo e la formulazione di politiche regionali non possono
prescindere dalle innovazioni organizzative che condizionano, in buona misura, le
scelte localizzative delle attività dei settori industriale, terziario, quaternario, quinario. Le
strategie aziendali sono concentrate su nuovi obiettivi d'impresa e mirano a consolidare,
mantenere, espandere, diversificare, le attività per rispondere all'evoluzione della
domanda, alle fluttuazioni economiche, allo sviluppo tecnologico, alla concorrenza .

Il sistema dei rapporti tra le imprese costituisce, sempre più, un elemento che
condiziona anche il comportamento spaziale: in molti settori produttivi sono presenti
processi continui di scomposizione, frammentazione, riaggregazione, ripartizione del

80
lavoro tra imprese, che incidono sulla dimensione, organizzazione, economie interne, e
sui modelli localizzativi.
Lo stesso decentramento produttivo, in realtà, costituisce un fenomeno molto
complesso ed articolato, dentro al quale stanno cose non soltanto diverse ma, per molti
aspetti, contraddittorie.
Si attuano decentramenti che riguardano soprattutto fasi e operazioni labour intensive,
determinati dall'opportunità di razionalizzare la produzione, senza effetti strutturali
significativi per lo sviluppo della produzione aziendale e di sfruttare le opportunità
derivanti dalla specializzazione spinta e dalla divisione del lavoro.
Questi decentramenti generano cambiamenti strutturali, che si riflettono sulla
riorganizzazione produttiva, con la creazione di nuove unità operative separate,
secondo una logica di deverticalizzazione interna, con il ricorso ad imprese
specializzate, sia per l’approvvigionamento di input intermedi, sia per l’attuazione di
specifiche operazioni, seguendo una politica di ristrutturazione verticale per vie esterne.

4. I MODELLI ORGANIZZATIVI DELLE IMPRESE


4.1. Information technology e modelli organizzativi.
La nascita del nuovo paradigma tecnico-economico modifica, in modo sensibile, i
modelli organizzativi delle imprese e localizzativi delle diverse funzioni aziendali.
La transizione dal periodo fordista a quello della produzione flessibile, per quanto
riguarda sia la grande impresa che i sistemi di PMI, è stata determinata da numerosi,
complessi e correlati fattori:
− le innovazioni tecnologiche,
− la riduzione del ciclo di vita del prodotto e delle innovazioni,
− le modificazioni intervenute nel costo dei fattori,
− il forte sviluppo di attività legate alla produzione di beni immateriali, trasversali a
gran parte dell’Information Technology,
− il forte aumento della concorrenza internazionale su tutti i mercati,
− l’aumentato grado di interdipendenza e d’internazionalizzazione delle imprese e,
quindi, delle economie, i cambiamenti del ritmo di crescita e del contenuto della
domanda.
Questi fattori hanno messo sempre più in evidenza l’inadeguatezza del modello
gerarchico di organizzazione della grande impresa e, parallelamente, hanno avuto
riflessi sullo sviluppo dei sistemi produttivi locali e delle reti d’impresa, facendo
assumere alle innovazioni di natura organizzativa, un peso pari a quello delle
innovazioni di prodotto e di processo.
I cicli di progettazione, produzione, commercializzazione, nelle grandi imprese, sono
stati scomposti e ricomposti all’interno di nuovi modelli organizzativi basati sulla
formazione di “Unità di business”, strutturate come centri di profitto e dotate di
autonomia decisionale, sull’acquisizione di unità operative complementari, sulla stipula
di accordi, joint venture, fusioni, acquisizioni, partecipazioni, o di altre forme di
cooperazione tra imprese tra loro autonome. I cambiamenti che ne sono derivati
riguardano soprattutto una forte centralizzazione, nelle aree urbane e nelle città, delle
funzioni di direzione, gestione, controllo, con profonde innovazioni tecniche e
organizzative; una diffusione delle unità operative di produzione in aree nelle quali sono

81
presenti condizioni localizzative ed ambientali ottimali per specifiche produzioni; un
aumento di queste unità periferiche, sia direttamente afferenti all’impresa, sia esterne.
Si delineano due principali tipologie organizzative:
− la prima, caratterizzata da una struttura centrale rappresentata dalla holding, a cui
fanno riferimento le unità produttive, le attività di R&S implicite ed esplicite, il
sistema delle attività complementari come sub forniture, servizi alle imprese
strutturalmente collegati, commercializzazione;
− la seconda, riconducibile alla tipologia dell’impresa-rete, il cui modello presenta
rapporti gerarchici più tenui, relazioni di tipo funzionale ed orizzontale tra imprese
tendenzialmente autonome, non necessariamente legate da rapporti societari.

4.2. Funzioni aziendali e accordi tra imprese


Il quadro delle innovazioni organizzative incide profondamente sulla riorganizzazione
delle imprese a livello territoriale. Il cambiamento di organizzazione spaziale non è
ristretto ad un semplice problema di decisione di localizzazione, che sono parte
integrante del più ampio complesso di decisioni d’investimento derivanti dalla
formulazioni di strategie aziendali e da decisioni sui modelli organizzativi da adottare e
sulle funzioni aziendali da internalizzare.
Per definire le funzioni aziendali e per individuare le reciproche relazioni, Porter ha
costruito la “catena del valore”, secondo cui “ ogni impresa è un complesso di attività
intese a progettare, produrre, presentare sul mercato, consegnare ed assistere il
prodotto…Le attività che conferiscono valore al prodotto sono le attività, distinte
fisicamente e tecnicamente, eseguite da una azienda” (Porter, 1985).
Nella catena del valore, Porter introduce due principali gruppi di attività, le attività
primarie e quelle di supporto.
Le attività primarie riguardano la logistica interna (attività di acquisizione, stoccaggio,
distribuzione degli input necessari al processo produttivo aziendale), le attività operative
(trasformazione degli input in risultati della produzione), la logistica esterna (raccolta,
stoccaggio e distribuzione dei prodotti aziendali), marketing e commercializzazione, i
servizi (conservazione o miglioramento del valore del prodotto aziendale durante l’uso).
Le attività primarie sono direttamente collegate a quelle attività che Porter definisce di
supporto: attività infrastrutturali (pianificazione, controllo finanziario, contabilità),
gestione delle risorse umane (acquisizione, formazione, e controllo del personale), lo
sviluppo della tecnologia (R&S, progettazione, idustrializzazione del prodotto),
l’approvvigionamento degli input aziendali.
La “catena del valore” indica tutte le attività e le funzioni necessarie per la realizzazione
di un prodotto o servizio, che possono essere effettuate tutte all’interno (impresa
verticalmente integrata) o parzialmente all’esterno dell’impresa.
Ogni azienda ha un proprio obiettivo economico, in base al quale deve valutare la
convenienza ad internalizzare o ad esternalizzare specifiche attività della catena del
valore.
Maggiore è il grado d’incertezza in merito alla disponibilità, prezzo, qualità degli input e
prezzo realizzabile per gli output, maggiore è la convenienza per l’azienda ad
internalizzare gran parte della catena.
Sotto la recente spinta dei processi di internazionalizzazione delle imprese, sia di grandi
che di medie dimensioni, ed a fronte di una tendenza sempre più marcata al

82
decentramento produttivo, sia dei settori maturi che di quelli ad alta tecnologia, le
diverse articolazioni in cui le imprese si organizzano (dalle costellazioni ai network
strategici, alle impresa a rete ed alle reti di impresa), costituiscono una delle basi
principali per delineare primi elementi di metodo per l’analisi delle nuove centralità
urbane.
Per operare una sorta di tassonomia degli accordi tra imprese, è opportuno effettuare
una differenziazione tra quelli che sono definiti di “accordi di crescita interna” ed
“accordi di crescita esterna”.
Gli accordi di crescita interna sono accordi decisi, pianificati e realizzati all’interno di una
singola impresa attraverso investimenti diretti.
Gli accordi di “crescita esterna” richiedono l’apporto economico, finanziario,
organizzativo di altre imprese e, quindi, delineano una dimensione cooperativa che si
realizza attraverso stretti accordi aziendali. Gli accordi possono essere effettuati con
imprese che operano in settori analoghi o diversi (per la diversificazione delle attività),
possono interessare fornitori e intermediari. Come risultato, si riducono gli investimenti -
che risultano suddivisi tra più imprese - si modifica la leva operativa, trasformando costi
fissi in costi variabili, si riduce il rischio attraverso un frazionamento.
Si può quindi riassumere osservando che
i) la crescita esterna mediante accordi, nel momento in cui s’intersecano catene del
valore diverse, consente una ottimizzazione congiunta attraverso la combinazione
dei punti di forza delle rispettive aziende;
ii) gli accordi e le acquisizioni si caratterizzano per una capacità di manovra più
rapida per raggiungere obiettivi strategici prioritari, soprattutto in quelle produzioni
per le quali un ciclo di vita del prodotto molto breve e tronco impone una
ridefinizione sistematica della gamma, ed una frequente ridefinizione di
investimenti e competenze. In particolare, per le acquisizioni, le numerose fasi
critiche che costellano l’iter dalla decisione aziendale all’atto finale di acquisto
(complessivo, parziale, attraverso partecipazioni azionarie) rappresentano i punti
cruciali da cui può dipendere il successo o l’insuccesso dell’operazione
iii) la realizzazione di joint venture – quindi accordi di tipo “esterno” finalizzate ad
obiettivi di sviluppo interno-. E’ il caso della costituzione di una nuova unità, con
forma giuridica autonoma, che deriva dalla joint venture tra due o più imprese, e
che si concretizza attraverso una condivisione e\o complementarietà di attività
della catena del valore delle imprese che partecipano alla joint venture stessa.

In termini di ricadute sul processo di sviluppo regionale, devono essere fatte due
ulteriori considerazioni: in primo luogo, le joint venture e gli accordi rappresentano un
fenomeno in costante crescita sia nei settori tradizionali, sia in quelli information
intensive. sono quindi decisivi per l’affermazione dell’internazionalizzazione delle
imprese e, quindi dell’economia. In secondo luogo, l’analisi del ciclo di vita degli accordi,
approfondito da Kogut (Kogut, 1987), mette in evidenza una elevata instabilità, e cicli di
vita tendenzialmente brevi, soprattutto per la velocità di cambiamento della tecnologia e
dei mercati nei settori in cui operano le imprese, per le asimmetrie dei soggetti coinvolti,
per la variabilità della convergenza organizzativa.

83
5. INTERNAZIONALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE
Il nuovo paradigma tecnico-economico dell’Information Technology incide
profondamente sulla formazione di processi d’internazionalizzazione delle imprese e di
globalizzazione dell’economia. L’internazionalizzazione delle imprese è determinata
dagli spostamenti internazionali di alcuni fattori della produzione che riguardano i
trasferimenti internazionale di capitali, e la rete di connessioni stabilita dalla formazione
di imprese multinazionali, attuata mediante strategie aziendali rivolte all’ampliamento
del mercato in nuovi Paesi attraverso una molteplicità di forme organizzative descritte in
precedenza (creazione di filiali, partecipazioni societarie, concessione di licenze, joint
venture, ecc.).
Una parte significativa dei movimenti internazionali dei capitali si attua in investimenti
esteri diretti, ossia in flussi internazionali di capitali attraverso cui una impresa di un
Paese crea od espande la propria attività in un'altra nazione. Secondo la moderna
teoria delle imprese multinazionali, i motivi della localizzazione della produzione in
Paesi diversi da quello della casa madre, non è dissimile da quelli che determinano la
struttura del commercio internazionale. I vantaggi della internazionalizzazione delle
imprese possono essere articolati in i) “vantaggi da proprietà” rispetto ai competitori
esteri, che derivano dal controllo proprietario di specifiche risorse aziendali trasferibili
all’estero a basso costo (trasferimenti di tecnologie, capacità di imitazione, di
adattamento e diffusione delle conoscenza, competenze manageriali e finanziarie,
economie di scala); ii) vantaggi da internalizzazione, che derivano dall’integrazione di
attività diverse all’interno dell’impresa; iii) vantaggi localizzativi, dovuti alla disponibilità
di materie prime, al costo ed alla qualificazione della manodopera, a specifiche
caratteristiche socio-istituzionali.
I sentieri di internazionalizzazione delle imprese mediante investimenti diretti, sono
determinati dalle caratteristiche strutturali dei settori produttivi, dalle caratteristiche delle
tecnologie, che incidono in modo rilevante sulla struttura organizzativa dei processi
produttivi, dalla natura e dalla destinazione delle merci prodotte.
Il nuovo paradigma tecnologico ha operato profonde modificazioni dei processi di
internazionalizzazione messi in atto dalle imprese multinazionali nel periodo fordista,
caratterizzato da aziende molto integrate e con una struttura decisionale accentrata.
Accanto ad una gestione meno centralizzata delle società multinazionali, si è sviluppata
una nuova organizzazione decentrata di imprese, molto flessibili, il cui centro di
direzione e controllo ha la funzione di stimolare la collaborazione e la realizzazione di
sinergie.
Secondo il modello attuale d’internazionalizzazione e d’integrazione produttiva, le
imprese, per restare competitive ed attuare strategie espansive, stringono allenze che
consentono di acquisire tecnologie, di entrare in nuovi mercati, di ridurre i costi della
R&S, di sfruttare economie di scala.
L’internazionalizzazione si è estesa dalle imprese multinazionali classiche di grandi
dimensioni, anche ad imprese di medie dimensioni che costituiscono reti internazionali
attraverso filiazioni, nascita di nuove aziende, acquisizioni, fusioni, joint venture per la
produzione e per lo sviluppo tecnologico integrato, adottano innovazioni coordinate
nelle strutture produttive, effettuano investimenti diretti per acquisire, controllare,
partecipare aziende localizzate al di fuori dei territori nazionali.

84
I vantaggi delle strategie integrate di internazionalizzazione derivano anche
dall’incremento che stanno subendo le potenzialità di fusione delle tecnologie, e dalla
diminuzione dei costi di mantenimento delle reti, con spinte sempre maggiori
all’internazionalizzazione anche per quelle imprese con uno stadio di sviluppo non
avanzato.
La decisione da parte di una impresa o di una filiera produttiva, di internazionalizzarsi è
frutto di una strategia aziendale che introduce una innovazione organizzativa in una o
più fasi della catena del valore per mantenere/acquisire maggiore competitività sui
mercati. Non è detto che ad una innovazione di questo tipo siano associate anche
innovazioni di processo o di prodotto.
Questo quadro fa emergere per grandi linee, due modelli di comportamento differenziati
delle PMI nei processi di internazionalizzazione:
 per un certo numero di PMI, posizionate su prodotti maturi, con tecnologie
standardizzate, ridotta propensione all’innovazione di prodotto, di processo, di
organizzazione, l’esposizione alla concorrenza è soprattutto legata a fattori di
prezzo più che di qualità.
Queste aziende si internazionalizzano in molti casi attraverso la delocalizzazione
di parti della catena del valore delle produzioni soprattutto in paesi in cui il costo
della manodopera è basso e di scarsa qualità, dato che l’esigenza principale è
acquisire competitività da prezzo, riducendo i costi di produzione, in particolare del
lavoro.
E’ il caso delle delocalizzazione nei paesi balcanici, in alcuni paesi dell’Europa est
meridionale, e in alcuni del bacino del mediterraneo, nonché in paesi emergenti
come Cina e India.
 altre PMI puntano sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione. Per restare
competitive ed attuare strategie espansive, stringono alleanze per acquisire
tecnologie, per entrare in nuovi mercati, per ridurre i costi della R&S, per sfruttare
economie di scala.
Possiamo dire che queste imprese si internazionalizzano attuando modalità più
evolute, non necessariamente legate solo alla delocalizzazione:
- si costituiscono in reti internazionali (dalle costellazioni ai network strategici,
alle reti di impresa) attraverso filiazioni, nascita di nuove aziende,
acquisizioni, fusioni, partnership, joint venture per la produzione e per lo
sviluppo tecnologico integrato;
- adottano innovazioni coordinate nelle filiere produttive;
- effettuano investimenti diretti per acquisire, controllare, partecipare filiali o
aziende localizzate al di fuori dei territori nazionali in grado di essere
complementari ai propri sistemi di produzione.
E’ questo un modello che prefigura un processo di internazionalizzazione delle
PMI multiplo, spesso anche in Paesi ad economia post industriale, con effetti
positivi per i territori di origine, a patto che le funzioni aziendali che riguardano la
progettazione, il design, la tecnologia, lo sviluppo del know how e delle
competenze, la commercializzazione, restino in loco e si sviluppino.
Di fatto, in questo modello vi sono le migliori premesse per lo sviluppo di quello
che potremmo definire un processo di terziarizzazione dei sistemi produttivi locali,
nei quali la produzione a prevalente contenuto fisico può essere anche

85
delocalizzata ma per il quale la componente strategica è legata allo sviluppo – con
effetti di sostituzione – di attività a prevalente contenuto intellettuale, orientate ad
attivare network internazionali a monte e a valle della produzione ed a garantire
potenziali di competitività nelle componenti in cui l’Italia possiede le migliori
potenzialità per un riposizionamento competitivo.

La globalizzazione è, in parte, un effetto dell’internazionalizzazione spinta delle


imprese, e deriva dalla trasformazione dei rapporti tra i sistemi economici e tra le
rispettive strutture produttive che tendono, sempre più, ad essere condizionate e/o
stimolate dai confronti competitivi a livello mondiale. Le forti interconnessioni e relazioni
a livello planetario tra attività finanziarie, produttive, R&S, determinano un processo
dinamico di “intensificazione delle relazioni sociali mondiali che legano comunità locali
tra loro distanti in modo tale che gli avvenimenti locali prendono forma grazie ad eventi
che hanno luogo a molte miglia di distanza e viceversa” (Giddens, 1990).
L’Information Technology ha influito fortemente sull’aumento dei flussi di commercio
internazionale e sugli investimenti diretti all’estero, rendendo le economie dei diversi
stati sempre più integrate tra loro, e determinando fenomeni di globalizzazione
economica e sociale.
Per ridurre i tempi ed i costi della R&S, ma anche i rischi legati all’incertezza del
successo dell’innovazione in un mercato sempre più competitivo, alcune imprese
attuano collaborazioni tecnologiche per scambiare e\o generare conoscenze tecnico-
scientifiche, accettando la condivisione di conoscenze tecnologiche con altre imprese,
per migliorare il proprio livello competitivo,. In alcuni casi, le innovazioni sono concepite
su scala globale da imprese multinazionali che possono attuare diverse strategie(ad
esempio, la R&S e le attività ad alta tecnologia sono concentrate nel paese di origine
della casa madre e, quindi, distribuite alle filiali in altri paesi, oppure le imprese che
fanno parte della multinazionale, attuano una propria attività di R&S).
In genere, gli investimenti in R&S sono predominanti nelle imprese di maggiori
dimensioni, tanto che i livelli d’intensità tecnologica mostrano una correlazione positiva
con la dimensione aziendale, mentre risultano proporzionalmente minori nelle PMI in cui
la R&S è prevalentemente di tipo informale ed implicito.I principali motivi che vengono
addotti per spiegare la scarsa propensione delle PMI ad attuare significativi investimenti
in R&S sono riconducibili i) alla relativa maggiore presenza di PMI in settori e
lavorazioni tradizionali, caratterizzati da minori livelli di opportunità tecnologiche, ii) alle
limitate risorse tecnologiche, organizzative e finanziarie di cui queste imprese possono
disporre, soprattutto a fronte delle soglie di indivisibilità che molte attività di ricerca e
sviluppo richiedono, iii) alla necessità di esternalizzare le attività di R&S e, quindi, ai
condizionamenti che derivano dalla dotazione e dal livello tecnologico dell’area
geografica in cui sono localizzate, iv) alle specifiche strategie di mercato ed alle
conseguenti scelte di investimenti e, quindi, di costi e di determinazione dei prezzi, dato
che le PMI tendono a sviluppare l’attività di R&S in relazione diretta con la possibilità di
innovare aumentando i costi variabili, e in relazione inversa con quella di innovare
incrementando i costi fissi.
Le PMI, quindi, tendono ad attuare le attività R&S ricorrendo all’out sourcing,
sviluppando le innovazioni in modo implicito, utilizzando risorse tecniche, umane,
organizzative, accumulate o acquistate per altre funzioni aziendali, che già costituiscono

86
il set dei costi variabili, integrando le attività svolte internamente con servizi esterni
all’impresa.

87
CAPITOLO V

TERZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA E SVILUPPO REGIONALE

Premessa
Il nuovo paradigma tecnico-economico dell’Information Technology determina, nei
Paesi ad economia avanzata, profonde modificazioni nel sistema produttivo e
ridefinisce gli schemi organizzativi della produzione, sia di tipo materiale che
immateriale.
Le innovazioni organizzative, parte integrante delle innovazioni tecnologiche, e la
nascita di nuove imprese in nuovi settori, spesso ad alta tecnologie e ad elevato
contenuto di informazione, incidono in modo diretto sulle trasformazioni radicali che in
questi ultimi decenni stanno subendo le città, sia in termini di ruolo e funzioni, sia per
quanto riguarda le relazioni con le rispettive aree di influenza, le caratteristiche e le
configurazioni delle reti urbane, i nessi tra distribuzione geografica delle attività
produttive ed i modelli di concentrazione della popolazione.
Di fatto, la progressiva terziarizzazione delle economie dei paesi di antica
industrializzazione si struttura secondo forme e modelli molto differenziati e non univoci:
− In primo luogo, perché il complesso delle attività che configura la cosidetta
“terziarizzazione” è molto eterogeneo, ma anche fortemente integrato, concentrato
a livello territoriale, e interconnesso con aree e regioni non contigue, misurabile
non tanto per lo stock di funzioni presenti, quanto per l’intensità delle relazioni intra
e inter sistema.
− In secondo luogo, perché le innovazioni organizzative, che derivano dal nuovo
paradigma tecnologico, stanno operando una più marcata specializzazione e
divisione spaziale del lavoro, che vede localizzate in misura elevata, nelle grandi
aree urbane e nelle grandi città, le attività di direzione, gestione, controllo della
produzione, i servizi alle imprese di assetto e strategici, le attività finanziarie di alto
livello, i grandi centri transazionali, le attività che producono beni immateriali e
quelle legate alla R&S.
Di conseguenza, mentre nello stadio di crescita del sistema di produzione fordista, di
tipo capital e labour intensive, il tasso di sviluppo economico delle città risulta correlato
con i tassi di crescita della popolazione, che tende a insediarsi là dove si concentra la
domanda di lavoro, nella fase di transizione post industriale, in cui la base economica,
costituita da produzioni di beni fisici, viene gradatamente sostituita dalla produzione di
beni immateriali, di tipo information intensive e labour saving, eventuali variazioni nel
tasso di incremento demografico non delineano le molteplici forme della transizione, e
non permettono di formulare interpretazioni adeguate sul declino o sullo sviluppo del
sistema urbano.

1. I FATTORI DELLA TERZIARIZZAZIONE


Per quanto riguarda il processo di terziarizzazione nelle grandi aree urbane, si può
osservare che:

88
 l’affermazione del nuovo paradigma tecnico-economico basato sull’Information
Technology, di tipo information intensive e labour saving, incide sull’affermazione
di nuove forme di organizzazione aziendale e modifica le strategie localizzative,
con una drastica caduta della significatività dei fattori di localizzazione classici,
un’elevata mobilità geografica degli impianti, una crescente
internazionalizzazione delle imprese, una sempre maggiore globalizzazione delle
economie, forti effetti delocalizzativi di attività industriali dalle aree centrali verso
regioni periferiche, o del terzo mondo, forte tendenza alla “concentrazione
selettiva”, soprattutto nelle grandi aree urbane, delle attività di direzione,
gestione, controllo delle aziende che rappresentano i motori dello sviluppo di
attività integrate, prevalentemente information intensive.
 I processi di globalizzazione dell’economia, generati in buona misura
dall’Information Technology, hanno prodotto vistose trasformazioni anche nella
divisione internazionale del lavoro. Le attività delle aziende transnazionali e
internazionali sono state riorganizzate e ridistribuite, ricercando economie di
portata e di scopo, oltre alle economie di scala. Si passa, in altri termini, dal
sistema fordista classico ad un “neofordismo”, nel quale i sistemi flessibili di
produzione, distribuzione, commercializzazione, basati su forme di produzione
che consentono di passare rapidamente da un livello di produzione ad un altro, e
da un tipo di prodotto ad un altro, con diverse possibili combinazioni di legami
verticali e orizzontali tra aziende, e con la creazione di reti, gruppi, costellazioni
di imprese, modificano la logica della produzione di massa congiunta ai consumi
di massa.
 Le produzioni information intensive (informatica, microelettronica,
telecomunicazioni, software per l’automazione di fabbrica e d’ufficio, produzione
di sistemi di automazione rigida e flessibile, servizi alle imprese, ecc.)
attraversano orizzontalmente, anche se in modo ineguale, il mercato di tutti i
settori dell’economia, siano essi industriali, terziari, quaternari o quinari. Incidono
sul livello competitivo delle aziende, determinando capacità di progettazione
rapida, mutamenti nei prodotti e nelle tecnologie di processo, integrazione delle
fasi di progettazione e produzione, riduzione del numero di componenti
meccanici in molti prodotti, integrazione in rete dei fornitori di componenti e di
imprese di assemblaggio. Forniscono al sistema economico una vasta gamma di
occasioni produttive e di mercato, d’innovazioni di processo, di prodotto, di
organizzazione, di strumenti in grado di incrementare la produttività e la
competitività di tutti i settori, attraverso una integrazione “a sistema” delle diverse
unità di produzione e delle diverse funzioni che compongono un ciclo produttivo,
dalla concezione del prodotto al mercato. Queste attività sono tipicamente labour
saving e floorspace saving, prediligono, quindi, la localizzazione urbana in
quanto sono meno soggette alle diseconomie generate dagli elevati costi delle
aree, ed ai fenomeni di congestione che sono stati, in parte, alcuni dei fattori di
delocalizzazione degli impianti industriali dalle aree centrali: la crisi delle attività
industriali nei centri metropolitani sarebbe in parte dovuta, secondo la teoria dei
costi di produzione di Keeble, ad un più elevato livello dei costi di produzione –
affitti delle aree, congestione nei trasporti, costi della manodopera, minore

89
efficienza della città di grandi dimensioni - rispetto a quello delle imprese
localizzate in regioni periferiche (Keeble, 1984).

La delocalizzazione dei grandi impianti industriali e la conseguente perdita di posti di


lavoro, non compensata adeguatamente dalla creazione di nuova occupazione nelle
attività information intensive, è l’elemento di connessione più diretto con il fenomeno
della disurbanizzazione.
Le trasformazioni della base economica generate negli ultimi decenni dall’Information
technology, hanno determinato un complesso sistema basato prevalentemente sulla
produzione di beni immateriali, che si vanno gradatamente sostituendo alla produzione
di beni materiali.
Non vi è dubbio che uno dei fattori dirompenti del nuovo paradigma dell’Information
Technology sia lo sviluppo di aggregati settoriali (terziario avanzato, quaternario e
quinario) e la riduzione di quei settori che, per anni, avevano accompagnato la
maggiorparte degli studi e delle ricerche sullo sviluppo regionale.
Con l’articolazione sempre più complessa e più ricca delle attività e funzioni che
ricadono nel comparto del terziario, negli anni sessanta numerosi autori hanno cercato,
con sottoclassificazioni, di strutturare le diverse attività e funzioni del terizario, in un
quadro più sistematico e meno eterogeneo.
Alcuni studiosi hanno differenziato i servizi sulla base delle modalità di produzione,
enucleando dai cosidetti “servizi puri”, caratterizzati da alta intensità di lavoro, i servizi
che richiedono tecnologie più complesse ad alta intensità di capitale, come le attività
portuali, i trasporti, le comunicazioni, le forniture d’energia, acqua, gas, selezionando
alcune caratteristiche comuni come il prodotto, il lavoro necessario per la produzione, la
tipologia delle strutture erogatrici.
Altri autori hanno analizzato le tipologie di consumo dei servizi.
La distinzione principale, introdotta sulla scorta della distinzione tra prodotti intermedi
e finali, è quella tra servizi alle imprese e servizi alla popolazione: i servizi destinati
alla vendita sono considerati finali in quanto venduti al consumatore, mentre i servizi
alla produzione, erogati ad operatori economici, sono input intermedi del prodotto finale.
In tal modo, sono messe in relazione le attività di servizio con la rispettiva funzione
economica nel processo di produzione, analogamente a quanto avviene in molti modelli
della crescita economica in merito alla distinzione tra beni di consumo e beni capitali.
Altri autori classificano le funzioni terziarie in gruppi costituiti:
- dai servizi di distribuzione (immagazzinaggio, trasporti, comunicazioni, servizi
commerciali),
- dai servizi alle imprese, che comprendono attività di servizio (consulenze
finanziarie, organizzative, legali, di progettazione) fornite ad altre imprese che a
loro volta producono beni o servizi,
- dai servizi sociali, che rispondono ai bisogni della collettività (sanità,
istruzione,trasporti), dai servizi personali, che raggruppano un insieme di attività
che si differenziano dalle precedenti soprattutto per uno spostamento di accento
sul carattere individuale dei bisogni (alberghi, pubblici esercizi, servizi di
assistenza).
I criteri di classificazione si moltiplicano man mano che appaiono evidenti le insufficenze
esplicative dell’aggregato.

90
La costituzione di un aggregato nuovo, nettamente separato dal comparto del terziario,
è stata effettuata da:
- Gottmann con l’introduzione, negli anni sessanta, della categoria del
quaternario, riferito alle attività direzionali pubbliche e private, alle professioni
liberali, al sistema del credito e
- i geografi dell’Università del Minnesota, con la definizione della categoria del
quinario, relativa a tutte quelle attività ad elevato contenuto di informazione,
come ad esempio l’informatica, le comunicazioni, la telematica.
Il processo di terziarizzazione è stato approfondito alla metà degli anni settanta da
Stanback, Ginsburg e Vojta, che definirono i servizi alle imprese come il perno su cui
poggiano i sistemi economici avanzati.
I processi di terziarizzazione dell’economia delle grandi aree urbane, sotto forma di
deindustrializzazione e crescita agglomerativa delle attività di direzione, gestione,
controllo, di produzione di informazione e di innovazione, modificano le gerarchie
consolidate, ed attribuiscono, ad un ridotto numero di aree urbane, la capacità di
gestire, con un ruolo sovraregionale, la struttura dei rapporti economici, tecnologici,
culturali. Il ruolo che le città possono acquisire, deriva quindi soprattutto dalla capacità
di innovare e incubare le attività prodotte dal nuovo paradigma tecnico-economico, e
non dall'estensione della base economica esistente.
Il processo di terziarizzazione dell'economia ha acquisito sensibili differenziazioni
dovute, in larga misura, ai molteplici modelli di sviluppo regionale, propri delle diverse
fasi di crescita della struttura produttiva.
In aree in cui, ad esempio, non è decollata l'industrializzazione, il terziario banale,
basato soprattutto sulle funzioni del commercio al dettaglio e all’ingrosso, ha acquistato
la funzione di serbatoio di manodopera strutturalmente in eccesso, con una crescita
dell'occupazione nel settore pubblico e nei servizi rivolti alla domanda finale.
In altri casi, un incremento di occupazione nel terziario è stato determinato dalla
deindustrializzazione che ha provocato un surplus di manodopera esclusa dal settore
secondario, con una crescita - non correlata alla domanda - del settore pubblico e dei
servizi per la domanda intermedia e finale.
Non deve essere trascurata una peculiarità delle attività cresciute e sviluppate all’ombra
del nuovo paradigma tecnico economico: la forte intersezione tra funzioni, che possono
essere contemporaneamente erogatori o fruitori di altri servizi e che rendono sempre
più labili i confini tra struttura della domanda e dell’offerta.

2. FUNZIONI DIREZIONALI E SERVIZI ALLE IMPRESE.


Il processo di riorganizzazione delle imprese industriali, e la forte componente
internazionale spingono sempre più le aziende a localizzare le sedi direzionali nelle
grandi città e nelle aree metropolitane.
Questa localizzazione è mantenuta se il sistema urbano offre un’efficienza
organizzativa e infrastrutturale, se presenta adeguate economie d’urbanizzazione, se
garantisce economie esterne dinamiche.
Il quaternario è costituito dalle funzioni direzionali e gestionali delle imprese, dove
sono elaborate le informazioni, sono prese le decisioni di strategiche in termini di
allocazione delle risorse, d’investimenti, di disinvestimenti, sono svolte le attività di

91
negoziazione e transazione con le altre imprese e attività che, come fornitori di input (di
tipo sia materiale che immateriale), e come utilizzatori di output, entrano nella la catena
del valore aziendale.
Le attività di negoziazione e di transazione, in quanto richiedono rapporti diretti e
interpersonali, incidono in misura elevata sulla concentrazione delle funzioni nelle
grandi aree urbane. I contatti interaziendali “faccia a faccia” si realizzano più facilmente
in centri dotati di elevata accessibilità, efficienti, forniti di servizi urbani di qualità, con
elevate caratteristiche ambientali.
Strettamente connesso al quaternario, è il sistema dei servizi alle imprese.
I servizi alle imprese rientrano tra quelle funzioni aziendali che l’impresa può, o
internalizzare (terziario implicito), o acquistare all’esterno (terziario esplicito), o ancora –
ed è il caso più frequente – decidere di utilizzare operando una complementarietà tra
funzioni svolte all’interno e l’out sourcing.
Si possono identificare due principali categorie:
- la prima comprende quelle attività, rivolte alla gestione quotidiana, che consentono
di mantenere, possibilmente migliorandole in termini qualitativi, le condizioni delle
aziende. Sono i cosidetti "servizi di mantenimento" o "di routine" (contabilità,
ammnistrazione, ecc.). Questa categoria non contribuisce allo sviluppo del
sistema produttivo, e non costituisce un fattore propulsivo dell'economia locale.
- La seconda categoria riguarda i "servizi avanzati" (marketing, pubblicità, ecc.) che,
in quanto portatori di know-how di applicazioni di tecnologie innovative di prodotto,
di processo, di gestione, di mercato, contribuiscono all'inserimento delle imprese
nei mercati più dinamici, attraverso l'aggiustamento strategico, e contribuiscono ad
accelerare il tasso di sviluppo regionale.
L'opportunità, per le imprese, di incrementare il consumo di servizi d’assetto e strategici
è strettamente collegato al nuovo paradigma tecno-economico dell’Information
Technology che orienta gli strumenti per una dinamica concorrenziale, da tecniche
capital intensive a produzioni information intensive. L'esistenza e la disponibilità, per
un’impresa, di maggiori flussi informativi, sono la condizione necessaria perchè
vengano perseguiti con continuità processi innovativi. L’aumento di produttività e di
competitività dell’impresa non è più, quindi, garantita dallo spostamento da sistemi di
produzione labour intensive a capital intensive: l'informazione e la conoscenza
divengono le risorse strategiche che possono essere scambiate per numerosi motivi e
da diverse tipologie di soggetti, con la trasformazione dell'informazione in bene di
scambio.
Le difficoltà d’accesso delle imprese ai flussi d’informazione, possono rappresentare
barriere alla crescita che possono essere superate solo attraverso innovazioni di tipo
organizzativo, e attraverso lo sviluppo di funzioni di pianificazione, organizzazione,
finanza, ricerca e sviluppo. Il difficile posizionamento, sul mercato, delle imprese
localizzate in regioni periferiche, è anche funzione delle caratteristiche e del dinamismo
dell'ambiente locale, che influisce sulla selezione delle tecnologie più appropriate, e che
può essere definito come "l'insieme delle relazioni politiche, sociali, culturali nelle quali
le imprese sono inserite".
La domanda di servizi è allora funzione della capacità del sistema produttivo di
esplicitare - lato imprese - una propensione maggiore all’innovazione (che si manifesta

92
anche con una domanda crescente di funzioni proprie del terziario avanzato), e di
attivare - lato servizi – un’offerta adeguata alle rinnovate esigenze delle aziende.

3. LE ATTIVITÀ DI R&S E LE PICCOLE IMPRESE INNOVATIVE


Le attività di R&S sono strettamente connesse con le strategie aziendali relative
all’individuazione delle caratteristiche della produzione, delle tecnologie che s’intendono
adottare, delle localizzazioni previste.
Attraverso la pianificazione strategica, l’impresa determina gli obiettivi di lungo periodo,
le scelte delle politiche aziendali per raggiungere tali obiettivi, l’acquisizione delle risorse
necessarie per ottenere i risultati prefissati.
Sulle modalità di consumo di R&S da parte delle imprese, gioca un ruolo determinante
la natura del ciclo di vita del prodotto innovativo, che assicura ad un’impresa di crescere
solo durante le prime due fasi che sono sempre più brevi e tronche. L’adozione
continua d’innovazioni, necessaria per rendere l’impresa sempre competitiva sul
mercato, può essere orientata al miglioramento del prodotto esistente, allo sviluppo di
nuovi prodotti, all’acquisizione in parte o in toto di altre imprese.
In linea generale, la R&S rivolta alla ricerca di base ed ai campi di ricerca più avanzati,
tende ad essere centralizzata, anche se i centri di ricerca delle grandi imprese,
soprattutto multinazionali, sono spesso localizzate in sedi separate da quelle direzionali.
Nel processo di terziarizzazione della base economica delle principali città e aree
metropolitane, un ruolo rilevante per gli effetti di polarizzazione delle funzioni
information intensive, è dato dalle piccole imprese innovative (tra cui spicca la
produzione di software, la gestione di banche dati, la multimedialità, ed altre attività
simili), spesso attive in settori legati alla produzione di beni a prevalente contenuto
immateriale, che prediligono la localizzazione nelle grandi aree urbane per motivi legati
alla loro dimensione, alle caratteristiche dei prodotti, al tipo di mercato al quale si
rivolgono, al grado di internalizzazione delle funzioni aziendali.
La definizione di settore innovativo può essere assimilata a quella fornita da Porter di
“settore emergente”, ossia di settore “di nuova formazione o di recente ristrutturazione,
la cui nascita è determinata da innovazioni tecnologiche, cambiamenti nelle relazioni di
costo, nuovi bisogni del consumatore, o altri cambiamenti di ordine economico e
sociologico” (Porter, 1980). Caratteristiche del settore sono l’incertezza tecnologica e
strategica, la formazione di nuove imprese di piccole dimensioni, la natalità di imprese
per spin off, l’incertezza relativa alle caratteristiche della domanda, la presenza di
problemi organizzativi aziendali.
Le piccole imprese innovative non crescono in modo lineare ma discontinuo, dovuto ad
una serie di fasi critiche che corrispondono a radicali mutamenti della loro struttura
organizzativa e del management.
Le piccole imprese innovative sono sensibili alle relazioni con l’ambiente esterno che si
possono realizzare con legami intertecnologici e intersettoriali, sono determinate dai
requisiti tecnici richiesti dai clienti, sono condizionate da fattori competitivi. Queste
relazioni derivano da diverse modalità di rapporti con i committenti, che si possono
realizzare in termini di subfornitura di fasi e prodotti da parte di grandi aziende,
l’acquisizione di prodotti e componenti ad elevato contenuto tecnologico, la
formalizzazione di accordi, collaborazioni, joint venture

93
La presenza di situazioni di elevata incertezza tecnologica e di mercato, disegna
un’organizzazione interna che tende a minimizzare l’internalizzazione delle funzioni
aziendali e ad accentuare l’out sourcing.
Sono quindi imprese tendenzialmente ad economie esterne, che domandano in misura
consistente servizi e funzioni qualificate e ad elevato contenuto tecnologico, adeguato
alle caratteristiche della loro produzione e che utilizzano risorse professionali, in molti
casi esterne, come canali privilegiati di trasferimento di competenze tecnologiche
dall’ambiente all’impresa.

4. LA CONCENTRAZIONE PIANIFICATA DELLA CONOSCENZA: LE AREE DI ECCELLENZA


Il processo di concentrazione delle attività di R&S di tipo “spontaneo”, ad elevato
contenuto di informazione e di tecnologia è stato veicolato in modo “pianificato”
attraverso i poli di eccellenza. Le politiche di sviluppo regionale si basano sulla spinta di
tre fattori principali: l’attrazione d’investimenti esteri, soprattutto sul versante delle
attività ad elevata tecnologia. e della R&S, la trasformazione delle imprese posizionate
su settori maturi e con tecnologie tradizionali su versanti innovativi, la spinta alla nascita
di piccole imprese innovative.
Soprattutto per le PMI che operano su settori e con tecnologie innovative, la riduzione
del ciclo di vita dei prodotti, la differenziazione delle componenti della domanda
internazionale e la loro forte dinamica, la riduzione e l’integrazione delle fasi del ciclo di
innovazione, della ricerca di base, l’aumento dell’incertezza sulle traiettorie naturalli e
tecnologiche, l’aumento del rischio degli investimenti, sono fattori che incidono
profondamente sul livello competitivo e sul grado di concorrenza internazionale.
Le strategie legate alla creazione di strutture in grado di trasmettere informazioni,
servizi, tecnologie alle imprese e alla manodopera qualificata tendono a localizzare una
concentrazione spaziale pianificata di sistemi di trasmissione e diffusione scientifica e
tecnologica, e di infrastrutture di informazione e di ricerca, in grado di stimolare e\o
affiancare e\o integrare l’attività di imprese nel processo di innovazione.
Le iniziative che possono essere associate ai knowledge center sono numerose e
diversificate: i) l’incubatrice di imprenditorialità, che può essere definita come una
struttura fisica e organizzativa, che contiene servizi di consulenza e di assistenza,
compresi quelli per la ricerca delle fonti di finanziamento, che accoglie imprese in
gestazione, nate prematuramente, nuove imprese appena nate, piccole imprese
operative in trasformazione; ii) i centri d’impresa e innovazione (Business Innovation
center – BIC), che costituiscono un luogo di produzione intellettuale, con attività di R&S,
progettazione di prototipi, promozione di incontri, per accelerare e migliorare il processo
di business creation e, indirettamente, quello di job creation, innalzando i livelli di
imprenditorialità e di occupazione e svolgono un insieme di funzioni quali la selezione e
la formazione di imprenditori, l’assistenza all'avvio delle nuove imprese; l’acquisizione e
il trasferimento di tecnologia, l’assistenza finanziaria, servizi alle imprese di varia natura;
iii) il polo tecnologico, che può essere definito come la concentrazione, su un dato
dominio, di competenze e mezzi che si pongono a livello nazionale einternazionale e in
cui si produce un effetto cluster tra imprese attive lungo la linea ricerca-produzione-
marketing di prtodotti e servizi ad alta tecnologia.

94
Tra le diverse tipologie, quella che ha subito le più profonde trasformazioni dall’atto
della sua ideazione, è il parco scientifico e tecnologico, che ha l’obiettivo formale di
favorire ed accelerare il trasferimento tecnologico tra i risultati della ricerca e le attività
produttive che operano nei settori ad elevata tecnologia. La realizzazione di una rete di
parchi scientifici e tecnologici si colloca nell’ambito delle attività rivolte alla job creation e
della firm creation, e delle politiche di incremento della concentrazione e
dell’accumulazione di capacità e di conoscenze scientifiche e tecnologiche rivolte alla
loro applicazione.
Il trasferimento tecnologico effettuato dal parco, dovrebbe portare alla creazione di
nuove unità produttive, nella gran parte dei casi, sotto forma di nuove imprese, e
promuovere una diversificazione della struttura e della composizione settoriale del
sistema produttivo locale, in particolare della sua industria, sostituendo a settori maturi
e stagnanti, con settori ad elevata tecnologia, posizionati lungo triettorie tecnologiche
dominanti.
In termini generali, il termine parco scientifico viene descritto dall’OCSE come "una
concentrazione territoriale per cui su aree contigue vengono svolte attività connesse
alla tecnologia, siano esse di ricerca, sviluppo, produzione manifatturiera o di software,
insieme a tutte le possibili attività di servizio e di supporto diretto". Rowe lo ha definito
come "un’iniziativa di sviluppo del territorio che i) ha legami formali ed operativi con una
università, o un'altra istituzione di educazione superiore, o un importante centro di
ricerca; ii) è progettata per promuovere la costituzione e la crescita di attività produttive
e di organizzazioni, in genere localizzate nell'area, basate sulla conoscenza; iii) dispone
di una funzione manageriale attivamente impegnata nel trasferimento di tecnologia e di
capacità gestionali alle organizzazioni presenti in loco " (Rowe, 1989).
In realtà, lo schema funzionale di un parco scientifico e tecnologico risente di molti
fattori che possono modificare, in modo anche sostanziale, la sua struttura ed i suoi
obiettivi. I parchi scientifici, come centri di R&S, sono orientati più alla Ricerca che allo
sviluppo e, in genere, sono localizzati nei pressi di un’università o di centri di ricerca,
con cui sono stabilite relazioni forti e continuative, mentre i parchi tecnologici sono, al
contrario, più orientati allo Sviluppo ed alla produzione e le istituzioni universitarie non
necessariamente rientrano tra i partner abituali di attività.
I parchi scientifici hanno l’obiettivo di incoraggiare le creazione e la crescita di aziende
basate su nuove conoscenze, promuovere attivamente il trasferimento di tecnologia
dalle istituzioni accademiche e di ricerca alle aziende ed alle organizzazioni localizzate
nel parco, e si localizza in genere in prossimità di istituti di istruzione superiore o centri
di ricerca avanzata con cui ha collegamenti operativi sistematici. In genere, l’attività di
R&S effettuata dalle imprese nell'ambito del parco scientifico è limitata all'elaborazione
di prototipi, mentre la produzione avviene in genere in impianti non presenti nel parco.
I parchi presentano una differenziazione significativa a seconda che siano di prima o
seconda generazione. Nei parchi scientifici di prima generazione sono localizzate
attività di ricerca scientifica, mentre il processo che genera la comparsa di innovazioni e
la nascita di nuove imprese non è preordinato. A produrre i risultati dovrebbe essere
l’ambiente naturalmente favorevole alla promozione di attività di frontiera della
tecnologia, con un accento spinto sulla ricerca e meno sullo sviluppo.
I parchi di seconda generazione, l’accento si sposta dalla ricerca scientifica alla ricerca
tecnologica. E’ quindi più orientato sullo Sviluppo e opera sui sentieri tecnologici che

95
presentano crescita accelerata dei risultati conseguibili rispetto alle risorse umane,
tecnologiche, organizzative, finanziarie impegnate. In questo caso, il processo di
creazione è preordinato e programmato.
In linea teorica, un centro di eccellenza dovrebbe rappresentare un agente diffusivo
dell’innovazione nel sistema produttivo locale, promuovendo meccanismi di intersezione
tra attività innovativa, produzione e mercato. Per i casi di aree urbane e città
caratterizzate da una base economica strutturata essenzialmente sui trasferimenti della
pubblica amministrazione e sulle funzioni tradizionali del terziario, commercio al
dettaglio e all’ingrosso, i centri di eccellenza, soprattutto sotto forma di parchi scientifici
e tecnologici, possono agire da volano e raggiungere alcuni obiettivi di rilievo. Possono
incidere sulla natalità di imprese orientate a settori ad elevata tecnologia, sulla
modernizzazione del sistema produttivo locale, sul miglioramento dell’accesso alle
informazioni tecnologiche e di mercato, sulla riduzione dei punti di debolezza di un
sistema di PMI marginale e non in grado di porsi nei principali circuiti nazionali e
internazionali, possono acquisire il ruolo di fattori di attrazione di confronti di
investimenti e collaborazione di imprese esterne all’area, possono agire sulla
circolazione di informazioni, possono attivare forme di collaborazione e cooperazione
tra imprese. Elemento fondamentale di successo o di insuccesso, è la presenza di
prerequisiti funzionali e di fattori di propensione all'adozione di innovazioni da parte
dell’ambiente locale, come già ricordato nei capitoli precedenti a proposito dei modelli di
diffusione delle innovazioni (Nabseth e Ray, 1974; Brown, 1981).
Nell’evoluzione più recente dei parchi scientifici e tecnologici, si sta sempre più
affermando la necessità di considerare i parchi in linea con le trasformazioni introdotte
dal nuovo paradigma dell’Information Technolgy, e dei caratteri dello sviluppo dal
basso. Nel primo caso, la localizzazione “pesante” di una infrastruttura progettata
secondo i canoni classici dei parchi di prima e seconda generazione, stride con le
attuali tendenze delle innovazioni organizzative, che prediligono le reti, e con le
potenzialità dell’information technology che permette di esaltare gli aspetti immateriali
delle iniziative. Nel secondo caso, è necessario che i centri di eccellenza, sotto
qualunque configurazione, nascano attraverso intese con le forze locali, in modo da
inserire l’aggregazione tecnologica nel contesto produttivo secondo un piano
preordinato, programmato e coordinato, e con i principi dello sviluppo bottom up,
anzicchè top down.

96
VI
LE CAUSE DEL SOTTOSVILUPPO

PREMESSA
In molti casi si è affermato che il commercio internazionale ha un ruolo forte
nell’aumento dei differenziali di sviluppo tra Nord e Sud del mondo.
I Paesi del Terzo Mondo offrono sul mercato materie prime dalla cui vendita traggono
valuta pregiata necessaria all'acquisto di prodotti finiti. Pertanto, poichè il valore delle
materie prime complessivamente inferiore a quello dei prodotti industriali, ne
scaturiscono ragioni di scambio negative per i PVS, costretti a vendere quantità sempre
maggiori di materie prime per procurarsi prodotti finiti.
Il deterioramento dei termini reali di scambio costituisce dunque una perdita di potere
d'acquisto dei PVS, a favore dei Paesi sviluppati.
I rapporti commerciali internazionali sono regolati di conseguenza da uno scambio
ineguale determinato dal diverso grado di sviluppo economico e tecnologico che
contraddistingue i due gruppi di Paesi.
Caratteristica della maggior parte dei PVS è il forte indebitamento con l'estero che in
molti casi ha finanziato alcune fasi del loro sviluppo economico.
Creditori sono soprattutto la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e
diversi istituti bancari, pubblici e privati, dei Paesi più industrializzati
La restituzione dei finanziamenti ottenuti avviene tramite il pagamento del servizio sul
debito, cioè di parte del capitale a cui vengono aggiunti gli interessi passivi.
Il servizio sul debito è spesso molto oneroso e lo è stato ancora di più in passato, prima
che accordi tra i Paesi e gli istituti finanziari portassero ad una riduzione e dilazione nel
tempo (la cosiddetta rinegoziazione).
I nuovi accordi più favorevoli sono stati concessi in cambio di aggiustamenti strutturali,
ossia di interventi dei governi per ridurre e razionalizzare la spesa pubblica, per limitare
sprechi e corruzione, per migliorare i differenziali di reddito tra le classi sociali.
Sul sottosviluppo si sono formate diverse correnti di pensiero che fanno capo
principalmente a:
• la teoria della modernizzazione, che sostiene che le principali cause del mancato
sviluppo dei paesi sottosviluppati siano interne ai paesi stessi e siano
rappresentate da inadeguatezze strutturali. Le classi sociali che impediscono il
processo di sviluppo sono le oligarchie del passato e la burocrazia statale. E’
implicito l’assunto che l’esperienza storica dell’Occidente rappresenta un modello
che i paesi sottosviluppati non devono fare altro che seguire per arrivare alla
prosperità. Questo obiettivo va raggiunto attraverso lo sviluppo tecnologico,
l’adozione delle pratiche e delle idee occidentali, il commercio estero e gli
investimenti esteri;
• la teoria della dipendenza secondo cui le caratteristiche squilibrate delle relazioni
tra paesi industralizzati e Terzo Mondo derivano dal colonialismo, quando i paesi
del Terzo Mondo erano spinti dai colonizzatori a specializzarsi nella produzione di
beni primari destinati all’esportazione per soddisfare le necessità delle potenze
coloniali;

97
• la teoria sub-centrica secondo cui i paesi del Nord del mondo sfruttano a loro
esclusivo vantaggio le risorse dei paesi a basso livello di sviluppo. Da cui deriva
che la principale causa del sottosviluppo è generata dai paesi industrializzati,
secondo uno schema centro-periferia centro-periferia e che i programmi di
sviluppo basati sulla tecnologia e sullo sviluppo industriale importato dai modelli
dei paesi sviluppati non costituisca la soluzione. Le strategie di sviluppo devono
piuttosto partire dal basso, secondo un modello endogeno, devono tenere conto
delle tradizioni economiche e sociali e delle necessità delle popolazioni, secondo
uno schema bottom up contrapposto a quello top down..

1. LA TEORIA DELLA DIPENDENZA


La teoria della dipendenza si è affermata dopo la seconda metà del ‘900 in Sud
America seguendo un approccio marxista al sistema mondo per spiegare le
disuguaglianze createsi tra paesi sviluppati e sottosviluppati.
La tesi centrale della teoria della dipendenza è che sviluppo e sottosviluppo sono
fenomeni connessi tra loro, aspetti divergenti di uno stesso processo e che il rapporto
tra la parte sottosviluppata del mondo e quella sviluppata è un rapporto di forte
dipendenza sulla base del quale l’economia di un paese si sviluppa, si espande o si
contrae come riflesso degli andamenti dell’economia di altri paesi che, godendo di uno
sviluppo basato su impulsi endogeni, occupano una posizione preminente.
Questa forte asimmetria tra regioni sviluppate e sottosviluppate è il risultato del
processo storico attraverso il quale si è formato il sistema capitalistico mondiale e si
rafforza il divario tra paesi.
La teoria della dipendenza crea un parallelismo tra disuguaglianze interne ad un paese
e quelle presenti nel sistema internazionale: distingue tra aree centrali (i paesi ad
elevato tasso di sviluppo e alto reddito) e periferiche (i paesi del sud del mondo). Questi
ultimi con un ruolo di fornitori di materie prime utilizzate dai paesi industrializzati. Lo
sviluppo e la ricchezza delle aree centrali dipende, quindi, per la teoria della
dipendenza, dallo sfruttamento effettuato dalle aree centrali ai danni delle aree
periferiche, analogamente a come nella teoria marxista il potere della classe dominante
si basa sullo sfruttamento della classe dei lavoratori.
Le forme di dipendenza sono andate mutando nel tempo in relazione al variare delle
caratteristiche dei paesi avanzati. In una prima fase, l’economia dei paesi extraeuropei
dipendeva dall’esportazione dei prodotti agricoli e minerari. In una fase successiva, alla
fine dell’800 e nei primi decenni del ‘900, lo sviluppo in alcuni paesi è stato determinato
dagli investimenti e dai prestiti provenienti dai paesi avanzati. Attualmente il carattere
principale della dipendenza è dovuto alla tecnologia, dato che politiche di
industrializzazione richiedono conoscenze e mezzi della produzione che solo i paesi
avanzati detengono. Di conseguenza, i paesi sottosviluppati importano tecnologie dai
paesi sviluppati, esportano prodotti primari soggetti alla variazione della domanda dei
paesi avanzati, con una tendenza strutturale del sud del mondo al disavanzo della
bilancia commerciale e al ricorso di capitale estero nella forma di investimenti o
finanziamenti.

98
Questo processo genera una distribuzione sperequata del reddito nelle classi sociali dei
paesi in via di sviluppo che riduce la capacità di spesa delle grandi masse e limita il
mercato interno, impedendo il formarsi di impulsi endogeni allo sviluppo.
Alcuni autori ritengono che nelle economie sottosviluppate non si è in presenza di una
economia duale, ossia di un settore capitalistico e di uno precapitalistico e di una
borghesia interessata ad eliminare le strutture tradizionali ed a ridurre il potere delle
vecchie classi e oligarchie agrarie. Le economie sottosviluppate sarebbero unificate da
un rapporto di dipendenza tra un settore moderno e uno tradizionale che riproduce la
dipendenza esterna: il primo si è sviluppato a spese del secondo.
Il paradigma della dipendenza, tuttavia, ha alcuni punti di debolezza. In primo luogo,
non contempla la possibilità che nuove economie nazionali (come ad esempio il sud est
asiatico) si possano affermare pur partendo da una situazione di sottosviluppo.
In secondo luogo, non fornisce una struttura determinata del concetto di dipendenza.
Per alcuni autori, l’espansione delle economie sottosviluppate esportatrici
prevalentemente di prodotti primari è correlata positivamente all’aumento della
domanda proveniente dai paesi industrializzati e quindi al loro livello di prosperità. Per
altri autori, l’evidenza storica mostra che le congiunture negative dei paesi
industrializzati ed il rallentamento dei rapporti commerciali internazionali creano
condizioni favorevoli all’industrializzazione e allo sviluppo dei paesi sottosviluppati.

2. WORLD-SYSTEM-ANALYSIS
L’analisi dei sistemi del mondo o del sistema-mondo (World Systems Theory) rappresa
un’estensione/applicazione, al di fuori dei confini latino-americani, dell’analisi delle
relazioni politico-economiche tra blocchi regionali interdipendenti, connessa all’analisi
dei cicli di accumulazione del capitale su scala globale.
E’ stata sviluppata soprattutto da I. Wallerstein, con i contributi di altri autori (Samir
Amin, Christopher Chase-Dunn, Andre Gunder Frank, e Tom Hall).
L’analisi del sistema-mondo si rifà alla letteratura neo-marxista sullo sviluppo e alla
scuola francese degli Annales (F.Braudel).
La teoria del Sistema Mondo fornisce una chiave di lettura di “lunga durata” dello
sviluppo economico e interpreta le ragioni dei flussi migratori.
Per Wallerstein il Sistema mondo può essere considerato come un insieme di
meccanismi che ridistribuiscono le risorse economiche del pianeta a partire da un
“centro” verso delle “periferie”.
Mentre il “centro” genera ricchezza attraverso l’industrializzazione, la “periferia” acquista
importanza soltanto come luogo di produzione delle materie prime.
In questo meccanismo di distribuzione ineguale, il mercato diventa il mezzo con il quale
il “centro” sfrutta a suo vantaggio la “periferia”.
Il primo sistema mondo sarebbe sorto per Wallerstein nel periodo che va dal 1492 al
1640 (dalla scoperta delle Americhe alla Rivoluzione Inglese). Per la prima volta si
sarebbe creato in questa epoca un “sistema sociale con confini, strutture, gruppi, regole
di legittimazione e di coerenza in cui sono presenti forze contrastanti che lo tengono
insieme, da tensioni e lacerazioni provocate dagli interessi dei vari gruppi che in modo
eterno tentano di rimodellarlo a proprio favore.

99
All’interno del Sistema Mondo vi sono dei “ritmi ciclici” di breve termine ossia le
fluttuazioni economiche e delle “tendenze di lungo periodo” come la crescita economica
generale e il declino economico generalizzato.

3. AMARTYA SEN
Il tema della globalizzazione è ormai da alcuni anni al centro del dibattito della cultura
contemporanea. Filosofi, economisti, politologi, sociologi hanno dato una descrizione
del fenomeno in questione, cercando di coglierne le principali dinamiche evolutive. La
globalizzazione ha cambiato radicalmente la struttura della società.
Amartya Sen, Nobel per l'economia nel 1998, ha introdotto un’impostazione etico-
umanistica nello studio dei fenomeni economici: il fattore umano è considerato come
centro nevralgico di tutti i sistemi politico-economici mentre un’impostazione
rigorosamente di tipo economico non è idonea a spiegare il fenomeno e, soprattutto, è
incapace di affrontare in maniera adeguata uno dei principali nodi problematici posti dal
nuovo scenario globale: la questione delle disuguaglianze.
La scienza economica si è basata per misurare le diseguaglianze sulla variabile reddito.
Tutte le politiche redistributive messe in atto hanno, in questa prospettiva, lo scopo di
ridurre gli scarti differenziali reddittuali. Sen mostra che una tale impostazione non
consegue l'obiettivo.
Equality of What? era il significativo titolo di un saggio di Sen apparso negli anni ottanta,
in cui per la prima volta l'economista indiano mette in discussione il concetto di
uguaglianza, così come esso veniva considerato dagli economisti.
L'uguaglianza non può e non deve essere pensata unicamente in relazione ai livelli di
reddito in quanto viene trascurato il benessere che deriva anche da altri fattori,
ugualmente decisivi, come la libertà politica, l'analfabetismo, l'esclusione sociale.
L'analfabetismo, la mancanza di libertà politica, l’esclusione sociale sono delle
«illibertà» che vanno prese in considerazione nella valutazione della povertà di un
popolo. Un popolo soggetto a pesanti limitazioni delle proprie libertà (libertà di parola,
libertà di movimento) non può essere considerato realmente sviluppato. La valutazione
dello sviluppo non può essere quindi separata da quella della qualità di vita e di libertà
di cui effettivamente le persone godono. Lo sviluppo, in altri termini, per Sen non può
essere identificato semplicemente con l'aumento del reddito pro capite o con il
progresso tecnologico.
Per Sen la libertà e la democrazia sono il perno di ogni sistema politico-economico,
secondo lo schema della filosofia sociale di John Rawls. Buona parte del lavoro di Sen
consiste nel migliorare lo schema della teoria di Rawls applicando i principi di libertà e
uguaglianza.
A partire da Rawls, Sen orienta le sue riflessioni in una direzione etico-umanistica in cui
l'economia non soltanto descrive e interpreta i processi economici, ma diviene anche
una scienza normativa che delinea la regolazione dei fenomeni economici e in cui la
libertà gioca un ruolo fondamentale.
Secondo Sen, la globalizzazione è il nostro mondo-ambiente, la sfera all'interno della
quale ci muoviamo; è un sistema aperto e, come tutti i sistemi aperti, ha la qualità di
essere autocorrettivo: alcune istanze etiche presenti nei movimenti no-global possono
essere incorporate nel sistema e produrre dei cambiamenti; è una modalità di

100
interazione sociale che può essere liberamente modellata: le sue dinamiche evolutive
dipendono dalle nostre decisioni.
La libertà è l'ideale regolativo che deve essere adottato per correggere gli effetti
negativi della globalizzazione (iniqua distribuzione delle ricchezze, esclusione sociale).
Si ha lo sviluppo globale solo se si realizza libertà politica e sociale.
Una delle principali motivazioni che stanno alla base della proposta di Sen sta
nell'accusa che egli rivolge alle teorie del benessere di trascurare la qualità della vita
della popolazione.
Accanto alla nozione di funzionamenti, Sen introduce il concetto di capacità; mentre i
primi riflettono le acquisizioni effettive degli individui e sono quindi costitutivi del well-
being (benessere) le seconde riflettono le acquisizioni potenziali, e sono quindi
costitutive della libertà (intesa come libertà di fare e di essere).
Allontanandosi anche qui dalle pratiche consuete della teoria economica, Sen pone
molta enfasi sui problemi della libertà e del ruolo che essa gioca in connessione con il
well-being degli individui.
L'approccio di Sen ha convinto molti studiosi a considerare i tradizionali indicatori
monetari del benessere (indici di povertà e diseguaglianza basati sul reddito o sulla
spesa per consumi) come misure incomplete e parziali della qualità della vita di un
individuo. Rimangono tuttavia numerose difficoltà irrisolte per quanto riguarda
l'osservazione e la misura empirica dei funzionamenti e delle capacità.
Sen utilizza il concetto di attribuzioni per indicare l'insieme dei panieri alternativi di
merci, usando l'insieme dei diritti e delle opportunità. Tale concetto può essere usato
per spiegare le morti causate dalle carestie: le modeste attribuzioni di una parte della
popolazione espone un’altra parte della popolazione ai rischi della carestia anche se il
paese a cui appartengono possiede risorse alimentari sufficienti.
Il merito di Sen è di aver usato nuove categorie, capaci di superare i limiti delle analisi
economiche tradizionali e di introdurre un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia
da quello di crescita.
Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un
aumento della qualità della vita.
Le disuguaglianze (inequality) tra i popoli derivano anche dalla sostanziale eterogeneità
degli esseri umani e dal fatto che la misurazione della disuguaglianza dipende dalla
variabile focale (felicità, reddito, ricchezza, ecc) attraverso cui si fanno i confronti: la
misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per definirla.
Per parlare di eguaglianza occorre preventivamente porsi il duplice quesito why
equality? (“perché eguaglianza?”) e equality of what? (“eguaglianza di che cosa?”).
Interrogarsi sull’uguaglianza significa dunque innanzitutto interrogarsi su quali siano gli
aspetti della vita umana che debbono essere resi eguali.
La storia della filosofia ci offre una molteplicità di esempi diversi di soluzioni: Rawls
descrive l’eguaglianza come un paniere di beni primari di cui tutti gli individui
dovrebbero disporre, Dworkin come eguaglianza di risorse, gli utilitaristi come eguale
considerazione delle preferenze o delle utilità di tutti gli individui.
I “beni primari” di Rawls e le “risorse” di Dworkin sono per Sen indicatori imprecisi così
come lo è il reddito pro capite.

101
Il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende piuttosto dalla sua
capacità di garantire a tutti capacità (capabilities) di acquisire fondamentali
funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita o well-being.
Su questa base, Sen ha formulato una teoria dello sviluppo umano in termini di libertà
(development as freedom). Il valore della libertà deve essere messo in relazione con il
valore dell'eguaglianza.
Sen definisce inoltre un indice di povertà (che sarà descritto in seguito) Human
Development Index (HDI) che introduce nuovi parametri per valutare la reale ricchezza
di un Paese: aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti, distribuzione del reddito.
Lo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali godute
dalla popolazione e richiede che siano eliminate le principali fonti di illibertà: la miseria,
la tirannia, l'angustia delle prospettive economiche come la deprivazione sociale
sistematica, la disattenzione verso i servizi pubblici come l'intolleranza o l'autoritarismo
di uno stato repressivo".
La libertà, intesa come libertà effettiva (di scegliersi una vita cui, a ragion veduta, si dia
valore), in un senso assai vicino a quello della real freedom di Philippe Van Parijs, è
secondo Sen, il criterio in base al quale valutare gli assetti politico-sociali e orientare le
politiche pubbliche.

4. SOTTOSVILUPPO E COOPERAZIONE
Per affrontare il tema del rapporto tra antropologia e cooperazione internazionale risulta
utile prima tracciare un breve excursus sulla nascita e l’evoluzione del concetto di
sviluppo.
Secondo la prospettiva cosiddetta ‘sviluppista’, tutti i popoli del mondo si muovono
lungo una sola strada, lungo lo stesso percorso.
Chi sta avanti segna la strada ed indica la destinazione comune a tutti, anche per quei
paesi che avevano destinazioni diverse nel passato. In origine, lo sviluppo così
concepito, si esauriva in una modalità di espansione economica espressa da variabili
quantificabili (redditi, occupazione, PIL).
In quest’ottica il fine dello sviluppo è la crescita economica e il benessere è assimilato
alla capacità di consumo e di accumulazione; una visione, questa, che è in parte alla
base della formulazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, i quali
sono stati ispirati e stilati su basi etnocentriche.
Come sottolinea Latouche (1997), i valori sui quali si basa lo sviluppo - e in modo
particolare il progresso e la modernità - sono legati alla storia dell’Occidente e
probabilmente non hanno alcun senso per altre società.
Il concetto di “sviluppo umano” viene elaborato, a partire dagli anni Ottanta del
Novecento, al fine di superare e ampliare l’accezione tradizionale di sviluppo incentrata
solo sulla crescita economica; il nuovo approccio mette le comunità al centro dello
sviluppo e si basa sulla convinzione che la dimensione umana sia stata trascurata nel
passato a causa dell’enfasi eccessiva posta sulla crescita economica.
Negli anni Novanta, con l’aggiunta di un nuovo aggettivo alla catena semantica, nasce il
concetto di “sviluppo umano sostenibile” (Rapporto Bruntland, World Commission on
Environementand Development, 1987): per sostenibilità si intende “un processo di
cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, gli orientamenti degli investimenti,

102
lo sviluppo tecnologico e i cambiamenti a livello istituzionale devono soddisfare le
esigenze attuali e future”. Si afferma il concetto di basic needs (bisogni essenziali) e il
riconoscimento delle limitazioni imposte dallo stato della tecnologia.

Per antropologia applicata allo sviluppo ci si riferisce ad un campo piuttosto vasto


dell’applicazione della prospettiva antropologica alla branca multidisciplinare degli studi
sullo sviluppo. Da questa prospettiva, l’antropologia considera la cooperazione
internazionale e gli aiuti umanitari come oggetti primari del suo studio.
In questo campo, il termine ‘sviluppo’ fa riferimento all’azione sociale esercitata
volontariamente da diversi attori quali le istituzioni, le imprese, lo stato i quali cercano di
modificare la vita sociale, politica, tecnica o economica di un determinato luogo del
mondo, esercitando la loro azione e orientando i loro sforzi specialmente nei paesi in
via di sviluppo.
In tale ambito di studio, lo sviluppo non è considerato un obiettivo da perseguire,
raggiungere o fallire né tanto meno un ideale; esso diviene vero e proprio oggetto di
studio. Attraverso le ricerche di campo, i fieldwork, gli antropologi possono descrivere,
analizzare e comprendere le differenti azioni di sviluppo che hanno avuto luogo e si
perpetuano in un certo luogo. Sono i differenti impatti sulla popolazione locale,
sull’ambiente e sulla vita economica e sociale a diventare oggetti di indagine
antropologica.
In questo specifico contesto diventa fondamentale una prospettiva actor-oriented;
un’appropriata antropologia dello sviluppo necessita di costruire un approccio
etnografico più riflessivo, che permetta di analizzare le dinamiche di ricomposizione
delle pratiche e delle esperienze da parte degli attori sociali e non solamente le loro
reazioni ai cosiddetti cambiamenti ‘indotti’ e agli esperimenti di ‘ingegneria sociale’
identificati con la teoria o le strategie della modernizzazione.
L’antropologia dello sviluppo si rivolge alla ricerca delle cause di sviluppo e
sottosviluppo nei diversi paesi, e quindi allo studio dell’impatto di piani di cooperazione
e di sviluppo rivolti ai PVS.
Gli approcci antropologici analizzano le cause del sottosviluppo e i fallimenti o gli effetti
di numerose iniziative di sviluppo “come il risultato delle relazioni di dipendenza con le
società occidentali” (Malighetti 2005: 7)22.
Grazie alla prospettiva antropologica è stato possibile mettere in luce che il concetto
stesso di sviluppo, come valore e crescita quantitativa continua, è tendenzialmente
etnocentrico e culturalmente condizionato, mentre l’idea occidentale di promuovere lo
sviluppo delle altre società serve spesso a nascondere precisi interessi politici o
economici, fonte di errori, di ingiustizie, di distruzione delle culture altrui. Molti autori si
sono occupati di decostruire il “discorso sullo sviluppo” nei suoi elementi costitutivi,
presentandolo come un’egemonia occidentale; in particolare, analizzare
antropologicamente le dinamiche del rapporto tra benefattori e beneficiari - mettendo
quindi in discussione l’essenza ideologica dello sviluppo – significa scoprire ed
evidenziare il suo potere nella rappresentazione della realtà sociale, condizionata e
falsata da appositi meccanismi attraverso i quali il discorso dello sviluppo produce
possibili modi di pensare e di essere, escludendo o rendendone impossibili altri
(Malighetti 2005).

103
Dai risultati della riflessione antropologica sul tema nasce la critica dell’antropologia allo
sviluppo e per estensione alla cooperazione internazionale; essa muove dall’analisi
etnografica dei progetti di cambiamento messi in opera dalla macchina organizzativa,
sociale e politica della cooperazione per giungere alla messa in discussione del ruolo
applicativo della disciplina (Malighetti 2005).
Decostruendo il carattere ideologico dello sviluppo, si mostra come la categoria
“emergenza” abbia legittimato la pratica “sviluppista”, standardizzando gli interventi e
sottraendoli alla sostenibilità e alla partecipazione.
Gran parte della riflessione antropologica in questo campo ha concentrato la sua
attenzione sull’analisi e lo studio delle resistenze ai tentativi egemonici (Escobar parla a
proposito esplicitamente di ‘egemonia dello sviluppo’) di imporre un’ideologia della
globalizzazione e dello sviluppo.
Crew e Harrison (1998), ad esempio, hanno esaminato, da un punto di vista etnografico
attraverso fieldwork in Africa e in Asia, la ‘cultura’ dello sviluppo, degli aiuti umanitari e
della cooperazione internazionale; in particolare, la loro analisi si concentra
sull’interazione tra i portatori d’interesse (stakeholders) in un’organizzazione, in un
programma o in un progetto di sviluppo.
All’analisi degli “sviluppi alternativi”, gli antropologi che operano da una prospettiva
critica, sostituiscono lo studio delle “alternative allo sviluppo” in atto nelle pratiche dei
movimenti e degli esperimenti innovativi di base (Escobar 1995; 2005; Pieterse 1998).
Nell’ambito di un approccio basato sulla partecipazione “fattiva e fattibile” a livello
locale, grande importanza assumono, in questo contesto, la nozione di “sviluppo
sostenibile” e di “diritto alla diversità” delle culture. Colajanni (1994) ha messo in luce
come l’antropologia si situi in questo settore definendo tre campi distinti: antropologia
dello sviluppo, quando gli antropologi studiano i processi di pianificazione dei
cambiamenti economici e socioculturali; antropologia per lo sviluppo, nel momento in
cui ci si preoccupa di tradurre e trasmettere il sapere antropologico agli operatori che
lavorano in processi di sviluppo; antropologia nello sviluppo, è la branca applicativa in
cui gli antropologi svolgono ricerca e offrono la loro consulenza nel corso di attività di
cambiamento pianificate e realizzate da altri.

104
VII
POLITICHE DEL SOTTOSVILUPPO

1. MILLENNIUM DEVELOPMENT GOALS


Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite sono otto obiettivi che tutti i
191 stati membri dell'ONU si sono impegnati a raggiungere per l'anno 2015.
La Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, firmata nel settembre del 2000,
impegna gli stati a:
 Obiettivo 1: Eliminare la poverta' estrema e la fame
 Obiettivo 2: Raggiungere l'istruzione elementare universale
 Obiettivo 3: Promuovere l'uguaglianza fra i sessi e conferire potere e
responsabilita' alle donne
 Obiettivo 4: Diminuire la mortalita' infantile
 Obiettivo 5: Migliorare la salute materna
 Obiettivo 6: Combattere l'HIV/AIDS, la malaria e altre malattie
 Obiettivo 7: Assicurare la sostenibilita' ambientale
 Obiettivo 8: Sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo

Per realizzare questi obiettivi entro il 2015, l'Unione europea (UE) ha assunto impegni
concreti.
La Commissione sottolinea come la Comunità e gli Stati membri abbiano già apportato
un notevole contributo alle iniziative della Comunità internazionale.
L'Unione europea è diventata il principale donatore, in quanto fornisce il 55% dell'aiuto
pubblico allo sviluppo mondiale. È tuttavia necessario accelerare i progressi verso la
realizzazione degli OSM; la semplice prosecuzione delle attuali politiche non consentirà
di raggiungerli.
Nel quadro dell'elaborazione del contributo dell'UE al vertice delle Nazioni Unite del
settembre 2005 il Consiglio ha invitato la Commissione ad elaborare proposte d'azione
ambiziose nella prospettiva del 2015, al fine di accelerare i progressi verso la
realizzazione degli OSM, in particolare il finanziamento delle azioni di sviluppo, la
coerenza delle politiche per lo sviluppo e la priorità da accordare all'Africa.
Le proposte della Commissione sono intese segnatamente a:
 fissare nuovi obiettivi intermedi per l'aumento dei bilanci relativi all'aiuto pubblico
nel periodo fino al 2010, al fine di giungere complessivamente allo 0,7% del
reddito nazionale lordo (RNL) nel 2015;
 accelerare le riforme per migliorare la qualità dell'aiuto;
 riconsiderare il modo in cui l'UE influenza le condizioni dello sviluppo con le sue
politiche interne ed esterne, attraverso il suo specifico modello di sviluppo
sostenibile;
 fare beneficiare in modo prioritario l'Africa di questi nuovi orientamenti e cogliere le
opportunità di stabilire un partenariato tra i due continenti.

La Commissione invita gli Stati membri a continuare ad aumentare i rispettivi bilanci per
gli aiuti pubblici allo sviluppo (APS) e ad oltrepassare gli impegni assunti a Monterry.

105
Essa propone di stabilire per il rapporto APS/RNL un nuovo obiettivo individuale minimo
dello 0,51% entro il 2010 (0,17% per i nuovi Stati membri), portando così il contributo
collettivo dell'Unione allo 0,56%. Questo impegno si tradurrebbe in un aumento di 20
miliardi di euro all'anno entro il 2010 e consentirebbe di raggiungere nel 2015 l'obiettivo
dello 0,7% del RNL fissato dalle Nazioni Unite.
Oltre ai bilanci degli aiuti pubblici, occorre valutare la possibilità di reperire nuove fonti di
finanziamento. Queste nuove fonti dovrebbero avere un carattere più stabile e
prevedibile sul lungo periodo. Sono inoltre dibattute nuove iniziative per l'annullamento
del debito.

Oltre ad aumentare il volume dell'aiuto internazionale, occorre migliorare il


coordinamento e l'armonizzazione tra donatori ed allinearsi sulle strategie dei partner, al
fine di garantire una maggiore efficacia e costi di transazione inferiori per gli aiuti.
L'assenza di armonizzazione comporta vincoli amministrativi e costi improduttivi per i
paesi partner.
Il Consiglio ha adottato una serie di raccomandazioni che devono ora essere tradotte in
pratica, in particolare grazie ad un processo di coordinamento aperto. In occasione del
recente incontro ad alto livello su coordinamento ed armonizzazione, l'UE si è
impegnata a raggiungere obiettivi precisi e vincolanti.

Una migliore collaborazione a livello di sviluppo è estremamente importante, ma di per


sé insufficiente di fronte alla sfida degli OSM. Politiche diverse da quelle di aiuto
possono svolgere un ruolo fondamentale nel facilitare il raggiungimento degli OSM. In
tale contesto la comunicazione sulla coerenza delle politiche per lo sviluppo identifica le
politiche che potrebbero contribuire nel modo migliore alle iniziative dei paesi in via di
sviluppo.

Diverse regioni dell'Africa subsahariana accusano un ritardo considerevole rispetto al


resto del mondo per quanto riguarda la realizzazione degli OSM. La Commissione
desidera concentrare i suoi sforzi sull'Africa ed aiutare gli stati di tale continente a
diventare i principali protagonisti del loro sviluppo.
L'UE dovrebbe concentrarsi sui settori in cui può svolgere un ruolo di catalizzatore per
l'azione di altri operatori. Occorre concentrare le iniziative in settori chiave, nei quali l'UE
svolge una funzione essenziale per condurre l'azione internazionale. Questi gli ambiti
interessati.
a. miglioramento della governance in Africa: dovrebbe essere conseguito
segnatamente sostenendo finanziariamente l'Unione africana (UA), sviluppando un
partenariato di gemellaggio con le sue istituzioni e rifinanziando il " Fondo per la
pace in Africa", destinato a sostenere le iniziative africane per il mantenimento della
pace.
b. Collegamento delle reti e del commercio africani: occorre creare e mantenere i
servizi e le reti di infrastrutture regionali affinché la crescita economica ed il
commercio diventino concorrenziali e gli esportatori africani possano svolgere il loro
ruolo nel mercato mondiale. A questo proposito, la Commissione propone di
stabilire un partenariato euroafricano per le infrastrutture. Occorre inoltre
aumentare quantità e qualità degli scambi per l'Africa subsahariana. La

106
cooperazione commerciale è da numerosi anni al centro delle relazioni UE-ACP (
paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico ) in particolare grazie alla concessione di
un accesso preferenziale al mercato UE per i prodotti di tali paesi. Nel quadro dell'
accordo di Cotonou, gli stati ACP e l'UE hanno deciso di avviare negoziati allo
scopo di concludere sei accordi di partenariato economico (APE) regionali, di cui
quattro riguardano l'Africa. I principali campi d'azione sono:
- governance economica;
- assistenza in campo commerciale;
- misure di sostegno specifiche per i settori più importanti, come quelli del
cotone, dello zucchero e dei prodotti tessili;
- determinazione delle risorse destinate a sostenere le misure di
adeguamento;
- sostegno ad un programma ambizioso in materia di facilitazione del
commercio.
c. Iniziative a favore di una società equa, dell'accesso ai servizi, di un lavoro decoroso
e della sostenibilità ambientale: deve essere rafforzata la coesione sociale, in
particolare la crescita economica equa, l'accesso all'occupazione e ad un lavoro
decoroso per tutti, l'uguaglianza tra i sessi.
L'UE sosterrà iniziative in tal senso e continuerà, in collaborazione con i suoi
partner africani, a sviluppare approcci partecipativi, per la pianificazione e
l'inserimento in bilancio delle risorse a livello locale, nazionale e regionale. Occorre
inoltre integrare nello sviluppo la sostenibilità ambientale. L'UE adotterà misure
politiche concrete intese ad aumentare l'importanza di criteri come equità e
sostenibilità ambientale nella determinazione degli aiuti attribuiti ai paesi ACP.

I rappresentanti dei 192 paesi membri delle Nazioni Unite sono riuniti a settembre 2010
a New York per fare il punto sui traguardi fissati nel 2000, tra cui ad esempio quello
dimezzare entro il 2015 il numero di persone che nel mondo soffrono la fame.
Il bilancio è in chiaroscuro e per riuscire a concretizzare gli Obiettivi del Millennio è
necessario un nuovo slancio.
Per il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon sono stati compiuti dei passi in avanti,
anche se in molti paesi poveri questi progressi poggiano su fragili basi. Con la volontà
politica e mezzi finanziari sufficienti, la vita di miliardi di persone può però essere
migliorata. "Malgrado tutti gli ostacoli e lo scetticismo che regna", gli Obiettivi del
Millennio possono ancora essere raggiunti.
Se si analizza la situazione, ci si rende conto che "la maggioranza dei paesi e delle
regioni più in ritardo nella realizzazione degli Obiettivi del Millennio sono caratterizzati
dalla fragilità delle strutture statali, da conflitti o da un livello elevato di violenza". In
questi Stati è necessario mettere in atto delle misure per "assicurare i servizi di base e
una pace duratura".
D'altro canto, le autorità dei paesi poveri devono attuare delle "politiche efficaci,
trasparenti, partecipative e democratiche". Per questa ragione, è forse necessario
riportare in primo piano nel quadro degli Obiettivi del Millennio i diritti umani. "Il rispetto
dei diritti umani, la non discriminazione, il diritto di partecipare alla vita politica,
economica e sociale del paese sono assolutamente fondamentali se vogliamo

107
raggiungere gli obiettivi".
Si deve sottolineare che l’Italia si è presentata al Summit avendo mancato alcuni
importanti obiettivi intermedi a cominciare dal raggiungimento dello 0,51% del PIL in
APS entro il 2010.

Secondo il rapporto “Trends in maternal mortality”, in Africa sub-saharianala mortalità


materna è diminuita del 26% e in Asia il numero di decessi materni si stima sia sceso
da 315 000 a 139 000 tra il 1990 e il 2008, con un calo del 52%.
L’Unicef sottolinea il miglioramento, ma fa notare che il tasso di diminuzione è meno
della metà di ciò che è necessario per conseguire l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio di
ridurre il tasso di mortalità materna del 75% tra il 1990 e il 2015, che richiede una
diminuzione annua del 5,5%, mentre il calo del 34% rispetto al 1990 equivale ad una
diminuzione media annua di solo il 2,3%. Teniamo presente che il 99% di tutti i decessi
materni nel 2008 si è verificato nei paesi in via di sviluppo, 57% nell’Africa sub
Sahariana e il 30% nell’Asia meridionale. In Asia occorre tener conto che una cosa è la
situazione in Cina e un’altra in Pakistan. Così occorre guardare con attenzione i dati
relativi alla fame. Secondo il rapporto Sofi 2010, la regione con più sottonutriti resta
l’Asia con 578 milioni di individui. Ma è l’Africa sub sahariana la regione con la
proporzione più alta di affamati: il 30%, con 239 milioni di individui. Se Mali, Ghana e
Nigeria avevano già raggiunto il primo obiettivo del millennio (sradicare la povertà
estrema e la fame), e l’Etiopia è vicina, nella Repubblica democratica del Congo la
proporzione dei sottonutriti è aumentata del 69%. Conflitti locali, spesso combattuti con
armi vendute dalle industrie occidentali, sui quali e dietro i quali ci sono interessi
economici e politici dei diversi stati, pensiamo alla Cina in Africa, richiamano
l’attenzione su come e da chi sarà speso il notevole contributo raccolto dall’ONU. Per
questo è importante il richiamo dell’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per
l’Ambiente, che con il suo direttore Achim Steiner ha detto che «La green economy è la
strategia migliore per ridurre la povertà e il mezzo per raggiungere tutti gli Obiettivi del
Millennio per lo sviluppo». Con un miliardo di persone senza accesso all’acqua potabile
e danni delle carestie e delle inondazioni dovuti al cambiamento climatico è chiaro il
valore dell’economia verde come strategia per porre fine alla povertà e al sottosviluppo.
Per l’Unep la Green economy non solo serve alla sostenibilità ambientale dello
sviluppo, che è l’Obiettivo N. 7 dei Millenium goal, ma è fondamentale nella lotta alla
povertà. Investire in energie rinnovabili, con pannelli per produrre energia localmente,
mezzi di trasporto efficienti, riciclo dei materiali, in metodi di agricoltura a basso
consumo d’acqua e attenta al consumo di suolo, in sistemi di trasporto sostenibile e in
riforestazione. Con una agricoltura sostenibile che fa uso di concimi naturali e non
spreca acqua, si salva denaro e si contribuisce ad uno sviluppo ecologico. Ad esempio:
invece della climate finance, gli investimenti basati sul mercato delle emissioni, carbon
market, dove chi taglia emissioni può vendere la quota tagliata a chi sfora i tetti di CO2,
è più utile soprattutto il Redd plus (Reducing Emissions from Deforestation and Forest
Degradation) il meccanismo dell’Onu per ridurre le emissioni attraverso la riduzione
della deforestazione e del degrado forestale. Quete sono politiche che meritano
l’attribuzione dei finanziamenti stanziati a New York.

108
CAP. VIII

LA VALUTAZIONE DEL GRADO DI SVILUPPO

Premessa
Con la pubblicazione del World Development Report (2000), la Banca Mondiale ha
recentemente voluto impostare una strategia di lotta alla povertà basata su una
concezione ampia del problema che include la crescita delle opportunità e il
coinvolgimento politico dei poveri, accanto alle azioni economiche condotte su scala
globale.
Le reazioni alla diffusione del Project Report non sono state unanimi. Oxfam ha visto
con favore il fatto che la Banca Mondiale rilevi che «la povertà di massa in un contesto
di generale prosperità è moralmente inaccettabile, politicamente insostenibile ed
economicamente disastrosa» (WDR, 2000). D’altro canto, Rammanohar Reddy in un
dettagliato articolo pubblicato dal quotidiano The Hindu ha commentato che «il World
Development Report verrà ricordato più per le controversie che ne hanno
accompagnato la redazione che per le indicazioni fornite sul come ridurre la povertà».
Reddy giudica che il Rapporto non è convincente a causa dell’importanza accordata
alla crescita economica, della «assenza di dati sufficenti a sostenere alcune delle tesi
fondamentali» e del “modo sconcertante” col quale vengono trattate le relazioni tra
liberalizzazione del commercio, crescita e disuguaglianza tra gli uomini.
Il tono delle reazioni è stato vario quanto numerose sono state le voci: ad ogni modo,
ilRapporto
nell’accostare il problema della povertà dà spazio ad argomenti spesso trascurati dai
governi e dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Nel mondo, l’estrema povertà confina con l’abbondanza. Dei 6 miliardi di abitanti del
pianeta, 2,8 miliardi hanno meno di 5.000 lire al giorno per sopravvivere, e 1,2 miliardi
meno di 2.500 lire al giorno. Ma la povertà non è solo mancanza di soldi.
Sen considera l’esperienza della povertà nel suo contesto sociale, e vede la povertà in
termini di impossibilità a svolgere alcune fondamentali attività dell’uomo (Sen 1984,
1993): «la povertà deve essere intesa come la privazione delle capabilities fondamentali
dell’uomo» (Sen 1999).
L’idea di fondo del suo human poverty approach al concetto di povertà è che la povertà
dovrebbe includere sia ciò che potremmo o non potremmo fare (capabilities), sia ciò
che ci è effettivamente concesso di fare (functions). Quest’idea ha svolto un ruolo
fondamentale nell’allargamento della lotta alla povertà che, non più legata alla sola
dimensione del reddito, viene ad includere il diritto ad una vita lunga, creativa, tutelata
da malattie e violenze - e il diritto ad un buon tenore di vita, alla dignità, all’autostima e
al rispetto altrui. Se il benessere permette di contrastare un futuro di incertezza e di
vulnerabilità, l’incapacità a decidere la propria vita diviene un aspetto del concetto di
povertà. È per questo che anche la vulnerabilità, l’incapacità a far udire la propria voce
e l’impotenza politica sono dimensioni della povertà. Perciò anche l’arbitrio, la
sottomissione e l’insicurezza sono divenute dimensioni della povertà, al pari di un
reddito insufficiente. È necessario un più ampio approccio al concetto di povertà, non

109
più limitato alla constatazione di bassi redditi, che è il criterio comune col quale si
misurava la povertà.
Le valutazioni della povertà basate sul reddito o sui consumi familiari non sono esenti
da problemi: le informazioni raccolte su scala familiare richiedono cautela nell’essere
convertite in indici di benessere validi per i singoli individui, e non rivelano le
disuguaglianze all’interno della famiglia. Talvolta portano a confondere tra
ineguaglianza e povertà, come ha dimostrato uno studio comparato condotto sui
consumi individuali e familiari. In particolare, la normale inchiesta nelle famiglie non
permette la diretta misurazione dei livelli di consumo e di reddito delle donne (Haddad e
Kanbur, 1990).
Le valutazioni della povertà basate invece su indicatori sociali quali l’aspettativa di vita
alla nascita, il tasso di mortalità infantile, l’accesso alla scolarizzazione possono
mascherare disparità regionali e l’incidenza delle malattie trasmissibili, spesso più alta
tra i poveri, a fronte di un accesso all’assistenza sanitaria certamente più difficile. Basti
ricordare che solo un quinto delle nascite del 20% più povero della popolazione
mondiale è avvenuto con l’assistenza di uno staff medico a fronte dei 3/4 del 20% più
ricco (World Bank 1999a), e la sproporzione della diffusione dell’HIV/AIDS tra paesi
poveri e paesi ricchi.
Se si considera invece non il consumo, ma la sua assenza, vi sono due differenti
modelli di deprivazione. Il modello fisiologico di deprivazione, centrato sul non
soddisfacimento di fondamentali bisogni materiali o biologici (alimentazione inadeguata,
salute, educazione ecc.) comporta la definizione della soglia di povertà, ma i metodi per
calcolare questa linea non fanno unanimità.
A questo modello si contrappone il modello sociale di deprivazione, che rifiuta la
rappresentazione del benessere in termini di soddisfacimento di bisogni materiali. E
anch’esso conosce una pluralità di approcci, i più rilevanti sono l’human poverty
approach, il social exclusion approach (Rodgers e al., 1995; de Haan 1997) -
recentemente adottato dall’International Institute for Labour Studies presso
l’International Labour Organization - e il participatory approach, che chiede alle stesse
persone di identificare i più poveri nella loro comunità, e permette di stabilire un
Participatory Wealth Ranking.
Un termine di valutazione della povertà e della ricchezza non è un valore astratto, ma è
uno strumento concreto di analisi. È necessario distinguere chi è povero in un contesto
di povertà generalizzata.

1. PRODOTTO INTERNO LORDO


Uno degli indicatori più utilizzati per misurare il grado di sviluppo di un paese è il
prodotto interno lordo (PIL).
Il Prodotto Interno Lordo (PIL) è il valore complessivo dei beni e servizi prodotti
all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (indipendentemente dalla
nazionalità di chi li produce) destinati ad usi finali (consumi finali, investimenti,
esportazioni nette); non viene quindi conteggiata la produzione destinata ai consumi
intermedi, che rappresentano il valore dei beni e servizi consumati e trasformati nel
processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi.
Il PIL può quindi essere calcolato come:

110
a. la produzione totale di beni e servizi dell'economia, diminuita dei consumi
intermedi ed aumentata delle imposte nette sui prodotti (aggiunte in quanto
componenti del prezzo finale pagato dagli acquirenti); tale ammontare è pari alla
somma dei valori aggiunti a prezzi base delle varie branche di attività economica
aumentata delle imposte sui prodotti (IVA, imposte di fabbricazione, imposte sulle
importazioni) e al netto dei contributi ai prodotti (contributi agli olivicultori, alle
aziende comunali di trasporto, ecc.);
b. il valore totale d ella spesa fatta dalle famiglie per i consumi e dalle imprese
per gli investimenti; vale infatti l'identità keynesiana Y = C + G + I + (X − M), dove
Y è il PIL, C sono i consumi finali, G è la spesa dello stato, I gli investimenti, X le
esportazioni e M le importazioni; l'identità vale in quanto la quota del prodotto
destinata alla vendita ma non effettivamente venduta si traduce in un aumento
delle scorte, che sono una componente degli investimenti;
c. la somma dei redditi dei lavoratori e dei profitti delle imprese; nell'attività produttiva
si sopportano, infatti, costi per l'acquisto di beni e servizi da consumare o
trasformare (i consumi intermedi) e costi per la remunerazione dei fattori produttivi
lavoro e capitale; la produzione al netto dei consumi intermedi coincide quindi con
la somma delle retribuzioni dei fattori.
Gli indicatori standard sono rappresentati dal Prodotto Nazionale Lordo (PNL), dal
Prodotto Interno Lordo (PIL) e dal reddito disponibile nazionale (Yn).
Il PNL designa il valore totale, in moneta, dei beni e servizi finali prodotti da un paese in
un determinato anno. E’ la somma di tutti i consumi finali, gli investimenti lordi, gli
acquisti pubblici di beni e servizi e le esportazioni nette.
Il reddito disponibile nazionale è composto dalla somma di consumo più risparmio. Il
reddito designa quindi il totale delle entrate monetarie di una persona durante un anno.
E’ì quindi un dato di flusso. Il reddito include i salari e le entrate da lavoro, il reddito da
proprietà comprendente le rendite, gli interessi e i dividenti, i trasferimenti o pagamenti
ricevuti dalla PA (pensioni, CIG, ecc.). E’ quindi un dato di flusso.
La ricchezza è un dato di stock, è costituita dal valore monetario netto delle attività
possedute in proprietà in una determinata data. Tutte le voci che hanno un valore sono
dette attività mentre quelle costituite da debiti sono dette passività. La differenza tra il
totale delle attività e delle passività è detto patrimonio netto o ricchezza.
La Banca Mondiale valuta lo stato economico di un Paese esclusivamente in base al
reddito pro capite, in particolare:
– reddito basso ovvero meno di 825 $;
– reddito medio basso compreso tra 826 e 3255 $;
– reddito medio alto compreso tra 3256 e 10065 $;
– reddito alto oltre 10066 $,
Bassi livelli di reddito spesso corrispondono a bassi livelli di sviluppo

111
L’utilizzazione del PIL per la valutazione dei divari di sviluppo non tiene conto della
distribuzione del reddito e e della qualità della vita e non permette valutazioni sul
potenziale dinamico economico di lungo periodo.

112
2. I LIMITI DELL’INTERPRETAZIONE DEI DIVARI SECONDO LACRESCITA
Non è stata solo la teoria della growth ad apparire inadeguata. Molti dei modelli
sociologici elaborati negli ultimi decenni, da quello dello struttural-funzionalismo a quello
più recente del capitale sociale (vedi Capitolo ad esso dedicato), sono sembrati più
adatti a comprendere i diversi percorsi di sviluppo delle varie società, che a fornire
obiettivi e strumenti per un’azione hic et nunc sul sottosviluppo. La corrente di studi
marxisti sullo sviluppo, a sua volta, non solo ha insistito sulla sola dimensione
economica, ma con il suo approccio storico e macro, la sua pesante eredità
unifattoriale, la sua inadeguatezza di fronte alla varianza empirica delle situazioni di
sottosviluppo, si è dimostrata più adatta ad analisi politiche complessive che ad
interventi specifici per alleviare le condizioni di sottosviluppo.
È sulla base di considerazioni simili che intorno agli anni ’80 alcuni economisti come
Paul Streeten – seguendo anche i suggerimenti avanzati da lo ILO – proponevano di
“detronizzare il GNP” e di riorientare la politica dello sviluppo secondo il concetto
fondamentale dei “basic needs”. Con questa espressione si intendeva affermare che i
“bisogni di base” di tutti dovrebbero essere soddisfatti prima che i bisogni meno
essenziali di pochi siano presi in considerazione. In questa nuova e per certi versi
rivoluzionaria prospettiva, obiettivo dello sviluppo dovrebbe essere riuscire ad offrire a
tutti gli esseri umani l’opportunità di una vita piena (full life). In questo senso, non è
tanto importante l’aumento della ricchezza e neppure la riduzione delle disuguaglianze,
quanto piuttosto specifiche realizzazioni, come lo sradicamento di certe malattie,
l’abbattimento dei tassi di mortalità infantile, l’istruzione delle donne.

113
Un’ulteriore prospettiva di studio e di ricerca sui problemi del sottosviluppo era aperta,
sempre negli anni ’80, da un altro economista, Amartya Sen. Si tratta di una prospettiva
convergente, anche se non coincidente, con quella dei “basic needs”. Anche nel caso di
questa ulteriore prospettiva, la motivazione di fondo è la insoddisfazione nei confronti
dell’approccio neoclassico. Sen fa notare come l’economia contemporanea si sia
concentrata sulla misurazione della “utilità” individuale, guardando a questa ultima
come sinonimo di tutto ciò che l’individuo può massimizzare e il primo luogo del suo
“well being”, senza però chiedersi come questa utilità sia giudicata. In definitiva, alla
sempre più esatta formulazione di modelli economici ha corrisposto, secondo Sen, una
grande inesattezza del loro oggetto di analisi. Per superare tutto ciò, Sen propone di
non guardare solo all’aspetto “well being” ma di considerare anche l’aspetto
“advantage”, ossia le reali opportunità che una persona possiede a confronto con quelle
possedute da altri.3 Questa prospettiva permetterebbe di guardare ai problemi dello
sviluppo in un modo che fa emergere dimensioni sostanziali, come quelle legate alla
disuguaglianza nell’accesso alle opportunità, alle discriminazioni di sesso, di razza e di
classe sociale, agli standard di vita. Ponendosi nella prospettiva indicata, Sen fa notare,
a livello empirico, come l’incidenza dell’istruzione superiore in India sia otto volte più
alta che in Cina (1980- 81); ma, al tempo stesso, la percentuale di alfabetizzati in Cina è
il doppio di quella dell’India. Ciò vuole dire che le classi superiori in India dispongono
comparativamente di elevate “opportunità” di ottenere una istruzione universitaria; ma,
in una società decisamente elitista come quella indiana, questo si accompagna ad una
marcata carenza di opportunità per le classi inferiori, che non raggiungono neppure il
livello minimo della alfabetizzazione.
Più in generale, e quindi al di là dell’aspetto “advantage”, Sen ritiene che il “well being”
di una persona deve essere valutato in relazione ad una serie di sue funzionalità
(“functionings”), che sono costituite da aspetti relativi all’essere e al fare.
Tali funzionalità variano da aspetti elementari, come essere adeguatamente nutrito,
essere in buona salute, potere evitare malattie e mortalità prematura, fino a funzionalità
ben più complesse come essere felici potere apparire in pubblico senza vergogna,
potere prendere parte alla vita della comunità e così via. Si tratta evidentemente di una
lista di aspetti eterogenei, che comprende stati eminentemente soggettivi (come sentirsi
felici) insieme ad altri chiaramente oggettivi (avere assunto sufficiente nutrimento);
interessi culturalmente universali (essere in buona salute) insieme ad altri che
possiedono probabilmente una rilevanza maggiore in certe culture (come il non dovere
vergognarsi). Tale eterogenità, a nostro avviso, è in parte bilanciata dall’esistenza del
concetto di capacità (“capability”), che Sen considera come interrelato con il concetto di
funzionalità. Capacità è costituita dalla combinazione di funzionalità che un soggetto
può realizzare. Capacità in questo senso rappresenta il diritto della persona a scegliere
particolari combinazioni di funzionalità come espressione della sua libertà. Libertà di
scelta è in definitiva inseparabile dalle funzionalità e conferma l’affermazione di Rawls
che l’idea di diritto è superiore a quella di bene. Sen sottolinea d’altra parte come le
analisi dello sviluppo centrate sul
possesso di beni presuppongono che i beni possiedano certe caratteristiche, ma non
tengono nella giusta considerazione le diverse “capacità” che gli individui hanno di
utilizzare questi beni. Così, ad esempio, ciò che è alimentazione adeguata per un
individuo normale, non lo è per uno che soffre di malattie parassitarie dell’intestino.8

114
Da qui, l’importanza del concetto di “capabilities” e della libertà di scelta per
comprendere l’effettivo funzionalità dell’individuo.
Dal 1990, questi concetti di “capabilities” e di “opportunities”, insieme a quello di “basic
needs”, divengono gli strumenti di una nuova pubblicazione annuale dell'agenzia delle
Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), lo Human Development Report. La pubblicazione
si propone fin dall’inizio di ricollocare la persona al centro del concetto di sviluppo,
evitando qualsiasi approccio che consideri gli esseri umani come essenzialmente
creature economiche. Pertanto, mentre si riconosce che la crescita economica è
necessaria per realizzare gli obiettivi umani essenziali, l'agenzia ritiene che è
fondamentale studiare come tale crescita si traduce, o non si traduce, in sviluppo
umano: cioè in un concetto che ingloba una vita lunga e sana, istruzione, libertà
politiche, sicurezza personale, rispetto dei diritti umani, e più complessivamente
l’utilizzazione e l’espansione delle “capabilities” umane.
Una posizione che ha caratterizzato fin dall'inizio UNDP è stata quella di ritenere che la
growth determina effettivo sviluppo umano solo nella misura in cui essa è
accompagnata da una azione pubblica rivolta a contenerne gli aspetti negativi e a ri-
indirizzare i benefici prodotti.
In questo senso sforzi vigorosi devono essere fatti per evitare una growth "jobless,
ruthless, voiceless, rootless and futureless". Una "jobless growth" è una crescita in cui
lo sviluppo economico complessivo non espande le opportunità di occupazione. Una
"ruthless growth" è una crescita in cui i benefici vanno soprattutto a beneficio dei ricchi,
aumentando la povertà delle masse.
Una "voiceless growth" è una crescita che non è accompagnata da una espansione
delle forme democratiche e della distribuzione del potere; è, in altre parole, una crescita
che potremmo fare rientrare nel modello dello "sviluppo dall'alto", ossia lo sviluppo
imposto con forme autoritarie così bene descritto da Barrington Moore.
Una "rootless growth" è a sua volta una crescita che va a scapito della identità culturale
della società: secondo UNDP, questa crescita è esemplificata dalla disastrosa eredità
dell'impero sovietico, che basava i suoi equilibri sulla violenta imposizione di un modello
culturale alieno almeno a molte delle società – viene spontaneo il riferimento alle
società a tradizione islamica – che facevano parte dell'impero stesso. La "rootless
growth" è qualcosa che assomiglia sia al "mutamento degenerativo" che alla "crescita
senza sviluppo" di George Dalton. Ci sembra utile ricordare a questo proposito come
storicamente "voiceless growth" e "rootless growth" tendano a sovrapporsi. Infine, la
"futureless growth" è la crescita che distrugge le opportunità di uno sviluppo futuro
attraverso un dissennato sfruttamento delle risorse disponibili – terra, acqua, foreste –
un inquinamento dell'ambiente, la distruzione della bio-diversità. È la crescita che
impedisce il sustainable development, ossia il mantenimento del livello di sviluppo.
L’agenzia propone, tra l’altro, un indicatore complessivo di sviluppo (lo Human
Development Index), che accanto alla misura del reddito pro capite a parità di potere
d’acquisto (PPP) – significativamente modificato in modo da ridurre il suo peso nel caso
dei paesi più ricchi – utilizza altri due parametri ritenuti di massima rilevanza per lo
sviluppo umano: la speranza di vita e l'istruzione. Lo HDI è destinato ad una
comparazione dello sviluppo umano tra i vari paesi e ad un monitoraggio della sua
evoluzione nel tempo. Al tempo stesso, l'agenzia offre una serie di analisi e
comparazioni su aspetti ritenuti fondamentali per il concetto di sviluppo umano, quali

115
in particolare la riduzione della povertà e della mortalità infantile, l'aumento della
speranza di vita, il superamento del gap tra istruzione maschile e femminile. Su questi
aspetti, UNDP non solo fornisce del resto comparazioni internazionali, ma presenta
anche i risultati di studi a livello nazionale o regionale. Le pubblicazioni dell'agenzia
divengono rapidamente il punto di riferimento internazionale per la nuova prospettiva
dello sviluppo umano e contribuiscono significativamente alla diffusione degli studi
correlati e a politiche di intervento coerenti con questi presupposti, influenzando
chiaramente anche altre istituzioni, come la World Bank, più legate alla logica della
growth.
Come nel caso del dibattito sulla globalizzazione, anche per quanto riguarda l'approccio
dei "basic needs" e delle "opportunities" una valutazione empirica della evoluzione del
quadro dello sviluppo – alla luce degli stessi parametri usati da questo approccio –
mette in rilievo luci ed ombre. A differenza del dibattito sulla globalizzazione, però, qui i
parametri sono più chiaramente individuati – proprio per via della propensione a
focalizzare gli aspetti empirici – e la valutazione presenta meno incertezze.
Attorno agli anni ’70 sembrava che i tempi fossero maturi per passare da una visione
fondata sull’identità crescita=sviluppo, ad una che riconoscesse, in qualche modo,
l’autonomia dei due concetti, certamente legati tra loro ma non necessariamente in
modo diretto e conseguente come si era sempre assunto. La percentuale di crescita del
prodotto nazionale, pur mantenendo ancora un ruolo centrale come indicatore di
sviluppo, non doveva più essere il solo, incontrastato protagonista.
Si apriva però il problema di cosa fosse lo sviluppo, verso quali nuovi obiettivi dovesse
rivolgersi l’attenzione dei governi e degli studiosi.
Per alcuni, l’idea di sviluppo doveva collegarsi ad una strategia dei bisogni fondamentali
(basic needs). La strategia suggerita ad ogni paese era quella di garantire uno standard
minimo ai gruppi più poveri della popolazione (teoria dei basic needs).
Questo standard doveva coprire, attraverso un reddito minimo, i bisogni primari di una
famiglia per quanto riguarda cibo, abitazione, vestiario, ma anche servizi essenziali
quali "la disponibilità di acqua potabile, l’igiene pubblica, i trasporti, le cure mediche,
l’istruzione, oltre che un impegno adeguatamente remunerato per chiunque voglia
lavorare" (ILO, 1976).
La teoria dei basic needs è stata poi riveduta e riformulata a metà degli anni Ottanta da
parte di due economisti dello sviluppo, Paul Streeten e Francis Stewart, i quali
richiamarono l’attenzione sulla necessità di attuare politiche di lotta alla povertà basate
sul trasferimento di beni e servizi, soprattutto nel campo della sanità e della scuola, oltre
che sul reddito. L’obiettivo più generale è quello di garantire il raggiungimento di uno
"stato di vita piena" per tutti e non soltanto una data soglia di reddito.
Questa visione dello sviluppo segna un punto di svolta piuttosto radicale rispetto allo
scenario delineato dalle teorie della crescita economica.
Un primo aspetto innovativo è legato al fatto che essa sposta l’attenzione dagli
indicatori economici (PIL o PNL) riferiti ad un’intera collettività, alla singola condizione
individuale: l’intento è quello di sfuggire il rischio che dietro a valori complessivi o medi
si nascondano profonde diseguaglianze.
La seconda innovazione consiste nel fatto che, mentre le teorie tradizionali della
crescita ponevano l’innalzamento delle condizioni sociali e il soddisfacimento dei
bisogni fondamentali degli individui a valle del processo di crescita, la teoria dei basic

116
needs ribalta completamente la prospettiva: è attraverso il soddisfacimento dei bisogni
umani che si può pensare di favorire la crescita economica. La terza novità consiste nel
fatto che la politica di lotta alla povertà viene impostata in termini soprattutto di beni e
servizi più che di reddito.

3. L’INDICE DI SVILUPPO UMANO


Lo sviluppo umano è, secondo la definizione dell’UNDP, «un processo di
ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita
lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di
vita dignitoso», nonché di godere di opportunità politiche economiche e sociali che li
facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza. Gli
obiettivi generali dello sviluppo umano sono:
 promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in particolare la
situazione economica delle persone in difficoltà;
 migliorare la salute della popolazione, con attenzione prioritaria ai problemi più
diffusi e ai gruppi più vulnerabili;
 migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e
all’educazione allo sviluppo;
 promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al
diritto alla partecipazione democratica;
 migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e
ridurre l’inquinamento.

Al posto degli indicatori che si riferiscono alla sola crescita economica (come il
prodotto nazionale lordo), che nulla dicono degli squilibri e delle contraddizioni che
stanno dietro alla crescita, l’U.N.D.P. utilizza dal 1990 un nuovo indicatore di
sviluppo umano (ISU o HDI nell'acronimo inglese). L’indice di sviluppo umano tiene
conto dei seguenti fattori:
 il reddito, rappresentato dal prodotto interno lordo (Pil) individuale, dopo una
trasformazione che tiene conto sia del potere di acquisto della valuta, sia del
fatto che l’aumento del reddito non determina un aumento del benessere in
modo lineare (l’aumento di benessere è molto maggiore quando il Pil passa da
1000 a 2000 dollari che quando passa da 15.000 a 16.000).
 Il livello di sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita.
 Il livello d’istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetizzazione degli adulti
(moltiplicato per due) e dal numero effettivo di anni di studio.

Per ogni Paese, ognuno di questi 3 fattori è espresso da un numero compreso tra 0
e 1, dove 0 corrisponde al valore fissato più basso e 1 al valore fissato più alto. Il
numero è calcolato in base alla formula: (VP-vm)/(VM-vm) in cui VP = valore
osservato nel Paese; vm = valore minimo; VM = valore massimo. La media dei 3
valori ottenuti è chiamata indice di sviluppo umano.
L’IHDI permette di evidenziare come il legame tra sviluppo economico e sviluppo
umano non è automatico, né ovvio, sebbene oltre certi livelli di reddito, sia difficile
avere un HDI basso. Solo alcuni dei Paesi di nuova industrializzazione sono riusciti a

117
collegare crescita economica, occupazione e crescita nello sviluppo umano. Negli
ultimi 20 anni, quasi tutti i Paesi hanno compiuto passi in avanti – in particolare il
Terzo mondo ha ottenuto notevoli miglioramenti – nello sviluppo umano, ma lo hanno
fatto con velocità diseguale e in connessione abbastanza diretta con le politiche che i
Paesi intraprendono per migliorare il benessere dei propri cittadini.
Rispetto all’HDI, l’Indice di povertà umana (IPU) serve a misurare la distribuzione dei
risultati ottenuti in termini di sviluppo umano. Un elevato sviluppo umano può essere
raggiunto anche da chi non ha reddito altrettanto elevato, se il Paese riesce a
utilizzare oculatamente le proprie risorse per il soddisfacimento dei bisogni primari.
Viceversa, Paesi con elevato reddito possono avere uno sviluppo umano non elevato
L’UNDP, una volta analizzati gli aspetti negativi della globalizzazione, indica tre piste
di lavoro per far sì che essa si concili con le esigenze dello sviluppo umano. Per
ciascun Paese si rendono necessari i seguenti provvedimenti: catturare le
opportunità offerte da commercio, flussi di capitale e migrazioni; proteggere gli
individui dalle vulnerabilità provocate dalla globalizzazione; superare la restrizione
delle risorse a disposizione dello Stato.
L’esclusione sociale è un risultato dello sviluppo a scarso contenuto umano. Perciò,
non si può parlare di sviluppo umano senza valutare il grado di esclusione sociale
che lo accompagna. I diritti civili, politici, culturali e sociali sono indispensabili per uno
sviluppo umano sostenibile. I diritti umani e lo sviluppo umano non possono essere
realizzati universalmente senza una maggiore iniziativa internazionale, specialmente
a sostegno dei Paesi e degli individui svantaggiati e volta a superare le crescenti
disuguaglianze globali e l’emarginazione. Tra coloro che intendono perseguire lo
sviluppo umano, c’è chi guarda all’individuo come fine in sé e chi vi vede un metodo
per aumentare il rendimento delle risorse umane, intese come capitale umano.
Nascono quindi alcuni dilemmi: a es. nella liberazione della donna ci guadagnano
tutti o sono in gioco interessi contrastanti?
I Rapporti sullo sviluppo umano, pubblicati dall'UNDP dal 1990 dunque classificano i
paesi secondo il loro Indice di sviluppo umano, costruito sulla base di tre indicatori a
livello nazionale: speranza di vita, grado di istruzione (istruzione degli adulti e
iscrizioni alla scuola elementare-media-superiore), media del PIL pro capite
(espresso in "dollari internazionali" vale a dire in termini di parità di potere d'acquisto
con il dollaro = PPP$). Ad ognuno di questi tre fattori è dato peso uguale per il
calcolo dell'indice ISU. Il valore dell'ISU, compreso tra 0 e 1, indica quanto ciascun
paese si è avvicinato ai seguenti obiettivi: 85 anni di speranza di vita Accesso
all'istruzione per tutti Livello decente di reddito
Il valore teorico massimo dell'indice (ISU = 1) significa che il paese ha conseguito
tutti gli obiettivi. Le misure utilizzate per ciascuna variabile sono: La longevità
misurata attraverso la speranza di vita alla nascita. Il livello di istruzione misurato da
una media ponderata di alfabetizzazione degli adulti (due terzi) ed il tasso di
iscrizione alle scuole elementari-medie-superiori (un terzo). Il livello di vita misurato
attraverso la parità di potere di acquisto espresso in dollari USA (PPP$).
Lo sviluppo umano rappresenta, in questo modo, un obiettivo per la società, motivo
per cui sorge il problema di come i processi di crescita economica - intesa come
aumento del PIL pro capite - possano essere funzionali a tal fine e come lo stesso
sviluppo umano possa tradursi anche in maggiore crescita economica.

118
Lo sviluppo umano è diventato così in questi ultimi anni l'obiettivo di programmi,
politiche e linee guida della cooperazione allo sviluppo.

L'Indice di sviluppo umano (HDI-Human development index) è quindi un indicatore di


sviluppo macroeconomico realizzato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq (Human
Development in South Asia 2006: Poverty in South Asia: Challenges and Responses, 1990).
Sono numerosi gli aspetti innovativi introdotti dall’HDI rispetto ad una valutazione dello
sviluppo effettuata con il PIL:
– si supera l’interpretazione dello sviluppo come crescita economica e si introduce
un paradigma che tiene conto dell'ambiente in cui le popolazioni vivono;
– si fonda su quattro pilastri: eguaglianza (lo sviluppo umano è un ampliamento
delle opportunità); sostenibilità (il processo di sviluppo deve essere capace di
garantire la riproduzione del capitale fisico, umano e ambientale utilizzato);
partecipazione (i processi economici, sociali e culturali attivati per promuovere lo
sviluppo devono osservare la partecipazione dei beneficiari stessi); produttività
(all'interno del processo economico di sviluppo ognuno deve avere la possibilità di
partecipare alla di produzione dei redditi e di incrementare la propria produttività).
Il diverso approccio adottato dall’UNDP riflette una diversa visione del sottosviluppo
all’interno delle organizzazioni internazionali: attenzione sulla crescita economica
identificandola con lo sviluppo e focalizzazione sulle conseguenze sociali dello sviluppo.
Per questi ultimi il vero obiettivo dello sviluppo dovrebbe essere quello di creare un
ambiente in grado di consentire una vita piu’ lunga, sana e creativa. Sebbene questo
possa apparire come una semplice verità, spesso è dimenticata a causa della
preoccupazione contingente di accumulare merci e ricchezza.
Il concetto di sviluppo umano è stato spesso frainteso ed è stato confuso con altri
concetti e approcci allo sviluppo quali:
– La crescita economica che è uno dei mezzi e non il fine dello sviluppo.
– Le teorie sulla formazione del capitale umano e sullo sviluppo delle risorse
umane che considerano gli esseri umani come strumenti per aumentare il
reddito e la ricchezza piuttosto che come fine ultimo
– L'approccio del benessere che considera gli esseri umani piu’ come beneficiari
che come protagonisti del processo di sviluppo;
– L'approccio delle necessità di base che si preoccupa soprattutto sull’insieme di
beni e servizi che le popolazioni piu’ povere necessitano (il cibo, l’alloggio i
vestiti, la sanita’ e l’acqua). L’accento e’ quindi posto sulla fornitura di questi
beni e servizi piuttosto che sulle loro implicazioni per lo sviluppo umano.

I Rapporti sullo sviluppo umano classificano i paesi secondo l’indice di Sviluppo Umano
(HDI).
Nei primi anni in cui il rapporto e' stato pubblicato, il valore minimo di ognuna della
variabili era determinato dal livello del paese piu' povero, e il valore massimo da quello
del paese con il valore piu' alto. Il HDI per un determinato paese rappresentava, perciò,
la sua posizione relativa. Naturalmente, il valore minimo e quello massimo cambiavano
ogni anno a seconda dei risultati ottenuti dai paesi che si trovavano ai due estremi della
scala. Il problema di base con lo spostamento dei valori di riferimento è che preclude la
possibilita' di comparazioni in anni differenti di quelli della rilevazione.

119
Il rapporto del 1994 ha introdotto un correttivo importante nella metodologia utilizzata
per costruire l'HDI, in quanto sono stati fissate delle soglie di riferimento fisse per
permettere la comparazione dei dati nel tempo.
Il minimo e massimo valore delle quattro variabili di base dei rapporti del 1994 e del
1995 è lo stesso. Il numero di paesi per i quali viene calcolato l’HDI è cresciuto da 125
nel 1990 a 175 nel 1997.
Le principali fonti di dati per il calcolo di HDI sono: UN Population Division - New York;
UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) – Parigi;
World Bank – Washington; FAO (Food and Agriculture Organization) – Roma; ILO
(International Labor Organization) – Ginevra; OECD (Organization for Economic
Cooperation and Development) – Parigi; UNFPA (United Nations Fund for Population
Activities) - New York; WHO (World Health Organization) – Ginevra.
Alcune delle critiche piu’ frequentemente avanzate all’HDI riguardano il fatto che un
indice complessivo tende piu' a nascondere che a rivelare. Il HDI è stato criticato anche
perché le tre prime revisioni nella metodologia adottata per la sua costruzione hanno
comportato che i risultati non siano completamente comparabili nel tempo.
Date le carenze delle serie di dati, specialmente nella maggior parte dei paesi in via di
sviluppo le critiche della struttura concettuale e della costruzione tecnica del HDI
possono sembrare secondarie per molti osservatori.
La discussione sul HDI si e' concentrata su cinque problemi: scelta delle dimensioni;
scelta degli indicatori; errore nella misurazione e dati; ponderazioni tra i dati.
Sulla scelta di dimensioni, il HDI è stato criticato per trascurare i diritti umani (Dasgupta
1990 e Pyatt 1992) e perché non contiene indicatori relativi a libertà, ambiente e cultura.
Hamilton (1993) ha sostenuto la necessita’ dell’inclusione nell'indice di una valida
dimensione ambientale. Il HDI è stato criticato anche per non prendere in
considerazione entità quali la comunità e l’autonomia (Murray 1991).
(Circa gli indicatori, si è osservato che: i) per quanto riguarda la speranza di vita, alcuni
hanno sostenuto che la speranza di vita puo’ essere spiegata da reddito e tasso di
mortalità infantile (Pyatt 1991); ii) riguardo al grado di istruzione, Lind (1991) ha
argomentato che quello l’alfabetizzazione degli adulti o il numero medio di anni di
istruzione non sono in grado di dare un’idea del grado di istruzione conseguito; iii)
noltre, l’HDI non è risultato essere particolarmente sensibile alla definizione della soglia
di poverta’ (Kelley 1991). La critica principale riguarda il fatto che il peso del reddito
addizionale al di sopra della soglia di povertà è molto ridotto (Trabold-Nubler 1991); iv)
sul problema di robustezza di HDI rispetto agli errori della misurazione, McGillvray e
Bianco (1992) hanno esaminato la sensibilità delle classificazioni del rango all’interno
dell’HDI ad errori della misurazione dei dati che ne sono alla base. Il HDI è stato trovato
essere estremamente robusto all'errore della misurazione fra il range di -5 e +5
percento. I problemi legati alla qualita’ dei dati sono stati ampiamente discussi da
Srinivasan (1994) e da Mintcheva-Ivanova. e altri (1994); v) il problema del peso uguale
dei vari componenti adottato per la costruzione dell’indice è stato criticato da Kelley
(1991). Tatlidil (1992) ha eseguito un'analisi della componente principale (PCA) sui dati.
Mintcheva-Ivanova (1994) ha esaminato le varie questioni concernenti la validità
dell'HDI. Circa la validità della struttura dell'HDI, ha concluso che il HDI non da' piu'
informazioni sul rango dei Paesi di quante non ne dia ognuno dei suoi componenti.
Secondo la studiosa, classificando i Paesi solo sulla base della speranza di vita, o una

120
combinazione di grado di istruzione e PIL o sulla base del HDI, si raggiungono
classificazioni simili. Questa conclusione è indipendente dalla ponderazione assegnata
ai vari componenti. Secondo, sulla validità della discriminazione del HDI, la capacita'
dell'indice esistente di misurare lo sviluppo umano varia col livello del reddito di un
paese. La sua capacita' di discriminare fra paesi che si trovano nella parte alta o in
quella bassa dell'HDI è equivalente a quello di altri indici di sviluppo. Terzo, visto che il
HDI non è stato creato per fare previsioni ma per misurare direttamente il livello di
sviluppo umano nel paese, non puo' essere valutato per la sua capacita' a fornire
previsioni.
Gli indicatori presentati nei Rapporti sullo sviluppo umano hanno comunque il vantaggio
di essere semplici di richiedere solo una conoscenza di base di dati statistici e di
matematica. Sono facilmente comprensibili dai non-specialisti e possono attirare
maggiore attenzione verso le questioni dello sviluppo umano da parte dei "policy
makers".
Va sottolineato che le numerose critiche avanzate nei confronti dell’indice. sono
soprattutto di natura tecnica e raramente prendono in considerazione la valenza politica
dell’indice.
Uno dei possibili contributi che l’UNDP potrebbe dare nei prossimi anni attraverso la
continuazione della pubblicazione dei Rapporti riguarda il miglioramento dei dati di
base. Attraverso i suoi uffici che si trovano in quasi tutti i paesi in via di sviluppo l’UNDP
potrebbe approfondire come i governi e le altre fonti abbiano effettuato le stime dei dati
forniti dagli uffici statistici nazionali e internazionali. Questo potrebbe aiutare gli studiosi
di statistica che preparano l'HDI ad individuare quelle variabile che risultano
palesemente non comparabili fra loro. I rapporti potrebbero contenere tavole con note
molto più informative e precise circa le fonti dei dati, le loro limitazioni e quanto le
modifiche dei valori degli indicatori nel tempo riflettano i veri trend o siano soltanto
dovute alle revisioni delle serie statistiche.
Osservando alcuni degli aspetti più importanti della vita e delle opportunità della gente,
l’HDI fornisce un’ immagine di un certo interesse sullo sviluppo del paese. Ad esempio,
paesi con lo stesso livello di HDI possono avere livelli di reddito e di aspettativa di vita
molto differenti.

GDP = PIL

121
Fin dalla metà degli anni ‘70 quasi tutte le regioni hanno registrato un incremento del
proprio HDI

L'Asia orientale e l’Asia meridionale hanno avuto una crescita accelerata dal 1990. I
Paesi dell'Europa Centrale, Orientale ed i Paesi del Commonwealth, a seguito di un
declino catastrofico nella prima metà degli anni 90, si sono riallocati al livello precedente
la recessione.
L’eccezione maggiore è rappresentata dall’Africa sub-sahariana. Dal 1990 in fase di
ristagno, parzialmente a causa della recessione economica ma principalmente a causa
dei catastrofici effetti della diffusione di HIV/AIDS sulle misure di aspettativa di vita.

L’ HDI misura il progresso medio di un paese nel raggiungimento dello sviluppo umano.
L'Indice di Povertà Umana per paesi in via di sviluppo (HPI-1), è incentrato sulla
proporzione di persone al di sotto del livello limite nelle dimensioni base dello sviluppo
dell'indice HDI: longevità, istruzione e tenore di vita.
Andando oltre la povertà di reddito, il HPI-1 rappresenta un alternativa
multidimensionale alla misura di povertà rappresentata dal numero di persone che
vivono con meno di 1 USD al giorno (PPA US$).
L’ HPI-1 misura gravi carenze nella sanità in base al numero di persone la cui
aspettativa di vita non supera i 40 anni. L’istruzione è misurata dal tasso
dell'analfabetismo adulto. Ed il tenore di vita è misurato dalla media di persone
sottopeso senza accesso ad una fonte d'acqua potabile e il numero di bambini
sottopeso con età inferiore a i 5 anni rispetto al normale peso.
L’ HDI misura i miglioramenti medi in un paese, ma non comprende il grado dello
squilibrio di genere in questi miglioramenti.
L’indice di sviluppo relativo al genere (GDI), introdotto nello Human Development
Report 1995, misura i progressi nello sviluppo umano nelle stesse dimensioni dell’HDI
ed usando gli stessi indicatori del HDI, ma fotografa le disparità nei progressi tra donne
e uomini.

122
È semplicemente una calibratura dell’ HDI per disuguaglianze di genere. Più grande è
la disparità di genere nello sviluppo umano di base, più basso è il relativo indice GDI del
paese in relazione al suo HDI.

4. ALTRI INDICI PER LA MISURAZIONE DEL SOTTOSVILUPPO


4.1. Indice del grado di povertà (HPI)
L'HPI è stato elaborato dall'ONU per misurare il grado di povertà di una nazione.
Il Rapporto sullo sviluppo umano del 1997 ha introdotto per la prima volta un indice di
povertà umano (HPI) che valuta se gli individui all'interno delle loro società dispongano
o meno delle opportunità necessarie per condurre una vita lunga e sana e per godere di
un tenore di vita decente. Lo sviluppo, in termini di qualità, viene quindi giudicato per la
prima volta a partire dall'ottica dei poveri, nel senso che i parametri utilizzati sono quelli
dell'esclusione. Il Rapporto sullo sviluppo umano del 1996 aveva gia’ tentato qualcosa
di simile attraverso una particolare versione della misura della "capability poverty
measure".
Il HPI persegue con lo stesso approccio e si concentra su una gamma più ampia e più
rappresentativa di variabili.
Piuttosto che povertà in termini di reddito, l’HPI usa indicatori delle dimensioni più di
base della privazione, o della esclusione: una vita breve, la mancanza di istruzione di
base e la mancanza di accesso alle risorse pubbliche e private. L’HPI si concentra sulla
privazione nei tre elementi essenziali di vita umana gia’ riflessi nel HDI: longevità,
istruzione e un standard di vita decente.
 La prima privazione si riferisce alla sopravvivenza: l’esposizione alla morte ad una
eta’ relativamente bassa e’ rappresentata nell’HPI dalla percentuale di persone
che si prevede muoiano prima dei 40 anni.
 La seconda dimensione riferisce alla conoscenza vale a dire l’esclusione dal
mondo della lettura e della comunicazione che viene misurata dalla percentuale di
adulti che sono analfabeti.
 Il terzo aspetto riferisce allo standard di vita decente, in particolare all’insieme
delle attivita’ necessarie per conseguire tale standard. Questo aspetto è
rappresentato dall’unione di tre variabili: la percentuale di persone con accesso ai
servizi sanitari, la percentuale di persone con accesso all’acqua potabile, e la
percentuale di bambini malnutriti al di sotto dei cinque anni.
Tra i 78 paesi per i quali è stato calcolato l'HPI, Trinidad e Tobago, Cuba, Cile,
Singapore e Costa Rica presentano i risultati migliori, nel senso che la povertà è stata
ridotta a meno del 10% dell'intera popolazione. I paesi che hanno evidenziato l'HPI più
basso sono Niger, Sierra Leone, Burkina Faso, Etiopia, Mali, Cambogia e Mozambico:
in questi paesi, oltre il 50% degli individui sono vittime della povertà.
L'UNDP ha elaborato altri due indici: l'Indice di povertà umana HPU-1 nei paesi in via di
sviluppo e l'indice di povertà umana HPU-2 nei paesi industrializzati.

123
4.2. ISEW (Index of Sustainable Economic Welfare),
E’ stato sviluppato nel 1989 da Herman Daly e John Cobb. L'ISEW calcola lo sviluppo
di una nazione in termini economici, come il PIL, ma comprende, oltre agli elementi
positivi che lo fanno aumentare, elementi negativi che gli vengono sottratti.
Hanno segno positivo la spesa privata per consumi e investimenti, la spesa pubblica
"buona" (quella per la sanità, per le infrastrutture, per l'istruzione e per l'ambiente) e il
lavoro domestico, mentre vengono sottratti i danni ambientali, l'esaurimento di risorse
non rinnovabili, la perdita di zone umide e di terreni agricoli, le spese per la sicurezza, i
costi connessi a urbanizzazione, pendolarismo e incidenti stradali, il grado di iniquità
nella distribuzione dei redditi. Un indicatore come questo consente di capire meglio
quanto è efficace la nostra organizzazione della produzione, tenendo anche conto dei
costi ambientali e sociali. Ma non ci dice se l'ecosistema sia in grado di sostenere
questa organizzazione, o se la pressione sulle risorse e sull'ambiente risulti troppo forte
e destinata a determinare effetti catastrofici nel lungo termine.

4.3. l'Ecological Footprint,


L’Ecological Footprint è un indice basato sulla sostenibilità ambientale, che calcola
l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse
consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti corrispondenti.

4.4. Indicatore del progresso reale


Il principale indicatore proposto come alternativa al PIL che tiene conto delle principali
critiche poste ad esso, è il Genuine Progress Indicator (GPI), indicatore del progresso
reale".
Il GPI ha come obiettivo la misurazione dell'aumento della qualità della vita (che a volte
è in contrasto con la crescita economica, che viene misurata dal PIL), e per raggiungere
questo obiettivo distingue con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il
benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità,
inquinamento, incidenti stradali).

4.5. Index of Sustainable Economic Welfare


Recentemente è stata sostenuta la proposta, nata nel 1989 da Herman Daly e John
Cobb, di utilizzare un indicatore alternativo al PIL: l'ISEW. In tale indicatore rientrano
non solo il valore complessivo dei beni e dei servizi finali prodotti in un paese, ma anche
i costi sociali e i danni ambientali a medio e lungo termine.
Il calcolo dello sviluppo di un paese non si basa più soltanto sulla mera crescita
economica ma anche su fattori sociali ed ambientali che considerano la soglia dello
Sviluppo Sostenibile.

4.6. Subjective well-being


Un altro indicatore è il “subjective well-being” (SWB) che tende a misurare la percezione
che gli individui hanno della propria vita e del grado di soddisfazione che provano per
essa.
Questo indicatore ha il vantaggio d’essere stato rilevato da diversi decenni e in molti
paesi del mondo. Studi empirici evidenziano che il SWB stenta a crescere nel tempo in
diversi paesi, come il Giappone, o diminuisce, come negli USA, nonostante che il

124
reddito pro-capite abbia avuto una evidente tendenza a crescere. Ciò costituisce per gli
economisti un paradosso, chiamato “paradosso della felicità” o "paradosso di Easterlin",
in quanto il reddito vienme considerato in economia come un buon indicatore di
benessere.

4.7. Il Gender-Related Development Index (GDI) e il Gender Empowerment Measure


(GEM)
Il rapporto del 1995 si e' concentrato sui problemi relativi alla discriminazione fra i sessi.
In quella occasione fu proposto il "gender-related development index" - indice di
sviluppo per genere - (GDI) e il "gender empowerment measure" - indice di
partecipazione delle donne - (GEM).
L’indice di sviluppo per genere GDI (relativo alle discriminazioni fra i sessi) misura i
risultati raggiunti nelle stesse dimensioni e variabili dell’HDI, ma tiene conto delle
diseguaglianze esistenti tra uomo e donna nei risultati ottenuti.
L’indice di partecipazione delle donne (GEM - Gender empowerment measure) indica
se le donne sono messe in condizione di partecipare attivamente alla vita economica e
politica. E’ focalizzato sulla partecipazione e misura le diseguaglianze in settori chiave
della partecipazione alla vita economica e politica e al processo decisionale. Si
differenzia percio’ dal GDI, che e’ un indicatore delle diseguaglianze nelle possibilita’ di
base.
Le critiche che sono state rivolte ai due indici riguardano soprattutto il fatto che riescono
a mettere in luce le discriminazioni esistenti a livello nazionale, ma non forniscono
nessuna indicazione sulle discriminazioni ben piu’ vaste esistenti tra donne che
appartengono a classi sociali o gruppi etnici diversi anche all’interno dello stesso paese.
Nel 1997 il GDI piu’ elevato (riferentesi al 1994) e’ risultato essere quello del Canada
(0,939) seguito dalla Francia (0,926) la Norvegia (0,934) e gli Stati Uniti (0,928). L’Italia
si e’ situata al 21 posto come con un valore di 0,867. Ai livelli piu’ bassi si sono
classificati il Niger (0,193) e Sierra Leone (0,155).

4.8. Criteri di classificazione


Secondo l'l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico od OCSE
sono definiti paesi in via di sviluppo tutti quei paesi compresi nella parte I della lista
stilata dalla stessa organizzazione. Si tratta di paesi con livelli di sviluppo molto bassi,
suddivisi in 5 categorie, in base al livello medio di reddito pro capite:
A. Paesi in via di sviluppo, ulteriormente divisi in
 paesi meno sviluppati (meno di un dollaro al giorno), Least Developed
Countries (LDCs)
 altri paesi a basso livello di reddito (inferiore a 745 $ all'anno nel 2001),
Other Low-Income Countries (Other LICs)
 paesi a basso-medio reddito (tra 746 $ e 2975 $ all'anno), Lower Middle-
Income Countries (LMICs)
 paesi ad un livello di reddito pro capite annuo medio-alto (tra 2976 $ e 9205
$ all'anno), Upper Middle-Income Countries (UMICs)
 paesi ad alto livello di reddito (più di 9206 $ all'anno nel 2001), High-Income

125
Countries HICs). A ciò vanno aggiunti:
B. Paesi in transizione (che fanno parte di una classifica più ampia, come si può
vedere in basso che comprendono):
 Nazioni dell'Europa Centrale e dell'Est, e nuovi stati indipendenti della
precedente Unione Sovietica (CEECs/NIS) (Central and Eastern European
Countries and New Independent States of the former Soviet Union)
 Nazioni e Territori più avanzati tra le nazioni in via di sviluppo, (More
Advanced Developing Countries and Territories)

Una ulteriore classificazione dei paesi è quella del Least Developed Country – LDC
elaborata dall’ECOSOC, definiti in base a:
 basso reddito nazionale (<US $900)
 fragile assetto umano (un indice composito basato su indicatori di salute,
nutrizione ed istruzione)
 alta vulnerabilità economica (un indice composito basato su indicatori di instabilità
dei prodotti agricoli e della esportazione, inadeguata diversificazione e grandezza
economica)

La Banca Mondiale ha effettuato una classificazione in base all'eliggibilità al prestito:


possono accedere ai prestiti da parte della Agenzia Internazionale per lo Sviluppo tutti i
Paesi con reddito inferiore a 1065 $, mentre possono usufruire dei finanziamenti di
Banca Mondiale solo i Paesi finanziariamente affidabili. In pratica la Banca Mondiale
divide i paesi in paesi molto indebitati (SIN), moderatamente indebitati (MIN),
lievemente indebitati (LIN) e non claccificati per l'indebitamento (NIN).
Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno elaborato nel 1996 un
altro progetto di classificazione dei Paesi con alti livelli di povertà e di peso
dell’indebitamento estero, nominati HIPC (Heavily Indebted Poor Countries). Il
programma HIPC, servirebbe alla riduzione del debito nei paesi in cui questo ha un
peso eccessivo.

4.9. Basic needs


Gli esponenti della teoria dei Basic Needs, nata in seno alla World Bank negli anni '70,
indicavano come primo presupposto dello sviluppo la soddisfazione dei bisogni
essenziali di tutti. Una nazione non dovrebbe quindi limitarsi a promuovere la crescita
economica, sulla base della convinzione che questa porterà benefici a tutta la
popolazione, ma distribuire in modo equo le sue risorse in modo che la crescita sia
indirizzata al benessere collettivo.
Della distribuzione delle risorse e del fatto che qualcuno sia privato di cibo, acqua,
alloggio, vestiario, sanità e istruzione, il Pil non ci dice assolutamente nulla.
Per questo è necessario, nel cercare di analizzare il grado di sviluppo di una nazione,
implementare i dati sulla crescita economica con quelli sulla distribuzione del reddito e
sulla povertà, i cui indicatori più usati sono l'indice di Gini e lo Human Poverty Index
(HPI).
L'indice di Gini è in grado di esprimere in termini percentuali il grado di concentrazione
del reddito, quindi la ripartizione della ricchezza all'interno di una collettività.

126
Per mezzo di questo indicatore si misura quanto nei paesi in via di sviluppo, sopratutto
quelli africani e sudamericani, i redditi siano concentrati nelle mani di un elitè.
Se in una nazione insieme al Pil aumenta anche l'indice di Gini, possiamo dedurre con
buona approssimazione che la condizione della parte povera della popolazione sia
rimasta immutata.
Uno dei metodi più semplici per misurare la disuguaglianza economica è quello
rappresentato dalla curva di Lorenz:

Sull'asse orizzontale del grafico sono rappresentate le percentuali di famiglie che


appartengono a una data popolazione, ordinate in maniera crescente in base al reddito.
Sull'asse verticale viene riportata invece la parte del reddito totale detenuta da ciascuna
quota di famiglie.
L'indice normalmente utilizzato per misurare la disuguaglianza è quello di Gini pari al
rapporto tra l'area A e la somma delle aree A e B. Tale indice vale 0 quando il reddito è
ugualmente distribuito (la curva coincide con la diagonale e quindi l'area A è nulla)
mentre vale 1 (ovvero 100% in termini percentuali) quando si ha la disuguaglianza
massima (una sola famiglia detiene tutto il reddito). L'indice aumenta con l'aumentare
della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, ovvero man mano che questa
tende a concentrarsi.
L'approccio SU mette le persone al centro dello sviluppo e sorge sulla convinzione
che la dimensione umana dello sviluppo sia stata trascurata nel passato a causa
dell'enfasi eccessiva posta sulla crescita economica. Esempi di tale enfasi sono la
misura del PNL pro capite, utilizzato come la misura principale per i livelli di sviluppo
fra stati, e variabili quali il reddito o il consumo calcolati in termini monetari come
misura del benessere o della povertà degli individui, delle famiglie e dei diversi
gruppi sociali. In quest'ottica, l'obiettivo primario delle politiche di sostegno allo
sviluppo era l'industrializzazione e il trickle down mechanism, ossia la "ricaduta della
crescita economica", rappresentava lo strumento attraverso cui la povertà sarebbe
stata progressivamente eliminata. Da questo concetto nacque negli anni '70 quello
dei basic needs (elaborato dall'OIL), che riconosceva l'importanza di ricorrere ad
elementi di valutazione dello sviluppo diversi dal semplice reddito pro capite.
Quest'ultimo rimaneva un importante indicatore di sviluppo, ma solo in funzione
dell'acquisizione e del consumo di un paniere di beni e di servizi essenziali al
raggiungimento di una soglia accettabile di vita. In particolare, l'OIL sottolineava che

127
il perseguimento di un accesso maggiormente esteso ai basic needs da parte dei
gruppi più poveri della popolazione sarebbe stato agevolato dal conseguimento di
uno status occupazionale adeguatamente remunerato. Ne emergeva l'importanza di
aumentare la redditività del lavoro dei poveri, la necessità di operare cambiamenti
nella composizione dell'output e nella proprietà dei fattori produttivi e, infine, di dare
spazio a mutamenti radicali nella struttura organizzativa della produzione.
L'UNDP prese le distanze dall'approccio dei basic needs, respinto soprattutto dai
paesi meno avanzati, formulando il concetto di sviluppo umano ed introducendo un
nuovo indice di misurazione dello sviluppo dei paesi, l'ISU (Indice di Sviluppo
Umano). "Lo sviluppo umano è il processo che permette alle persone di ampliare la
propria gamma di scelte. Il reddito è una di queste scelte, ma non rappresenta la
somma totale delle esperienze umane. La salute, l'istruzione, l'ambiente salubre, la
libertà d'azione e di espressione sono fattori altrettanto importanti.". (Rapporto UNDP
n°3). Lo sviluppo umano, quindi, rappresenta una nuova accezione dello sviluppo ed
ha permesso di ridefinire e spostare le priorità di intervento dalla crescita del PIL al
miglioramento sia della qualità della vita, sia delle condizioni di sostenibilità sociale
ed ecologica. Lo sviluppo, cioè, non viene promosso da una ricerca a senso unico
della sola crescita economica; la quantità della crescita è fondamentale, ma
altrettanto importante è la sua distribuzione, vale a dire la partecipazione piena al
processo di crescita.

128
PARTE SECONDA

129
CAPITOLO VIII

STRUTTURE E ORGANISMI NAZIONALI E INTERNAZIONALI PER LA


COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

1. ORGANISMI NAZIONALI
1.1. Istituto nazionale per il Commercio Estero (ICE)
L’Istituto nazionale per il Commercio Estero (ICE) è un Ente pubblico non economico
che ha il compito di sviluppare, agevolare e promuovere il commercio con l’estero
nonché i processi di internazionalizzazione del sistema produttivo nazionale, con
particolare riguardo alle esigenze delle Pmi, dei loro consorzi e di raggruppamenti.

Un Ente pubblico è un soggetto giuridico creato secondo norme di diritto pubblico,


attraverso il quale la pubblica amministrazione svolge la funzione amministrativa.
Gli enti pubblici si contrappongono, quindi, alle persone giuridiche create secondo
norme di diritto privato, le quali, se sono per lo più destinate a perseguire interessi di
carattere privato, possono tuttavia svolgere anch'esse funzioni amministrative.
Gli enti pubblici possono essere economici o non economici a seconda che
l'oggetto principale della loro attività sia la produzione di beni e servizi (a prescindere
che operino in regime di monopolio o di concorrenza) o meno.
L’Istituto con una sede centrale, una rete nazionale di 16 uffici ed una rete estera di
oltre 100 Unità Operative in circa 70 Paesi, offre alle imprese una tipologia molto vasta
di servizi, anche a pagamento:
 servizi per le imprese finalizzati ad acquisire informazioni sui mercati esteri e sulle
opportunità di internazionalizzazione, in termini di conoscenza della domanda
locale e dell’offerta dei Paesi concorrenti, dei potenziali acquirenti, del sistema
distributivo e delle normative doganali, fiscali, valutarie e tecniche,
 servizi diretti e personalizzati per la ricerca di controparti, per l’assistenza nella
fase operativa e per la collaborazione industriale e commerciale.

L’attività promozionale dell’ICE viene svolta in favore dell’intero “Sistema Paese”,


attraverso partecipazioni a fiere internazionali, azioni pubblicitarie, seminari ed incontri
d’affari, diffusioni di cataloghi e di newsletter settoriali, promozioni di collaborazioni
industriali per favorire l’internazionalizzazione delle Pmi e la costituzione di joint
venture.

1.2. SIMEST E FINEST


Agli inizi degli anni novanta, con due leggi, la L.100/90 e la L.l9/91, vengono istituite la
Simest e la Finest.
La Simest è una finanziaria nata per assistere e fornire consulenza agli imprenditori su
tutti gli aspetti relativi all’internazionalizzazione delle loro attività, nonché per acquisire

130
quote di minoranza in imprese all’estero partecipate da aziende italiane, con
l’esclusione dei Paesi UE.
Il Decreto legislativo 143/98 ha esteso l’attività della Simest con il trasferimento dal
Mediocredito centrale della gestione delle agevolazioni pubbliche previste per il credito
all’esportazione (ex legge Ossola 227/77), per i programmi di penetrazione
commerciale (legge 394/81), per la partecipazione a gare internazionali (legge 304/90,
integrata con il comma 5 dell’art.22 del Dlgs 143/98), per la partecipazione a società ed
imprese all’estero (legge 100/90 e legge 317/91).
La Simest può quindi acquisire partecipazioni fino al 25% nel capitale sociale delle
imprese all’estero, partecipate o controllate interamente da imprese italiane. Tale
partecipazione ha di norma una durata massima di otto anni dall’acquisizione ed è
subordinata all’impegno al riacquisto, al termine del periodo convenuto, dell’intera quota
di partecipazione societaria detenuta da Simest.
Può inoltre concedere contributi agli interessi a fronte di finanziamenti concessi
all'impresa italiana per la partecipazione al capitale in imprese all'estero, fornire
assistenza e consulenza professionale nelle varie fasi di progettazione e realizzazione
di iniziative di investimento all'estero, facilitare l’accesso a finanziamenti internazionali e
sovranazionali ed ai programmi comunitari per l’internazionalizzazione delle imprese,
quali JOP ed ECIP, concedere finanziamenti a tasso agevolato per la realizzazione di
studi di prefattibilità connessi all'aggiudicazione di commesse in Paesi non appartenenti
all'Unione Europea.
La FINEST è una società finanziaria di partecipazione che ha l’obiettivo di sostenere lo
sviluppo delle attività economiche e l’internazionalizzazione delle imprese localizzate
nel Nord-Est d’Italia (Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino Alto Adige) o ad imprese o
società localizzate nell’UE controllate da imprese del Nord-Est, che si rivolgono ai Paesi
dell’Europa Centrale ed Orientale, per creare o ampliare una società mista, creare o
ampliare una società a capitale italiano al 100%, avviare rapporti di collaborazione
industriali o commerciali.

1.3. SACE
La SACE Società per i servizi assicurativi del commercio estero, istituita con
Decreto Legislativo n. 143/1998, integrato e modificato con DL 170/99 succede alla
Sezione Speciale per l'Assicurazione del Credito all'Esportazione, istituita con legge
227/77.
L’Istituto è autorizzato a rilasciare garanzie, nonché ad assumere in assicurazione i
rischi di carattere politico, catastrofico, economico, commerciale e di cambio ai quali
sono esposti gli operatori nazionali nella loro attività con l’estero e di
internazionalizzazione dell’economia italiana.

1.4. Mediocredito Centrale


Mediocredito Centrale è la banca di sviluppo, impegnata nel sostegno e nello sviluppo
delle imprese italiane. I settori in cui Mediocredito offre prodotti e servizi finanziari
innovativi sono la capitalizzazione delle Pmi, l’internazionalizzazione del sistema
d’impresa italiano, la finanza di progetto per le infrastrutture e gli Enti Locali,
l’assistenza ad imprese estere interessate ad investire in Italia.

131
Mediocredito, nell’ambito della propria missione a sostegno delle Pmi organizza linee di
credito interbancarie a condizioni di mercato destinate al finanziamento di flussi di
esportazioni ed al sostegno locale di investimenti esteri di Pmi italiane e svolge questa
funzione anche in collaborazione con altre banche italiane o con le Organizzazioni
multilaterali e le Banche regionali di sviluppo.
Mediocredito offre, a supporto delle imprese che realizzano investimenti all’estero nei
settori industriali manifatturieri, una serie di servizi quali la predisposizione di studi di
fattibilità, la strutturazione di piani finanziari di progetti, l’elaborazione di modelli
finanziari ed analisi di sensitività per la valutazione delle strutture finanziarie proposte,
consulenza legale e fiscale sulla costituzione di nuove società all’estero.

2. GLI ORGANISMI INTERNAZIONALI


2.1. Conferenza di Bretton Woods
La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1° al 22 luglio 1944, stabilì regole per
le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo.
Gli accordi di Bretton Woods furono il primo esempio nella storia del mondo di un ordine
monetario totalmente concordato, pensato per governare i rapporti monetari fra stati
nazionali indipendenti.
Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria
internazionale.
Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due;
 la prima, l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a
stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così
eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute;
 la seconda, il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti
internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI).
Con l’Accordo furono istituiti il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale o World
Bank). Queste istituzioni sono diventate operative nel 1946.
Nel 1947 fu firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo
Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca
mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale.

2.2. Fondo europeo di sviluppo (FES)


Il Fondo europeo di sviluppo (FES) rappresenta lo strumento principale degli aiuti
comunitari per la cooperazione allo sviluppo con gli Stati ACP, nonché con i paesi e
territori d'oltremare (PTOM).
Il trattato di Roma del 1957 ne aveva previsto la creazione per la concessione di aiuti
tecnici e finanziari, inizialmente ai paesi africani all'epoca ancora colonizzati e con i
quali alcuni Stati hanno avuto dei legami storici.
Il FES non rientra ancora nel bilancio generale della Comunità in quanto è finanziato
dagli Stati membri, dispone di regole finanziarie proprie ed è diretto da un comitato
specifico.
Per il periodo 2008-2013 gli aiuti concessi ai paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico)e ai
PTOM (paesi e territori d'oltremare) continueranno a essere finanziati tramite il FES.

132
Ogni FES dura per un periodo di circa cinque anni. Dalla conclusione della prima
convenzione di partenariato nel 1964, i cicli del FES seguono, in generale, quelli degli
accordi/convenzioni di partenariato.
– Primo FES: 1959-1964
– Secondo FES: 1964-1970 (Convenzione di Yaoundé I)
– Terzo FES: 1970-1975 (Convenzione di Yaoundé II)
– Quarto FES: 1975-1980 (Convenzione di Lomé I)
– Quinto FES: 1980-1985 (Convenzione di Lomé II)
– Sesto FES: 1985-1990 (Convenzione di Lomé III)
– Settimo FES: 1990-1995 (Convenzione di Lomé IV)
– Ottavo FES: 1995-2000 (Convenzione di Lomé IV e sua revisione IV bis)
– Nono FES: 2000-2007 (Accordo di Cotonou)
– Decimo FES: 2008-2013 (Accordo di Cotonou riveduto)
Il FES dispone di vari dispositivi, segnatamente l'aiuto non rimborsabile, i capitali di
rischio e i prestiti al settore privato.
L’accordo di partenariato sottoscritto a Cotonou nel giugno del 2000 ha razionalizzato i
dispositivi del FES e ha introdotto un sistema di programmazione modulato che
consente maggiore flessibilità e conferisce maggiore responsabilità agli Stati ACP.
Per il periodo 2000-2007, il nono FES dispone di una dotazione di 13,5 miliardi di euro,
cui si aggiungono le rimanenze dei FES precedenti che ammontano ad oltre 9,9 miliardi
di euro.
Pur gestendo una parte delle risorse del FES (i prestiti e i capitali di rischio), la Banca
europea per gli investimenti (BEI) contribuisce con risorse proprie per un importo pari a
1,7 miliardi di euro nel periodo coperto dal nono FES.
Il decimo fondo, che copre il periodo 2008-2013, dispone di una dotazione finanziaria di
22,682 milioni di euro.
Di questo importo, 21.966 milioni di euro sono stanziati per i paesi ACP, 286 milioni di
euro per i PTOM e 430 milioni di euro per la Commissione a titolo delle spese di
sostegno legate alla programmazione e all'attuazione del FES.

2.3. OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico)


L'OCSE è stata istituita con la Convenzione sull'Organizzazione per la Cooperazione e
lo Sviluppo Economico del 1960, sostituendo l'OECE, creata nel 1948 per amministrare
il cosiddetto "Piano Marshall" per la ricostruzione postbellica dell'economia europea.
Ne fanno parte 30 Paesi (Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia,
Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia,
Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo,
Repubblica Ceca, Repubblica di Corea, Repubblica Slovacca, Spagna, Stati Uniti,
Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria).
L'OCSE mantiene stretti contatti con oltre 70 Paesi non membri, economie in via di
sviluppo e in transizione (che possono partecipare come osservatori ai lavori dei
Comitati o a determinati programmi dell'Organizzazione) e con le altre Organizzazioni
Internazionali.
L'OCSE, con sede a Parigi, è composta da un Segretariato strutturato in Direzioni
Generali che corrispondono alle attività di oltre 200 tra Comitati, sotto-Comitati, Gruppi
di lavoro e Gruppi di esperti.

133
Gli obiettivi dell'OCSE tendono alla realizzazione di più alti livelli di crescita
economica alla luce del concetto di sviluppo sostenibile, di occupazione, di tenore di
vita, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria.
Sono altresì orientati contribuire allo sviluppo dei Paesi non membri.
Questi obiettivi vengono perseguiti attraverso varie attività tra cui:
− Predisposizione di intese con valore vincolante e di Convenzioni;
− Raccolta e armonizzazione di dati;
− Elaborazione di studi nazionali e comparativi;
− Esami-Paese secondo il metodo della "peer review", o "giudizio dei pari". La
revisione da parte dei pari" ed è il metodo con il quale i grandi enti di ricerca
pubblici e privati di tutto il mondo valutano i progetti di ricerca.
− Attività preparatoria e seguiti di incontri internazionali ad alto livello
− Definizione di linee guida e coordinamento delle politiche di cooperazione allo
sviluppo attraverso il Comitato di Aiuto allo Sviluppo (DAC)
Il Consiglio è l'organo politico decisionale ed è formato dai Rappresentanti Permanenti
degli Stati Membri. Si riunisce a livello dei Ministri una volta l'anno.
Il Consiglio può adottare decisioni vincolanti o raccomandazioni e approva il programma
di lavoro dei Comitati di settore.
I Comitati settoriali sono composti da esperti provenienti dalle Amministrazioni dei Paesi
Membri.
Il processo negoziale di riforma della governance dell'OCSE per rinnovare la struttura
dell'Organizzazione ed il processo decisionale nella stessa ed adattarlo ad un futuro
allargamento della membership, è stato formalmente adottato dal Consiglio il 12 maggio
2006 ed è entrato in vigore dal Primo giugno 2006.
La riforma, prevede un Consiglio impegnato essenzialmente a delineare gli
orientamenti strategici dell'attivita' dell'Organizzazione.
Un altro aspetto significativo della riforma e' il ragionevolmente ampio uso del potere di
delega che il Consiglio dovrebbe esercitare.
Le categorie di decisioni divise tra "fundamental issues", "special cases" e "normal
cases" sono determinate nelle liste che fanno parte integrante della riforma.

Il "bilancio complessivo" dell'OCSE è di circa 330 milioni di euro. Tale bilancio è


finanziato dai 30 Paesi membri dell'Organizzazione.
I contributi nazionali al budget annuale sono calcolati con una formula basata sulle
dimensioni dell'economia di ciascun membro: l'Italia è il sesto paese contributore, dopo
USA (che da solo fornisce circa un quarto del budget), Giappone, Germania, Regno
Unito e Francia, con una quota statutaria del 5,412% (€ 17.952.160 per il 2007).
Il Centro per lo Sviluppo dell’OCSE è stato istituito nel 1962. Il Centro si caratterizza
principalmente per essere un foro di incontro e di confronto tra la maggior parte dei
Paesi membri dell’OCSE ed alcuni paesi terzi, espressioni di economie tanto emergenti
quanto ancora in via di sviluppo. Ne fanno infatti parte 28 Paesi (tra i quali l’Italia) di cui
alcuni non membri dell’OCSE ma con un importante ruolo nell’ambito dell’economia
globale (ad esempio, Brasile, India, Cile, Sud Africa, Tailandia).
Al tempo stesso il Centro rappresenta un centro di analisi e studio nei settori dello
sviluppo e della globalizzazione, con la finalità di contribuire alla ricerca di soluzioni per

134
stimolare la crescita e migliorare le condizioni di vita nei Paesi in via di sviluppo e nelle
economie emergenti.
Nell’ambito delle sue attività il Centro ha sviluppato intense relazioni con
amministrazioni statali, settori della società civile, organizzazioni internazionali,
istituzioni finanziarie internazionali ed istituti di ricerca.
Le attività del Centro vengono decise ed esaminate da un Governing Board composto
da tutti i Membri.

2.4. BANCA MONDIALE


2.4.1. Caratteri generali
La Banca Banca Mondiale è un organismo internazionale dell'Organizzazione delle
Nazioni Unite, istituito il 27 dicembre 1945, unitamente al Fondo Monetario
Internazionale, a seguito dell'entrata in vigore degli accordi della conferenza di Bretton
Woods il cui scopo originario era quello di finanziare la ricostruzione e lo sviluppo nei
paesi coinvolti nella seconda guerra mondiale.
Successivamente lo scopo è stato allargato al finanziamento dei paesi in via di
sviluppo tra gli stati membri, solitamente in cambio dell'adozione di politiche liberiste.

In base all'atto istitutivo, la Banca Mondiale, favorisce la ricostruzione e lo sviluppo dei


territori dei paesi membri facilitando l'investimento di capitale a scopi produttivi;
promuove l'investimento privato estero, fornendo garanzie o partecipando a prestiti;
integra l'investimento privato, erogando, a condizioni più favorevoli di quelle di mercato,
risorse finanziarie da destinare a scopi produttivi.
Il funzionamento operativo della banca è assicurato dai versamenti delle quote a carico
dei paesi membri.
Attualmente le attività della Banca Mondiale sono focalizzate sul finanziamento dei
Paesi in via di sviluppo in campi quali l'educazione, l'agricoltura e l'industria; la Banca
chiede in contropartita ai paesi beneficiari l'attuazione di misure politiche tese, oltre che
alla limitazione della corruzione ed al consolidamento della democrazia, alla crescita
economica in termini di PIL ed all'apertura di canali commerciali stabili con l'estero.
A partire dagli anni '90 ha partecipato al finanziamento (in coordinazione con altri
organismi finanziari internazionali quali la Banca europea per la ricostruzione e lo
sviluppo) della ricostruzione nei paesi est-europei e dell'ex Unione Sovietica.
La World Bank valuta lo stato economico di un Paese esclusivamente in base al reddito
pro capite (4 fasce globali: reddito basso meno di 825 $ ; medio basso tra 826 e 3255 $;
reddito medio alto tra 3256 e 10065 $; reddito alto oltre 10066 $), calcolando che bassi
livelli di reddito spesso corrispondono a bassi livelli di sviluppo; tuttavia è un indicatore
che non tiene in conto il grado di povertà e distribuzione del reddito e non permette
valutazioni sul potenziale dinamico economico di lungo periodo.
WB ha elaborato un altro progetto, inoltre, di classificazione dei Paesi con alti livelli di
povertà e di peso dell’indebitamento estero, nominati HIPC (Heavily Indebted Poor
Countries). Altri indicatori sono il tasso di crescita della popolazione, che stabilisce una
proporzionalità inversa tra reddito e natalità; la composizione del PIL per settore; la
componente rurale sulla popolazione totale (assumendo, come da definizione PVS, che

135
la prevalenza del settore agricolo nel PIL rende vulnerabile l’intera economia del
Paese).

2.4.2. Gli obiettivi


La Banca Mondiale accorda prestiti a lungo termine, garanzie ed assistenza tecnica per
aiutare i Paesi in via di sviluppo ad implementare politiche di riduzione della povertà.
I finanziamenti sono utilizzati in diversi settori, dalla riforma della sanità, all'educazione,
ai progetti ambientali ed infrastrutturali (che comprendono la costruzione di dighe,
strade e parchi naturali).
Oltre ai finanziamenti veri e propri la Banca Mondiale fornisce assistenza e consigli ai
Paesi in via di sviluppo su tutti gli aspetti dello sviluppo economico.
Dal 1996 con la pubblicazione del rapporto intitolato "Aiutare le nazioni a combattere la
corruzione: programma della Banca Mondiale per il 1997" la Banca si è focalizzata sulla
lotta alla corruzione nei paesi beneficiari, anche se ciò è stato visto come un
allontanamento da quanto previsto dell'Accordo Istitutivo della Banca che sottolinea il
mandato "non politico" della Banca.
In risposta alle critiche rivolte dalle ONG, la Banca Mondiale ha adottato tutta una serie
di politiche in favore della salvaguardia dell'ambiente ed in ambito sociale, mirando ad
assicurarsi che i progetti finanziati non aggravassero le sorti delle popolazioni dei paesi
aiutati.

2.4.3. La struttura organizzativa


La Banca Mondiale è parte delle Nazioni Unite. La struttura direzionale della Banca
differisce da quella dell'ONU: ciascuna delle istituzioni facenti parte del gruppo ha,
infatti, come "azionisti" i governi dei paesi membri dell'istituzione stessa, come
sottoscrittori delle quote di capitale, i cui voti sono proporzionali alle quote azionarie
possedute.
La partecipazione come paese membro assicura un certo numero di diritti di voto
uguali per tutti i paesi ma ulteriori diritti di voto vengono attribuiti in dipendenza dei
contributi finanziari del paese membro all'organizzazione partecipata.
Come risultato di tale suddivisione la Banca Mondiale ed il FMI sono controllati,
principalmente dai paesi occidentali, mentre i paesi dove tali istituzioni operano sono
quasi esclusivamente paesi in via di sviluppo.
Alcuni critici sostengono che una diversa struttura organizzativa potrebbe garantire una
maggiore attenzione ai bisogni dei paesi beneficiari: dal momento che (al 1 novembre
2004) gli Stati Uniti detenevano il 16.4% del totale dei diritti di voto, il Giappone il 7.9%,
la Germania il 4.5%, Francia e Gran Bretagna il 4.3% ciascuna e che le decisioni più
importanti necessitano di una maggioranza qualificata dell'85% un solo paese od un
gruppo ristretto di paesi possono, da soli, bloccare qualsiasi riforma.
Le istituzioni facenti parte del Gruppo Banca Mondiale sono tutte dirette da un Consiglio
di 24 Direttori Esecutivi in cui ciascuno dei Direttori rappresenta o un paese (almeno per
i paesi maggiori) ovvero un gruppo di stati. I Direttori sono nominati dai rispettivi
governi.
Statutariamente la Banca Mondiale eroga prestiti sia a governi che ad enti ed imprese
pubbliche, con l'obiettivo di finanziare specifici progetti.

136
Prima di accordare un prestito, consulenti ed esperti della Banca valutano se il
potenziale beneficiario sia in grado di soddisfare le condizioni prescritte. Queste sono,
per la maggior parte, intese ad assicurare che i prestiti vengano impiegati
proficuamente e che possano essere rimborsati.
La Banca pone come condizione che il beneficiario, per quel particolare progetto, non
possa ottenere un finanziamento presso nessun'altra fonte sul mercato; inoltre, esige
che il progetto sia tecnicamente realizzabile ed economicamente remunerativo.
Per garantire il rimborso, gli stati membri devono farsi garanti dei prestiti concessi
all'interno dei loro territori.
Una volta erogato il prestito, la Banca richiede al mutuatario e ai propri osservatori
resoconti periodici sull'utilizzo del prestito e sull'andamento del progetto.
I fondi necessari all'emissione dei prestiti provengono principalmente da
emissioni obbligazionarie che la Banca effettua sui mercati internazionali dei capitali
(normalmente per un importo annuo totale tra i 12 ed i 15 miliardi di dollari).
Tali emissioni obbligazionarie hanno un rating "AAA" (il più alto accordato dalle agenzie
di rating) dal momento che sono garantite dalle quote di capitale e dalle garanzie dirette
dei paesi membri e ciò permette alla banca di effettuare le proprie "operazioni di
raccolta" a tassi concorrenziali e dunque di accordare prestiti a tassi mediamente
inferiori a quelli di mercato (pur con l'aggiunta di uno spread dell'1% a copertura delle
spese amministrative sostenute dalla Banca), soprattutto se confrontati con quelli che i
paesi beneficiari otterrebbero sul mercato internazionale dei capitali in base ai propri
rating (sostanzialmente più bassi che non la tripla A riservata ai paesi ed alle istituzioni
finanziarie più solide).
Inoltre l'Agenzia Internazionale per lo Sviluppo accorda prestiti "morbidi" (con periodi di
restituzione del debito intorno ai 30 anni e senza l'applicazione di interessi) ai paesi più
poveri (in tale definizione vengono solitamente ricomprese quelle nazioni il cui reddito
annuo pro capite sia inferiore ai 500 dollari). I fondi per tali operazioni sono forniti da
contributi diretti di alcuni degli stati membri che finanziano il differenziale tra i costi della
BIRS e le condizioni di erogazione ai paesi beneficiari.

Alla Banca Mondiale sono affiliate quattro agenzie:


– La società finanziaria internazionale (international finance corporation - IFC).
La IFC investe in imprese private nei Paesi in via di sviluppo, concedendo
finanziamenti, mobilitando capitali e fornendo servizi di assistenza tecnica e
consulenza finanziaria. La IFC rappresenta la maggiore fonte di finanziamento per
progetti del settore privato nelle economie in via di sviluppo. Essa lavora
direttamente con imprese ed istituzioni finanziarie dei Paesi sviluppati ed in via di
sviluppo interessati ad intraprendere una nuova impresa o ad espanderne una già
esistente.
L’IFC, fondata nel 1956 e membro del gruppo Banca Mondiale, è il maggiore
organismo finanziario multilaterale dedicato alla promozione del settore privato nei
Paesi in via di Sviluppo.
Essa costituisce, infatti, la maggiore fonte di finanziamento per progetti del
settore privato nelle economie in via di sviluppo. Gli azionisti dell'IFC sono i
Governi di 174 paesi membri (per diventare membro dell'IFC è necessario essere
già membri della Banca Mondiale). Il capitale nominale dell'IFC ammonta a 2,45

137
miliardi di dollari. Nel perseguire la sua missione, l’IFC si impegna principalmente
in tre campi di attività: finanziamento di progetti del settore privato, mobilitazione di
capitali e servizi di consulenza e assistenza tecnica. IFC opera direttamente con
imprenditori, imprese ed istituzioni finanziarie operanti nei Paesi sviluppati ed in via
di sviluppo interessati a dar vita ad una nuova attività imprenditoriale o ad
espandere una impresa già esistente.
L’IFC opera in tre grandi campi di attività:
 Project finance Essa rappresenta l’attività tradizionale e più ampia svolta
dall’IFC. L’IFC concede finanziamenti a titolo di capitale e a titolo di debito ad
imprese private per progetti da attuare nelle economie in via di sviluppo e
rispondenti ai criteri imposti dall’istituzione. L’IFC offre un’ampia gamma di
prodotti finanziari, al fine di rispondere nel modo più efficace possibile alle
esigenze di ciascuna impresa che a lei si rivolga per finanziare un progetto.
Tuttavia, al fine di assicurare la partecipazione di altri investitori privati, il
finanziamento dell’IFC è di solito limitato al 25% del costo totale del progetto.
 Mobilitazione di risorse L’IFC rappresenta un catalizzatore di risorse. Infatti
la sua partecipazione in un progetto accresce la fiducia degli investitori e
attrae altri finanziatori e azionisti, incoraggiandoli ad investire nei progetti
promossi dall’IFC. In particolare l’IFC raccoglie risorse addizionali da banche
commerciali straniere e da investitori istituzionali e aiuta imprese dei mercati
emergenti ad accedere ai mercati dei capitali internazionali.
 Consulenza e assistenza tecnica I servizi di consulenza ed assistenza
tecnica offerti dall’IFC sono numerosi in quanto comprendono: assistenza ai
progetti (formulazione di studi di fattibilità e business plan, identificazione di
mercati, prodotti, tecnologie e di partners tecnici e finanziari); consulenza ai
governi per attività di privatizzazione e ristrutturazione, finalizzati a creare un
contesto favorevole allo sviluppo del settore privato; promozione e sviluppo di
mercati dei capitali; assistenza ai Paesi in via di sviluppo sulle politiche di
attrazione degli investimenti diretti esteri; consulenza alle piccole e medie
imprese. Con riguardo a quest’ultimo punto, in particolare l’IFC aiuta le PMI
nella formulazione e nello sviluppo di progetti d’investimento, assistendole
nella preparazione di studi di fattibilità, di business plan e nella ricerca di
fondi, in modo da colmare la mancanza di capacità tecniche, finanziarie e
manageriali che spesso le PMI si trovano ad affrontare nei Paesi in via di
sviluppo.
– L'agenzia internazionale per lo sviluppo (international development association
- IDA), fondata nel 1960. L’intervento dell’IDA è incentrato sui Paesi più poveri, ai
quali essa fornisce prestiti senza interessi ed altri servizi. Le risorse dell’IDA
provengono, per la maggior parte, dai contributi dei governi dei Paesi membri più
ricchi.
– L'agenzia di garanzia degli investimenti multilaterali (multilateral investment
guarantee agency - MIGA), fondata nel 1988. MIGA ha il compito di incoraggiare
gli investimenti stranieri nei Paesi in via di sviluppo fornendo garanzie ad investitori
privati stranieri contro perdite causate da rischi non commerciali. MIGA, inoltre,
fornisce assistenza tecnica ai governi per incrementare la loro capacità di attrarre
gli investimenti diretti esteri. A differenza delle compagnie di assicurazione private,

138
Miga stabilisce l'ammontare dei premi sulla base dei progetti di investimento e non
delle categorie di rischio del Paese (aumentando quindi la convenienza delle
assicurazioni nei paesi ad alto rischio); ha una sfera d'azione allargata a ben 149
stati membri, escluse le economie industrializzate.
– il Centro Internazionale per la risoluzione delle controversie sugli
investimenti (International Centre for Settlement of Investment Disputes - ICSID),
fondato nel 1966.

2.5. FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE (INTERNATIONAL MONETARY FUND)


Il Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Fund (FMI) in è, insieme
al Gruppo della Banca Mondiale, una delle organizzazioni internazionali costituite nella
conferenza di Bretton Woods.
Gli scopi del FMI sono:
− promuovere la cooperazione monetaria internazionale;
− facilitare l'espansione del commercio internazionale;
− promuovere la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio, evitando svalutazioni
competitive;
− dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili, con adeguate garanzie, le
risorse del Fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei pagamenti;
− in relazione con i fini di cui sopra, abbreviare la durata e ridurre la misura degli
squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri.
In particolare l'F.M.I. dovrebbe regolare la convivenza economica e favorire lo sviluppo
del sud del mondo (per sud si intendono i P.V.S.: paesi in via di sviluppo)
Gli organi principali del FMI sono:
− il Consiglio dei Governatori (Board of Governors) a composizione plenaria,
− il Consiglio Esecutivo (Executive Board), composto dai 24 Direttori Esecutivi
(Executive Directors)
− il Direttore Operativo (Managing Director).
Il Consiglio dei Governatori si riunisce di norma una volta l'anno e le sue funzioni
sono in gran parte delegate al Consiglio Esecutivo, che siede permanentemente.
Dei membri del Consiglio Esecutivo 5 sono permanenti e appartengono ai 5 Stati che
detengono la quota maggiore (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito)
mentre gli altri sono eletti dal Consiglio dei Governatori sulla base di un sistema di
raggruppamenti di nazioni (non necessariamente su base regionale)
Il Direttore Operativo viene eletto dal Consiglio Esecutivo e lo presiede.
Il FMI dispone di un capitale messo a disposizione dai suoi membri e il voto
all'interno dei suoi organi è ponderato a seconda della quota detenuta.
Questo fa sì che, considerato che per prendere le decisioni più importanti sono
necessarie maggioranze molto alte (2/3 o i 3/4 dei voti) gli Stati Uniti e il gruppo dei
principali paesi dell'Unione Europea si trovano ad avere un potere di veto di fatto, presi
singolarmente (nel caso della maggioranza dei 3/4) o insieme (maggioranza dei 2/3).
ll FMI si occupa per lo più di concedere prestiti agli Stati membri in caso di
squilibrio della bilancia dei pagamenti.
Il FMI si occupa anche della ristrutturazione del debito estero dei paesi del
cosiddetto Terzo Mondo.

139
Il FMI impone di solito a questi paesi dei piani di aggiustamento strutturale come
condizioni per ottenere prestiti o condizioni più favorevoli per il rimborso del debito che
costituiscono l'aspetto più controverso della sua attività. Questi piani sono infatti
modellati su una visione neoliberista dell'economia e sulla convinzione che il libero
mercato sia la soluzione migliore per lo sviluppo economico di questi paesi. Tra i punti
principali essi di solito comprendono la svalutazione della moneta nazionale, la
riduzione del deficit di bilancio da conseguire con forti tagli alle spese pubbliche e
aumento delle imposte (e quindi privatizzazioni massicce), l'eliminazione di qualsiasi
forma di controllo dei prezzi

2.6. BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI (BEI)


La BEI è un’istituzione finanziaria dell’Unione con sede a Lussemburgo, i cui
azionisti sono gli stati membri dell’UE.
La BEI è un’istituzione finanziaria senza scopo di lucro, la cui attività consiste nel
concedere prestiti alle migliori condizioni possibili per finanziare progetti
produttivi, pubblici e privati, utilizzando le risorse raccolte sui mercati dei capitali.
Gli interventi della Banca sono volti al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
− lo sviluppo economico delle regioni meno favorite;
− il miglioramento della competitività delle imprese;
− il sostegno alle piccole e medie imprese
− la realizzazione delle reti transeuropee di trasporto, di telecomunicazioni e di
trasferimenti di energia;
− la protezione dell’ambiente e il miglioramento delle condizioni di vita;
− la riduzione della dipendenza energetica
− l’utilizzo razionale delle risorse naturali.
I finanziamenti concessi dalla BEI sono di due tipi:
− Prestiti individuali. Gli operatori possono rivolgersi direttamente alla BEI solo per
progetti di grandi dimensioni (oltre i 25 milioni di ecu), attraverso prestiti individuali.
− Prestiti globali. I piccoli e medi investimenti che non possono essere finanziati
attraverso la concessione di un “prestito individuale” possono beneficiare di un
prestito concesso nel quadro dei “prestiti globali”. Questi consistono in linee di
credito autorizzate dalla BEI a circa 130 banche operanti a livello nazionale o
regionale che li rimettono a disposizione sotto forma di prestiti di dimensione più
modesta. Tali finanziamenti sono indirizzati in genere a imprese con meno di 500
dipendenti, dando tuttavia priorità alle imprese con meno di 100 dipendenti. Il
supporto delle attività delle PMI rientra tra gli obiettivi della BEI. Gli stanziamenti
su prestiti globali sono consentiti alle condizioni dell’intermediario, il quale si
assume l’istruzione delle domande di prestito e la gestione dei crediti. La BEI
effettua un controllo regolare delle assegnazioni di stanziamenti effettuate dagli
intermediari attraverso i suoi prestiti globali.
Condizioni comuni ad entrambe le tipologie di prestiti sono le seguenti:
− i prestiti della BEI coprono, in genere, un massimo del 50%del costo del
progetto;
− la BEI concede prestiti a medio-lungo termine (4-18 anni o oltre) con un rinvio di
rimborso del capitale in funzione delle caratteristiche del progetto;

140
− i tassi d’interesse rispecchiano rigidamente il costo dei fondi presi a prestito dalla
BEI sui mercati finanziari, tenuto conto della sua qualità di mutuatario a tripla A e
non avente fini di lucro.
Essi possono essere a scelta fissi, rivedibili o variabili.
La BEI non richiede commissioni di impegno o di gestione, se si esclude un modesto
margine per i costi amministrativi.
La B.E.I. opera soprattutto all'interno della Comunità, ma sulla base dell'art.18 dello
Statuto, che prevede la possibilità di concedere finanziamenti al di fuori dei Paesi UE,
essa svolge la sua attività anche in base ad accordi di cooperazione internazionale,
finanziando progetti in altri paesi come i paesi ACP, PECO, EFTA, PTOM, o in generale
paesi firmatari di accordi di cooperazione o di associazione con la Comunità. In
particolare:
− Il termine ACP è l'acronimo di Africa, Caraibi e Pacifico, i luoghi di origine dei 77
paesi che fanno parte della Convenzione di Cotonou con l'Unione Europea che ha
come obiettivo lo sviluppo di questi paesi.
La cooperazione con i paesi ACP iniziò con la Convenzione di Lomé del 1975.
L'acronimo ACP venne utilizzato per la prima volta nell'Accordo di
Georgetown del 6 giugno 1975, che precedette di poco la Convenzione di Lomé,
per indicare i 46 stati non europei che vi partecipavano.
L'Accordo di Georgetown inseriva, tra gli obiettivi che i paesi ACP avrebbero
dovuto perseguire nell'ambito della Convenzione di Lomé, quello di promuovere
l'instaurazione di un nuovo ordine economico mondiale.
Grazie alla Convenzione di Lomé il legame dei paesi ACP con la Comunità
Europea venne inserito in una struttura istituzionalizzata: fu formato un Consiglio
dei ministri, un Comitato degli ambasciatori e un'Assemblea parlamentare
paritetica.
Il rapporto tra paesi ACP-CE era basato sui principi di solidarietà e uguaglianza fra
i suoi membri. Era assente qualunque riferimento alla condizionalità politica,
improponibile all'epoca: la validità degli accordi non era cioè vincolata a condizioni
politiche interne ai paesi ACP.
La cooperazione con i paesi ACP si basava su aiuti finanziari diretti, su facilitazioni
commerciali e su meccanismi di compensazione dei prezzi di materie prime
agricole e minerarie.
Nel corso degli anni gli strumenti economici per favorire lo sviluppo dei paesi ACP
mutarono e si affinarono, grazie all'aumento dell'esperienza nella collaborazione, a
un intenso dibattito su quale fosse la strategia economica più efficiente e al
tentativo di contrastare la povertà concentrata soprattutto tra i paesi africani.
La firma della Convenzione di Cotonou nel 2000 ha portato un grande
cambiamento nei rapporti tra Unione Europea e paesi ACP.
I paesi ACP sono oggi 79: L'ultimo paese in ordine di tempo a presentare
domanda di adesione al partenariato è stato Timor Est, dopo aver acquisito
l'indipendenza il 20 maggio 2002.
− I PECO sono i paesi dell’Europa centro orientale caratterizzati dal difficile
passaggio verso l’economia di mercato – Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria – e due sono le isole
mediterranee Malta e Cipro che sono entrati nell’Unione europea.

141
− L'Associazione europea di libero scambio (EFTA) (dall'acronimo inglese
European Free Trade Association), fu fondata il 3 maggio 1960 come alternativa
per gli stati europei che non volevano entrare nella Comunità Economica Europea,
ora Unione Europea; la sua sede è a Ginevra e ha uffici a Bruxelles e nel
Lussemburgo.
La Convenzione di Stoccolma fu firmata il 4 gennaio 1960 da sette stati: Austria,
Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Regno Unito. L'anno
successivo, la Finlandia si associò all'EFTA, diventandone un membro a tutti gli
effetti nel 1986. Nel 1970 entrò a farne parte l'Islanda e nel 1991 fu il turno del
Liechtenstein.
Già nel 1972 Danimarca e Regno Unito decisero però di lasciare l'Associazione,
preferendole la CEE; lo stesso fecero il Portogallo nel 1985 e l'Austria, la Finlandia
e la Svezia nel 1995 (nel frattempo la CEE aveva preso il nome di UE).
Quindi l'EFTA è attualmente costituita da quattro stati: Islanda, Liechtenstein,
Norvegia e Svizzera; ovviamente nessuno di questi fa parte dell'UE.
− I Paesi e territori d'oltremare (PTOM) sono dipendenze e territori d'oltremare degli
stati membri dell'Unione europea
I paesi e territori d'oltremare che ne fanno parte sono:
 dipendenti dalla Francia:l'isola Clipperton, Mayotte, Nuova Caledonia,
Polinesia francese, Saint-Pierre e Miquelon, Terre Australi e Antartiche
Francesi e Wallis e Futuna;
 dipendenti dalla Danimarca: le Isole Fær Øer e la Groenlandia;
 dipendenti dal Regno Unito: Anguilla, Bermuda, le isole Cayman, la Georgia
del Sud e isole Sandwich meridionali, le isole Malvine, Monserrat, le isole
Pitcairn, Sant'Elena, il Territorio Antartico Britannico, il territorio britannico
dell'oceano indiano, le isole Turques-et-Caïques e le Isole Vergini
britanniche;
 dipendenti dai Paesi Bassi: Aruba e le Antille olandesi, essendo quest'ultimi
in corso di dissoluzione dal luglio 2007, la federazione autonoma sarà divisa
nel 2008 in due territori autonomi (Curaçao e Sint-Maarten), e tre comuni a
statuto particolare integrati ai Paesi Bassi (Bonaire, Sheba e Santo-
eustachio).
I paesi e territori d'oltremare non devono essere confusi con le regioni
ultraperiferiche (RUP) che hanno un altro statuto di regioni d'oltremare dei paesi
dell'Unione europea.

I paesi e territori d'oltremare, il cui statuto è stato creato fin dal Trattato di Roma
nel 1957, non fanno parte dell'Unione europea e non sono membri dello
spazio Schengen benché dipendano da un paese facente parte. I loro abitanti
possiedono in generale la nazionalità dello Stato da cui il territorio dipende, ad
eccezione dei territori britannici i cui cittadini hanno una nazionalità specifica,
British overseas Territories citizenship (BOTC).
Il diritto derivato comunitario non si applica direttamente ai paesi e territori
d'oltremare ma possono beneficiare di fondi europei di sviluppo della Banca
Centrale Europea.

142
Benché la legislazione europea non si applichi, i loro cittadini nazionali dispongono
della cittadinanza europea, e partecipano alle elezioni dei rappresentanti del loro
paese al Parlamento europeo.

2.7. BANCA EUROPEA PER LA RICOSTRUZIONE E LO SVILUPPO (BERS)


La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) è un organismo
finanziario internazionale che opera nei paesi dell'Europa centrale ed orientale e
dell'Asia centrale e che viene, generalmente, ricompreso tra le banche multilaterali
di sviluppo regionale, categoria nella quale, oltre alla Banca Asiatica di Sviluppo, alla
Banca Interamericana di Sviluppo ed alla Banca Africana di Sviluppo, sono annoverate
anche la Banca Europea degli Investimenti e la stessa Banca Mondiale.
Rispetto a queste istituzioni, la BERS presenta delle caratteristiche peculiari che
rappresentano l'evoluzione di questa tipologia di organismi internazionali.
La BERS presenta, infatti, una forte accentuazione politica del proprio mandato:
secondo lo statuto della banca questa può, infatti, operare esclusivamente in quei paesi
dell'Europa centrale ed orientale e dell'Asia centrale che stiano attuando la
transizione da un sistema monopartitico ed un'economia centralizzata ad un
sistema basato sull'economia di mercato, la democrazia pluripartitica ed il
pluralismo, favorendo a tal fine il necessario sviluppo del settore privato.
Il fine istituzionale della BERS si distingue quindi marcatamente da quello delle altre
banche internazionali regionali, cui compete, genericamente, di favorire il progresso e la
ricostruzione economica nella rispettiva area di intervento.
Più in particolare, la Banca ha il compito di aiutare i paesi beneficiari nella messa
in opera delle riforme economiche e strutturali, comprese quelle miranti allo
smantellamento dei monopoli, alla decentralizzazione ed alla privatizzazione, riforme
tali da aiutare le loro economie a divenire pienamente integrate nell'economia
internazionale.
Altro elemento politico introdotto è quello della previsione statutaria di un limite rigido
dell'operatività della banca nel settore pubblico: complessivamente non più del 40%
delle operazioni della banca possono, infatti, essere attuate nel settore pubblico (e tale
limite deve essere rispettato non solo nella sua globalità ma anche unitariamente in
ciascuno dei paesi recipienti) e ciò a ragione del timore che un'ulteriore afflusso di
risorse al settore pubblico (rispetto a quelle già messe a disposizione dalla altre
istituzioni multilaterali di sviluppo operanti nell'area, BIRS in testa) potrebbe comportare
uno sviluppo sconsiderato dello stesso (statalizzazione).
Un'ulteriore peculiarità della banca è, poi, quella di annoverare, tra i propri membri, due
soggetti internazionali: fra i 42 fondatori della Banca vi sono, infatti, la Comunità
Europea (ora Unione Europea) e la Banca Europea degli Investimenti e ciò a ragione
della forte caratterizzazione comunitaria della banca e dei legami tra questa e le
istituzioni comunitarie: a norma dello statuto della banca, infatti, l'assetto azionario delle
partecipazioni alla stessa può mutare, ma è stabilito un limite per il quale il complesso
delle azioni detenute dai membri dell'Unione, dalla Unione Europea stessa e dalla BEI
non può essere inferiore al 51% del capitale sociale della Banca.
Un ultimo aspetto caratterizzante la banca è quello che, a differenza delle altre banche
multilaterali di sviluppo che operano prevalentemente attraverso prestiti ai governi dei

143
paesi recipienti e che sono affiancate da organismi specializzati per quanto riguarda
l'attività di investimento azionario, di collocamento dei titoli e di assistenza tecnica
tipiche delle merchant bank (come ad esempio l'IFC - International Finance Corporation
- che opera come affiliata della Banca Mondiale), la BERS è statutariamente
autorizzata ad operare in proprio per l'attività di investimento azionario diretto e
le altre attività di merchant banking o venture capital.

Il merchant banking è una attività che consiste nella realizzazione di investimenti in


aziende sotto forma di capitale attraverso l'assunzione, la gestione e lo smobilizzo di
partecipazioni, prevalentemente minoranza in aziende non quotate in Borsa.
Attività di merchant banking sono:
• venture capital
• capitale per lo sviluppo (expansion financing)
• replacement capital
• cluster venture
• fondi chiusi
• valutazioni (del valore d'azienda)

Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per


finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo.
Spesso lo stesso nome è dato ai fondi creati appositamente, mentre i soggetti che
effettuano queste operazioni sono detti venture capitalist.
Nella maggioranza dei casi, fondi necessari sono erogati da limited partnership o
holding in aziende che per natura della attività e stadio di sviluppo non risultano
finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari (come ad esempio le banche). Il
venture capital è una categoria del settore del private equity, che raggruppa tutte le
categorie di investimenti in società non quotate su un mercato regolamentato.
L'investimento di venture capital si caratterizza per i seguenti elementi:
• fase di sviluppo: investe in idee imprenditoriali particolarmente promettenti (seed
financing) e società in start up nelle prime fasi di vita (venture financing) fin dalle
fasi pre revenue, ovvero senza che siano ancora stati approntati i prodotti/servizi
da vendere e quindi nella fase di investimento in prodotto
• ambiti tecnologici: investimenti in aree ad alto contenuto di innovazione
• rischio: le società in cui i fondi di venture capital investono sono caratterizzate
dalla contemporanea presenza di un elevato rischio operativo, ovvero non à
ancora chiaro se la società avrà un mercato per i propri prodotti, e rischio
finanziario, per cui l'investitore non sa se avrà modo di recuperare il capitale
investito.
Un fondo di venture capital è disposto a sopportare il rischio a fronte di un rendimento
futuro atteso altrettanto elevato. Storicamente il tasso di rendimento dei fondi di Venture
Capital è stato del 27% nel periodo 1980-2004, ma con un addossamento dei ritorni
maggiori intorno a tre picchi: 1978-1980 (picco dei software), fine anni ottanta (picco
delle biotecnologie), fine anni novanta-inizio anni duemila (avvento ITC e internet).
Statisticamente i picchi di rendimento delle venture hanno anticipato di circa un anno il
picco delle bolle speculative del mercato.

144
Molte società legate all'information technology sono nate grazie ad operazioni di
venture capital come ad esempio Google o per l'Italia Tiscali. Durante il ciclo di sviluppo
borsistico degli anni 2000 la maggior parte del denaro che inizialmente venne fornito
alle cosiddette società dot com derivava proprio da operazioni di venture capital.
All'interno dell'Unione Europea, per operare una venture capital si necessita di un
capitale sociale non inferiore a 2 milioni di euro indicizzato in società per azioni o in
accomandita per azioni. Si effettua richiesta presso la Banca d'Italia e dopo
l'autorizzazione si è soggetti al controllo della Consob, della commissione di Borsa
Italiana e dell'antitrust sia italiano che comunitario.
Colui che riceve sostegno economico ed organizzativo deve aprioristicamente periziare
l'opera di sua proprietà patrimoniale, attivare fidejussioni creditizie presso banche
d'affari e\o commerciali e fidejussioni assicurative presso compagnie di assicurazioni
danni e creditizie.
La maggior parte degli operatori venture italiani, dopo il boom di fine millennio, hanno
cessato l'attività, riqualificandosi come fondi d'investimento, spesso speculativi (hedge
fund).

In particolare, i finanziamenti messi a disposizione dalla BERS attraverso gli


intermediari finanziari sono di due tipi:
a) Finanziamenti in forma di partecipazione al capitale di rischio. Essi sono
accessibili tramite fondi di investimento, specifici per Paese oppure regionali (che
riguardano più Paesi), nei quali la BERS partecipa. I fondi decidono in maniera
autonoma riguardo ai progetti nei quali investire, purché questi siano coerenti con
la politica d’investimento della BERS.
b) Finanziamenti in forma di prestiti. In questo caso l’intervento della BERS può
configurarsi in diversi modi:
− Prestiti concessi da banche nelle quali la BERS ha delle partecipazioni. In
questo caso le banche commerciali e d’investimento decidono in maniera
autonoma riguardo ai finanziamenti e agli investimenti, purché questi siano
coerenti con la politica d’investimento della BERS.
− Prestiti interbancari : in questo caso la BERS concede fondi a lungo termine
a banche locali. Questi fondi sono, a loro volta, usati dalle banche locali per
finanziare progetti. Le decisioni riguardo ai progetti da finanziare sono prese
in maniera autonoma dalle banche, purchè rispondano a determinati requisiti
che riflettano la politica della BERS.
− Prestiti con il supporto del governo : si tratta di prestiti concessi dalla
BERS con il supporto del governo alle PMI del settore privato. Tali prestiti,
che vengono convogliati alle imprese attraverso banche commerciali o
d’investimento, sono simili ai prestiti interbancari sopra descritti.
− Meccanismi di co-finanziamento con banche commerciali o
d’investimento locali: in questo caso la BERS co-finanzia progetti insieme a
banche locali. I progetti sono di dimensione inferiore a quelli finanziati
direttamente dalla BERS. La preparazione e la valutazione del progetto sono
delegati alla banca, l’approvazione finale alla BERS.

145
L’Italia è uno dei Paesi fondatori della BERS. Partecipa al capitale della Banca con una
quota dell’8,52%, pari a quella detenuta da Francia, Germania, Regno Unito e
Giappone (gli Stati Uniti detengono il 10%, Spagna, Russia e Canada il 4%, l’UE e la
BEI il 3%, gli altri 51 membri si dividono il 30% circa). L’area di intervento della Banca
rappresenta una delle direttrici principali dell’interscambio commerciale e degli
investimenti esteri italiani.

2.8. AFRICAN DEVELOPMENT BANK (AfDB)


La AfDB è una banca di sviluppo regionale multilaterale che opera dal 1966 al fine
di promuovere lo sviluppo economico ed il progresso sociale dei suoi Paesi Membri
(RMCs – Regional Member Countries) in Africa.
La missione della Banca consiste nell’aiutare i Paesi Membri a spezzare il circolo
vizioso della povertà nel quale sono intrappolati.
Le principali funzioni svolte dalla Banca consistono in:
− Concedere prestiti ed effettuare investimenti in forma di partecipazione al capitale
di rischio per contribuire all’avanzamento economico e sociale dei RMCs;
− Fornire assistenza tecnica per la preparazione e l’esecuzione di progetti e
programmi di sviluppo;
− Promuovere l’investimento di capitale pubblico e privato a fini di sviluppo;
− Fornire assistenza nel coordinamento delle politiche e dei piani di sviluppo dei
RMCs.
Il Gruppo è uno degli istituti finanziari pubblici più importanti d'Africa e assegna ogni
anno prestiti per circa 2 miliardi di dollari USA.
La AfDB concede crediti a condizioni vicine a quelle del mercato a Paesi con reddito
medio.
Di norma questi fondi fluiscono nel settore privato o servono all'attuazione di grossi
progetti di infrastruttura, come l'edificazione di aeroporti.
Il Fondo di sviluppo africano (African Development Fund AfDF) è stato istituito nel
1972 - dopo una crisi di refinanziamento della Banca - al fine di far fronte alle crescenti
esigenze in materia di sviluppo del settore pubblico (scuole, ospedali,
approvvigionamento idrico e elettrico) mediante crediti a condizioni estremamente
vantaggiose.
Il Fondo viene ricostituito ogni tre anni.

2.9. ASIAN DEVELOPMENT BANK (ASDB)


La Banca di Sviluppo Asiatica è un’istituzione finanziaria di sviluppo multilaterale
fondata nel 1966 per promuovere il progresso sociale ed economico delle regioni
dell’Asia e del Pacifico.
La Banca riserva un’attenzione particolare ai bisogni dei Paesi più piccoli o meno
sviluppati e dà la priorità ai progetti e ai programmi regionali, subregionali e nazionali.
Le principali funzioni della ADB consistono in:
− concedere prestiti ed effettuare investimenti in forma di partecipazione al
capitale di rischio per favorire lo sviluppo economico e sociale dei suoi Paesi
Membri in via di Sviluppo (DMCs – Developing Member Countries);

146
− fornire assistenza tecnica per la preparazione e l’esecuzione di progetti e
programmi di sviluppo;
− promuovere ed agevolare l’investimento di capitale pubblico e privato a fini di
sviluppo;
− rispondere alle richieste di assistenza nel coordinamento delle politiche e dei piani
di sviluppo dei suoi DMCs.

2.10. INTER-AMERICAN DEVELOPMENT BANK (IDB)


La IDB è un’istituzione finanziaria fondata nel 1959 per contribuire ad accelerare lo
sviluppo economico e sociale in America Latina e nel Carribe.
L’attività della Banca copre l’intero spettro dello sviluppo economico e sociale. Nel
passato, i finanziamenti della IDB erano convogliati principalmente nei settori produttivi
dell’agricoltura e dell’industria, nei settori infrastrutturali dell’energia e dei trasporti e nei
settori sociali della salute pubblica e ambientale, dell’educazione e dello sviluppo
urbano.
Oggi la Banca include tra le sue priorità: la riduzione della povertà, l’equità sociale, la
modernizzazione, l’integrazione e l’attenzione all’ambiente.
Storicamente, la IDB ha supportato progetti riguardanti il settore pubblico, i quali,
nonostante contribuissero a creare indirettamente un ambiente favorevole allo sviluppo
del settore privato, non prevedevano finanziamenti diretti alle imprese.
In tempi più recenti, la IDB ha cominciato a lavorare in maniera più diretta con il settore
privato, principalmente attraverso tre istituzioni:
− la Inter-American Investment Corporation (IIC),
− il Multilateral Investment Fund (MIF)
− il Private Sector Department (PRI).
Il Private Sector Department è stato istituito nel 1994 per rispondere all’esigenza di
finanziamenti a lungo termine a favore del settore privato. Esso, infatti, concede prestiti
di lungo termine e garanzie per progetti infrastrutturali privati.
Mentre l’attività del Private Sector Department è indirizzata ai progetti infrastrutturali di
larga scala, la Inter-American Investment Corporation (IIC), operante dal 1989, si
focalizza sui progetti di piccole e medie dimensioni rivolti a tutti i settori economici.
La IIC concede alle piccole e medie imprese finanziamenti in varie forme:
partecipazione al capitale di rischio; prestiti, sia direttamente alle imprese, sia
indirettamente attraverso intermediari finanziari per quei finanziamenti che sono troppo
modesti per giustificare l’intervento diretto della IIC;servizi di consulenza.

Il Multilateral Investment Fund (MIF), creato nel 1992, si propone di promuovere gli
investimenti del settore privato nell’economia al fine di accelerare la transizione verso
l’economia di mercato e creare un clima favorevole agli investimenti privati.
Per essere finanziati dal MIF, i progetti, oltre ad incoraggiare la partecipazione del
settore privato nell’economia, devono ricadere in una delle seguenti attività: a)
cooperazione tecnica per le riforme politiche e i programmi di privatizzazione, b)
sviluppo delle risorse umane (in particolare è enfatizzato il ruolo della formazione
continua, dei programmi di certificazione e degli skills standards), c) sviluppo delle
piccole imprese (in particolare migliorando il loro accesso alle fonti di finanziamento e

147
rafforzando la loro capacità competitiva attraverso assistenza tecnica e commerciale) e
d) uso di equity funds come strumento per estendere alle PMI l’accesso a fonti di
finanziamento generalmente disponibili solo alle grandi imprese.

148
CAPITOLO IX

LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO SVOLTA DALL’ITALIA

1. MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI (MAE)


Al Ministero degli Affari Esteri sono attribuite le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in
materia di:
− rapporti politici, economici, sociali e culturali con l'estero;
− rappresentanza, coordinamento e tutela degli interessi italiani in sede
internazionale;
− analisi, definizione e attuazione dell'azione italiana in materia di politica
internazionale;
− rapporti con gli altri Stati e con le organizzazioni internazionali;
− stipulazione e revisione dei trattati e delle convenzioni internazionali e di
coordinamento delle relative attività di gestione;
− studio e risoluzione delle questioni di diritto internazionale, nonché di contenzioso
internazionale;
− rappresentanza della posizione italiana in ordine all'attuazione delle disposizioni
relative alla politica estera e di sicurezza comune previste dal Trattato dell'Unione
europea e di rapporti attinenti alle relazioni politiche ed economiche esterne
dell'Unione europea;
− cooperazione allo sviluppo;
− emigrazione e tutela delle collettività italiane e dei lavoratori all'estero;
− cura delle attività di integrazione europea in relazione alle istanze ed ai processi
negoziali riguardanti i trattati dell'Unione europea, della Comunità europea, della
CECA, dell'EURATOM
Nell'esercizio delle sue attribuzioni, il Ministero degli affari esteri assicura la coerenza
delle attività internazionali ed europee delle singole amministrazioni con gli obiettivi di
politica internazionale;
Restano attribuite alla Presidenza del Consiglio dei Ministri le funzioni ad essa spettanti
in ordine alla partecipazione dello Stato italiano all'Unione europea, nonché
all'attuazione delle relative politiche.
L'Amministrazione degli affari esteri è costituita da:
− gli uffici centrali del Ministero degli Affari Esteri,
− le rappresentanze diplomatiche,
− gli uffici consolari
− gli istituti italiani di cultura; da essa dipendono gli istituti scolastici ed educativi
all'estero.
Le Direzioni Generali sono le seguenti:
• Direzione Generale per i Paesi dell'Europa
• Direzione Generale per i Paesi delle Americhe
• Direzione Generale per i Paesi del Mediterraneo e Medio Oriente
• Direzione Generale per i Paesi dell'Africa Sub-Sahariana
• Direzione Generale per i Paesi dell'Asia, Oceania, Pacifico e Antartide

149
• Direzione Generale per l'Integrazione Europea
• Direzione Generale per la Cooperazione Politica Multilaterale e i Diritti Umani
• Direzione Generale per la Cooperazione Economica e Finanziaria Multilaterale
• Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale
• Direzione Generale per gli Italiani all'Estero e le Politiche Migratorie
• Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo
• Direzione Generale per le Risorse Umane e l'Organizzazione
• Direzione Generale per gli Affari Amministrativi, Bilancio e Patrimonio
Nell'esercizio delle sue attribuzioni, il Ministero degli affari esteri assicura la coerenza
delle attività internazionali ed europee delle singole amministrazioni con gli obiettivi di
politica internazionale;
Restano attribuite alla Presidenza del Consiglio dei Ministri le funzioni ad essa spettanti
in ordine alla partecipazione dello Stato italiano all'Unione europea, nonché
all'attuazione delle relative politiche.
L'Amministrazione degli affari esteri è costituita dagli uffici centrali del Ministero degli
Affari Esteri, dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti
italiani di cultura; da essa dipendono gli istituti scolastici ed educativi all'estero.

1.2. DIREZIONE GENERALE PER LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO (DGCS)


L’organizzazione delle attività di Cooperazione allo Sviluppo, componente essenziale
della politica internazionale dell'Italia, fa parte dei compiti del Ministero degli Affari Esteri
(Mae).
All’interno del Ministero tali attività sono demandate alla Direzione Generale per la
Cooperazione allo Sviluppo.
La Dgcs si occupa di:
− attuare le linee di cooperazione e le politiche di settore nei diversi Paesi,
− stabilire rapporti con le Organizzazioni Internazionali, con l’Unione Europea e con
le Organizzazioni non governative.
Svolge attività di gestione dei fondi da destinare agli aiuti allo sviluppo e agli interventi
umanitari di emergenza.
Tutte le iniziative che prevedono impegni rilevanti sotto il profilo finanziario sono
approvate da un Comitato Direzionale composto da esponenti del Mae e di altre
istituzioni, in particolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze (il soggetto
erogatore dei crediti d’aiuto).
La Dgcs porta avanti anche progetti di formazione in collaborazione con le Università in
Italia e all’estero, finanziando corsi e borse di studio. Un settore specifico è dedicato a
studi e proposte, che negli ultimi anni hanno riguardato in particolare le donne, i minori
e i diversamente abili.
La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo è articolata in 13 uffici,
oltre l’Unità tecnica centrale e l’Unità d’ispezione, monitoraggio. e verifica

1.3. UNITA’ TECNICHE LOCALI


Le Unità tecniche locali sono istituite nei Paesi in via di sviluppo con accreditamento
diretto presso i Governi interessati nel quadro degli accordi di cooperazione.

150
Le Unità tecniche sono costituite da esperti dell’Unità tecnica centrale e da esperti
tecnico-amministrativi assegnati dalla Direzione generale per la cooperazione allo
sviluppo nonché da personale esecutivo e ausiliario assumibile in loco con contratti a
tempo determinato.
I compiti delle unità tecniche consistono:
− nella predisposizione e nell'invio alla Direzione generale per la cooperazione allo
sviluppo di relazioni, di dati e di ogni elemento di informazione utile
all'individuazione, all’istruttoria e alla valutazione delle iniziative di cooperazione
suscettibili di finanziamento
− nella predisposizione e nell'invio alla Direzione Generale per la Cooperazione allo
Sviluppo di relazioni, di dati e di elementi di informazione sui piani e programmi di
sviluppo del Paese di accreditamento e sulla cooperazione allo sviluppo ivi
promossa e attuata anche da altri Paesi e da organismi internazionali
− nella supervisione e nel controllo tecnico delle iniziative di cooperazione in atto;
nello sdoganamento, controllo, custodia e consegna delle attrezzature e dei beni
inviati dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo
− nell’espletamento di ogni altro compito atto a garantire il buon andamento delle
iniziative di cooperazione nel Paese.
Ciascuna Unità tecnica é diretta da un esperto dell’Unità tecnica centrale, che risponde,
anche per quanto riguarda l'amministrazione dei fondi, al capo della rappresentanza
diplomatica competente per territorio.
Le Unità tecniche sono dotate dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo
Sviluppo dei fondi e delle attrezzature necessarie per l'espletamento dei compiti ad
esse affidati.

2. ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE ONG


La Cooperazione Italiana sostiene i programmi realizzati da diverse
Organizzazioni Internazionali.
Rapporti strategici legano la Cooperazione Italiana al mondo del volontariato e alle
ONG italiane attraverso il supporto alle loro attività finalizzate allo sviluppo sia sul piano
della promozione delle iniziative sia su quello della loro valorizzazione in seno ai
programmi predisposti dalle Agenzie delle NU e dall’Unione Europea.
Una organizzazione non governativa ONG, è una organizzazione indipendente dai
governi e dalle loro politiche. Generalmente, anche se non sempre, si tratta di
organizzazioni non aventi fini di lucro (non profit), che ottengono almeno una parte
significativa dei loro introiti da fonti private, per lo più donazioni.
Le ONG esistono per una miriade di scopi, tipicamente per portare avanti le istanze
politico-sociali dei propri membri, spesso trascurate dai governi.
Tipicamente fanno parte del movimento ecologista, pacifista, laburista o dei popoli
indigeni, e non sono affiliate formalmente ad alcun partito politico o punto di vista che
non siano i diritti umani o la pace o l'ecologia o la tolleranza.
Le ONG impiegano metodi diversi tra loro. Alcune agiscono principalmente come gruppi
di pressione politica, altre conducono programmi che aiutano il loro scopo
Un settore specifico delle ONG sono le ONG di cooperazione allo sviluppo. Queste
sono libere associazioni, create da privati cittadini che, per motivazioni di carattere

151
ideale o religioso, intendono impegnarsi a titolo privato e diretto, per dare un contributo
alla soluzione dei problemi del sottosviluppo, principalmente quelli del sud del mondo.
Queste, non avendo fonti di finanziamento istituzionali, ed essendo per statuto senza
finalità di lucro, in ragione della filosofia umanitaria e sociale che le anima, realizzano le
loro attività grazie a finanziamenti esterni; si basano comunque anche sull'apporto di
lavoro volontario, gratuito o semigratuito, offerto da membri e simpatizzanti.
I due caratteri essenziali per definire un' organizzazione non governativa di
cooperazione allo sviluppo, sono quindi costituiti dal carattere privato, non governativo
dell'associazione, e da quello dell' assenza di profitto nell'attività.

I progetti delle Ong hanno come base di partenza il rispetto dei criteri di giustizia e di
equità; i loro campi di intervento sono molto vasti e riguardano, a vari livelli, la politica
estera , l’economia, la difesa dei diritti umani, la globalizzazione, la questione del debito
estero, le relazioni tra Nord e Sud del mondo e la pace.
Le prime Organizzazioni Non Governative sono nate all’inizio degli anni sessanta come
movimento associativo spontaneo in risposta ad un bisogno sempre più impellente di
entrare in contatto diretto con i bisogni delle popolazioni del Sud del mondo e di
rispondervi con la partecipazione e la solidarietà, con l’obiettivo di giungere ad una
visione politica comune delle loro problematiche.
A partire dagli anni ’70, un numero cospicuo di Ong italiane ha deciso di aderire a tre
grandi federazioni che le raggruppano e svolgono un ruolo di coordinamento:
− la FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontariato),
conta 61 membri che condividono l’ispirazione cattolica
− il COCIS (Coordinamento delle Organizzazioni non governative per la
Cooperazione Internazionale allo Sviluppo), raggruppa 28 Ong
− il CIPSI (Coordinamento di iniziative popolari di solidarietà internazionale),
raggruppa 25 Ong.
Pur essendo essenzialmente associazioni di volontariato, che impiegano cioè “volontari”
in possesso di competenze specifiche e attivi nei paesi in via di sviluppo, le ONG
costituiscono una realtà molto diversa dal volontariato comunemente inteso perché la
loro struttura operativa è professionalmente finalizzata allo svolgimento delle
attività di cooperazione e composta da cooperanti integrati professionalmente
nell’organizzazione di cui fanno parte.
Le principali associazioni di ONG sono:
− Volontari nel mondo - FOCSIV è la Federazione di 60 organizzazioni non
governative (Ong) cristiane di servizio internazionale volontario impegnate nella
promozione di una cultura della mondialità e nella cooperazione con i popoli dei
Sud del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla lotta contro ogni forma di povertà
e di esclusione, all’affermazione della dignità e dei diritti dell’uomo, alla crescita
delle comunità e delle istituzioni locali. Nata inizialmente sotto forma di
coordinamento tra diverse realtà laicali collegate al mondo missionario con il nome
di FOLM (Federazione degli Organismi di Laicato Missionario), e trasformata nel
1972 in FOCSIV, rappresenta oggi la più grande Federazione italiana di Organismi
cristiani di volontariato internazionale. Attualmente è presente in 86 Paesi tra
Africa, Asia, America Latina, Europa, Medio Oriente e Oceania, con 641 interventi

152
di sviluppo e con 817 volontari coinvolti in prima persona nella realizzazione di
progetti nei settori socio-sanitario, agricolo, formativo, di difesa dei diritti umani.
Dalla sua nascita, La FOCSIV ha fondato il proprio credo e le proprie attività su tre
valori portanti:
 Il Volontariato: ribadendo la centralità di tutte le donne e di tutti gli uomini e la
dimensione della condivisione;
 Le radici cristiane: riconoscendo che oltre alle motivazioni personali, oltre agli
imperativi etici, vi è una profonda motivazione a muovere le nostre ONG che
deriva dai valori evangelici e dalla Dottrina Sociale della Chiesa;
 La Democrazia partecipativa: sostenendo che solo attraverso il
coinvolgimento pieno delle persone si possono ottenere risposte concrete e
precise ai bisogni di pace e di giustizia dell’Umanità
− COCIS - Il COCIS è una federazione che associa attualmente 26 organizzazioni
non governative laiche e progressiste che operano in diversi settori della
cooperazione allo sviluppo, condividendo un'etica basata sulla promozione
dell'autosviluppo, la solidarietà tra i popoli e la centralità della persona.
Il COCIS promuove la proposta politica delle ONG associate, rappresentando
per esse il luogo di confronto, elaborazione, collaborazione e rappresentanza
congiunta.
La visione politica comune, esplicitata nel "Patto Associativo" , si basa sui valori
morali e culturali della cooperazione solidale tra i popoli e si pone come finalità il
superamento delle iniquità prodotte dall'attuale sistema dei rapporti internazionali e
dai meccanismi economici che lo sostengono, attraverso la promozione di rapporti
equi tra i popoli, i generi e le culture, nella valorizzazione delle differenze; la
promozione di processi di sviluppo endogeni ed autocentranti; l'indipendenza e
l'autonomia socio-politica, economica e culturale.
Le attività del COCIS si sviluppano seguendo cinque linee tematiche:
 Il confronto e l'eleborazione congiunta di linee e contenuti della solidarietà e
della cooperazione allo sviluppo, per concorrere a definire e a promuovere
una politica italiana ed europea di cooperazione solidale.
 L'elaborazione di orientamenti, codici di comportamento e principi
deontologici della cooperazione solidale allo sviluppo e la loro divulgazione
nella società civile.
 La rappresentanza verso tutte le istanze politiche e sociali: organismi
internazionali, istituzioni nazionali e locali, articolazioni della società civile e
della cittadinanza attiva.
 La collaborazione attiva e la concertazione con tutte le istanze interessate
alla cooperazione internazionale, ed in particolare con le forze politiche e
sociali e con le altre ONG, italiane e non.
 La promozione di strumenti operativi e metodologici per la progettazione di
azioni di cooperazione sempre più efficaci e la realizzazione di servizi alle
ONG per le loro attività progettuali, di formazione, di informazione e di
educazione allo sviluppo.
− Il CIPSI è un coordinamento nazionale, nato nel 1982, che associa 45
organizzazioni non governative di sviluppo (ONGs) ed associazioni che
operano nel settore della solidarietà e della cooperazione internazionale. Il CIPSI è

153
nato con la finalità di coordinare e promuovere, in totale indipendenza da qualsiasi
schieramento politico e confessionale, Campagne nazionali di sensibilizzazione,
iniziative di solidarietà e progetti basati su un approccio di partenariato. opera
come strumento di coordinamento politico culturale e progettuale, con l’obiettivo di
promuovere una nuova cultura della solidarietà.
I principali ambiti operativi sono:
 promozione e gestione di progetti di lotta alla povertà basati su un approccio
di partenariato, il sostegno ad attività produttive tramite il microcredito o
tramite programmi consortili a livello tematico o geografico;
 formazione di operatori, educatori e quadri per Associazioni di cooperazione;
 sensibilizzazione e responsabilizzazione dell’opinione pubblica sul piano dei
comportamenti solidali attraverso attività di Educazione allo Sviluppo (EaS),
Campagne, in ambito scolastico ed extrascolastico, scambi culturali e
gemellaggi;
 promosse dalle Organizzazioni associate e delle richieste formulate dai
partner del Sud.
Al CIPSI aderiscono Associazioni di cooperazione internazionale, a struttura
nazionale ed europea, operanti in Africa, Asia ed America Latina, con progetti a
sostegno di iniziative locali di sviluppo nel Terzo mondo. A livello di articolazione
territoriale, attraverso le Associazioni aderenti, il CIPSI è presente con gruppi
periferici, 30.000 soci e oltre 100.000 sostenitori.
Ogni anno il CIPSI organizza dei corsi di primo e secondo livello volti a formare e
specializzare operatori impegnati nella cooperazione e solidarietà internazionale.
In particolare in estate si svolge il corso di 1° livello, diretto a chi vuole apprendere
le conoscenze di base per operare nelle associazioni impegnate nella
cooperazione internazionale e nelle attività di sensibilizzazione sui temi
dell’interculturalità, in primavera ed autunno si svolgono i corsi di 2° livello sul ciclo
del progetto e sulle attività di EaS, indirizzati a chi opera già in associazioni od
ONG.

3. LE POLITICHE DI COOPERAZIONE IN ITALIA


3.1. Dagli anni Cinquanta alla legge 1222 del 1971.
Sino all’approvazione della legge 1222 nel 1971, l’Italia non ha avuto una politica di
cooperazione allo sviluppo caratterizzata da preminenza di ruolo e profili di autonomia,
cosicché le azioni nei confronti dei Pvs sono state a lungo mosse soltanto dalle
“angustie del contingente”.
Il ventennio che copre gli anni Cinquanta e Sessanta è quindi definito come la fase della
“non politica”di cooperazione, stante la frammentazione degli interventi, l’assenza di un
quadro normativo ed istituzionale, la limitatezza delle risorse destinate a fini di aiuto e la
sostanziale indifferenza degli attori politici.
Appare tuttavia opportuno rilevare che, già in questo periodo, si profilano alcuni fattori
che accrescono l’interesse per le relazioni con i Pvs e contribuiscono a porre in sede
politica la questione della definizione di un assetto per la cooperazione.

154
Dal punto di vista normativo, i primi provvedimenti in materia di aiuto ai Pvs furono
emanati, a partire dagli anni ‘60 per interventi di assistenza tecnica e finanziaria alla
Somalia
Lo stato di arretratezza della nostra cooperazione rifletteva, d’altra parte, anche
l’inadeguatezza dell’impegno dell’Italia nelle sedi ed istituzioni internazionali. Così,
rispetto al confronto tra Nord e Sud del mondo ed ai problemi del sottosviluppo, il nostro
paese assunse raramente forti posizioni e si limitò ad adeguare le proprie politiche alla
linea dell’Occidente (al contrario di altri Paesi industrializzati, come l’Olanda e gli Stati
scandinavi, che pur facendo parte del blocco occidentale furono decisamente più vicini
alle istanze dei Pvs.
Tuttavia, il dibattito sui temi dello sviluppo e le pressioni internazionali per interventi più
incisivi a favore dei Pvs spinsero l’Italia ad assumere, seppur in un’ottica minimalista,
impegni in questa materia.
All’aumento delle risorse finanziarie si accompagnò così il varo di specifici
provvedimenti legislativi in materia di collaborazione ed assistenza tecnica ai Pvs (leggi
1594 del 1962 e 380 del 1968) e per l’invio di personale statale insegnante e sanitario
(leggi 465 del 1968 e 168 del 1969).
A partire dagli anni Sessanta, le ripercussioni più profonde del dibattito internazionale si
riversarono sulla società civile del nostro paese che pose le aspirazioni e le istanze dei
Pvs al centro del dibattito culturale e delle pressioni esercitate nei confronti del sistema
politico, pur nell’ampio spettro di posizioni ideologiche che andavano dal solidarismo
cattolico al terzomondismo marxista, fino a certe correnti di ispirazione liberale. Il
fenomeno del volontariato internazionale nei paesi del Terzo Mondo, caratterizzato
dapprima dall’esperienza cattolica e più tardi estesosi anche ad altre espressioni della
società civile, spinse lo Stato a regolamentare la posizione giuridica dei giovani che
intendevano esercitare all’estero un servizio sostitutivo a quello militare e contribuì ad
accrescere l’interesse dell’opinione pubblica e del sistema politico per i problemi della
pace e dello sviluppo.
La legge 1033 del 1966 (legge Pedini et al.), nonché i successivi provvedimenti relativi
all’invio di personale statale nei Pvs, rappresentarono pertanto le prime risposte ad una
visione solidaristica globale ed alla promozione di una cittadinanza più aperta ai
problemi del mondo.
In questo periodo, cominciarono ad affacciarsi anche le prime pressioni provenienti
dalle imprese più orientate ai mercati internazionali, sebbene il mercato europeo e
quello statunitense rimanessero comunque i principali sbocchi per i prodotti italiani.
La legge 131 del 1967 e l’aumento delle risorse a sostegno dell’export italiano nei
mercati emergenti costituirono così i primi parziali tentativi di definire un assetto anche
per la cooperazione commerciale.
L’analisi del contesto e dei presupposti su cui si fonda la nostra cooperazione rileva una
visione originaria del tutto riduttiva, nonché uno sfasamento tra dibattito internazionale e
società civile da un lato, e sistema politico dall’altro.
Per quanto concerne il concetto di aiuto pubblico allo sviluppo, fino agli anni Settanta,
esso rimane sostanzialmente confinato alla definizione di assistenza e collaborazione
tecnica, riflettendo così una visione assistenzialistica e comunque priva di significativi
fondamenti teorici e di contenuti.

155
La legge 1222 del 1971 (Cooperazione tecnica con i Paesi in via di sviluppo) nasce dal
progressivo rafforzarsi dei fattori finora delineati (le pressioni delle Istituzioni
internazionali e del mondo del volontariato, gli interessi politici ed economici sul piano
delle relazioni estere, nonché la scadenza naturale della disciplina in vigore) mantiene
una visione riduttiva della cooperazione allo sviluppo. Essa non appare rilevante né per
le conseguenze sul piano operativo e finanziario, né per la crescita della coscienza
politica rispetto all’aiuto ai Pvs, ma piuttosto in quanto offre il primo quadro istituzionale
del settore rimasto nella sostanza invariato fino ad oggi.
Con questo provvedimento legislativo il settore della cooperazione allo sviluppo diventa
appannaggio del Ministero degli Affari Esteri.
La legge costituì un compromesso fra esigenze tra loro assai diverse: da una parte,
quelle delle varie componenti della burocrazia, che intendeva evitare competizioni su
nuove strutture e, dall’altra parte, le esigenze del volontariato, che richiedeva un assetto
efficiente nelle procedure e rappresentativo delle proprie istanze (il Comitato consultivo
misto). Si può inoltre ritenere che, pur essendo un settore in quel periodo poco rilevante
e disomogeneo, la cooperazione venne assorbita nell’orbita del MAE al fine di sottrarre
spazi potenziali di policy agli altri segmenti dell’amministrazione pubblica.
Il periodo che separa l’intervento del 1971 dal nuovo provvedimento del 1979 può
definirsi di “gestazione della cooperazione” italiana, poiché mantiene una sostanziale
continuità rispetto al passato ma, nello stesso tempo, presenta anche originali aspetti.
La legge 38 del 1979 chiude la fase transitoria (la “gestazione”) della cooperazione ed
apre il periodo più vivace e significativo per la materia, in quanto caratterizzato dalla
presa di coscienza a livello politico e sociale dei temi connessi e dal superamento della
restrittiva identificazione con l’assistenza tecnica. Gli anni che intercorrono tra il 1979 ed
il 1987 definiscono così il periodo di “nascita e politicizzazione della cooperazione”.
Anche questa fase conserva un’ottica sostanzialmente minimalista e, dunque, non
realizza una netta discontinuità con il passato ma, piuttosto, la razionalizzazione e la
messa a regime delle strutture e delle strategie configurate dalla legge precedente. Pur
in presenza di un diverso contesto e di fondamentali innovazioni, viene infatti
consolidata la centralità del MAE (con la connessione della cooperazione alla politica
estera), si mantiene l’impostazione istituzionale prevista già nel 1971, permane carente
la copertura finanziaria e si ribadisce altresì la distinzione istituzionale e gestionale tra
multilaterale e bilaterale.
Accanto a questi elementi di continuità, le innovazioni introdotte dalla legge 38 sono:
− l’ampliamento della cooperazione ai settori più significativi per lo sviluppo ed il
relativo superamento della riduttiva definizione di assistenza tecnica;
− la creazione all’interno del MAE di un Dipartimento per la cooperazione atto a
gestire precipuamente la materia e dotato di una relativa autonomia;
− la valorizzazione ed il rafforzamento degli organi consultivi, rappresentativi delle
istanze prevalenti nella società civile;
− la riconduzione, sotto la medesima disciplina, della cooperazione tecnica e di
quella finanziaria, e la distinzione (non a livello operativo ma solo di definizione)
tra crediti all’esportazione e crediti per lo sviluppo;
− il riferimento a strumenti fondamentali di cooperazione, già presenti
nell’esperienza degli altri paesi ma fino a quel momento estranei alle strategie

156
d’intervento, come la progettazione integrata o multisettoriale ed i processi di
integrazione regionale;
− lo stabile inserimento della cooperazione non-governativa nella struttura generale
della cooperazione italiana, anche attraverso l’attribuzione alle Ong del ruolo di
enti esecutori di progetti elaborati dal MAE
− la valorizzazione ed il potenziamento del volontariato internazionale (che si apre
anche alle donne), non più semplicemente concepito come servizio sostitutivo alla
leva ma reale espressione di un progressivo collegamento della società civile del
Nord con i Pvs.
Le pressioni provenienti dal mondo cattolico e dalle aree terzomondiste di varia
ispirazione, la mobilitazione contro la fame nel mondo promossa attraverso le
campagne del Partito Radicale e le sollecitazioni dei poteri forti economici costituiscono,
negli anni Ottanta, i principali fattori che fanno diventare la cooperazione un issue
politicamente rilevante.
La creazione del FAI (Fondo Aiuti Italiani) con la legge 73 del 1985, l’impennata nel
trend delle risorse destinate ai Pvs e la nuova disciplina dell’APS, approvata con la
legge 49 del 1987, sono il prodotto del nuovo clima politico e sociale in cui la
cooperazione si muove.
La legge 49 del 1987 (Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via
di sviluppo) costituisce, nel contempo, il momento più vivace e significativo del dibattito
in materia, ma anche l’espressione più evidente delle contraddizioni insite nel “caso
italiano”.
Se è vero, infatti, che il provvedimento giunge a maturazione di un processo che
recepisce gli elementi più innovativi del dibattito internazionale sullo sviluppo, dall’altro
lato, l’analisi delle realizzazioni e dei risultati effettivi evidenzia invece i limiti sostanziali
della nostra cooperazione. La commistione di interessi di varia natura, presente già
nella genesi della politica degli aiuti ai Pvs, le peculiarità e la fragilità del sistema
politico, della società civile e della amministrazione pubblica italiana, hanno infatti
condizionato imprescindibilmente la politica della cooperazione allo sviluppo fino ai
nostri giorni.
Gli aspetti più rilevanti della legge 49 possono essere così riassunti:
− Il concetto di cooperazione e quello di sviluppo, facendo propria l’evoluzione delle
relative teorie, si estendono fino a comprendere ogni elemento significativo ai fini
del well-being della persona umana (fattori economici, politici, sociali e culturali).
La policy per lo sviluppo deve pertanto risultare orientata ai bisogni primari ed alle
caratteristiche dei beneficiari, rispondendo anche a criteri di ottimizzazione
nell’uso delle risorse e degli assetti operativi (efficienza, efficacia, concentrazione,
priorità e diversificazione degli strumenti adottati).
− La rilevanza politica della materia impone non solo la riaffermazione del
collegamento tra cooperazione e politica estera (con la consequenziale
preminenza di ruolo del MAE), ma anche la definizione di funzioni di indirizzo e
controllo per il Parlamento (attraverso il Comitato Interministeriale per la
Cooperazione allo Sviluppo, soppresso nel 1993, e le Commissioni Esteri di
Camera e Senato). In conseguenza della distinzione tra il canale bilaterale e
quello multilaterale, viene mantenuto un importante ruolo anche per il Tesoro,
competente per la gestione di una parte degli interventi multilaterali.

157
− Alla ripartizione istituzionale tra Tesoro e MAE corrisponde anche una ripartizione
gestionale e dei fondi. Questi ultimi si distribuiscono tra il “Fondo rotativo presso il
Mediocredito centrale”, gestito dal Tesoro per i crediti d’aiuto, e le risorse
finanziarie disponibili per il MAE a fini di cooperazione, costituite dagli
stanziamenti iscritti nell’apposita rubrica dello stato di previsione e da ogni altro
fondo ed apporto non determinato annualmente da atti normativi.15 Gli interventi
multilaterali sono anch’essi ripartiti tra le due amministrazioni, a seconda che
comprendano i contributi obbligatori o quelli volontari alle Istituzioni internazionali.
− Nasce ed assume preminenza di ruolo, anche attraverso la spiccata autonomia
gestionale e finanziaria che originariamente viene stabilita in suo favore, la
Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo, che raccoglie nel proprio
alveo sia la gestione degli interventi di sviluppo che la competenza ex FAI nel
settore dell’emergenza.
− La definizione delle funzioni amministrative e tecniche viene prevista sia a livello
centrale (con una ripartizione organica all’interno del MAE e con la presenza di
personale amministrativo, diplomatico e tecnico-specializzato), sia a livello
periferico (attraverso la creazione delle Unità tecniche locali presso le sedi
diplomatiche all’estero).
− La legge cerca di trovare un equilibrio tra l’esigenza di razionalizzare funzioni e
competenze, e la necessità di garantire visibilità e rappresentatività alle diverse
parti politiche, amministrative, sociali ed economiche. La necessità di incanalare e
rappresentare le diverse istanze provenienti dalla società civile induce
originariamente alla istituzione di un’apposita Commissione per le Organizzazioni
non governative ed al rafforzamento del ruolo del Comitato consultivo. Tuttavia
tale caratterizzazione, con il progressivo emergere della crisi della cooperazione,
perde la propria rilevanza, portando nel 1993 alla soppressione del Comitato
Consultivo per la Cooperazione allo Sviluppo ed alla esautorazione dello stesso
organo di rappresentanza delle Ong.
− La disciplina della cooperazione non-governativa viene ulteriormente specificata
sia con riferimento al ruolo, all’idoneità ed alle attività svolte dalle Ong, sia in
relazione allo status dei cooperanti e dei volontari inviati nei Pvs.
− Ponendosi l’obiettivo del coinvolgimento della società civile nel Nord e Sud del
mondo, la legge 49 delinea i principi del partenariato e dello sviluppo endogeno e
partecipativo. Sugli stessi presupposti si fonda così non solo il riconoscimento del
contributo delle Ong, ma anche l’introduzione della cooperazione decentrata e del
sostegno alle attività di educazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui
temi dello sviluppo.
− Al fine di rendere trasparente la gestione della cooperazione e di costituire un
bagaglio di esperienze e studi in materia, è infine prevista la pubblicazione degli
atti e delle deliberazioni e la istituzione di una banca dati con accesso pubblico.
Nel corso degli anni Ottanta la crescita qualitativa e quantitativa delle iniziative di aiuto
allo sviluppo nelle diverse aree geografiche ha portato al riordino complessivo con la
legge.49/87.
L'esigenza di migliorare l’operatività e l’efficacia di queste attività ha portato ad
approvare, un disegno di legge delega (05/04/2007) che impegna il governo a riformare
l'intera disciplina della cooperazione allo sviluppo.

158
Nel disegno di legge la cooperazione allo sviluppo viene confermata come parte
qualificante della politica estera italiana e viene prevista l’istituzione di un Agenzia per la
cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale.
L’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale è un
ente di diritto pubblico con piena capacità di diritto privato, con il compito di attuare gli
indirizzi politici e le finalità stabilite dal Ministro degli Affari esteri e gestire il fondo unico
ove dovrebbero confluire le risorse economiche e finanziarie del bilancio dello Stato per
l’aiuto pubblico allo sviluppo.
Il disegno di legge delega è anche frutto di un'intensa attività di consultazione e
confronto condotta con le espressioni della società civile, attraverso il dialogo costante
con le Ong, il mondo dell'associazionismo, con quello accademico e con i protagonisti
della cooperazione decentrata, che svolgono un ruolo fondamentale nel rendere
concreto ed efficace l'aiuto allo sviluppo.
Gli impegni internazionali in materia di cooperazione riguardano la proporzione tra il
complesso delle risorse che formano l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) – come
definite nell’OCSE - e la ricchezza prodotta nel Paese misurata dal Prodotto Interno
Lordo.
Gli impegni presi nel 2002 dall’Italia prevedevano come impegno sulla percentuale
APS/PIL:
 0.33% nel 2006;
 0.51% nel 2010
 0.70% nel 2015
L’Italia del maggio 2006 era in notevole ritardo rispetto a tali impegni dato che nel 2005
il rapporto APS/PIL era pari a 0.20%.
Nel 2007 tali stanziamenti sono passati da 392 milioni di € a 600 milioni. A tale cifra si
sono aggiunti i fondi destinati dal Governo all’azione di cooperazione in Afghanistan,
Libano e sud Sudan, pari ad ulteriori 47,5 milioni nel 2006 e 55,55 milioni nel 2007.

3.1. La programmazione 2007-2009


E’ stata avviata una prima programmazione pluriennale di indirizzo, attraverso la nota
informativa sugli indirizzi alla programmazione nel triennio 2007-2009 (presentata al
Comitato Direzionale del 15 marzo 2007) che indica principi e priorità, geografiche e
settoriali, dell’azione di cooperazione italiana, da declinare annualmente.
Partendo dalla situazione esistente, la nota pone alcune direzioni precise all’attività di
cooperazione nel quadro del raggiungimento degli Obiettivi del Millennio:
− il mantenimento di un rapporto equilibrato tra componente multilaterale e bilaterale
dell’aiuto italiano, da modificare in relazione all’aumento dell’efficienza e
dell’efficacia della cooperazione italiana;
− l’incremento dei crediti di aiuto tenendo conto delle particolari situazioni dei Paesi
beneficiari e il proseguimento iniziative di cancellazione e di riconversione del
debito;
− lo slegamento degli aiuti sempre maggiore, privilegiando al contempo le forniture e
lo sviluppo locali;

159
− l’intensificazione del coordinamento con il ruolo svolto dalla cooperazione
decentrata; la valorizzazione dei rapporti con le comunità locali e con la società
civile anche dei Paesi partner della cooperazione.
Le priorità geografiche, in linea con quanto concordato nelle sedi internazionali, saranno
focalizzate principalmente sul continente africano, in particolare sull’Africa sub-
sahariana.

3.2. Le politiche previste per l’anno 2007


Il divario fra Paesi ricchi e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, come confermato da ultimo
dal Rapporto annuale sullo Sviluppo Umano dell’UNDP, si è fortemente accresciuto
mentre, contestualmente, non si è ancora verificato il raggiungimento degli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio (OSM).
Diventa perciò sempre più necessario che l’Italia abbia capacità e strumenti adeguati a
far fronte agli impegni assunti per il raggiungimento degli OSM, garantendo il proprio
intervento nelle zone più impoverite del pianeta.
Nel dare una nuova impronta alla cooperazione allo sviluppo il coinvolgimento delle
comunità locali deve essere un elemento centrale proprio per garantire una efficace
azione di lotta alla povertà. In questa direzione si sono espressi anche organismi
internazionali, l’Unione Europea e molti dei suoi Stati membri.
Il rilancio della cooperazione, oltre a collocarsi nel quadro delle linee della
collaborazione internazionale dovrà anche dare seguito all’indicazione data dalla
Conferenza di Monterrey (marzo 2002) sulla addizionalità della cancellazione del
debito dei Paesi impoveriti rispetto ai finanziamenti destinati alla cooperazione allo
sviluppo.
La conferenza ha adottato il cosiddetto "documento di Monterrey", consistente in un
elenco di misure da adottare sul piano nazionale e internazionale per garantire
condizioni di vita più accettabili alle popolazioni dei paesi poveri.
I capi di Stato o di governo hanno esortato a stringere un nuovo partenariato fra paesi
ricchi e paesi poveri, in base al quale i primi daranno un maggior apporto finanziario allo
sviluppo dei secondi, adottando tra l'altro misure di apertura dei propri mercati ai paesi
poveri i quali, a loro volta, dovranno adottare a livello nazionale provvedimenti per
l'attuazione di riforme strutturali, fiscali e amministrative, onde accrescere la propria
capacità di gestione a livello microeconomico e macroeconomico, di promuovere il
risparmio interno e di richiamare i capitali esteri necessari per lo sviluppo sociale ed
economico.
Ai paesi poveri si chiede di mettere ordine nelle loro finanze pubbliche, adottando
iniziative per combattere la corruzione e favorire la trasparenza nella gestione politica,
amministrativa, fiscale ed economica.
Viene sottolineato altresì lo sforzo che questi paesi dovranno compiere in molti campi,
in particolare per mobilitare le risorse nazionali, adottare a livello nazionale politiche
macroeconomiche razionali, che tengano conto della necessità di garantire la
sostenibilità delle politiche di bilancio attraverso l'equità fiscale e amministrativa ed
infine riorganizzare la spesa pubblica senza sostituire gli investimenti produttivi privati.
E’ necessario tornare a una politica della cooperazione, che negli ultimi anni è stata
fortemente penalizzata, all’altezza degli impegni assunti in ambito internazionale e in
grado di promuovere politiche ed iniziative coerenti che vedano il nostro Paese

160
reimpostare le basi dei rapporti di collaborazione e sostegno con i Paesi impoveriti
accompagnandola con le altre iniziative possibili in campo economico e commerciale
che rendano più compositi, strategici ed efficaci gli interventi di politica estera.
Le priorità geografiche di intervento saranno strategicamente concentrate sull’Africa
sub-sahariana e sulle aree del mondo di maggiore povertà, senza tralasciare,
naturalmente, i Paesi di tradizionale intervento della Cooperazione Italiana.
Per quanto riguarda le priorità settoriali di intervento della Cooperazione Italiana,
particolare rilevanza assumeranno quelli di maggiore criticità, quali: l’ambiente e i beni
comuni, con particolare attenzione allo sviluppo rurale, all’agricoltura biologica o
convenzionale - al fine di far affermare la sovranità alimentare -, le fonti energetiche
alternative e rinnovabili, le politiche di genere, in particolare l’empowerment delle
donne, accanto ai tradizionali interventi sulla salute e sull’educazione. Particolare
importanza rivestirà in questo quadro l’adozione di un approccio globale.
In ambito Nazioni Unite la Dichiarazione del Millennio, approvata nel settembre
2000 dai Capi di Stato e di Governo nel corso della Sessione Speciale dell’Assemblea
Generale, stabilisce l’obiettivo centrale del dimezzamento della povertà assoluta,
ovvero del numero di persone che vivono con meno di un Dollaro al giorno, entro il
2015. Tale obiettivo si articola in otto finalità, alle quali deve essere dunque improntata
l’azione di cooperazione a livello internazionale:
− lotta alla povertà ed alla fame;
− educazione di base universale;
− eliminazione delle disparità fra i sessi;
− riduzione della mortalità infantile di due terzi;
− miglioramento della salute materna;
− lotta contro l’AIDS e le altre malattie infettive;
− protezione dell’ambiente;
− creazione di un partenariato globale per lo sviluppo.
Con la Dichiarazione del Millennio è stato quindi stabilito l’obiettivo di dimezzare la
povertà entro il 2015 e proprio l’Africa è l’area del pianeta nella quale la Cooperazione
italiana: attività e risultati del primo anno di Governo lotta alla povertà è più necessaria.
Accanto al continente africano, d’altra parte, l’azione italiana si concentrerà nei Paesi
dove situazioni di crisi o di post-conflitto richiedono un importante sforzo di
cooperazione, quali l’Afghanistan e il Libano, nonché in aree dove la presenza del
nostro Paese ha radici profonde, quali l’America Latina, il Medio Oriente, il Mediterraneo
e i Balcani.
La cooperazione internazionale prevede una collaborazione tra MAE e altre
amministrazioni dello Stato con competenze di settore. Il coordinamento realizzato
normalmente dagli Uffici è con:
− il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministero
dello sviluppo economico, sulle energie rinnovabili e la connessione con le finalità
del Protocollo di Kyoto. Con il Ministero dell’ambiente, inoltre, la collaborazione è
attiva su diversi ulteriori fronti, tra i quali: l’utilizzo del Fondo per lo Sviluppo
Sostenibile stabilito dalla Finanziaria 2007 per la parte relativa a progetti
internazionali di cooperazione, la collaborazione sulla Convenzione delle Nazioni
Unite sulla lotta alla desertificazione e alla siccità, le azioni per la discarica di
Corogocho in Kenya;

161
− il Ministero della salute, concludendo un accordo quadro di cooperazione firmato
anche dall’UNDPi e dall’UNOPSii che si tradurrà in azioni insieme alla
cooperazione decentrata;
− il Ministero per i diritti e le pari opportunità, con il coordinamento delle posizioni in
sede Nazioni Unite e una aperta collaborazione all’azione sulle tematiche di
genere;
Per quanto riguarda il quadro europeo, il punto di partenza è rappresentato dalle
decisioni del Consiglio Europeo di Barcellona del marzo 2002, in occasione del
quale gli Stati membri hanno approvato un impegnativo percorso di progressivo
aumento degli Aiuti per lo Sviluppo (APS), sia a livello comunitario che dei singoli Paesi.
Dunque l’Italia, così come gli altri Paesi UE, avrebbe dovuto raggiungere un rapporto fra
APS e PIL pari allo 0,33% già nel 2006.
Sebbene l’obiettivo dello 0,33% non sia stato raggiunto, si sono voluti dare comunque
alla comunità internazionale dei segnali della forte volontà italiana di modificare il trend
del proprio approccio al finanziamento della Cooperazione allo Sviluppo. In questo
momento è fondamentale lavorare affinché il nostro Paese si dimostri in grado di
rispettare gli impegni presi e “precedentemente disattesi”.
La Legge Finanziaria prevede per il 2007 un aumento delle risorse della Tabella C del
Ministero degli Esteri pari a più del 65% dei fondi inizialmente previsti da destinarsi ad
iniziative di cooperazione, sia bilaterale sia multilaterale.
Inoltre, sono da ricordare le altre risorse per iniziative di cooperazione ricollegabili alla
voce intitolata “missioni di pace” in cui è ragionevole prevedere come fondamentale il
ruolo della cooperazione civile e sociale nei processi di ricostruzione di Paesi che
abbiano subito devastazioni causate da disastri naturali o da conflitti.
Nell’ambito della cooperazione bilaterale, le priorità geografiche dell’Italia resteranno
focalizzate principalmente sul continente africano, con particolare riguardo all’Africa
sub-sahariana.
Per quanto riguarda la cooperazione multilaterale, nel 2007 ci si impegnerà affinché
questa abbia nuovi impulsi e nuovi fondi. E’ fondamentale infatti che parte degli
stanziamenti assegnati al Ministero degli Esteri venga convogliata verso i contributi
volontari agli Organismi Internazionali, che nel corso del 2006 sono stati
consistentemente ridotti, escludendo sia Organizzazioni sia Agenzie delle Nazioni Unite
il cui ruolo strategico nell’ambito della lotta alla povertà e del perseguimento degli
Obiettivi del Millennio rende invece assolutamente necessaria una partecipazione
finanziaria del nostro Paese.
Altro argomento di particolare rilevanza sarà la partecipazione dell’Italia alle principali
sedi internazionali, quali OCSE/DAC, ONU, Unione Europea, anche nella prospettiva di
un maggiore coordinamento e di una più forte armonizzazione delle linee della
Cooperazione allo Sviluppo nell’ambito della Comunità internazionale.
L’armonizzazione rappresenta infatti oggi una priorità, sia nel contesto dell’UE che in
quello dell’OCSE/DAC, ed in tale ambito si inserisce la Dichiarazione di Parigi
sull’efficacia degli aiuti, firmata nel 2005 e scaturita dal processo iniziato proprio a
Roma in occasione del Forum di Alto Livello del 2003, che rappresenta il documento
base sull’argomento.
L’OCSE/DAC indica la necessità di una maggiore chiarezza nella definizione delle
politiche di cooperazione, e sostiene l’importanza di una migliore strategia di

162
comunicazione e di informazione per accrescere la consapevolezza dell’opinione
pubblica. In questo quadro acquistano importanza sia l’uso responsabile dei mezzi di
comunicazione, sia la costante consultazione della società civile.
Allo stesso tempo, sarà fondamentale continuare ed approfondire il dialogo con le ONG
e i nuovi attori sulla base di un costante confronto aperto per un ampliamento della
visione così come nell’identificazione di nuove strategie ed indirizzi e il ruolo stesso
della cooperazione. Questa difatti per sua natura non può essere avulsa dall spinte
idealiste che animano il mondo del volontariato, seppur debba chiaramente essere
radicata in maniera profonda in un contesto tecnico che garantisca l’efficacia della sua
azione. Assume particolare rilievo in questo quadro una prassi ormai consolidata e che
dovrà essere mantenuta nel corso del 2007, ovvero l’incontro con rappresentanti delle
ONG in vista delle riunioni del Fondo Globale, nonché soprattutto la partecipazione di
rappresentanti della società civile alle delegazioni governative che prendono parte sia ai
Board del Fondo Globale stesso, sia alle Conferenze delle Nazioni Unite.

3.3. Linee guida della cooperazione italiana sulla riduzione della poverta'
La povertà è la manifestazione multidimensionale di squilibri e contraddizioni strutturali
dei meccanismi di sviluppo. S’intende per povertà assoluta lo stato delle persone che
dispongono di non più di un dollaro al giorno.
S’intende per povertà relativa lo stato delle persone che dispongono di meno della
metà (o di un terzo a seconda dei paesi) del reddito medio del paese.
Le modalità principali con le quali si manifestano gli squilibri della povertà si possono
raggruppare come segue:
− difficoltà d’accesso al consumo privato (basso reddito);
− difficoltà d’accesso alle risorse pubbliche ;
− difficoltà d’accesso a beni e servizi che hanno una funzione-chiave di supporto
all’esercizio delle potenzialità umane in tutti i campi;
− difficoltà d’accesso per gli individui e le famiglie a beni di base quali, la casa,
l’acqua, il trasporto etc.;
− difficoltà culturali rispetto ai valori comuni della società, per esempio: difficoltà ad
avere un’esistenza dignitosa o autonoma.
Tutti possono essere colpiti dalla povertà, anche coloro che hanno apparentemente un
buon livello di vita nei paesi industrializzati ma che possono rimanere vittime di
ristrutturazioni aziendali, crisi finanziarie ed altri cambiamenti che non avevano previsto
(nuovi poveri).
Alcune categorie di persone sono più esposte alla povertà, ad esempio: famiglie
monoparentali, donne, lavoratori del settore informale, contadini senza terra, rifugiati e
sfollati, persone affette da disabilità fisiche e mentali, minoranze etniche in zone di
conflitto etc.
Le cause della povertà si possono raggruppare in cinque grandi campi:
a) Struttura e diseguaglianza nella crescita economica: i modelli prevalenti di
sviluppo economico non prevedono meccanismi capaci effettivamente di favorire
un’equa distribuzione delle possibilità, delle risorse e dei risultati della crescita tra
tutte le persone e tra tutti i territori.

163
b) Effettiva disponibilità di beni e risorse: i meccanismi di sviluppo rendono di fatto
accessibili a pochi i beni e le risorse necessarie per produrre ricchezza e
soddisfare i bisogni.
c) Fattori demografici, locali e istituzionali: la specifica situazione demografica di un
paese o di un’area, l’isolamento di determinati territori, l’insufficiente sviluppo del
mercato o la debolezza delle istituzioni nazionali o locali sono concause di
povertà.
d) Malgoverno, scarso peso della popolazione nei processi di sviluppo, esclusione
sociale: il cattivo funzionamento dei meccanismi di governo (come ad esempio il
centralismo, il settorialismo, il decisionismo, l’assistenzialismo, il burocratismo o il
verticismo) sono all’origine della mancata partecipazione di gran parte della gente
ai processi di sviluppo. Tali fenomeni, associati con le altre cause indicate e con i
fattori culturali che le accompagnano, hanno come effetto che la maggior parte
della popolazione ha scarso peso nelle decisioni che la riguardano ed è esposta
alle diverse forme d’esclusione sociale, che è una caratteristica costante della
povertà.
e) Guerre, conflitti e insicurezza: il ricorso alla violenza, alla prevaricazione e ai
comportamenti illegali, in sostituzione delle forme di convivenza civile, di
negoziato, di discussione pacifica e di concertazione, causa danni gravissimi allo
sviluppo generale e mette in difficoltà un gran numero di persone, generando
povertà.
Le azioni da svolgere da parte dei donatori per combattere la povertà si possono
raggruppare in quattro campi:
a) Strategie e politiche nazionali: il ruolo dei donatori;
b) Strategie-paese dei donatori: partenariati e processi;
c) Misure organizzative e di gestione per dare effettivo supporto ai processi delle
strategie-paese;
d) La messa in atto dei partenariati;
Tre criteri essenziali debbono essere adottati per valutare l’effettivo orientamento del
paese verso obiettivi di riduzione della povertà:
− la qualità del funzionamento delle istituzioni di governo ed il loro cambiamento
concreto in funzione di obiettivi di riduzione della povertà;
− la qualità degli sforzi espliciti per orientare le proprie strategie di sviluppo verso
obiettivi di riduzione della povertà;
− la capacità di coinvolgere gli attori sociali nei processi di programmazione delle
politiche pubbliche;
Le strategie nazionali vanno anche valutate in base alla loro capacità di tenere conto:
degli spostamenti di popolazione e delle migrazioni, della dimensione territoriale della
povertà, delle misure per collegare il mercato nazionale ai mercati regionali e
internazionali, della circolazione delle informazioni, delle tecnologie, dell’articolazione
dei bilanci pubblici in favore di obiettivi di riduzione della povertà.
Il dialogo con i paesi sulle politiche di riduzione della povertà non deve essere limitato ai
governi centrali, ma deve coinvolgere il più largamente possibile i vari attori della
società civile e i livelli decentrati dello stato.
I donatori dovrebbero finanziare solo interventi che rientrano nel normale bilancio
pubblico.

164
La strategia-paese di ciascun donatore dovrebbe essere prioritariamente orientata
verso obiettivi di riduzione della povertà.
I suoi risultati attesi dovrebbero essere giustificabili in termini di riduzione della povertà.
Le stesse strategie-paese dei donatori dovrebbero essere formulate tenendo conto del
punto di vista non solo dei governi centrali, ma anche dei diversi attori della società
civile e delle comunità locali.
Occorre tenere presente il principio fondamentale di non separare gli interventi nel
sociale da quelli nel campo della macroeconomia e dell’indebitamento.
Le strategie-paese dei diversi donatori dovrebbero cercare di coordinarsi tra loro in
modo da giungere a comuni linee-guida sulla diagnosi di povertà e a comuni programmi
di lavoro.
Occorre che la scelta in favore di strategie di riduzione della povertà non resti implicita o
genericamente annunciata ma occorre che i tipi di intervento scelti siano giustificati, in
modo esplicito e dettagliato, in quanto capaci di:
− produrre sviluppo economico e, al tempo stesso, ridurre la povertà
− produrre maggiore equità e ridurre l’esclusione sociale
− ridurre la povertà della donne
− produrre un miglior funzionamento delle istituzioni di governo, in modo da creare
un ambiente più favorevole allo sviluppo e alla riduzione della povertà
− agire a livello locale, dando la priorità alle aree più povere
− aumentare l’accesso della popolazione ai servizi ed ai beni pubblici.
Quanto ai tipi di progetti, vanno evitati gli aiuti alla bilancia dei pagamenti (che sono
frequenti, ma che si sono rivelati quelli con meno impatto sulla povertà).
Vanno promossi gli interventi che implicano un forte impegno nazionale, selezionando
quelli che:
− si propongono di raggiungere gruppi in difficoltà nell’ambito di interventi per tutta la
popolazione (ed evitano i progetti speciali riservati ad una sola categoria di
persone);
− sono capaci di coinvolgere le comunità locali nel miglioramento delle loro
condizioni di salute, di educazione etc.;
− scelgono azioni per le quali esistono anche investimenti pubblici nazionali;
− scelgono azioni decentrate che siano effettivamente capaci di combattere la
povertà.
Gli obiettivi di riduzione della povertà debbono essere presenti in tutte le attività e a
tutti i livelli organizzativi. Si debbono considerare i seguenti tre campi:
− politiche dei donatori, procedure e cultura organizzativa;
− strategie-paese dei donatori e loro corrispondenza alla programmazione degli
interventi;
− capacità di incidere (attraverso il dialogo con i governi centrali e locali e la società
civile dei paesi) su istituzioni, politiche, spesa pubblica, programmi nazionali e
ambiente socio-culturale.
Vanno adottati adeguati meccanismi di valutazione condivisi con il paese. Vanno
valutati i risultati dei programmi di cooperazione in termini di effettiva riduzione della
povertà ed utilizzati indicatori appropriati per questo, sia a livello generale che settoriale.
Vanno anche valutate le strategie-paese, con l'obiettivo di riorganizzarle in funzione
degli obiettivi di riduzione della povertà.

165
Occorre promuovere un partenariato effettivo a tutti i livelli, tenendo conto che il dialogo
con tutti favorisce la lotta alla corruzione e la riduzione dei conflitti.
Le caratteristiche strutturali fondamentali dei programmi di riduzione della
povertà sono:
− combinare in modo appropriato l’approccio di sviluppo territoriale (locale) integrato
con gli approcci settoriali;
− promuovere la partecipazione più ampia di tutti gli attori sociali pubblici e privati
interessati alle fasi della programmazione, realizzazione e controllo degli interventi,
con particolare attenzione alla piena partecipazione delle donne, ai diritti dei minori
e dei gruppi vulnerabili (ad es. anziani, handicappati, vittime di conflitti);
− svolgere azioni specificamente orientate verso la riduzione della povertà e di cui è
possibile misurare l’andamento e l’impatto;
− intervenire contemporaneamente nei campi essenziali della lotta contro la povertà,
con azioni riproducibili;
− favorire il coordinamento ai livelli locale, nazionale e internazionale con le altre
iniziative della cooperazione (italiana o di altri paesi).
Si tratta di definire con ciascun paese un Programma-quadro di riduzione della
povertà. Esso disegna, per l’appunto, un quadro programmatico che serve per
coordinare e rendere coerenti, rispetto agli obiettivi di riduzione della povertà, diversi tipi
di intervento (multilaterali, bilaterali, ONG promossi, cooperazione decentrata).
Il Programma-quadro si configura, in pratica, come un intervento la cui struttura
portante è multi(bi)laterale e deve definire:
− Aree d’intervento. L’individuazione con il Governo partner dell’area geografica di
intervento sarà più o meno agevole in funzione dell’esistenza o meno di una
strategia nazionale di lotta alla povertà. Nell’ipotesi che questa manchi, si
potranno utilizzare come quadro di riferimento (laddove siano state formulate o
siano in preparazione) le "poverty reduction strategies" (PRS) della Banca
Mondiale, che costituiscono la pratica attuazione del "comprehensive development
framework" (CDF). Si dovrà tener conto anche delle esperienze già maturate dalla
Cooperazione italiana nel Paese in questione, quando riconducibili nella strategia
di lotta alla povertà. Si raccomanda che le aree geografiche di intervento
corrispondano ad una suddivisione politico-amministrativa dello Stato locale, per
permettere processi partecipativi sufficientemente solidi da costituire un polo
effettivo e durevole di sviluppo.
− Le controparti. Vanno chiaramente identificati e distinti i ruoli dei protagonisti
nazionali e locali del Programma-quadro.. A livello centrale va individuato (se non
già esistente) l’organo di governo responsabile del programma di lotta alla
povertà, per cercare di evitare che i vari Ministri settoriali eventualmente coinvolti
intendano la multi-dimensionalità della lotta alla povertà come l’equivalente di una
serie di finanziamenti a pioggia ai rispettivi dicasteri. A livello locale va ricercata la
collaborazione con i responsabili delle diverse strutture locali e dei servizi
decentrati dello stato, promuovendo, quando possibile, la costituzione di un
gruppo interistituzionale locale, presieduto dall’autorità locale competente, che
serva ad attivare la partecipazione di tutti gli attori interessati alle varie fasi dei
processi di sviluppo orientati verso obiettivi di riduzione della povertà.

166
− Gli obiettivi generali. Gli obiettivi generali perseguibili con i programmi-quadro di
riduzione della povertà sono riassumibili, a titolo indicativo, come segue:
 promuovere un ambiente istituzionale più favorevole alla riduzione della
povertà, migliorando il funzionamento delle strutture di governo e dei servizi
pubblici e privati e favorendo la partecipazione democratica dei soggetti
sociali coinvolti;
 favorire la trasformazione delle relazioni tra uomini e donne, sia nell’ambito
privato che pubblico, in modo da promuovere l’espressione delle potenzialità
economiche delle donne ed il loro ruolo ai fini dello sviluppo sostenibile, come
definito dalle Linee guida approvate dal Comitato Direzionale del novembre
1998;
 promuovere la difesa dei diritti dei minori e facilitare l’attuazione delle Linee
guida approvate dal Comitato Direzionale del novembre 1998;
 favorire l’accesso ai processi economici ed ai benefici della crescita da parte
delle persone che attualmente ne sono escluse e vivono in condizioni di
povertà assoluta o relativa;
 correggere i fattori socioeconomici, istituzionali e culturali che favoriscono la
violenza, le prevaricazioni, la corruzione e le azioni criminali; migliorare la
convivenza pacifica, riducendo la conflittualità violenta tra i diversi attori
sociali;
 favorire il decentramento politico-amministrativo e il ruolo attivo delle
comunità locali nei processi di sviluppo orientati verso la riduzione della
povertà;
 favorire l'integrazione sociale, con particolare attenzione alle persone in
difficoltà, superando le diverse forme d’intolleranza, discriminazione,
esclusione sociale esistenti
 migliorare l’accesso ai servizi sanitari e sociali da parte delle persone in
maggiore difficoltà;
 migliorare l'accesso ai servizi educativi e formativi da parte delle persone che
attualmente ne sono escluse;
 migliorare la vivibilità dell'ambiente, facilitando l’accesso a beni e risorse
essenziali (acqua, energia, trasporto, comunicazioni, casa, terra) da parte
delle persone che hanno difficoltà ad accedervi.
– I campi d’azione settoriali. In linea di principio tutte le azioni settoriali possono
avere una valenza di riduzione della povertà, a condizione di essere chiaramente
orientate e giustificate in tal senso. L’importante è non concepire le azioni settoriali
in modo separato e indipendente l’una dall’altra, ma di definirle in base ad una
strategia di sviluppo complessiva (sviluppo locale collegato allo sviluppo nazionale
e internazionale), che tiene conto dell’insieme dei bisogni della popolazione,
selezionando azioni che hanno lo scopo di riequilibrare la situazione, ampliando
l’accesso a beni, servizi e opportunità per la parte della popolazione che non vi
accede o che ha forti difficoltà ad accedervi.
– Territorio, ambiente, infrastrutture, energia, trasporti, comunicazioni.
Promozione del migliore assetto del territorio, con particolare attenzione alla
gestione "sostenibile" delle risorse naturali, alla disponibilità d’acqua, allo
smaltimento controllato dei rifiuti, alla sanità ambientale, alle infrastrutture di base

167
indispensabili per promuovere la qualità della vita e lo sviluppo locale equilibrato
(vie di comunicazione, mercati, assetto urbano ecc.), alle politiche della casa, alla
salvaguardia del patrimonio storico e culturale, all’adeguamento dei trasporti ai
bisogni della popolazione, alla disponibilità d’energia da fonti rinnovabili, al
miglioramento delle possibilità di telecomunicazione ecc.

4. LA COOPERAZIONE FINANZIARIA
Il Ministero degli Affari Esteri (Mae) ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef)
sono i principali soggetti erogatori dell'Aps italiano.
Ad essi si aggiungono, per importi minori, altri dicasteri quali Ambiente, Attività
produttive (o Sviluppo produttivo), Salute, Interni.
Gli strumenti che la legge n.49 del 26 febbraio 1987 mette a disposizione delle imprese
italiane per realizzare progetti nei PVS per alleviarne il livello di povertà sono i seguenti:
– Crediti di aiuto in favore dei paesi in via di sviluppo (L. 49/87 art. 6);
– Crediti agevolati alle imprese italiane con il parziale finanziamento della loro quota
di capitale di rischio in imprese miste da realizzarsi in Pvs (L. 49/87 art. 7)
– Doni in favore dei Pvs
– Doni a Organizzazioni internazionali (Trust Funds)

5. Crediti di aiuto (legge n. 49/87 art.6)


I crediti di aiuto sono crediti agevolati (concessionalità minima 35%) concessi a paesi in
via di sviluppo che generalmente devono soddisfare due condizioni principali:
− il reddito pro-capite del Paese beneficiario non deve superare un determinato
livello in accordo ai dati forniti dalla Banca Mondiale (US$ 3.465,00 secondo
l’ultimo 'Annual Report') ;
− i progetti finanziati non devono essere commercialmente viabili.
Le attività di cooperazione allo sviluppo si fondano sulle risorse finanziarie messe a
disposizione del Ministero degli Affari Esteri dalla legge finanziaria e altri provvedimenti
di legge.
Tali risorse vengono destinate in parte ad interventi bilaterali da finanziare con crediti di
aiuto ed in parte con interventi a dono, sia bilaterali che multilaterali.
La differenza principale tra le due forme di finanziamento è costituita dalla caratteristica
che nel credito di aiuto, a differenza del dono, il capitale prestato deve essere restituito,
seppure a condizioni estremamente agevolate, cioè con tassi di interesse molto bassi e
con periodi di rimborso molto lunghi.
Altro fattore che distingue gli interventi di cooperazione finanziati con crediti di aiuto da
quelli finanziati con doni è il grado di responsabilizzazione del paese destinatario che
nei crediti di aiuto è molto maggiore. Infatti, sono sempre le Autorità del Paese
destinatario a chiedere il finanziamento a credito di aiuto, a scegliere - mediante
procedure concorsuali - le imprese realizzatrici del progetto e del programma ed a
stipulare i contratti per l’ esecuzione degli stessi.
La cooperazione italiana rimane, invece, responsabile della scelta dei progetti e dei
programmi, che devono corrispondere alle priorità indicate dal Cipe e dal Comitato
Direzionale della DGCS (Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo) del

168
Ministero degli Affari Esteri, della loro valutazione sia sotto il profilo tecnico che dei
costi, nonchè dell’analisi dal punto di vista economico che, nel rispetto della normativa
internazionale, giustifichi il ricorso a tale forma di finanziamento.
I programmi di cooperazione da realizzare vengono formulati all’interno di Commissioni
miste o di riunioni intergovernative.
Attualmente i progetti finanziati dalla Cooperazione si riferiscono ad acquisizioni di beni
e servizi di origine italiana (crediti di aiuto “legati”), con l’eccezione di una percentuale
definita progetto per progetto destinata al finanziamento delle cosiddette spese locali (v.
delibera CICS n.69 dell’ 1/8/91). A partire dal 2002 per i Paesi meno avanzati i crediti di
aiuto potranno essere slegati dalle forniture italiane ( v. Raccomandazione OCSE del
2001).
I crediti di aiuto sono destinati : 1) alla realizzazione di un progetto specifico, su
richiesta del Paese beneficiario (iniziative di “aiuto progetto “); oppure 2) al sostegno
della bilancia dei pagamenti del Paese beneficiario o al sostegno di progetti promossi
da piccole e medie imprese locali (iniziative di “aiuto programma”).
Nel 2007, riguardo alla specifica situazione di alcuni Paesi sono stati assunti dall’Italia,
nel corso delle conferenze dei donatori, ulteriori impegni: 75 milioni di € in favore del
Libano (gennaio 2007) e fino ad un massimo di 400 milioni di € in favore dell’Iraq in 5
anni (febbraio 2007).
I crediti di aiuto concessi dal Governo italiano (ai sensi dell’interpretazione data alla
normativa attualmente vigente) si riferiscono ad acquisizioni di beni e servizi di origine
italiana (crediti di aiuto 'legati') con l’eccezione di una percentuale massima del 50%
ammessa per il finanziamento delle spese locali. A partire dal 2002 i Paesi meno
avanzati (Pma), il cui elenco viene comunicato ogni anno, possono essere destinatari di
crediti di aiuto 'slegati' dalle forniture italiane.
In caso di iniziative di “aiuto progetto”, le proposte di progetto presentate dalle Autorità
locali, corredate da un parere tecnico formulato dalle Unità Tecniche locali delle
Ambasciate italiane, ove presenti, vengono inviate dalle Ambasciate stesse agli Uffici
territoriali della D.G.C.S. che ne verificano la rispondenza alle finalità della
Cooperazione italiana, in base a elementi quali la priorità geografica e settoriale (ordine
di servizio n.10/99 DGCS).

6. CREDITI PER IMPRESE MISTE NEI PVS (legge n. 49/87 art.7)


Lo strumento finanziario di cui alla art. 7 della L.49/87 consiste in un finanziamento
agevolato alle aziende italiane che realizzano imprese miste nei paesi in via di
sviluppo.
Rispetto alla tradizionale esportazione di beni e servizi, le iniziative ex art. 7
rappresentano una costruttiva collaborazione diretta allo sviluppo del Paese, favorendo
la valorizzazione delle risorse locali , il trasferimento delle tecnologie e del know-how, la
formazione e l’occupazione della manodopera locale.
− Soggetti beneficiari sono le imprese italiane che acquisiscono quote di capitale di
rischio in imprese miste nuove o gia esistenti nei Pvs con la partecipazione di
investitori pubblici o privati locali. I Pvs devono avere un reddito annuo procapite e
inferiore a 3.465 US$ (vedasi Annual Report Banca Mondiale).

169
− Tipologia di investimento che può essere finanziata: il credito finanzia l’apporto di
capitale in contanti o in natura dell’ impresa italiana nell’ impresa mista localizzata
nel Pvs. La partecipazione dell’ impresa italiana nel capitale della società mista
deve essere considerevole mentre la partecipazione del partner locale non deve
essere inferiore al 25%. I settori prioritari sono i seguenti: manifatturiero,
energetico, infrastrutturale, telecomunicazioni, agroindustriale.
− Importo massimo dell’agevolazione: fino al 70% di contributo del capitale
sottoscritto dall’impresa italiana nel capitale della società mista fino ad un importo
massimo di Euro 10.329.138.
− Termini e Condizioni del finanziamento:
 tasso d’interesse : tasso d’interesse : uguale al 30% del tasso di riferimento;
 periodo di grazia: 2 anni cominciando dalla data di firma del contratto di
finanziamento;
 periodo di rimborso : 8 anni a cominciare da 6 mesi dopo la fine del periodo di
grazia;
− Procedure : l’impresa italiana sottopone una richiesta di agevolazione finanziaria al
Mae-Dgcs il quale effettua una valutazione tecnica – economica sul proetto da
realizzare nel Pvs. Il Gestore del Fondo rotativo di cui all’ art 7 L.49 /87
(attualmente Artigiancassa) effettuata una valutazione finanziaria sull’ impresa
italiana richiedente. L’operazione viene sottoposta al Comitatato Direzionale della
Cooperazione per un parere. In caso di parere positivo, il Gestore del Fondo
rotativo stipula un contratto di finanziamento con l’impresa italiana (a seguito di un
autorizzazione del Min. Economia) sulla base del quale vengono poi erogati i fondi.

7. DONI IN FAVORE DEI PVS


I Doni si differenziano dai crediti di aiuto, in quanto l’ammontare erogato al pvs non va
restituito I doni vengono generalmente concessi a paesi a basso reddito (low income
countries con un reddito pro-capite annuale inferiore a US$ 875).
Si riportano di seguito le caratteristiche principali :
− Soggetti beneficiari: stati, banche centrali o enti di stato di paesi in via di sviluppo.
− Tipologia di progetti e settori finanziabili: possono essere finanziati singoli progetti
specifici (una diga, un acquedotto, un tratto stradale, una ferrovia, un ospedale, un
progetto agricolo); oppure programmi destinati al finanziamento di “commodity”
varie (materie prime, beni di consumo) o di commodity in un determinato settore.
Sono considerati prioritari settori quali il sanitario, l’acqua, l’ambiente, l’energia, le
infrastrutture, la formazione e il patrimonio culturale.
− Procedure: la richiesta di un dono viene avanzata dal Pvs, tramite l’Ambasciata,
agli Uffici competenti del Mae-Dgcs che ne valutano l’eleggibilità in funzione delle
caratteristiche di cooperazione dell’intervento e degli indirizzi politici sul paese. Il
progetto, se ritenuto eleggibile, viene presentato al Comitato Direzionale. In caso
di delibera positiva, viene elaborato un 'accordo tra Governi' nel quale sono indicati
la destinazione del dono, la procedura di gara / l’aggiudicazione dei contratti e le
modalità di erogazione e controllo. La Dgcs provvede tramite gli uffici competenti
ad accreditare l’importo del finanziamento, secondo le modalità previste
nell’accordo, sul 'Conto speciale' presso una 'Banca Agente' scelta dal Governo

170
del paese beneficiario, intestato a suo nome e vincolato, anche per gli interessi
maturati, all’utilizzo del finanziamento a dono. Nel caso di doni destinati al
finanziamento di 'commodity' viene nominata anche una società di procurement
che assiste il Paese beneficiario nell’attività di 'procurement'.

8. LA CANCELLAZIONE DEL DEBITO


Per anni i debiti sono stati i maggiori ostacoli per lo sviluppo dei paesi africani, la
maggior parte di loro spendeva tutte le risorse nel pagamento dei debiti, tutti contratti
durante la guerra fredda, quando i paesi industrializzati pur di avere i governi dalla
propria parte, li finanziava nonostante fosse irresponsabile e corrotto.
La cancellazione del debito si riferisce alla proposta di annullare il debito che i paesi in
via di sviluppo hanno nei confronti dei paesi industrializzati.
La proposta fu oggetto di una vasta campagna negli anni '90, condotta da una grande
coalizione di organizzazioni non governative, e il cui scopo fu quello di ottenere
l'abolizione del debito per l'anno del Giubileo, il 2000.
In occasione del Giubileo, tra l'altro, anche Papa Giovanni Paolo II si espresse
pubblicamente in favore della cancellazione del debito con la lettera apostolica Tertio
Millennio Adveniente.
In seguito alla campagna, la cancellazione del debito venne infatti presa in
considerazione da molti governi occidentali e divenne un obiettivo esplicito di
organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank.
Soprattutto, venne varata l'iniziativa nota come HIPC (Heavily Indebted Poor
Countries), il cui scopo è garantire l'annullamento sistematico del debito per le nazioni
più povere, cercando al contempo di garantire che vengano prese azioni allo scopo di
ridurre la povertà di tali paesi.
L’Iniziativa per la cancellazione del debito dei Paesi più poveri e indebitati
(“Heavily Indebted Poor Countries”), lanciata da FMI e Banca Mondiale, adottata dai
Paesi G7 nel 1996 e “rafforzata” dal G7/G8 nel 1999, a seguito delle ultime revisioni
dell’aprile 2006, include 40 Paesi.
Tra questi figurano 29 Paesi dichiarati effettivamente eleggibili all’Iniziativa -avendo
raggiunto l’eleggibilità all’Iniziativa (decision point) per il processo di cancellazione e 11
potenzialmente eleggibili (non ancora qualificati per differenti motivi: accumulo di
arretrati, mancata adozione di un Programma nazionale di riduzione della povertà). 20
Paesi (tra i primi 29) hanno anche raggiunto il punto finale (completion point),
beneficiando della cancellazione del proprio debito estero. Il termine di attuazione del
Programma (sunset clause), dopo la proroga di due anni decisa al Vertice G8 di Sea
Island (giugno 2004), è previsto per la fine del 2006.
Al Vertice G8 di Gleneagles (luglio 2005) i Capi di Stato e di Governo hanno accolto
la proposta dei Ministri delle Finanze di cancellare il 100% del debito dei Paesi HIPC
verso le IFI (Multilateral Debt Relief Initiative-MDRI).
Il FMI e la Banca Mondiale hanno approvato rispettivamente il 21 dicembre 2005 e il 28
marzo 2006 le modalità di attuazione della MDRI, seguiti il 19 aprile 2006 dalla Banca
Africana di Sviluppo, mentre la Banca Interamericana di Sviluppo ha adottato nel marzo
2007 una Iniziativa - complementare alla MDRI – per la cancellazione del debito ai
Paesi latino-americani beneficiari dell’Iniziativa HIPC.

171
I Paesi HIPC si impegnano a destinare le risorse rese disponibili grazie alla
cancellazione del debito a programmi di riduzione della povertà.
L’ "Iniziativa HIPC" ("Heavily Indebted Poor Countries") fu adottata nel 1996 al
Vertice G7 di Lione nel quadro delle azioni intraprese dalla comunità internazionale
per rendere sostenibile nel medio-lungo periodo il debito estero dei Paesi più poveri
("low income countries").
Il Vertice G7/G8 di Colonia del 1999 decise di:
− aumentare il numero dei Paesi eleggibili all'Iniziativa;
− elevare l'ammontare del debito eleggibile a cancellazione;
− accelerare i tempi di messa in atto del Programma attuativo dell'Iniziativa e
rafforzare il legame fra risorse finanziarie liberate dalle cancellazioni debitorie,
Programmi nazionali di Riduzione della Povertà ("Poverty Reduction Strategy
Papers" – PRSP) e sviluppo economico.
La nuova più incisiva Iniziativa venne ridenominata "Iniziativa HIPC rafforzata"
("enhanced HIPC Initiative").
All'Iniziativa possono accedere quei Paesi che oltre ad essere eleggibili ai prestiti
altamente concessionali dell'"International Development Association" – IDA della Banca
Mondiale (c.d. Paesi "IDA-only"), abbiano un debito insostenibile in base alle apposite
analisi finanziarie effettuate dagli esperti delle IFI (c.d. Paesi “IDA-only HIPC”).
L’"Iniziativa HIPC rafforzata" comprende i seguenti passaggi:
− il Paese debitore adotta un programma di aggiustamento ("adjustment program"),
sostenuto dal FMI e dalla Banca Mondiale, al fine di raggiungere la stabilità
economica e promuovere uno sviluppo auto-sostenibile;
− dopo un periodo massimo di circa tre anni ed a seguito di una valutazione finale
negativa dei parametri di sostenibilità del debito estero, FMI e Banca Mondiale
dichiarano l'eleggibilità del Paese all'Iniziativa (raggiungimento del "decision
point");
− il Paese adotta e mette in atto un Programma nazionale di Riduzione della
Povertà, con il supporto finanziario delle IFI, oltre che del Club di Parigi. I Paesi
HIPC firmano a Parigi le prime Intese multilaterali di cancellazione debitoria (c.d.
"interim debt relief"), cui fanno seguito i relativi Accordi bilaterali applicativi;
− entro un triennio, ove il debitore abbia attuato con successo il suo PRSP, FMI e
Banca Mondiale dichiarano raggiunto il “completion point”, a partire dal quale il
Paese potrebbe usufruire – con apposita Intesa multilaterale al Club di Parigi e
successivo Accordo bilaterale applicativo – della formale cancellazione del
rimanente debito eleggibile.
La “cut-off-date” (in gergo “c.o.d.”) è la data convenzionale che viene stabilita nel
momento in cui un Paese chiede di ristrutturare per la prima volta il proprio debito
estero al Club di Parigi.
La “c.o.d.” suddivide temporalmente il debito maturato a quel momento, e che sarà
oggetto della ristrutturazione (“pre cut-off-date” – “pre c.o.d.”), da quello che potrebbe
maturare successivamente (“post cut-off-date” – “post c.o.d.”), che in linea di principio
non sarà ristrutturabile in futuro.
La “c.o.d.” serve quindi a tutelare le Agenzie per il Credito all'Esportazione (ECAs) che,
in mancanza di tale data convenzionale, potrebbero non assicurare operazioni

172
economiche nel Paese debitore nel timore che questi non onori i nuovi crediti e chieda
una nuova ristrutturazione al Club di Parigi.
La “c.o.d.” dovrebbe quindi aiutare anche il Paese debitore in crisi finanziario-debitoria,
sia in termini di nuovo accesso al credito, sia di stimolo agli investimenti privati
dall'estero.
Solo in casi del tutto eccezionali (e comunque limitatamente ai soli Paesi HIPC) il Club
di Parigi può decidere di ristrutturare anche una parte del debito “post cut-off-date”,
onde colmare l'eventuale “gap” finanziario -segnalato dal FMI al Club- della bilancia dei
pagamenti del debitore.

Il Club di Parigi è stato fondato nel 1956, per far fronte ad una crisi finanziario-debitoria
dell'Argentina. Dal 1956 il Club ha effettuato circa 393 ristrutturazioni debitorie a favore
di circa 80 Paesi. Dal 1983 ad oggi il Club ha ristrutturato debiti per oltre USD 471
miliardi. I Paesi membri sono 19: Austria, Australia, Belgio, Canada, Danimarca,
Federazione Russa, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Giappone, Norvegia,
Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera ed USA. Sono stati invitati in
passato a partecipare a singole ristrutturazioni, in qualità di creditori, Abu Dhabi,
Argentina, Brasile, Corea, Israele, Kuwait, Marocco, Messico, Nuova Zelanda,
Portogallo, Sud Africa, Trinidad e Tobago e Turchia.
Al Club di Parigi i membri coordinano le loro azioni di cancellazione, recupero e
riprogrammazione dei crediti nei confronti dei Governi dei Paesi debitori.

La situazione attuale dei Paesi qualificati e di quelli potenzialmente eleggibili si presenta


come segue:
− 30 Paesi (Benin, Bolivia, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Ciad, Etiopia, Gambia,
Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Guyana, Haiti, Honduras, Madagascar, Malawi,
Mali, Mauritania, Mozambico, Nicaragua, Niger, Repubblica del Congo,
Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Sao Tomè e Principe, Senegal,
Sierra Leone, Tanzania, Uganda e Zambia) hanno raggiunto il “decision point”;
− 22 fra i suddetti Paesi (Uganda, Bolivia, Mozambico, Tanzania, Burkina Faso,
Malawi, Mali, Mauritania, Benin, Guyana, Nicaragua, Niger, Senegal, Etiopia,
Ghana, Madagascar, Honduras, Zambia, Ruanda, Camerun, Sierra Leone e Sao
Tomè) hanno raggiunto anche il "completion point";
− 11 Paesi non hanno ancora raggiunto il “decision point” (Afghanistan, Comore,
Costa d’Avorio, Liberia, Repubblica Centrafricana, Somalia, Sudan e Togo già
precedentemente inclusi e Eritrea, Kyrgyzistan e Nepal tra i nuovi Paesi).
L’Italia si è impegnata a cancellare 4,78 miliardi di Euro circa di debiti ai Paesi HIPC, il
67% circa dei quali sono crediti commerciali (SACE) ed il 33% crediti di aiuto (di
competenza del Ministero degli Affari Esteri - Direzione Generale per la Cooperazione
allo Sviluppo). L'Italia inizia peraltro ad applicare la cancellazione del 100% del debito
sin dal primo accordo interinale di "interim debt relief" per poi annullare l'intero debito
estero rimanente al "completion point". In tal modo il Paese HIPC interrompe i
pagamenti del servizio del proprio debito estero nei confronti del nostro Paese sin dal
"decision point". La modalità seguita dall’Italia lega il processo di cancellazione debitoria
ad un insieme di condizionalità internazionali ("Iniziativa HIPC rafforzata") e bilaterali
(Legge 209/00).

173
L’impegno dell’Italia nel quadro ed oltre l’“Iniziativa HIPC rafforzata” si può riassumere
quindi come segue:
− cancellazione al "decision point" del 100% - e non del 90% - dei pagamenti del
servizio del debito in crediti commerciali e di aiuto – non solo "pre", ma anche
"post-cut-off-date" - dovuti nel periodo interinario sino al raggiungimento del
"completion point" ;
− cancellazione al "completion point" del 100% - e non del 90% - dei crediti di aiuto,
non solo "pre-cut-off-date", ma anche "post-cut-off-date";
− cancellazione al "completion point" del 100% - e non del 90% - dei crediti
commerciali, non solo "pre", ma anche "post-cut-off-date".
La data limite entro cui vengono calcolati i crediti commerciali e di aiuto "post-cut-off
date" da cancellare è quella simbolica del Vertice G8 di Colonia (20 giugno 1999).
nche gli Stati Uniti hanno adottato tale data, mentre il Regno Unito ha scelto l’1.1.2000
ed il Canada il 31.3.2000.
Stato di attuazione dell”Iniziativa HIPC rafforzata da parte italiana
Al 30.6.2007 l’Italia ha firmato al Club di Parigi 38 Intese multilaterali nell’ambito
dell’”Iniziativa HIPC rafforzata”: 21 di “Interim debt relief” con Benin, Burkina Faso,
Camerun, Ciad, Etiopia, Ghana, Guinea (Conakry), Guinea Bissau, Haiti, Honduras,
Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Nicaragua, Repubblica del Congo, Repubblica
Democratica del Congo, Senegal, Sierra Leone, Tanzania e Zambia e 17 di
cancellazione finale del debito eleggibile con Benin, Bolivia, Burkina Faso, Camerun,
Etiopia, Ghana, Honduras, Madagascar, Mali, Mauritania, Mozambico, Nicaragua,
Senegal, Sierra Leone, Uganda, Tanzania e Zambia, (avendo tali Paesi raggiunto
anche il “completion point”).
Sono state inoltre firmate 8 Intese multilaterali con Burundi, Centrafrica, Costa d’Avorio,
Etiopia, Ghana, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo e Sierra
Leone, ai quali è stato concesso un trattamento pre-HIPC non avendo tali Paesi a quel
momento ancora raggiunto il “decision point”. Trattasi generalmente di una prima
cancellazione debitoria parziale, variante fra il 67% e l'80%, in dipendenza dalle
esigenze finanziarie del Paese, così come segnalate dalle IFI. Le Intese del Club sono
seguite dagli Accordi bilaterali applicativi, che tengono conto di quanto previsto dalla
Legge n. 209 del 25 luglio 2000 e dal suo Regolamento attuativo (entrato in vigore il 20
giugno 2001).
Nel periodo ottobre 2001 – giugno 2007 sono stati firmati 44 Accordi bilaterali con Paesi
HIPC, di cui 43 di cancellazione debitoria e 1 di riscadenzamento concessionale (con il
Ghana):
− 20 Accordi bilaterali di “interim debt relief” (con Benin, Burkina Faso, Camerun,
Ciad, Etiopia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Honduras, Madagascar, Malawi – al
quale è stato cancellato l’intero debito “de minimis”- Mali, Mauritania, Nicaragua,
Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Sierra
Leone, Tanzania e Zambia);
− 7 Accordi bilaterali pre-HIPC (con Burundi - al quale è stato cancellato l’intero
debito “de minimis”- Costa d’Avorio, Etiopia, Ghana, Repubblica del Congo,
Repubblica Democratica del Congo e Sierra Leone);
− 17 Accordi bilaterali di cancellazione finale -100% dei crediti commerciali e di
aiuto “pre” e “post-cod”- (con Benin, Bolivia, Burkina Faso, Camerun, Etiopia,

174
Ghana, Honduras, Madagascar, Mali, Mauritania, Mozambico, Nicaragua,
Senegal, Sierra Leone, Tanzania, Uganda e Zambia).
A partire da ottobre 2001 l’Italia ha cancellato bilateralmente 3,14 miliardi di EURO di
debito dei Paesi HIPC.
Proroga della “sunset clause” (termine di attuazione del Programma)
Per consentire al maggior numero di Paesi HIPC di beneficiare dell’Iniziativa, al Vertice
G8 di Sea Island (giugno 2004) i Capi di Stato e di Governo hanno raccomandato di
spostare in avanti di due anni la c.d. “sunset clause”, inizialmente prevista per la fine del
2004. Essi hanno inoltre dato mandato ai rispettivi Ministri delle Finanze di individuare,
di concerto con le Organizzazioni Finanziarie Internazionali e con gli altri donatori, le
modalità per assicurare il reperimento delle risorse finanziarie necessarie al
completamento dell’Iniziativa, ivi incluso il c.d. “topping up”, nonché di studiare
opportune misure da adottare per assicurare la sostenibilità del debito dei Paesi più
poveri una volta ultimata l’attuazione dell’Iniziativa.
Il G8 ha inoltre sollecitato i Paesi non membri del Club di Parigi e che non vi hanno
ancora aderito a partecipare all’Iniziativa HIPC.
In occasione delle riunioni annuali dei Governatori del FMI e della Banca Mondiale
(ottobre 2004) è stato deciso di estendere di due anni (dal dicembre 2004 al dicembre
2006) la durata dell’Iniziativa e di procedere contemporaneamente alla verifica delle
condizioni di eleggibilità dei Paesi più poveri sulla base dei dati disponibili sul debito al
31 dicembre 2004.
I Paesi HIPC si impegnano a destinare le risorse resesi disponibili grazie alla
cancellazione del debito a programmi di riduzione della povertà.
E’ stato costituito un apposito Fondo Fiduciario (“HIPC Trust Fund”) che raccoglie i
contributi volontari dei Paesi OCSE e della Russia. L’Italia partecipa al Fondo con un
impegno (a livello bilaterale e come quota parte in ambito Unione Europea) di USD 217
milioni circa (6,3% del totale).

9. LA COOPERAZIONE DECENTRATA
La cooperazione italiana dedica sempre maggiore attenzione e risorse alla crescita
della “cooperazione decentrata”, intesa quale attività di cooperazione realizzata dalle
Autonomie locali italiane (Regioni, Province, Comuni), in partenariato con enti
omologhi di Pvs (partenariato territoriale, transfrontaliero, di prossimità ecc.) con il
coinvolgimento della società civile dei rispettivi territori.
Si riconosce infatti a questa forma innovativa di aiuto allo sviluppo, caratterizzata
dall’ampia partecipazione e dalla reciprocità dei benefici, una propria specificità ed un
rilevante valore aggiunto rispetto sia alla cooperazione governativa che a quella non
governativa (Ong), soprattutto nei settori della lotta alla povertà e all’esclusione sociale
e della promozione della democrazia. Inoltre, promuovendo lo sviluppo economico
locale, la cooperazione decentrata è in grado di creare l’ambiente favorevole
all’internazionalizzazione delle nostre Pmi.
Le Regioni, dal canto loro, investono una quota crescente delle proprie risorse di
bilancio in attività di cooperazione allo sviluppo. Secondo una recente stima
l’ammontare degli stanziamenti regionali ha raggiunto un totale di circa 36 milioni di
euro nel 2003.

175
A ciò vanno aggiunti gli apporti di Enti locali, associazioni ed altri soggetti pubblici e
privati del territorio che svolgono in proprio o concorrono all’attività di cooperazione
delle Regioni per una cifra almeno equivalente a quella stanziata dalle Regioni.
L’efficacia della cooperazione decentrata dipende strettamente da due fattori:
 la capacità delle Autonomie locali di instaurare partenariati attivi e di coinvolgere in
forma partecipata le forze vive del proprio territorio
 la capacità della Dgcs di mettere a disposizione degli Enti locali risorse e sinergie
(programmi quadro) idonei ad orientare, coordinare e cofinanziare i singoli
interventi evitando dispersioni, duplicazioni e frammentazioni.
Da tempo la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo ha assunto la
cooperazione decentrata come una componente importante dell’aiuto pubblico allo
sviluppo italiano.
La sua azione tende essenzialmente a fornire alle Autonomie locali dei quadri di
riferimento entro cui inserire le proprie iniziative al fine di renderle coerenti con la nostra
politica di cooperazione e possibilmente complementari con i nostri interventi.
Il coinvolgimento delle Autonomie locali nella cooperazione governativa è in continua
crescita ed assume forme molteplici: dall’affidamento diretto di specifiche iniziative
(mediante apposite convenzioni) al cofinanziamento indiretto attraverso programmi
quadro in gestione diretta o affidati ad Organismi internazionali.
Inoltre sempre più spesso ai programmi governativi si affiancano interventi finanziati
con fondi propri da Enti locali italiani che, grazie alle sinergie ottenute, vedono
aumentata la propria efficacia e sostenibilità. In tale contesto sempre maggiore
importanza assume il ruolo di informazione e di accompagnamento svolto dalle nostre
Rappresentanze all’estero e dalle nostre Utl.
La cooperazione decentrata, prevedendo la partecipazione diretta degli individui, sia
quelli dei paesi donatori che quelli dei paesi beneficiati, riconosce l’esistenza di una
molteplicità di soggetti dello sviluppo.
In questo modo, si discosta notevolmente dalla logica dei macro-interventi ideati nei
centri decisionali occidentali ed esportati, spesso in modo acritico, un po’ ovunque nel
mondo.
La cooperazione decentrata è pensata a partire dalle esigenze locali e progettata
attraverso un’integrazione delle competenze locali e delle competenze dell’ente del
paese industrializzato che promuove l’intervento.
Il riconoscimento delle competenze specifiche delle entità locali (piccole e medie
imprese, imprese sociali, sindacati, università…) e l’invito a farle cooperare rappresenta
l’elemento qualificante della cooperazione decentrata.
Gli enti locali, infatti, dovrebbero agire in base alle loro competenze.
A loro volta, i programmi decentrati, per il loro carattere ristretto, sono più controllabili e
proprio il fatto di aver puntato sullo sviluppo locale costituisce una garanzia di
sostenibilità dell’intervento, ossia la sua capacità di sostenersi nel tempo attraverso le
risorse umane, tecniche ed istituzionali locali, attraverso una capacità di gestione locale.
La cooperazione decentrata non deve essere considerata come una via d’uscita di
fronte ai fallimenti delle forme di cooperazione tradizionali quanto piuttosto uno
strumento nuovo che, con le sue caratteristiche, dovrebbe affiancarsi alle forme di
cooperazione già esistenti. Si tratta, ad ogni modo, di una forma giovane di

176
cooperazione e pertanto non ancora collaudata e i cui risultati potranno essere valutati
soltanto in futuro.

8.1. L’introduzione della cooperazione decentrata


La cooperazione decentrata è stata introdotta nelle disposizioni generali della IV°
Convenzione di Lomè (ACP-UE) firmata nel 1989, che stabilisce un accordo di
cooperazione tra Europa e paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico.
Nell’art.20 di tale convenzione, relativo alle parti attive della cooperazione, si afferma il
principio di una cooperazione decentrata realizzata attraverso il concorso di parti attive
economiche, sociali e culturali. Tra queste parti attive i poteri pubblici decentrati vi sono
esplicitamente menzionati.
Nel 1992, quest’approccio è stato esteso ai paesi in via di sviluppo dell’America Latina e
dell’Asia (ALA-UE).
Nella dichiarazione adottata al termine della Conferenza euromediterranea di
Barcellona del 1995 i Paesi partecipanti manifestarono la volontà di rafforzare gli
strumenti della cooperazione decentrata, decidendo tra l’altro, di “incoraggiare i contatti”
al livello “delle autorità regionali” e delle “collettività locali”.
Questo nuovo approccio alla cooperazione internazionale si è gradualmente affermato
nel corso di questi ultimi anni e si è concretizzato nella creazione, in sede europea, di
una linea finanziaria specifica destinata alla promozione della cooperazione decentrata
attraverso il finanziamento di azioni di mobilitazione, di informazione ed il finanziamento
di azioni-pilota. L’importanza della cooperazione decentrata è stata riaffermata nella
Convenzione di Lomè IV bis del 1995, dove sono state adottate disposizioni
specifiche relative alla cooperazione decentrata.
Attraverso la cooperazione decentrata, la Commissione Europea ha voluto promuovere
i programmi provenienti da una vasta gamma di organismi locali e non governativi che,
spesso, completano la progettualità governativa.
Hanno diritto di domanda i seguenti organismi decentrati europei o dei paesi in via di
sviluppo:
− amministrazioni locali,
− organizzazioni non governative,
− associazioni locali, compresi sindacati e cooperative,
− associazioni femminili e di giovani,
− istituti di ricerca,
− organizzazioni religiose e altre organizzazioni di carattere culturale.
Il cofinanziamento della Commissione Europea ha lo scopo di sostenere e promuovere
le seguenti tipologie d’azione:
− valorizzazione delle risorse umane e tecniche, sviluppo locale, rurale o urbano nei
settori sociale ed economico dei paesi in via di sviluppo;
− informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentrata;
− sostegno e follow up metodologico delle azioni.

8.2. Regolamento (CE) n.1659/98 del Consiglio relativo alla cooperazione


decentralizzata

177
Il nuovo regolamento (CE) n. 625/2004 proroga fino al 31 dicembre 2006 il regolamento
di base (CE) n. 1659/98 relativo alla cooperazione decentralizzata, apportandovi inoltre
alcune modifiche e precisazioni. In particolare specifica che gli attori della cooperazione
decentrata non provengono soltanto dai paesi in via di sviluppo ma anche dalla
Comunità europea e aggiunge altri tipi di organizzazioni all'elenco dei partner. Intende
inoltre favorire la capacità di dialogo delle società civili affinché diventino interlocutori
validi nel processo democratico.
Le iniziative e le azioni sostenute dalla Comunità nel quadro della cooperazione
decentrata riguardano la riduzione della povertà e lo sviluppo sostenibile, in particolare
in situazioni di partenariato difficile, che intendono promuovere:
– uno sviluppo più partecipativo rispondente alle esigenze e iniziative delle
popolazioni in via di sviluppo;
– un contributo alla diversificazione e al potenziamento della società civile e alla
democratizzazione di tali paesi.
In questa prospettiva, la Commissione deve tener conto, valutando i progetti e i
programmi proposti, dei fattori seguenti:
– la pertinenza, l'efficacia e la sostenibilità delle azioni;
– gli aspetti culturali e sociali, gli aspetti relativi all'uguaglianza fra uomini e donne
nonché l'ambiente;
– lo sviluppo istituzionale necessario al raggiungimento degli obiettivi dell'azione;
– l'esperienza acquisita nel quadro delle azioni dello stesso genere;
– le necessità specifiche dei paesi nei quali la cooperazione ufficiale non è in grado
di contribuire in modo significativo al raggiungimento degli obiettivi di riduzione
della povertà e di sviluppo sostenibile.
Le attività da realizzare prioritariamente riguardano i settori seguenti:
– sviluppo delle risorse umane e tecniche, sviluppo locale, rurale o urbano, nei
settori sociale ed economico dei paesi in via di sviluppo;
– informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentrata e
partecipazione ai forum internazionali al fine di favorire il dialogo per l'emergere
della democrazia;
– sostegno al potenziamento istituzionale e al rafforzamento della capacità d'azione
di tali operatori;
– potenziamento delle reti di organizzazioni e di movimenti sociali che lottano per lo
sviluppo sostenibile, i diritti umani, in particolare quelli sociali, e la democrazia;
– sostegno e follow-up metodologici delle azioni.
Al fine di non far partecipare soltanto le organizzazioni non governative tradizionali, la
cooperazione decentrata ed il sostegno finanziario a titolo del citato regolamento sono
aperti a tutti gli operatori della cooperazione decentrata della Comunità o dei paesi in
via di sviluppo, vale a dire:
– i poteri pubblici locali (compresi quelli comunali);
– le organizzazioni non governative ;
– le organizzazioni delle popolazioni autoctone;
– le associazioni professionali;
– i gruppi d'iniziativa locali;
– le cooperative;
– i sindacati;

178
– le organizzazioni rappresentative degli operatori economici e sociali;
– le organizzazioni locali (comprese le reti) che operano in materia di cooperazione
e di integrazione regionali decentrate;
– le organizzazioni di consumatori;
– le organizzazioni di donne o di giovani;
– le organizzazioni d'insegnamento, culturali, di ricerca e scientifiche;
– le università;
– le chiese;
– le associazioni o comunità religiose;
– i media;
– qualsiasi associazione non governativa o fondazione indipendente in grado di
fornire un contributo allo sviluppo.

I mezzi contemplati dal finanziamento comunitario per l'attuazione delle azioni nel
quadro del regolamento comprendono in particolare:
– studi;
– assistenza tecnica;
– attività d'informazione, formazione o altri servizi;
– forniture e lavori;
– revisioni dei conti;
– missioni di valutazione e di controllo;
– spese di investimenti (escluso l'acquisto dei beni immobili);
– spese ricorrenti, per esempio le spese di amministrazione, manutenzione e
funzionamento.
Nel quadro della relazione annuale al Parlamento europeo e al Consiglio sull'attuazione
della politica di sviluppo, la Commissione presenta una sintesi delle azioni finanziate, il
loro impatto e i loro risultati, una valutazione indipendente dell'esecuzione del
regolamento nonché informazioni sugli attori della cooperazione decentrata con i quali
sono stati conclusi i contratti.
Inoltre, in occasione del comitato ONG la Commissione comunica agli Stati membri le
azioni e i progetti approvati, precisandone importo, natura, paese beneficiario e partner.
Il regolamento di base costituisce il seguito di numerose misure della Comunità che
sottolineano l'importanza della cooperazione decentrata in materia di sviluppo.
Il principio è stato introdotto nella Quarta Convenzione di Lomé nel 1989 ed è stato
sottolineato in particolare nel regolamento (CEE) n. 443/92 del Consiglio (abrogato dal
regolamento che istituisce lo strumento di finanziamento e cooperazione allo sviluppo
dal 1° gennaio 2007). riguardante l'aiuto finanziario e tecnico per i paesi in via di
sviluppo dell'America latina e dell'Asia nonché la cooperazione economica con tali
paesi. Nel 1992 l'autorità di bilancio ha creato una linea di bilancio volta a promuovere
questo approccio in tutti i paesi in via di sviluppo.
Il regolamento va inserito nel contesto della partecipazione degli attori non statali alla
politica di sviluppo dell'UE.
Con il nuovo regolamento (CE) n. 625/2004 la Comunità sostiene azioni e iniziative
intraprese dagli operatori della cooperazione decentralizzata della Comunità e dei paesi
in via di sviluppo allo scopo di ridurre la povertà e favorire lo sviluppo sostenibile

179
soprattutto nel caso di partenariati difficili, quando non possono essere utilizzati altri
strumenti. Tali azioni e iniziative promuoveranno:
- uno sviluppo più partecipativo che risponda alle esigenze e alle iniziative delle
popolazioni dei paesi in via di sviluppo,
- un contributo alla diversificazione, al rafforzamento della società civile e alla
democratizzazione in questi paesi.
Nel sostegno a dette azioni e iniziative la priorità è attribuita agli operatori della
cooperazione decentralizzata dei paesi in via di sviluppo. Queste azioni riguardano la
promozione della cooperazione decentralizzata a vantaggio di tutti i paesi in via di
sviluppo.";
Queste azioni riguardano la promozione della cooperazione decentralizzata a vantaggio
di tutti i paesi in via di sviluppo.

I settori prioritari d'azione in base al presente regolamento sono i seguenti:


- valorizzazione delle risorse umane e tecniche, sviluppo locale, rurale o urbano, nei
settori sociale ed economico dei paesi in via di sviluppo;
- informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentralizzata;
- sostegno al potenziamento delle istituzioni e al rafforzamento della capacità
d'azione di questi operatori;
- sostegno e follow-up metodologici delle azioni.
I partner nell'ambito della cooperazione che possono ottenere un sostegno
finanziario in base al presente regolamento sono gli operatori della cooperazione
decentralizzata della Comunità e dei paesi in via di sviluppo ovvero: autorità pubbliche
locali, organizzazioni non governative, gruppi professionali e gruppi d'iniziativa locali,
cooperative, sindacati, organizzazioni di donne o di giovani, istituti d'insegnamento e di
ricerca, chiese e qualsiasi associazione non governativa in grado di dare un contributo
allo sviluppo.

8.3. La normativa italiana sulla cooperazione decentrata


Anticipando il dibattito internazionale fin dal 1987, l’Italia ha riconosciuto, con la Legge
49/87 e con il relativo Regolamento di esecuzione (DPR n.177 del 12 aprile 1988, art.7),
alle Autonomie locali italiane (Regioni, Province Autonome ed Enti locali) un ruolo
propositivo ed attuativo nell’azione di cooperazione allo sviluppo disciplinandone,
altresì, la facoltà di iniziativa e le modalità di collaborazione con la DGCS (Direzione
Generale Cooperazione Sviluppo) del Ministero degli Affari Esteri.
La Legge n. 49 del 1987 prevede che:
− Comuni e Provincie possono stanziare fondi per attività di solidarietà
internazionale o di cooperazione internazionale;
− Il Governo italiano può utilizzare, nell’ambito dei propri progetti, le strutture
pubbliche di Regioni ed Enti Locali.
Ogni Comune ha, così, dato inizio ad una serie di iniziative diverse: in alcuni casi si è
trattato di veri e propri interventi di sviluppo, in altri si è trattato di donazioni di tutti i tipi
Il limite di questi interventi è rappresentato proprio dal loro carattere sporadico, dal
fatto di non essere inseriti in un contesto specifico: in questo modo, un singolo comune
o villaggio di un paese in via di sviluppo potrà ricevere benefici da un progetto di
cooperazione decentrata, ma il progetto avrà tutti i limiti di un intervento occasionale.

180
A questa situazione ha tentato di rispondere il testo della riforma della Legge 49/87
approvato da uno solo dei due rami del Parlamento (Senato, settembre 1999), che
assegna un ruolo primario alla cooperazione decentrata.
La legge di Riforma afferma che la cooperazione decentrata è la capacità
dell’amministrazione sub-statale di definire e concordare con un partner di un altro
paese (un comune, una città..) un accordo quadro di reciproco interesse coordinato e
governato dall’amministrazione pubblica ed eseguito dalle forze presenti sul territorio
(ONG, imprese sociali, ASL, piccole e medie imprese, associazioni di immigrati) le quali
agiscono in base alle loro competenze.

Per il finanziamento delle iniziative di cooperazione decentrata le amministrazioni


decentrate possono ricorrere a fondi propri, possono accedere a contributi e a
finanziamenti di organismi internazionali di sviluppo, a fondi dell’Unione Europea,
possono ricevere contributi e donazioni a carattere privato, nonché finanziamenti
governativi qualora il loro intervento si inserisca nel contesto della programmazione
della cooperazione governativa.
E’ significativo sottolineare come nel testo di riforma risultino esplicitamente affermati:
− il partenariato tra soggetti pubblici e privati ed organizzazioni della società civile
del territorio italiano e dei Paesi cooperanti” quale principio base della
cooperazione italiana;
− la soggettività nell’iniziativa di cooperazione di Regioni, Province autonome,
Province e Comuni nonché dei loro consorzi ed associazioni, definiti “soggetti
italiani della cooperazione” al pari del Governo e delle Organizzazioni non
governative;
− la loro autonoma funzione di promotori di interventi di cooperazione allo sviluppo,
di solidarietà internazionale e di interscambio a livello decentrato che favoriscano
la partecipazione organizzata dei soggetti attivi sul territorio di relativa
competenza, ferma restando l’eventuale funzione di enti esecutori di iniziative,
anche di emergenza, interamente finanziate dalla Cooperazione Governativa.
Inoltre, sono significative le indicazioni contenute nel testo per quanto riguarda
l’istituzione di fori di consultazione organica fra i soggetti della cooperazione
governativa, non governativa e decentrata, sia in fase di predisposizione del documento
di programmazione triennale della cooperazione governativa, sia per la
programmazione ed il coordinamento operativo dell’azione di cooperazione.
Le leggi regionali esistenti prevedono la possibilità di realizzare direttamente progetti
di cooperazione attraverso l’utilizzo di strutture proprie e l’impiego di personale
amministrativo regionale.
La funzione più interessante e peculiare, però, che le Regioni possono svolgere è
sicuramente quella di favorire la partecipazione alle attività di cooperazione allo
sviluppo di tutte le realtà istituzionali e della società civile presenti sul proprio territorio,
creando sinergie fondamentali per il trasferimento ed il pieno sfruttamento delle
capacità e delle professionalità esistenti in materia. Un’altra disposizione comune alle
leggi regionali è il coordinamento locale, l’assistenza e l’incentivo delle Regioni alle
proposte di intervento nella cooperazione con i Pvs di associazioni, enti pubblici e
privati, Ong, istituti e Università regionali. In proposito le Regioni intervengono
solitamente con prestazioni di servizi, più raramente con finanziamenti.

181
A volte è prevista la stipulazione di vere e proprie convenzioni tra l’Ente regionale e gli
enti minori per la realizzazione da parte di questi ultimi di progetti di cooperazione. Il
finanziamento di questi piani avviene, nella maggior parte dei casi, con l’istituzione di
appositi capitoli nei bilanci regionali. Alcune Regioni prevedono espressamente
l’accettazione di finanziamenti comunitari o internazionali per realizzare le proprie
iniziative di cooperazione allo sviluppo.
L’art. 19 della Legge Legge n° 68 del 19 marzo 1993 dà la possibilità a Comuni e
Province di destinare un importo non superiore allo 0,80% della somma dei primi tre
titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione per sostenere programmi di
cooperazione allo sviluppo ed interventi di solidarietà internazionale. Tale articolo
consente pertanto ai Comuni e alle Province di disporre di una base di risorse
finanziarie autonome per la realizzazione di interventi di cooperazione che, se sommate
ai finanziamenti della Unione Europea e delle Regioni, consente di avviare iniziative di
grande rilievo.

8.4. I vantaggi della cooperazione decentrata


L’obiettivo finale della cooperazione decentrata è quello di rendere autonomi gli attori
locali.
E’ necessario che essi prendano parte in modo attivo ai progetti, che imparino ad
essere flessibili, a negoziare, a risolvere i conflitti, a riflettere e a ottenere una migliore
efficacia delle azioni di sviluppo.
Occorre partire da ciò che gia esiste: ogni popolazione possiede delle capacità. Su
queste le azioni si devono basare per strutturare o acquisire nuove competenze. Lo
sviluppo delle capacità è un processo evolutivo che non può essere separato dalla
cultura e dai valori della società in questione.
Lo sviluppo delle capacità presuppone:
− informazione completa delle persone;
• strutture di appoggio ai gruppi di base o ai poteri pubblici locali;
• creazione di reti e scambio di esperienze;
• cambiamento di atteggiamenti.
E’ necessario creare delle reti di cooperazione decentrata per:
− rimuovere le barriere e favorire lo scambio Nord-Sud e Sud-Sud di esperienze,
la formazione e il rafforzamento duraturo degli attori decentralizzati al Sud;
− condurre le Ong e le collettività locali europee e del Sud ad associare risorse
ed iniziative intorno a delle priorità e per azioni comuni.
Il ruolo fondamentale del sistema della cooperazione decentrata per la cooperazione
internazionale italiana è stato fortemente sostenuto e valorizzato, nelle sedi nazionali
ma anche in quelle europee e internazionali.
Per questo è stata realizzata una intensa serie di confronti con il sistema italiano delle
autonomie locali.

8.5. Osservatorio interregionale cooperazione sviluppo (OICS)


L’OICS è nato nel settembre 1991 per volontà della Conferenza delle Regioni e delle
Provincie autonome italiane, come struttura comune in materia di cooperazione
decentrata allo sviluppo e di sostegno ai processi di internazionalizzazione economica
territoriale.

182
E’ un’organizzazione senza fini di lucro ed ha la natura giuridica di associazione
privata di enti pubblici.
I suoi soci ordinari sono infatti tutte le Regioni e le Province autonome italiane, ciascuna
rappresentata dal Presidente della Giunta o da un suo delegato.
Ogni socio assicura anche finanziariamente il funzionamento dell’Osservatorio
versando una quota annuale, che, per decisione della stessa Conferenza dei Presidenti,
è costituita per ogni socio da una parte fissa (uguale per tutti) e da una parte
proporzionale al numero di abitanti. Sono inoltre "soci osservatori" il Ministero degli
Affari Esteri (MAE), l’Unione delle Provincie Italiane (UPI), l’Associazione Nazionale dei
Comuni d’Italia (ANCI) e l’Assemblea delle ONG italiane.
Gli organi dell’Osservatorio sono l’Assemblea Generale, il Presidente, il Vicepresidente,
il Consiglio Direttivo, il Collegio dei Revisori dei Conti e il Direttore generale. La
Presidenza e il Consiglio Direttivo sono eletti ogni tre anni dall’Assemblea su
designazione della Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome.

Tra i molti compiti specifici previsti dallo Statuto si evidenziano i seguenti:


– stimolare e favorire l’attività di cooperazione internazionale di Regioni, Provincie
autonome ed Enti locali, sul loro territorio, nei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) e nei
PET (Paesi ad Economia in Transizione) del Sud e dell’Est del mondo;
– coadiuvare le Regioni nelle attività di sostegno e di governo territoriale dei
processi di internazionalizzazione economica;
– promuovere ricerche, studi e pubblicazioni; raccogliere e diffondere informazioni e
dati;
– organizzare convegni, seminari, tavole rotonde e conferenze, in Italia o all’estero;
– gestire una banca dati sulle opportunità, richieste, realizzazioni e canali di co-
finanziamento della cooperazione decentrata e dell’internazionalizzazione
economica;
– promuovere, studiare e realizzare programmi di cooperazione e di
internazionalizzazione nei PVS e nei PET, anche in collaborazione con altri
soggetti pubblici e privati, nazionali ed internazionali, tra cui in particolare il
governo italiano, l’Unione europea, l’ANCI, l’UPI e le ONG;
– promuovere, studiare e realizzare programmi di cooperazione e di
internazionalizzazione nei PVS e nei PET, anche in collaborazione con altri
soggetti pubblici e privati, nazionali ed internazionali, tra cui in particolare il
governo italino, l’Unione Europea, l’Anci, l’Upi e le ONG;
– promuovere, studiare e realizzare interventi di emergenza e di aiuto umanitario,
nonché programmi ed iniziative tesi a rafforzare le democrazie di base ed il
processo di pace ed ogni altra iniziativa rivolta al sostegno dello sviluppo
economico territoriale e di utilità sociale su base locale, alla difesa dei diritti umani,
sociali e civili, alla rimozione di fenomeni di esclusione sociale e di emarginazione,
alla promozione delle pari opportunità e dei diritti delle donne e dell’infanzia.
– Promuovere, studiare e realizzare iniziative mirate a migliorare il governo
territoriale dei flussi di immigrati, rifugiati e richiedenti asilo ed a valorizzarne il
ruolo come agenti di collegamento e sviluppo dei Paesi di origine, anche
favorendo ed integrando con attività di sostegno e microcredito le loro rimesse,
nonché iniziative di sostegno delle comunità italiane emigrate all’estero.

183
Inoltre l’OICS affianca e coadiuva i soci (Regioni e Provincie autonome) nella
progettazione, realizzazione, valutazione e monitoraggio di iniziative di cooperazione e
di internazionalizzazione e ne favorisce il collegamento, armonizzazione e
coordinamento tra loro, con le altre organizzazioni sub-governative (ANCI, UPI,
AICCRE, CRPM, ONG, Università e Centri di Ricerca, ecc), con le istituzioni nazionali
(MAE, ex MinComEs nel Ministero delle Attività Produttive, ecc.) e con quelle
sovranazionali (Commissione Europea, Agenzie delle Nazioni Unite, Banca Mondiale,
ecc.).
Infine, su richiesta di singoli soci che ne assumono i costi (al di fuori delle quote
annuali), l’OICS realizza per loro conto specifiche iniziative e progetti.

184
9- LE AREE DI INTERVENTO DELLA COOPERAZIONE ITALIANA
9.1. La politica UE nel Mediterraneo
Partenariato Euro-mediterraneo
− La Conferenza Euro-Mediterranea dei Ministri degli Affari Esteri tenutasi a
Barcellona il 27-28 novembre 1995 segna il punto di partenza del Partenariato
Euro-Mediterraneo (Processo di Barcellona): un sistema complesso di relazioni
politiche, economiche e sociali fra i Paesi membri dell’Unione Europea e i Paesi
della sponda sud del Mediterraneo (Paesi Terzi Mediterranei).
− In seguito al processo di allargamento dell’Unione Europea, gli Stati attualmente
membri del Partenariato sono 37: 27 Stati Membri UE e 10 Partners Mediterranei
(Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Autorità Palestinese, Siria,
Tunisia e Turchia). La Turchia gode peraltro di uno status particolare, in qualità di
Paese candidato all’adesione. La Libia e la Mauritania partecipano alle riunioni
ministeriali in qualità di osservatori.
− Il Processo di Barcellona si pone obiettivi in base ai quali sono state strutturate le
aree di intervento (capitoli o volet) del Partenariato:
 La realizzazione di un’area di pace e stabilità nella regione attraverso la
promozione dello Stato di diritto, della democrazia e dei diritti umani;
 la realizzazione, entro il 2010, di una zona di libero scambio fra le due sponde
del Mediterraneo. Da questa angolazione il Partenariato rappresenta uno
strumento per sostenere lo sviluppo socio-economico dei Paesi partner,
senza tuttavia produrre lacerazioni nel tessuto sociale e culturale;
 Il consolidamento dei rapporti umani, culturali e sociali tra le due sponde del
Mediterraneo facendo leva sulla società civile, la cooperazione decentrata e
gli organismi di volontariato per favorire l’incontro e la reciproca conoscenza.
 La cooperazione migratoria tra l'Unione Europea ed i Paesi della sponda Sud
del Mediterraneo figura in questo capitolo ma ha ormai di fatto acquisito lo
status di volet indipendente del Partenariato Euro-mediterraneo.
Il Partenariato Euro-Mediterraneo viene realizzato su due livelli complementari:
− Bilaterale: gli Accordi di Associazione tra l'UE e i Paesi dell'area mediterranea
riflettono i principi generali che governano le relazioni euro-mediterranee, sebbene
ciascuno contenga disposizioni specifiche volte a regolare le relazioni tra l’Unione
Europea e ogni singolo partner mediterraneo.
− Regionale/multilaterale: la dimensione multilaterale sostiene e completa la
cooperazione bilaterale e il dialogo che hanno luogo nell’ambito degli Accordi di
Associazione. Tale dimensione è strutturata sui tre volet principali e sulla
definizione di ambiti prioritari di cooperazione: misure di partnership building,
dialogo politico e di sicurezza, promozione dei diritti umani e della democrazia,
commercio, industria, ambiente, società dell'informazione, energia, agricoltura,
trasporti e infrastrutture, cultura, sanità. La cooperazione regionale ha un impatto
strategico considerevole in quanto affronta problemi che sono comuni a molti
Partner Mediterranei, enfatizzando le complementarità nazionali.
I principali strumenti di finanziamento del Partenariato Euro-Mediterraneo sono:
− Il Programma MEDA (I e II): dal 2000 al 2006 MEDA ha finanziato per un
ammontare di circa 5,3 miliardi di Euro programmi di cooperazione, di supporto

185
tecnico e finanziario per riforme sociali ed economiche nei Paesi partner
mediterranei;
− La Banca Europea di Investimento BEI, soprattutto tramite il Fondo Euro-
mediterraneo d’Investimento (Facility for Euro-Mediterranean Investment and
Partnership - FEMIP), dal 2000 al 2007 ha finanziato attività di sviluppo nei Paesi
membri del Partenariato per un ammontare di circa 6,4 miliardi di Euro. Per il
periodo 2007-2013, l’ammontare dei prestiti BEI a favore dei Partners Mediterranei
è previsto nell’ordine di 8,7 miliardi di euro.
− Il FEMIP è un fondo creato dal Consiglio Europeo nel 2002 e gestito dalla BEI, al
fine di promuovere lo sviluppo economico e la stabilità politico-sociale dei Paesi
partner mediterranei.
− Con una dotazione complessiva di circa 12 miliardi di euro, lo strumento Europeo
di Vicinato e Partenariato (ENPI) è, con lo strumento di Pre-Adesione (IPA) e lo
strumento di Cooperazione allo sviluppo (DCI), uno dei nuovi strumenti geografici
che compongono il nuovo “pacchetto aiuto esterno” dell’Unione europea per il
periodo 2007-2013 nel quadro della Rubrica 4 (“L’Unione europea come attore
globale”) del Bilancio comunitario. Esso sostituisce quindi, per quanto concerne
l’area del Mediterraneo, il Programma MEDA.
Il Partenariato Euro-Mediterraneo si è sviluppato attraverso una serie di Conferenze dei
Ministri degli Esteri e Incontri e Ministeriali tematiche ad hoc riguardanti i vari settori di
cooperazione.
La nascita della Fondazione Euro-Mediterranea per il Dialogo tra le Culture,
l'evoluzione del FEMIP e l'inclusione, con funzioni consultive, dell'Assemblea
Parlamentare Euro- Mediterranea nel Processo di Barcellona, costituiscono alcuni tra i
risultati di maggiore rilievo raggiunti in occasione della V Conferenza Ministeriale
Euro- Mediterranea, svoltasi a Napoli il 2 ed il 3 Dicembre 2003.
− Fondazione Euro-Mediterranea “Anna Lindh” per il Dialogo tra le Culture
(FEM/ALF) : si insedia ad Alessandria d'Egitto presso la Biblioteca Alessandrina e
il locale Istituto svedese nel 2005. La FEM è un'istituzione di carattere non
governativo, ideata come strumento propulsore e catalizzatore di attività finalizzate
al dialogo interculturale nel Mediterraneo. La FEM è concepita come “rete di reti
nazionali”, dove ogni Paese partner costituisce la propria rete di istituzioni fra
quelle maggiormente rappresentative del dialogo fra le due sponde, guidate da un
Ente capofila. Per l'Italia, tale ruolo è affidato alla “Fondazione Mediterraneo” di
Napoli. I compiti istituzionali della FEM prevedono che le attività di tale organismo
si sviluppino sia su iniziativa dello stesso staff di Alessandria, sia attraverso il
coinvolgimento delle 37 reti euro-mediterranee che promuovono le iniziative a
livello nazionale.
− Quanto alla FEMIP, a Napoli i Ministri degli Esteri hanno avallato la decisione del
Consiglio di rafforzarne l'assetto, attraverso l'aumento della dotazione finanziaria,
un maggiore coinvolgimento dei Paesi della sponda sud nella sua gestione ed il
rafforzamento della presenza in loco della BEI.
− L'Assemblea Parlamentare Euro-Mediterranea (APEM): nata dalla trasformazione
del preesistente Forum Parlamentare Euro-Mediterraneo (che era attivo dal 1998),
è stata creata per conferire maggiore visibilità e trasparenza alle iniziative e al
lavoro svolto all'interno del Partenariato Euro-Mediterraneo. L'Assemblea punta a

186
rafforzare il dialogo e la collaborazione tra i popoli euro-mediterranei e rappresenta
uno strumento per interpretare e valorizzare gli interessi e le aspettative delle
opinioni pubbliche dei Paesi membri. E' inoltre previsto che l'Assemblea svolga un
ruolo di rilievo nel monitoraggio relativo all'applicazione degli Accordi di
Associazione. Dotata di funzioni consultive, essa può formulare raccomandazioni e
pareri destinati alle Conferenze dei Ministri degli Esteri.
Dal 2003 le relazioni di partenariato sono state ridefinite e arricchite dalla Politica
Europea di Vicinato: European Neighbourhood Policy (ENP/PEV).
Si tratta di uno strumento per incentivare la cooperazione con quei Paesi che, dopo
l’allargamento, si trovano alle porte dell’Unione stessa.
La PEV è dunque rivolta verso il Mediterraneo e l’Europa Orientale, ricomprendendo i
10 Paesi coinvolti nel Partenariato Euro-Mediterraneo, la Russia, l’Ucraina, la
Bielorussia e la Moldova. I Piani d’azione bilaterali concordati fra l’UE e ciascun Paese
Partner rivestono un ruolo centrale nell’attuazione della PEV, stabilendo tali Piani
un’agenda di riforme politiche ed economiche con priorità di breve e medio periodo.

2. AREE DI INTERVENTO
La cooperazione italiana interviene nelle diverse aree geografiche del mondo in modo
articolato e differenziato.
2.1. Asia e Pacifico: in Afghanistan, Bangladesh, Cambogia, Cina, Corea Del Nord,
Filippine, India, Indonesia, Mongolia, Myanmar, Nepal, Pakistan, , Sri Lanka, Timor Est,
Vietnam
Nel 2005 il prodotto interno dei paesi asiatici ha proseguito la tendenza all’aumento e, in
generale, le prospettive restano favorevoli.
Tuttavia in alcune nazioni dell’area - molti Stati del Pacifico, Mongolia, Cambogia, Laos
Myanmar, Bangladesh e Nepal - permangono condizioni inadeguate di sviluppo.
Nonostante una sensibile diminuzione delle risorse disponibili, la Cooperazione italiana
ha mantenuto nel 2005 una posizione significativa in numerosi paesi asiatici,
continuando negli sforzi finanziari volti a coprire, per quanto possibile, l’insieme del
continente.
In questo contesto sono proseguite in Asia le politiche di sostegno economico volte al
miglioramento delle condizioni generali di vita delle popolazioni locali, con interventi a
favore delle aree e delle fasce sociali più bisognose, e altri mirati allo sviluppo
dell’imprenditoria privata.
Molte iniziative sono state realizzate attraverso il cofinanziamento di programmi
regionali lanciati dalle Organizzazioni Internazionali in materia di protezione
dell’ambiente e tutela dei minori.
In Cina, il cui sviluppo economico è tale da non potere più essere considerato
propriamente come Paese di cooperazione, le iniziative italiane sono principalmente
volte a sostenere lo sviluppo delle Province centro-occidentali, il cui reddito pro capite è
sensibilmente inferiore alla media nazionale.
L’Afghanistan rimane il maggior beneficiario degli interventi e degli impegni sul canale
dei doni.

187
Il subcontinente indiano ha visto la ripresa delle attività di cooperazione sia sul canale
bilaterale, attraverso nuovi programmi a credito d’aiuto; sia sul canale multi-bilaterale,
con l’affidamento di iniziative a Organizzazioni Internazionali.
Nell’area del sud-est asiatico, il Vietnam è il maggior destinatario degli interventi di
cooperazione, che si concretizzano principalmente attraverso l’erogazione di crediti
d’aiuto nel settore ambientale e a sostegno del processo di riforma intrapreso negli
ultimi anni.
L’Italia è stata tra i primi paesi ad attivare aiuti di emergenza a favore delle popolazioni
dello Sri Lanka colpite dallo Tsunami nel dicembre 20004. In tale quadro, nel 2005,
sono stati concessi finanziamenti sul canale bilaterale a favore dei distretti di Batticaloa,
Ampara e Hambatota.
Nel quadro degli aiuti forniti allo Sri Lanka l’Italia ha inoltre deciso di procedere alla
cancellazione del debito di tale Paese per complessivi 7,13 milioni di euro.

2.2. Nord Africa e vicino e Medio Oriente


La politica di cooperazione allo sviluppo, in linea con le direttrici della politica estera
italiana, attribuisce particolare attenzione al rapporto con le aree geografiche facenti
parte del proprio near abroad, ossia Nord Africa (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco);
Vicino e Medio Oriente (Territori Palestinesi, Giordania, Libano, Siria, Iran, Iraq,
Yemen); Penisola Balcanica (Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Serbia e
Montenegro).
In queste aree gli interventi sono volti ad assicurare in primo luogo la stabilità politica e
il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali.
Questi obiettivi vengono perseguiti attraverso iniziative mirate allo sviluppo di settori
chiave dell’economia e della società. Ciò affinché i risultati prodotti nelle singole realtà
oggetto dei progetti possano estendersi alla regione, allentando le tensioni esistenti
all’interno di un Paese o fra diversi paesi di un’intera area.
L’aiuto allo sviluppo nei confronti di taluni di questi paesi rappresenta, inoltre, un
elemento importante ai fini di un’efficace gestione dei flussi migratori che da tali regioni
originano in direzione dell’Europa e, segnatamente, dell’Italia.
Gli interventi si sono concentrati nei settori dello sviluppo della piccola e media impresa;
delle infrastrutture; della sanità; dell’agricoltura; dell’energia; della tutela ambientale;
della valorizzazione del patrimonio culturale, con particolare attenzione alla tematica del
rafforzamento istituzionale.
Con riferimento ai Paesi del Mediterraneo, in considerazione degli obiettivi proposti
nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo, nel 2005 le attività di cooperazione
hanno confermato l’impegno teso a favorire la creazione di un’area di libero scambio. In
quest’ottica, lo sviluppo del settore privato e in particolare il sostegno alla piccola e
media impresa nei Paesi del Maghreb, ha continuato a rappresentare un importante
settore di intervento.
Per quanto concerne l’area del Medio Oriente e, più specificamente, il processo di pace
israelopalestinese, gli interventi - fino alla crisi esplosa nell’autunno 2000 - erano
fondamentalmente costituiti da progetti di sviluppo.

188
A seguito della recrudescenza della crisi israelo-palestinese, l’impegno della
Cooperazione italiana si è spostato anche su interventi di sostegno al budget del
Governo palestinese, nonché su programmi di emergenza e di carattere umanitario.
Tra l’agosto e il settembre del 2005 il ritiro dei coloni israeliani da Gaza e da alcune
zone della Cisgiordania è stato accompagnato da un forte impegno della Cooperazione
Italiana - allineata con il resto della comunità internazionale - nel sostegno del processo
di democratizzazione delle istituzioni e nelle attività dedicate alla ripresa economica.
Per quanto riguarda l’Iraq sono proseguite le iniziative d’emergenza iniziate nel 2003,
sul piano sia multilaterale che bilaterale, con l’erogazione di oltre 21 milioni di euro tra il
2003 e 2004. A questi sono da aggiungere i 20 milioni di euro per la ricostruzione,
erogati tra il 2004 e il 2005, a favore del Fondo internazionale per l’Iraq gestito
dall’Undp (Irffi).

2.3. L'impegno del Governo Italiano per l'Africa


Sul piano bilaterale, il nostro Paese vanta buoni rapporti diplomatici con tutti i principali
Paesi africani ed è con essi quotidianamente impegnato in una fattiva collaborazione su
svariati settori: dalla cooperazione allo sviluppo alle iniziative in materie tecnico-
scientifiche, dagli scambi culturali ai rapporti commerciali, dall’aiuto in campo sanitario
al sostegno alla creazione di un sistema africano di pace e sicurezza, dalla promozione
di iniziative in campo scientifico e tecnologico al sostegno al sistema educativo locale,
dalla difesa dell’ambiente e delle risorse naturali del Continente alla regolamentazione
delle migrazione legale e al contrasto di quella irregolare (in particolare all’odioso
fenomeno del traffico di esseri umani) fino alle iniziative per la lotta agli effetti perversi
dei cambiamenti climatici nel vicino Continente.
Sul piano multilaterale, l’Italia, convinta che i problemi dell’Africa siano problemi di
tutta la Comunità internazionale e vadano affrontati il più possibile in maniera “globale”,
opera affinché le problematiche relative al “Continente nero” siano sempre al centro
dell’agenda politica dei più importanti consessi internazionali.
È infatti necessario che i Paesi industrializzati sostengano gli sforzi che si stanno
compiendo all’interno del Continente africano, dove si è elaborato un nuovo approccio
ai problemi esistenti. Un approccio che, nel quadro dell’Unione Africana e della NEPAD
(Nuovo Partenariato per lo Sviluppo dell’Africa), si basa sulla volontà africana di
prendere in mano (processo di “ownership”) i destini propri del Continente e di
agganciare cosi’ l’Africa ai grandi processi di globalizzazione
L’azione dell’Italia nei confronti dell’Africa non si esplica solo sul piano bilaterale, ma è
anche attiva e dinamica su quello multilaterale del G8.
Dal Vertice di Genova del 2001 a Presidenza italiana, il Gruppo dei Paesi più
industrializzati ha accolto l’appello di alcuni Capi di Stato africani di essere ascoltai in
occasione dei Vertici e di approfondire congiuntamente i temi dei rapporti con il
Continente.
Da quel momento, l’Africa figura tra i temi fissi nell’Agenda dei Vertici G8 ed alcuni
Rappresentanti di Paesi africani partecipano ad una parte dei suoi lavori.
Al Vertice di Genova è stata in particolare decisa la creazione di un Comitato di
Rappresentanti Personali per l’Africa (RPA) dei Capi di Stato e di Governo G8 ed
africani con l’impegno di incontrarsi almeno due volte l’anno in un African Partnership

189
Forum (APF) per mantenere attuale il confronto dialettico sulle necessità e le
prospettive di crescita del Continente e per esaminare congiuntamente i risultati ottenuti
dalla collaborazione reciproca (partnership).
Il Vertice G8, tenutosi ad Heiligendamm (Germania) sotto Presidenza tedesca ha
confermato, su spinta anche dell’Italia, la stretta interdipendenza tra le economie
sviluppate ed emergenti, specie quelle africane, ricordando come le principali sfide
poste dalla globalizzazione non possono più fare a meno del pieno coinvolgimento
della presa di responsabilità di tutti i Paesi.
Nella sua Dichiarazione Finale sull’Africa, in un approccio pienamente condiviso anche
dai Paesi africani, il Vertice ribadisce l’importanza di temi come il buon governo e la
democrazia nella gestione della politica africana, ritenendoli precondizioni
indispensabili per lo sviluppo. Il G8 conferma il proprio sostegno al rafforzamento
delle Istituzioni regionali africane ed appoggia il contributo che la nuova Architettura
Africana di Pace e Sicurezza può offrire per la prevenzione e la soluzione dei conflitti.

Sul piano europeo, l’Italia ha attivamente contribuito all’elaborazione della Strategia


Europea per l’Africa, adottata dal Consiglio nel dicembre 2005 ( e ribadita nello scorso
dicembre) ed utilizza la propria influenza per mantenere alta - e, se possibile,
aumentare ulteriormente - l’attenzione che il nostro Continente presta all’Africa, anche
attraverso la promozione di un dialogo politico condotto in maniera costruttiva e
regolare non solo con i Governi africani, ma anche con le opposizioni democratiche e gli
esponenti della società civile, allo scopo di realizzare “nei fatti” quella “dimensione
politica” del partenariato UE-ACP che caratterizza gli Accordi di Cotonou (giugno 2000)
e che si incardina sui temi della democrazia, del rispetto dei diritti umani e del buon
governo.

Il Vertice G8 di Gleanagles del luglio 2005 ha riconfermato il rafforzamento del


dialogo, approvando lo specifico Piano d’Azione per l’Africa, che prevede una serie di
iniziative concrete quali la cancellazione del debito multilaterale per 14 Paesi,
l’incremento di 25 miliardi di dollari entro il 2010 dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS)
destinato all’Africa, il rilancio degli impegni nelle otto tematiche di base (pace e
sicurezza, governance, commercio e investimenti, debito, educazione, sanità,
agricoltura e risorse idriche, infrastrutture di base).
Nel Vertice G8 di San Pietroburgo (luglio 2006) l’attenzione e’ stata concentrata
sulle tematiche riguardanti la creazione delle condizioni necessarie per sconfiggere la
povertà in Africa, favorendo così il consolidamento della stabilità e della pace regionale
e ci si e’ impegnati ad accrescere ulteriormente gli sforzi nei settori chiave della
risoluzione dei conflitti, dello sviluppo delle capacità anti-crisi da parte africana,
dell’investimento nel campo della formazione e del buon governo.

Accanto allo sforzo dei Paesi G8 e dell’Unione Europea, anche l’Unione Africana ha
provveduto ad adottare ed avviare proprie istituzioni, alcune delle quali modellate
sull’esempio dell’Unione Europea, quali Il “Consiglio Africano per la Pace e la
Sicurezza”, costituito da 15 membri, di cui 5 con mandato triennale rinnovabile e 10 con
mandato biennale non rinnovabile. Tale organo, sorto nel maggio 2004, sovrintende a
sua volta ad un “Meccanismo di Pace e Sicurezza”

190
Analogamente, a livello sub-regionale, si assiste al rafforzamento e consolidamento
delle organizzazioni regionali africane, quali
− ECOWAS (Economic Community of Western African States),
− IGAD (Intergovernmental Authority on Development, che raggruppa gli Stati del
Corno d’Africa),
− COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa)
− SADC (Southern African Development Community).

Quadro dell'area per l'Africa Subsahariana


Nonostante i miglioramenti registrati nelle economie africane, povertà e inedia sono
fenomeni oramai radicati in quest’area. Circa il 34% della popolazione è denutrita.
Nel 2005 la Dgcs ha erogato oltre 106 milioni di euro a dono e circa 250 milioni a
credito, concentrati prevalentemente in tre regioni considerate prioritarie: il Corno
d’Africa; la regione dei Grandi Laghi; i grandi paesi dell’Africa australe (Mozambico,
Angola e Sudafrica).
Interventi mirati, inoltre, sono stati indirizzati ad alcuni Paesi dell’Africa occidentale
(Mali, Senegal, Niger). I maggiori beneficiari degli interventi a dono sono stati:
Mozambico (19 milioni di euro); Somalia (18 milioni); Sudan (16 milioni); Etiopia (8
milioni); infine Eritrea, Sudafrica, Tanzania.
Gli interventi riflettono i contenuti dei programmi nazionali di riduzione della povertà
(Poverty Reduction Strategy Papers); delle strategie di sviluppo globali (NePAD e
Obiettivi del Millennio) e sono integrati con i documenti strategici dell’Unione Europea
(Regional Strategy Papers e Country Strategy Papers).
La Cooperazione italiana è attiva in Africa nei settori dell’educazione, delle
infrastrutture, della lotta alla desertificazione - e in generale della tutela dell’ambiente - e
della sanità.
In particolare, l’emergenza sanitaria delle grandi malattie (AIDS, tubercolosi e malaria) è
fra i bisogni più pressanti. La Cooperazione italiana è seriamente impegnata in tale
settore con programmi bilaterali di sostegno diretto ai sistemi sanitari nazionali; con
interventi di supporto tecnico realizzati direttamente o per il tramite dell’OMS; nonché
attraverso finanziamenti al Fondo Globale.
Nel settore dello sviluppo agricolo integrato, i programmi di Keita in Niger e di Arsi e
Bale in Etiopia, della regione di Umutara in Ruanda e in quella di Karuzi in Burundi
costituiscono importanti esempi di programmi integrati, prevedendo interventi a
sostegno della produttività agricola e dell’allevamento; microcredito; fornitura d’acqua
potabile; riabilitazione di piste e strade rurali; commercializzazione di prodotti agricoli;
educazione di base e dispensari rurali.
Secondo la legge 209/2000, infine, devono essere considerati fondi di cooperazione
anche le risorse liberate dalla cancellazione del debito dei paesi poveri e altamente
indebitati (paesi HIPC). Tale ammontare deve essere utilizzato nel quadro dei
programmi nazionali di riduzione della povertà. Fino a oggi 13 paesi hanno raggiunto il
completion point che comporta la cancellazione totale del debito, e altri 11 il decision
point che segna l’avvio del processo.

191
2.4. Grandi processi di trasformazione in Africa
Oltre ad impegnarsi per il ripristino ed il mantenimento di condizioni di pace e sicurezza,
gli Stati africani si sono dotati anche di una apposita strategia per lo sviluppo economico
del Continente, la NEPAD (New Partnership for African Development).
Tale iniziativa, sorta per la realizzazione della “Dichiarazione del Millennio” delle Nazioni
Unite, è stata adottata dall'Unione Africana nel 2001 e si propone di dimezzare la
povertà in Africa, vale a dire la riduzione della metà del numero di africani costretti a
vivere con meno di un dollaro al giorno. La strategia si fonda sul principio della
“ownership” (responsabilita’), posta in capo ai Paesi africani circa l'indirizzo da dare ai
progetti di sviluppo e sul partenariato con i Paesi sviluppati. Tale partenariato dovrà
svilupparsi in relazione alle seguenti tematiche fondamentali, indicate dalla strategia
NePAD come “priority areas”:
− Democrazia, stato di diritto, buongoverno politico (governance), buongoverno
economico, iniziative anti-corruzione;
− Prevenzione e gestione dei conflitti;
− Sviluppo umano, con investimenti nei settori della sanità (con particolare riguardo
alla lotta contro l'AIDS, la malaria e altre malattie endemiche), dell’istruzione e
della formazione professionale;
− Infrastrutture;
− Tecnologie informatiche e telecomunicazioni;
− Promozione degli investimenti privati in Africa;
− Incremento degli scambi commerciali all’interno dell’Africa (c.d. “Partenariato sud-
sud”) e fra l’Africa e il mondo;
− Miglioramento nella gestione delle risorse idriche, lotta alla fame e maggior
sicurezza alimentare.
Il partenariato con il mondo sviluppato deve svolgersi non a livello di singoli Stati ma
regionalmente, se non addirittura a livello continentale (viene citato come esempio il
partenariato euro-africano inaugurato con il Vertice UE-Africa del Cairo dell’aprile 2000).
Da parte loro, gli africani si impegnano a realizzare quanto prima mercati regionali,
sviluppando gli accordi commerciali esistenti (per esempio, ECOWAS e SADC), come
premessa per la creazione di un grande mercato continentale africano.
Il 28 maggio 2003 il Comitato di Attuazione del NEPAD ha varato il Meccanismo
Africano di Revisione tra Pari (Peer Review), che è diretto da un “Comitato dei Saggi”
(Panel of Eminent Persons).
Si tratta di un meccanismo di monitoraggio dei Paesi che vi aderiscono e che vengono
così sottoposti ad un esame (condotto da altri Paesi africani e quindi pienamente
rispettoso del principio della “ownership”) sulla effettiva osservanza dei principi di
buongoverno, rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto e della gestione degli aiuti
internazionali ricevuti.

2.5. Le opportunità di investimento in Africa


Le imprese italiane manifestano ancora una scarsa propensione ad investire nell’Africa
sub sahariana, a differenza dell’agguerrita concorrenza internazionale – in particolare,
da ultimo, quella cinese - per ragioni connesse al contesto geo-politico ed economico

192
prevalenti in questa Regione, nonché per un carente quadro normativo di protezione
degli investimenti bilaterale.
Questa situazione di incertezza però sta cambiando, sia grazie agli sviluppi delle
iniziative intraprese in ambito NEPAD ed al conseguente Piano d’Azione per l’Africa
approvato dal Vertice G8 del 2002, sia grazie al comportamento virtuoso di taluni Paesi
Africani che, anche beneficiando di importanti provvedimenti finanziari internazionali a
sostegno dei Governi - fra cui la cancellazione o la riduzione del debito - sono riusciti a
varare importanti riforme interne, migliorando cosi’il proprio quadro normativo. Tra tali
provvedimenti spicca la riforma delle normative connesse all’attrazione degli
investimenti stranieri, per cui la World Bank, confermando tale andamento, ha
recentemente classificato i Paesi subsahariani nella fascia di snellimento ed
ammodernamento di tale legislazione. Quanto precede fa presagire per l’Africa, negli
anni a venire, il dischiudersi di nuove ed interessanti opportunità per gli operatori
economici italiani e soprattutto per i nostri investitori.
Confermano questa tendenza i dati recentemente divulgati dall’UNCTAD in base ai
quali, nel 2005, gli investimenti diretti esteri (IDE) in Africa hanno raggiunto la cifra
record di circa US$ 31 miliardi; tali fondi si sono concentrati principalmente in Sud Africa
e, oltre ai Paesi del Nord Africa, in Nigeria, Sudan, Guinea Equatoriale, RDC e Ciad. I
settori prediletti sono stati il petrolifero, quello del gas e quello minerario.
Per contro i disinvestimenti sono rimasti a livelli ridotti.
Tra gli altri provvedimenti a favore dello sviluppo delle economie africane varate
dall’Unione Europea, va ricordata l’iniziativa “Everything but arms”, attraverso la quale
l’UE si è impegnata ad eliminare le misure protezionistiche su tutti i prodotti provenienti
dal Sud del Mondo, ad eccezione delle armi.
L’Africa subsahariana presenta notevoli potenzialità economiche, anche se i suoi
mercati non sono ancora pienamente inseriti nei circuiti dell’economia globale,
nonostante, in questo ultimo triennio, le economie Sub-sahariane siano caratterizzate
da una forte crescita del PIL (intorno al 6%) rispetto ad una stagnazione che per anni le
ha caratterizzate.
Difatti, al là delle realtà già note quali il Sud Africa, la Nigeria, l’Angola, molti sono i
contesti in trasformazione in vari Paesi ed in vari settori: si tratta in massima parte di
economie in transizione vuoi per motivi connessi a virtuose evoluzioni politiche interne
vuoi per progressi economici dovuti ad una migliore gestione delle risorse o ad efficaci
riforme strutturali, per cui questa Regione dell’Africa sta vivendo un positivo fermento. I
settori più produttivi in Africa sono, tradizionalmente, lo sfruttamento delle materie
prime, mercato petrolifero in primis, ed il settore agro-industriale.
È ora opportuno, da parte specie delle nostre piccole e medie imprese, sfruttare la
positività di questa congiuntura, mostrando maggior dinamismo in quest’area
attualmente interessata a sviluppare il settore manifatturiero, partendo dai processi di
trasformazione dei beni che i Paesi africani consumano ed esportano.
Oltre al manifatturiero, i settori che attualmente appaiono maggiormente promettenti e
suscettibili di rapidi sviluppi sono quello chimico-farmaceutico, edile, informatico e
turistico.
Grazie alla politica di internazionalizzazione del nostro sistema produttivo, le
opportunità offerte dal continente vengono ora portate a conoscenza dell’imprenditoria

193
interessata attraverso una rete informativa potenziata e coordinata di agenzie di
stampa, banche ed Istituzioni pubbliche.
Si ricorda infine che, anche per quanto riguardo il problema della sicurezza, sono stati
attuati degli strumenti agevoli per consentire, anche all’imprenditore, di orientarsi circa
l’opportunità di effettuare viaggi di lavoro in certe aree e comunque la possibilità di
dotarsi di un sistema di segnalazione utile per garantire un efficace intervento in caso di
necessità.

2.6. America Latina e Caraibi


I principali indicatori economici segnalano come l’area sia uscita soltanto di recente
dalla crisi che l’aveva investita nell’ultimo decennio, avviandosi verso un ritmo più
sostenuto di ripresa.
L’America Latina ha un enorme potenziale di sviluppo e svolge un ruolo sempre più
importante a livello internazionale, sebbene debba ancora affrontare complesse sfide
dal punto di vista economico e sociale.
Tra queste, una delle principali e più drammatiche è costituita dalla forte disuguaglianza
nella distribuzione della ricchezza.
Gli interventi della Cooperazione italiana nell’area si ispirano a un principio di particolare
favore per lo sviluppo socio-economico di una regione tradizionalmente vicina al nostro
Paese in virtù di rilevanti vincoli etnici e culturali.
Dal punto di vista geografico, le azioni rimangono modulate sulla base delle differenze
che presentano le grandi sub-regioni del continente: l’America centrale e caraibica,
l’America andina e il Cono sud. Quest’ultimo è caratterizzato da livelli di reddito e
contesti istituzionali più avanzati, ma con una distribuzione disomogenea della
ricchezza e persistenti e ampie fasce di povertà.

Paesi del Mercosur


In seguito alla grave crisi economica che nel 2001 ha colpito l’Argentina sono state
approvate due linee di credito: nel settore sanitario (25 milioni di euro) e delle Pmi (75
milioni di euro). Per l’Uruguay sono stati approvati a fine 2003 e sono tuttora in corso
interventi analoghi ma di importo inferiore (20 milioni di euro per le Pmi e 15 milioni di
euro per il settore sanitario). Nonostante gli alti indicatori macroeconomici raggiunti non
lo rendano eleggibile all’erogazione di crediti d’aiuto, il Brasile è un Paese in cui i
gravissimi problemi socio-economici derivanti da una squilibrata distribuzione della
ricchezza rimangono tuttora irrisolti. Per tali ragioni, gli obiettivi principali che la Dgcs si
è posta riguardano fondamentalmente il sostegno alle politiche pubbliche mirate a una
più equa ripartizione della ricchezza nazionale, nonché alla tutela dell’ambiente.
America centrale
In El Salvador è stata approvata nel 2005 un’iniziativa in gestione diretta finalizzata alla
trasformazione di un complesso educativo, il “Centro Scolastico Repubblica de Haiti”
nel Dipartimento di Sonsonate, da “scuola tradizionale” a “scuola inclusiva”, con attività
dedicate ai portatori di handicap. In Hondurasè in fase di completamento il programma
“Costruzione dell’acquedotto regionale della Valle del Nacaome”, finanziato a credito
d’aiuto per oltre 18 milioni di euro. È inoltre in via di ultimazione il programma di
costruzione e miglioramento del sistema di acqua potabile e fognature di Tegucigalpa
(credito d’aiuto di circa 19 milioni di euro). Nel marzo 2005 è stato firmato l’Accordo

194
bilaterale di cancellazione debitoria per un ammontare di 40,17 milioni di euro. Nella
Repubblica Dominicana si segnala un’iniziativa particolarmente significativa nel campo
della “Protezione dei minori dallo sfruttamento sessuale e commerciale”, eseguita
dall’Unicef, in fase di conclusione nel 2005.
Paesi andini
Nei paesi andini la Cooperazione italiana è impegnata attivamente con iniziative volte
alla riduzione della povertà, come strumento per favorire l’attenuazione delle tensioni
sociali e militari, e per combattere il narcotraffico. In Colombia, ad esempio, le attività si
sono concentrate principalmente nella realizzazione di iniziative a sostegno della pace e
in favore dei processi di democratizzazione del Paese, in linea con la posizione assunta
dall’Ue.

2.7. Europa Orientale e Mediterranea


La politica estera del nostro Paese nei confronti dei Balcani ha seguito gli orientamenti
tradizionali, ossia il perseguimento della stabilizzazione politica ed economica
attraverso il consolidamento delle istituzioni democratiche, in un’ottica di integrazione
nelle strutture europee ed euroatlantiche, e di inserimento nell’economia mondiale.
L’attenzione della Cooperazione italiana si è concentrata, in particolare, sul processo di
privatizzazione; sul mercato del lavoro; sulla creazione o il rafforzamento delle istituzioni
esistenti; sulle riforme legislative; sulle problematiche sociali; sull’istruzione; sulla tutela
del patrimonio culturale; sull’occupazione.
In campo economico le strategie si sono focalizzate sulla crescita sostenibile e sullo
sviluppo; sulla prevenzione delle nuove forme di povertà derivanti dai processi di
ristrutturazione e modernizzazione; sul sostegno ai gruppi sociali maggiormente a
rischio di povertà. In Serbia e Montenegro, in risposta alla delicata questione dei rifugiati
e degli sfollati, nel 2005 sono stati erogati oltre 13 milioni di euro per un programma a
sostegno del reinsediamento dei rifugiati e degli sfollati serbi. L’iniziativa, oltre alla
fornitura di soluzioni abitative a carattere sociale per i rifugiati e per i gruppi vulnerabili,
ha previsto la promozione di una strategia di sviluppo e di rafforzamento dei servizi
sociali a livello locale per favorire l’effettiva integrazione dei beneficiari.
La Dgcs ha partecipato alla Conferenza dei Donatori per il Kosovo, promossa
dall’Unesco a Parigi. In questa sede è stato presentato un pledge per un milione di euro
in tre anni per proseguire le attività già attivate a favore del patrimonio culturale
ottomano e ortodosso, anche al fine di favorire il dialogo tra le due comunità..

2.7.1. Algeria
La Cooperazione tra Italia e Algeria, iniziata nei primi anni ’70, dopo un periodo di
minore intensità (nel 1992 – 1998), ha riavviato le proprie attività. Gli interventi si
sviluppano lungo alcune direttrici: appoggio alle PMI, che costituisce la principale attività
della Cooperazione italiana nel Paese; formazione; tutela del patrimonio culturale,
attività di rilievo e fortemente voluta dal Ministro per la cultura, il Programma per la
riabilitazione della Casbah di Algeri.
Risorse e approvvigionamento idrico

195
Lavori di risistemazione del Oued El Harrach
L’obiettivo generale dell’iniziativa è di contribuire efficacemente alla sistemazione idrico
– fognaria della capitale, con notevoli vantaggi per la popolazione urbana, le aree
commerciali, nonché i servizi. Il progetto in corso prevede la realizzazione di tre
collettori di depurazione della città di Algeri e la sistemazione dell’Oued El Harrach.

2.7.2. Marocco
La Cooperazione italiana interviene in Marocco con oltre 20 iniziative, per un importo
totale di 200 milioni di Euro, di cui 160 a credito d’aiuto e 40 a dono. L’erogazione nel
2005, per quanto riguarda i progetti a dono, è stata di circa 3,5 milioni di Euro. I
finanziamenti concessi tramite crediti d’aiuto sono destinati, in massima parte, alla
costruzione di nuove infrastrutture economiche; al potenziamento di quelle esistenti; alla
creazione d’impiego. I doni sono invece diretti a valorizzare le risorse umane, alla tutela
del patrimonio culturale, allo sviluppo ambientale e rurale. Il programma di conversione
del debito originato dalla concessione di crediti di aiuto, pari a 100 milioni di Dollari, si è
concluso nel 2002. Le risorse sono state utilizzate per realizzare progetti di sviluppo, in
particolare la costruzione di scuole, strade rurali, centri sanitari, schemi irrigui e di
approvvigionamento idrico. A seguito del sisma che ha colpito nel febbraio 2004 la
provincia di Al Hoceima, il Governo italiano ha proposto la cancellazione del debito
derivante da crediti di aiuto per un importo di 20 milioni di Euro per contribuire al
programma di ricostruzione lanciato dal Governo del Marocco. I progetti riguardano: (I)
la riabilitazione di edifici pubblici; (II) la ristrutturazione di quartieri degradati; (III) la
costruzione di strade e piste rurali.
Sono in corso diversi progetti realizzati da ONG italiane, per un valore complessivo di
circa 18 milioni di Euro, di cui il 50% finanziato dalla Cooperazione italiana. I progetti
intervengono in diversi settori: sviluppo rurale, agricoltura, pesca artigianale,
salvaguardia del patrimonio culturale.

2.7.3. Egitto
Le linee guida del programma di cooperazione si basano sull’accordo sottoscritto al
Cairo il 14 febbraio 2002. Il programma può contare su un impegno complessivo di
247,8 milioni di Euro, che comprendono anche i fondi liberati dall’accordo per la
conversione del debito. La strategia della Cooperazione italiana mira da un lato a
sostenere la transizione economica attraverso il sostegno alle PMI e al settore privato;
dall’altro allo sviluppo socio – economico, mediante interventi in settori chiave per lo
sviluppo sociale. Uno degli aspetti più importanti del programma di cooperazione è
rappresentato dall’accordo per la conversione del debito firmato a Roma il 19 febbraio
2001, e il cui importo ammonta a 149 milioni di Dollari.

2.7.4. Libia
La ragion d’essere delle attività della Cooperazione italiana in Libia risale al passato
storico tra i due Paesi e al comune impegno, formalizzato nel comunicato congiunto del
4 luglio 1998, di voler superare il passato, superamento legato alla capacità italiana di
realizzare una serie di azioni a beneficio della popolazione locale. Il CIPE, il 4 agosto
2000, ha adottato una delibera con la quale ha deciso che ”i fondi di cui alla Legge 26
febbraio 1987, n.49, possono essere utilizzati per finanziare attività di cooperazione con

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la Libia, limitatamente ai settori della sanità, dell’agricoltura, della formazione, dello
sminamento umanitario e degli interventi umanitari di emergenza”. Oltre a iniziative di
carattere politico e di portata umanitaria, la Cooperazione italiana ha intrapreso attività
legate alla formazione e alla preparazione professionale. Tutte le iniziative di
cooperazione attualmente in corso si inseriscono nel quadro degli impegni indicati nel
comunicato congiunto che prevede, in particolare, il sostegno da parte italiana per la
bonifica dei terreni agricoli minati durante la Seconda Guerra Mondiale; la costruzione
di un centro medico per la cura dei lesionati dalle mine e la formazione di personale
libico in Italia.

2.7.5. Giordania
L’Italia è il quinto Paese donatore nei confronti della Giordania e ha una lunga
tradizione di cooperazione. Il programma di cooperazione bilaterale per il triennio 2000-
2002, tuttora in corso di attuazione, comprende le seguenti priorità fissate dalle autorità
giordane e condivise dal Governo italiano: approvvigionamento idrico, sviluppo delle
piccole e medie imprese, sanità e riforme economiche in generale. Nell’ambito di tale
programma, l’Italia si è impegnata a finanziare 10 progetti di sviluppo per circa 88
milioni di Euro, di cui 5,3 a dono e 82,7 a credito d’aiuto. Il 45% delle risorse è
impegnato in progetti nel settore idrico. Dei 10 progetti inclusi nel Protocollo di
Cooperazione bilaterale a oggi soltanto 7 sono stati concretamente avviati. L’ambito
d’azione del programma di cooperazione bilaterale ha coinciso in parte con quello del
”Country Strategy Paper” relativo al periodo 2002-2006. Per quanto riguarda la
cancellazione e conversione del debito giordano nei confronti dell’Italia, va ricordato che
nel giugno 2000 è stato sottoscritto un accordo per la conversione del debito bilaterale
giordano (circa 70 milioni di dollari). In applicazione di tale accordo, l’Italia, nel corso del
2004, ha proceduto alla cancellazione della seconda e ultima tranche del debito pari a
circa 19 milioni di dollari.

2.7.7. Siria
Le attività della Cooperazione italiana in Siria sono disciplinate essenzialmente dal
Memorandum d’Intesa firmato a Damasco il 23 novembre 2000 e dal relativo
programma all’epoca concordato, che ha previsto finanziamenti per circa 83 milioni di
Euro (tra fondi a dono e fondi a credito d’aiuto) per la realizzazione di progetti nei settori
della sanità (Programma di Formazione post base infermieristica, Creazione di un
Centro cardiochirurgo infantile con reparto per il Trapianto di Midollo Osseo presso
l’Ospedale Universitario di Damasco, Programma di fornitura di attrezzature medico-
ospedaliere all’Ospedale di Ma’ara), dell’agricoltura e dell’agro-industria (Assistenza
tecnica per il miglioramento dell’olio di oliva siriano, Razionalizzazione dell’uso delle
risorse idriche nella regione di Ras al-‘Ain, programma per il potenziamento del settore
lattiero caseario e ammodernamento dei Musei Nazionali di Idlib e Aleppo) di quello
sociale (Linea di credito agevolato a supporto dell’Agenzia per la Lotta contro la
Disoccupazione nonché del sostegno alle PMI, creazione di un Centro Servizi ad
Aleppo di sostegno alle PMI del settore tessile/abbigliamento). Il Memorandum del 2000
prevede interventi a dono per un totale di circa 26,5 milioni di Euro e in credito d’aiuto
per un totale di circa 56,5 milioni di Euro. A queste iniziative si aggiungono i
finanziamenti multi-bilaterali di programmi eseguiti dalla FAO e i programmi di

197
cooperazione non governativa (progetto di riabilitazione del penitenziario giovanile di
Damasco ”Ibn Khaled al-Walid”, programma di sviluppo socio-economico, salute e
sicurezza alimentare in aree rurali in Siria).

2.7.8. Tunisia
Nel corso della V sessione della Grande Commissione Mista (GCM) del 2004 è stata
data la massima importanza agli interventi di sostegno al tessuto produttivo locale,
auspicando e favorendo al tempo stesso un aumento dei rapporti industriali e
commerciali tra l’imprenditoria dei due Paesi. L’espansione del settore privato e il suo
rafforzamento in termini di competitività implicano inoltre un aumento dell’occupazione e
hanno l’effetto di attirare in Tunisia gli investimenti stranieri. In linea con le più recenti
strategie di salvaguardia delle risorse naturali e di protezione dell’ambiente (Conferenza
di Rio, Protocollo di Kyoto, programmi di lotta alla desertificazione), grande importanza
rivestono gli interventi in materia di ambiente, soprattutto di lotta alla desertificazione e
di tutela dell’ambiente marino e delle coste.

2.7.9. Territori palestinesi


Nei Territori Palestinesi il conflitto tra palestinesi e israeliani ha causato ingenti perdite
di risorse, non solo in termini di vite umane. La popolazione residente è stimata in circa
3,8 milioni di persone, di cui 1,6 milioni di profughi. Il tasso di disoccupazione raggiunge
il 28,4%. Come conseguenza dello scoppio della seconda Intifada, le entrate mensili
delle famiglie palestinesi si sono notevolmente ridotte. La crisi economica ha
seriamente compromesso il benessere dei gruppi familiari, molti dei quali dipendono
interamente dagli aiuti umanitari. A oggi il 50% della popolazione vive sotto la soglia di
indigenza, e il 22% in condizioni di estrema povertà. Le condizioni sanitarie sono
precarie, aggravate dalla scarsità di acqua potabile. Un numero sempre maggiore di
cittadini palestinesi dipende dalle agenzie internazionali per le cure mediche e i bisogni
alimentari. Una delle principali questioni da risolvere, inoltre, è quella del ripristino della
libertà di movimento di persone e merci, presupposto indispensabile al rilancio
dell’economia nei Territori Palestinesi. In un recente incontro (agosto 2007) con il Primo
Ministro Palestinese Salam Fayyad, la Cooperazione italiana ha lanciato una serie di
nuove iniziative (vedi pdf).

2.8. Rapporti bilaterali dell’Italia con i Paesi dell’Asia orientale


L’Italia ha agito per rafforzare la presenza diplomatica italiana in quest’area di primaria
importanza che costituisce una delle regioni economicamente più dinamiche e vitali del
nostro pianeta (vi si trovano infatti tre delle undici principali economie mondiali:
Giappone, Cina e Corea del sud). Su un piano generale l’Italia, nell’ambito dell’Unione
Europa, ha importanti interessi di sicurezza e strategici nella regione dell’Asia orientale
e per la sua stabilità. I lasciti irrisolti della Storia (in particolare i rancori verso il
Giappone, non ancora pienamente metabolizzati, di Cina e Corea), gli strascichi della
Guerra Fredda (la perdurante divisione della Corea nonostante i più recenti segnali
positivi in termini di dialogo e di cooperazione), i contenziosi territoriali tra paesi vicini, e
il rischio - per il momento apparentemente in via di soluzione - di proliferazione
nucleare, hanno un’ influenza negativa sulla stabilità della regione. Al dinamismo dei

198
legami economici stenta ad accompagnarsi lo sviluppo di architetture regionali
multilaterali in grado di assicurare, in particolare sotto il profilo della sicurezza, il
governo dei “flashpoint” esistenti (seppure anche su questo tema si prospettano
possibili importanti novità in parallelo con il processo di disarmo nucleare nordcoreano).
regionali. E’ ad esempio il caso della penisola coreana la cui denuclearizzazione
costituisce un obiettivo primario, e in cui l’ Italia ha dato un contributo apprezzato,
soprattutto nei momenti di maggiore crisi regionale. E’ ancora il caso della Cina, di cui
l’Italia favorisce una ascesa pacifica nel rispetto degli equilibri e delle sensibilità
regionali, ed un coinvolgimento crescente nelle aree di crisi, che accresca il ruolo di
Pechino quale “responsible stakeholder” mondiale. E’ altresì quello dello Stretto di
Taiwan, dove invece negli ultimi tempi si sono accentuate alcune tensioni. L’Italia, che
aderisce fermamente alla politica “una sola Cina”, auspica fortemente una soluzione
pacifica della questione, ed incoraggia sia le autorità di Pechino che quelle di Taipei al
rafforzamento del dialogo ed a comportamenti improntati a moderazione e prudenza.
Il rilancio della politica italiana verso quest’area è passato attraverso un forte impulso
della nostra presenza, ed un rafforzamento soprattutto del rapporto politico con la
Repubblica Popolare Cinese, il Giappone e la Corea del Sud, grazie ad una fitta serie
di visite al più alto livello.
L’Asia e il Pacifico rivestono sempre più un ruolo chiave nella riaffermazione del
principio del multilateralismo. Anche grazie al contributo di numerosi Paesi dell’area si
sta infatti rilanciando il principio multilaterale ed il coinvolgimento centrale dell’ ONU
nella ricerca di soluzioni di pace per tutte le grandi aree di tensione come il Libano e la
Palestina; come l’ Afghanistan, dove siamo fortemente impegnati; o come la questione
del nucleare in Iran e nella Penisola Coreana; per le maggiori sfide con cui siamo
confrontati, come la lotta al terrorismo internazionale, il dialogo fra le religioni, le
questioni ambientali e climatiche, citando solo alcuni dei grandi argomenti a carattere
“globale”. Come ha più volte sottolineato il Ministro degli Esteri, il multilateralismo è
anche il metodo per superare l’erronea visione che la lotta al terrorismo e agli
estremismi sia una sorta di guerra fra civiltà o fra religioni. In questo sforzo, la
collaborazione fornita dai Paesi asiatici e dell’Oceania appare essenziale, e la
partecipazione, ad esempio, nei teatri di crisi di Paesi come la Cina, l’India, il Giappone,
la Corea, il Bangladesh, il Pakistan, l’Indonesia, la Malaysia è un fattore innovativo
fondamentale per far trionfare gli obiettivi che stanno a cuore all’Italia e all’Europa,
come la pace, la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo.
Dall’Asia, in questi ultimi anni, sono provenuti due insegnamenti importanti, in questi
difficili contesti internazionali: l’esperienza asiatica ci indica che la cosiddetta
globalizzazione può essere accompagnata da un sostenuto sviluppo economico, dal
miglioramento in pochi anni delle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, e
dal mantenimento di un quadro sociale relativamente equilibrato, e, auspichiamo,
sempre più aperto a riforme politiche democratiche (ciò che sta succedendo in Vietnam
è esemplare in questa cornice, ma gli esempi del genere spaziano dall’India alla
Malaysia, alla Cina, alla Corea del Sud, all’Indonesia).
Inoltre, l’Asia ci offre l’esempio di come possano incontrarsi e vivere in pace, in uno
sfondo di fenomenali cambiamenti economici e sociali, grandi religioni e filosofie, come
buddismo, confucianesimo, induismo, islam e cristianità; si tratta di una caratteristica
forse unica, da preservare di fronte alle minacce degli estremismi e dei terrorismi.

199
La dimensione multilaterale, così essenziale per affrontare in modo coordinato e più
incisivo le sfide globali a cui si è fatto riferimento, non si esaurisce nelle Nazioni Unite.
L’ Italia guarda infatti con grande attenzione e desiderio di crescente collaborazione agli
organismi multilaterali regionali nello scacchiere asiatico e del Pacifico, ed in particolare
all’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN). Siamo un Paese
tradizionalmente molto favorevole ai processi di integrazione regionale, e siamo quindi
pronti e pienamente disponibili a sostenere tale processo in Asia, e a contribuirvi per
quanto possibile, proponendo in particolare una più intensa collaborazione fra Unione
Europea ed ASEAN.
L’adozione al Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi ASEAN, tenutosi a
Singapore a fine novembre 2007, dell’ “ASEAN Charter” rappresenta un notevole passo
in avanti sulla strada dell’integrazione regionale. L’obiettivo principale della “Carta” è
infatti quello di dotare l’ASEAN di una struttura istituzionale più solida e della relativa
personalità giuridica, codificando, in tal modo, l'insieme sinora non strutturato di
dichiarazioni e piani di azione che costituiscono al momento l'unica sostanza giuridica
dell'associazione.
La Carta ASEAN, prendendo spunto dall’esperienza europea, risponde all’esigenza
sempre più fortemente avvertita di creare un blocco economico-commerciale che possa
competere con i vicini “giganti” dell’economia mondiale, nella consapevolezza che i
singoli Paesi membri, da soli, non siano in grado di reggerne la schiacciante pressione
competitiva. La Carta dovrebbe quindi costituire un primo passo verso la creazione di
uno spazio economico di libero scambio entro il 2015 che possa meglio sviluppare il
notevole potenziale economico dell’area creando un mercato unico di oltre 500 milioni
di consumatori.
Tra gli aspetti più innovativi del progetto vi è lo specifico richiamo al rispetto dei diritti
umani, con la creazione di una Agenzia Regionale per i Diritti Umani, anche se però
nulla è stato stabilito in merito al processo di implementazione e, soprattutto, non è
previsto alcun potere sanzionatorio contro i Paesi che non rispettano i dettami
dell’Agenzia.
Un ulteriore esempio di come il processo di integrazione costituisca un inevitabile
sviluppo in atto nella regione è rappresentato dall’ “East Asia Summit” (ASEAN + Cina,
Corea, Giappone, India, Australia e Nuova Zelanda), la cui terza edizione si è svolta a
Singapore il 21 novembre 2007, dove è stato approvato un Chairman Statement
nell’ambito del quale viene tra l’altro esplicitamente delineata la posizione dell’ASEAN
sulla questione birmana e cioè la decisione di rispettare il desiderio di Myanmar di
trattare direttamente ed esclusivamente con le Nazioni Unite e la comunità
internazionale, senza interferenze da parte dell’ASEAN stessa.
Infine, per quanto riguarda il dialogo complessivo fra l’Europa e l’Asia, il quadro di
riferimento resta per noi l’Asia Europe Meeting (ASEM), foro annuale di incontro fra i
Governi dei paesi asiatici ed europei.
Un rapporto privilegiato coi Paesi ASEAN è essenziale, anche per dimostrare
concretamente che l’ Italia, nel rilancio della sua politica verso Oriente, non intende
rivolgersi solo ai grandi giganti asiatici quali Cina, Giappone ed India. Coi suoi notevoli
risultati, l’area dei Paesi ASEAN ci ricorda che dobbiamo guardare con attenzione a
tutta quella vasta regione, i cui ritmi di crescita sono altrettanto impressionanti, ed in cui
l’ Associazione gioca un ruolo molto rilevante nel processo di integrazione economica.

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Tali ritmi di sviluppo sono in buona parte trainati anche dall’ impetuoso sviluppo cinese,
ma nel sud est asiatico le dimensioni delle economie dei singoli Stati sono forse più a
misura delle imprese del nostro paese; le quali sono per lo più piccole e medie imprese,
che spesso chiedono un supporto fattivo da parte delle nostre istituzioni per potersi
cimentare nella grande sfida asiatica.
Un’esperienza significativa dell’utilità degli strumenti regionali multilaterali per la
promozione del dialogo fra le religioni è stata realizzata dai paesi membri dell’ASEM nel
giugno 2007 a Nanchino in Cina, dove si è svolto, sotto la co-presidenza italiana e
cinese, il “Third ASEM Interfaith Dialogue”, evento nel quale si è discusso anche di
globalizzazione, pace, coesione sociale, sviluppo, promozione della cooperazione
culturale ed educativa. Da parte dei rappresentanti del governo cinese e delle altre
delegazioni europee ed asiatiche è stato riconosciuto ed applaudito il particolare
impegno profuso dalla delegazione italiana, composta da rappresentanti del Ministero
degli Affari esteri, dell’Interno e della Comunità di Sant’Egidio e guidata dal
Sottosegretario Gianni Vernetti.
La prossima edizione dell’ “ASEM Interfaith Dialogue” si svolgerà in Olanda nel 2008 e
l’Italia co-sponsorizzerà l’iniziativa.
La DGAO cercherà anche in futuro di stimolare l’utilizzo dello strumento delle visite
politiche accompagnate da gruppi di imprenditori, questi ultimi organizzati dalla
Confindustria, o dal Ministero del Commercio Internazionale e ICE, per permettere una
presentazione adeguata del nostro sistema produttivo.
Un approccio di questo genere, per la verità, non riguarda solo le Amministrazioni prima
citate, ma anche Ministeri come l’ Ambiente, le Risorse Agricole, i Beni Culturali, che
coordinano le attività di settori in cui esiste in maniera particolare una grande domanda
di Italia da parte dei Paesi asiatici e dell’ Oceania. Le missioni di imprenditori potranno
quindi concentrarsi sulle energie rinnovabili; sulla tutela dell’ ambiente; sul riciclaggio e
lo smaltimento dei rifiuti; sullo sfruttamento delle biomasse; sulla riforestazione; oppure
riguardare il settore dell’ agroalimentare, con quello correlato del food processing;
quello delle fiere, di carattere particolare e generale; quello sempre più interessante
della cinematografia, ambito in cui si possono realizzare delle interessanti partnership
con il mondo asiatico e del Pacifico.
Infine, l’interesse dell’Italia per le organizzazioni regionali asiatiche si rivolge anche alle
organizzazioni più strettamente asiatiche, come ad esempio la Shanghai Cooperation
Organization (SCO) o al Regional Economic Forum Conference, che sempre più
influiscono ed influiranno sugli equilibri economici e geopolitici del continente asiatico.
Nella sua visita in Cina nel giugno del 2007, il Sottosegretario Vernetti ha avuto modo di
incontrare il Segretario generale della SCO, il kazako Bolat Nurgaliev per uno scambio
di vedute sull'evoluzione della SCO

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