Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
CRONACHE DA ARETAEN-2
Rapporto N. 37377/69
CHAOS
(il Diario di Primultimo)
Enrico D’Antonangelo
CHAOS
(IL DIARIOSCEMO)
II - IL FUNERALE
IV - IL VIAGGIO
V - METEMPSICOSI
VI - IL DESTINO
VII - L’ALBERGO
IX - RIGETTATO
X - ALL’INFERNO E RITORNO
XI - RICONOSCENZA
XV - BOBOCÙ PROFETA
XVI - RISOLUZIONE
G I O B A'
(il Condannato e il Cireneo)
Agosto 1985
Sotto la grande quercia di Paraclite Menestra, (famosissima nel circondario per le
violente passioni consumate con membri di tutte le età e di qualsiasi ceto, “purché
tosti e bendisposti”), cercando di sfuggire, in qualche modo, all'abbraccio vischioso
di questa accesa estate, grassa baldracca sudata, con le mammelle a tentacolo e le
labbra pendule, asfissianti, me ne sto, magicamente isolato da rumori e vocii, come in
una dimensione di insolente estatica indifferenza.
Dalla placida piana Falisca, il frinito delle cicale si espande a riempire il cielo
accecato dal sole. Una formicuzza pizzicarella mezza nera e mezza rossa,
imprudentemente inoltratasi nella selva pilifera della mia gamba destra e impantanata
nella paludosa secrezione delle mie ghiandole sudorifere, miasmiche di testosterone
stipato da una misteriosa potenza di egocentrismo antisessuale, presentatasi
improvvisa un paio di settimane fa, (non ti metterò a mollo neanche se arderai per
autocombustione,Brutto Prepotente Irresponsabile), ha forse smarrito la speranza di
riuscire a districarsi e riconquistare le tranquille autostrade di fili d'erba perché,
all'improvviso, affonda le sue pinzette e morde. Per liberarla dalla probabile
disperazione, la stringo tra due dita: il pollice e l'indice della mano sinistra. La destra
l’avevo legata al tronco della quercia per impedirle di lasciarsi circuire dal richiamo
del B.P.I..
C'era una volta una formichina mezza nera e mezza rossa… e penso a ieri, a quando
abbiamo accompagnato Giobà al camposanto.
Tutte le formicuzze vestite di nero
vanno ad accompagnare lo sposo al cimitero.
Tutte le formicuzze vestite di bianco
vanno ad accompagnare lo sposo al camposanto
la ri zzu mpa ra ri lla lle ro
la ri zzu mpa ra ri lla lla.
IL FUNERALE
Si, c'eravamo tutti: i vecchi rassegnati, gli adulti disillusi, i bambini misteriosi. Tutti
ad accompagnare il morto che, finalmente, aveva annullato l'imbarazzo sociale di
saperlo morente.
Si poteva di nuovo uscire senza il timore di incontrarlo, consapevoli di essere pronti
alla vigliaccata di svicolare, pur di evitare la pena di subire il suo sguardo.
Il Condannato era già morto, perché insisteva a mostrare il suo cadavere tra i vivi?
E così, (alleluia!), si era potuto fargli quella bella festa, attesa, o meglio, augurata
come una liberazione, da ormai diversi anni.
La banda suonò come non aveva mai suonato, liberando un tragico pathos straziante
compresso negli strumenti sino dal tanto tempo della loro ideazione.
Il trombone e la tuba, per la prima volta nella storia pluridecennale della banda,
indovinarono il tempo mentre i piatti, purtroppo, non riuscirono ad entrare in sintonia
neppure in quella situazione di ebnefsi generale.
La tromba, suonata per l'occasione dal maestro che poteva degnamente inaugurare il
bocchino d'oro donatogli per i quarant’anni di onorato servizio nella banda militare,
tremolò la prima nota del Silenzio proprio mentre tutti si aspettavano la consueta,
pregna di barocco pietismo, predica del parroco che, invece, non profferì parola
all'infuori delle canoniche perifrasi liturgiche. Il suo pudore intellettuale dimostrò
l'onestà della sua intelligenza ed espose, agli occhi dei vedenti, il motivo per cui i
suoi parrocchiani lo avessero sul gozzo: per essere veramente santo, gli mancava
soltanto la “sospensione a divinis”. Però, nessuno è perfetto.
I fanciulli, vestiti con i bianchi camici della prima comunione, in piena sintonia con
gli usi e costumi della società dei consumi, aprirono la processione sorreggendo
cuscini di fiori, (due per uno come immagine speculare della Trinità, due Persone più
lo Spirito Santo dell’olezzo dei fiori) regolarmente listati a lutto, con il nome, in
caratteri dorati, dello sponsor offerente: GLI AMICI, I CONOSCENTI, I VICINI DI
CASA, GLI EX COMPAGNI DI SCUOLA, I CUGINI, IL CONSIGLIO
COMUNALE, LA POLISPORTIVA, etc,
Appresso, seguivano: le varie Associazioni paesane con stendardi e rappresentanze
(PRO-LOCO, AVIS, gli EX, tanti EX, pensionati a cinquant’anni, per aver speso la
loro vita in custodia dei lavoratori produttivi costretti, fino ai sessanta anni, ai ritmi
delle catene di montaggio);
poi la Banda Comunale, tallonata dal vigile urbano, in guanti bianchi, che innalzava il
vessillo comunale;
appresso, il prete, davanti alla bara, portata a spalla da sei degli amici un pò meno
lontani quando sarebbe stato il momento di stargli vicini.
Dietro alla bara, circonfusi da un’aura di pena straziante, come reclusi in una
dimensione indifferente agli occhi ed alle percezioni dei presenti, venivano:
il babbo, più che settantenne (Giuseppe), compatito da tutti per il suo dolore ma reo,
in se stesso, per essere sopravvissuto al figlio e la mamma (Maria), pubblico
ministero nel suo processo personale contro la malvagità di un Dio che le aveva
rubato il figlio venticinquenne, sorretta o, meglio dire, imprigionata dalle pie donne,
per impedirle di saltare sulla bara, scoperchiarla e gridare al figlio: Risorgi!
(Gli apocrifi narrano che, per Lazzaro, sarebbe stato meglio non essere tornato
indietro; e la saggezza inconsapevole delle prefiche tramanda tale inesorabile
tradizione. Gemiti, ululati, stridii vibranti, costruiscono la nave sulla quale l’anima
del morto potrà viaggiare, sino alla fine dei tempi, sulle creste delle onde sonore).
Riemergere dal grembo dell’infinito e ritrovarsi di nuovo limitato nelle
microscopiche fibre di un minuscolo corpo… a me, personalmente, provocherebbe
una crisi bestemmiatoria di ininterrotta sequela augurando, al responsabile di cotanta
perversione, una eterna vita fisiologico-restrittiva.
Dietro al gruppo della Pietà vivente, veniva il Sindaco, con il Consiglio Comunale al
gran completo; poi, i parenti più stretti, e infine tutti gli anonimi che non contano
niente, ma il cui numero influisce sulla dignità e solennità dell'avvenimento.
Tutti presenti per uno dei funerali paesani meglio riusciti, a memoria di vecchio,
come sancì Leccarécca padre, novantenne arzillo, quarantasei di scarpe e 32
centimetri della, ormai naturalmente fu, verga del pastore.
Sin dal giorno della nascita, Leccarécca non aveva mancato un funerale, essendo nato
proprio durante una funzione funebre (sua madre volle essere presente, a tutti i costi,
al funerale della sua più acerrima rivale in amore, morta ufficialmente di crepacuore;
ma il tamtam della vox populi sussurrava, ancora ai tempi nostri, la tragedia di una
fattura irreversibile: chi ordinava la fattura vendeva l'anima al diavolo e chi la subiva
non aveva alcuna possibilità di scampo. Moriva fra atroci sofferenze espellendo, dalle
narici, crini di cavallo e fibre di legno d'alloro. La mamma di Leccarécca invece,
nonostante le dicerie sulla vendita dell’anima al diavolo, se ne era andata,
serenamente, distesa tra le lenzuola del suo letto vedovale, con la faccetta grinzosa
fissata per l’eternità in un fazioso sorrisetto di compiacimento).
Leccarécca padre poteva vantare un record da Guinness; ma non aveva diritto ad
essere accolto nel fatidico libro, per mancanza di una documentazione giurata.
Aveva accompagnato tutti, maschi e femmine, giovani e vecchi, poveri e ricchi; con
il sole e con la pioggia, con la tramontana e con il ponentino, con il cappottaccio
militare della Grandeguerra e con il corpetto di fustagno. Si era pazientemente
sciroppato tutta la sua generazione senza mai spuntare una lacrima ed ora, senza
alcuna apparente emozione, assisteva alla dipartita delle successive.
Leccarécca era una istituzione, conosciuto da tutti e frequentato da nessuno; finché la
Donnola lo trovò in un momento di debolezza e di alta ebbrezza, riuscendo, così, a
confessarlo, svelando finalmente il mistero della sua frequentazione funeralesca:
Leccarécca padre si arrapava. Come si arrapava ai funerali non gli capitava da
nessuna altra parte e in nessuna altra situazione. Si arrapava da bambino, si arrapava
da adulto, si arrapava da anziano e continuava ad arraparsi da vecchio bacucco. Si
arrapava e si toccava il pendulo per tutta la durata della cerimonia funebre e del
trasporto, con la sinistra artrosica costantemente infilata nella tasca, senza saccoccia,
dei calzoni.
Perché? insisteva la Donnola, incubatrice eccellente del verme solitario del
pettegolezzo, con l’occhio catarattico, vacuo e velato, e la bocca deformata da una
smorfia avida e umidiccia.
Ma la risposta si infranse sull'orlo del bicchiere, in una sorsata di chiaretto scialìto,
dono disinteressato di Fuffì, il quale non si faceva guardare in faccia quando gli si
rovinava qualche damigiana di vino e regalava, nobile cuore di astuto commerciante
incorreggibile, un bicchiere qua, uno là, ai palati esausti dei vecchi consumati dalla
antica fatica della manovalanza: carrettieri, braccianti, vangatori, picconatori,
sterratori.
Così la Donnola svelò il mistero ma non poté sollevare il coperchio della pignatta
dove palpitava il segreto che partoriva il mistero.
Comunque, finché c'è vita c'è speranza, e la curiosità della Donnola è più tenace del
superattak. Prima o poi, meglio prima, dal momento che Leccarécca ha già un piede
nella fossa, riuscirà nel suo intento, rendendo onore al motto stampigliato sulla sua
lingua "vedremo chi la spunta", e si presenterà al circolo, ingobbito nel giaccone di
montone, con le mani in tasca e il viso classico di chi, se non lo dice, scoppia.
(La curiosità della povera Donnola non poté mai essere soddisfatta perché Leccarécca
si decise ad aprirsi, completamente, con Stirazeppi, proprio al funerale della Donnola.
Attaccò così, come se parlasse con se stesso, nel momento in cui il prete girava
attorno alla bara, dondolando il turibolo con l’incenso: “Ah che profumo de sorca!
Solo kappeddentro profume kossì e solo lappi funerali. Edè come si a morte a facesse
ngrufà. Un profumo de sorca ke m’a štampe kì, (si toccava la fronte con la destra
artrosica), m’a fa vedé, m’a fa sentì de urlà: škópime, škópime”).
Un altro che sentiva troppo questo richiamo, a detta di zio Dandino, lasciò come
epitaffio:”Vissi di Marte, mi fottè la figa, adesso giaccio senza arte né parte”.
IL CORPO
(il Condannato e il Cireneo)
La prima volta che incontrai Giobà, mi restò antipatico per via di una ragazza che mi
piaceva e che io pensavo che lui, che lei, sotto sotto… Dopo tre giorni, non ricordo
perché, invece di spaccargli il muso, gli parlai. Mi parlò. L'indomani eravamo
diventati amici.
La settimana successiva lo accompagnai a Perugia. Voleva iscriversi all'ISEF ma per
l'ammissione al corso pretendevano anche una prova di nuoto. Chi, da adolescente è
stato ripreso per i capelli da un affogamento e restituito alla vita dalla respirazione
artificiale, sa bene che trattasi di richiesta assurda.
Perse l'ISEF ma trovammo due ragazze. Erano salite sul treno a Trevi e si erano
sedute davanti a noi. Le avevamo subito notate, un po' guardate, molto concupite e
totalmente ignorate: ci erano sembrate troppo belle per provarci, oppure l'ansia per
l'esame ISEF ci faceva apparire tutto difficile. Rincontrarle tre ore dopo, riesplorarle
e decidere che non c'era donna troppo bella per noi due, fu il più semplice dei
pensieri e il più naturale degli approcci:
se tu mi dici: svengo quando vengo,
io ti rispondo: vengo quando svengo.
Studentesse universitarie al quarto anno: Scienza della Comunicazione Somatica, ci
dissero in seguito, (oltre che belle e simpatiche, dotate anche di autoironia sottile e
accattivante), le due ragazze non ci lasciarono neppure il tempo di aprire bocca: Era
ora! esclamò una, ed insieme traboccarono in una risatina scampanellante.
Venne il tempo delle rose
quando l'amore brucia il cuore.
Tu mi dicevi tante cose
ricordo solo: amore amore.
Guardando Giobà vidi il mio viso riflesso nel suo e capii la loro ilarità. Il tizio che ha
coniato il termine babbeo mi ha fregato sull'anticipo. Lo avrei inventato io, in quel
momento, il termine babbeo, l'unico in grado di mettere a fuoco i nostri primi piani.
Fu questione di un attimo; ma l'attimo diventa eternità, una volta impresso nella
memoria. Facemmo cattivo viso a buona sorte, come si suole dire.
Ora, per cosa? chiese Giobà.
Eravamo quasi stufe di aspettare.
Avevamo un appuntamento?
Noi si.
Con chi?
Con voi due.
Ah benedetto treno e benedetta emancipazione femminile!
Allora si va? disse quella che parlava; bionda colpi di sole, occhi acquamarina, labbra
Bobocù ciliegia, guance paffute, viso simpatico, sbarazzino, punteggiato di lentiggini.
L'altra non aveva ancora detto una parola; ma sorrideva sorniona, corvina, labbra
violette, occhi neri e attraenti come il peccato originale.
Dove?
Nella nostra camera, al pensionato dell’università, sillabò la silenziosa.
A fare che?
A chiavare, no? sussurrarono all'unisono.
Giobà, che ne dici?
Mah, e tu? Ti pare normale?
E che ti dico? Può essere che vogliano prenderci in giro.
E se fossero ammalate?
Loro!? Ma se scoppiano di salute!
I timori di Giobà sono anche le mie paure; però allorché una ragazza giovane, fresca,
bella, simpatica, profumata, femmina con due occhi così, con due labbra così, con
due tute così, con due cosce così, mi dice: cogli il frutto Adamo! vedo la porta del
Paradiso socchiudermisi davanti e sento una musica che mi trascina sull'uscio mentre
un vento caldo e impetuoso, alle spalle, mi spinge e mi scaraventa dentro; e non mi
importa più di niente: entrare entrare, godere, estasiare.
Ma come si fa, così … senza amore? se ne uscì Giobà guardandosi la punta delle
scarpe.
No, no, con amore! risposero esse con un tono di immacolata sincerità ed i volti
solari.
Voi avete detto: a chiavare. Io ho sentito: a scopare, e il mio amico ha subito
visualizzato quella che egli chiama: una trapanata liturgica, continuò Giobà; come si
può dire, a chiavare, ed immaginare un uomo e una donna che si fondono nel
piacere, fiduciosi nel reciproco rispetto?
La solare sicurezza delle ragazze si va nascondendo in una nuvoletta di imbarazzo.
Ed io? Forse più di loro. Le parole di Giobà mi stanno spogliando e, per la prima
volta, comincio a dubitare dell'onestà della mia vista: senza amore che senso ha?
Mi sento umiliato e, per un attimo, profondamente ostile a Giobà che non ha saputo
reprimere la voce della verità. Guai a chi ferisce con la verità. Essa è l'implacabile
assassino del suo servo. Tutto si perdona fuorché la verità e la storia registra i suoi
rari avvistamenti, in brevi accenni su ribelli crocefissi, eretici messi al rogo, rivoltosi
decapitati, fuorilegge impalati, mistificatori fucilati. Ma Giobà è mio amico e riesco a
superare il momento dell’avversione furibonda che si tramuta in rispetto e,
subdolamente, affetto.
Assaporare la dolcezza del frutto per il gusto che dona, non l'orgoglio di mangiarlo
per quanto è costato o, se trovato per caso, smozzicarlo per non lasciarlo, integro,
alla fame vera di qualcun altro.
Stavamo così, due di qua e due di là, a guardarci, combattendo per nasconderci o
rivelarci, racchiusi in una sfera di silenzio; mentre la città ci scorreva attorno, entità
aliena ed insignificante.
Le ragazze mi piacevano tutte e due; sentivo amore per tutte e due ed avrei voluto
dirlo, vi amo. Anzi stavo proprio per dirlo; ma quel, chiavata, mi si ergeva ormai
davanti come un muro di cemento armato. Giobà mi aveva ucciso e resuscitato.
L'unica forza capace di sbriciolare il muro poteva venire solo dalle ragazze. La loro
prossima mossa avrebbe deciso il divenire: o amore e fusione dell'umano e del divino
oppure chiavata, con naturale delusione dell'umano e rifiuto del divino, ormai
risvegliato ed operante.
Mi dispiace sussurrò la bionda colpi di sole.
Ci dispiace, confermò la corvina, abbiamo adoperato quella parola perché è il modo
moderno, normale, di dire: fare all'amore.
Se il modo moderno di parlare è quello di cambiare il significato delle parole, allora
vuol dire che abbiamo camminato tanto per ritrovarci di nuovo a Babilonia. Secondo
voi, dire: facciamo all'amore oppure facciamoci una chiavata, significa la stessa
cosa? Quando umiliamo il sentimento libero, non vincolato da contratti o autorizzato
da benedizioni altrui, cercando di nasconderlo sotto la parvenza di un impersonale
esercizio ginnico, sentiamo forse di avere qualche altra chance di trovare un pretesto
soddisfacente per continuare a sperare in una vita sopportabile?
Giobà, per favore; non dobbiamo mica sposarci!
Lascialo parlare disse la corvina, prendendoci tutte e due sottobraccio: mi piacciono
le sue parole.
Anche a me, si unì la bionda colpi di sole prendendo sottobraccio Giobà dall'altro
fianco ed appoggiandosi a lui spalla a spalla.
Avevo ragione ad essere geloso di Giobà, la prima volta che lo vidi. Né fricchettone,
né figaiolo, né brillante, né estroverso anzi tendenzialmente timido, con neanche
venti parole aveva conquistato le due ragazze: era entrato nel loro cuore.
Incominciavo a sentirmi fuori posto, intruso; ma la corvina, benché attenta alle parole
di Giobà, mi volse gli occhi dentro agli occhi e mi sorrise. In quel momento divenni
l'ospite d'onore invitato al banchetto nuziale nel regno degli uomini liberi. “Vieni
avanti mio amico, godi con me le delizie della mia sposa”.
Cosa c'è di più bello che dividere il proprio piacere con chi ti da già piacere
essendoti amico? Cosa c'è di più dolce di una armonica comunione di piacere? E
dov'è il piacere maggiore? Dio che, ci dicono, è amore, gioia, gusto, diletto, piacere;
Dio che, ci dicono, non riusciamo a vedere perché è nascosto, dove può essersi
nascosto se non laddove scopriamo riuniti, in un unico caos beato l'amore la gioia il
gusto il diletto il piacere? Laddove soltanto, può essere perfetto, nei due generi
assoluti maschio e femmina, nelle due potestà prioritarie di inseminatore e genitrice,
nelle due dimensioni sublimi di godimento e appagamento? Laddove sappiamo, già a
livello istintivo, che Egli ci aspetta? A dispetto di chi ha consumato la propria vita
adoprandosi per sacrificare la vita altrui, reclamando il diritto di trasformare il Dio
del Piacere nel Dio del Dovere; il Dio della serenità nel Dio dell’inquietudine,
pretendendo di negare, ai suoi santuari, il ruolo ben conosciuto da tutti gli umani: il
ruolo di consolatori nelle afflizioni, rasserenatori nelle tensioni, appagatori nelle
passioni, purificatori nelle emozioni.
Com'era bello Giobà! Quale spirito caldo ed avvolgente usciva dalla sua bocca sulle
sue parole, riversandosi nei nostri corpi, incendiandoli di fuochi solari! Lo sentivo, lo
sentivamo: eravamo pronti per una esplosione molecolare, per una fusione cosmica.
Fummo pronti e godemmo. E sognammo di godere e al risveglio godemmo ancora e
poi ancora. Decidemmo di partire quando le ragazze ci dissero che non potevano più
rimandare il tempo da dedicare allo studio, perché avevano un esame molto
impegnativo entro pochi giorni.
Tornammo a casa tre giorni dopo, e ci vollero due settimane, alle sollecite cure
materne, per rimetterci in peso. Passò agosto, settembre se ne andò, ottobre lo seguì,
novembre salutò e dicembre venne, come un dinamitardo tra la folla, con la sua
valigia dall'aspetto innocuo. A mezzo dicembre, un pomeriggio, mentre stavamo
correndo in surplace fianco a fianco nel campo sportivo, Giobà mi disse: adesso
voglio fare due giri in velocità. mi guarderesti e poi mi dici come vado?
Mi fermai a guardare. Vidi qualcosa di bello e di nobile. Quando mi si fermò accanto,
con il suo respiro composto e regolare, appena appena accelerato, io non avevo
alcuna parola: soltanto la sensazione di aver visto la bellezza, la grazia, la potenza,
l'eleganza.
Allora? era eccitato.
Un cavallo arabo, mi scappò naturaliter. Mi conosceva ormai e sapeva che non
possedevo troppe parole quando ero emotivamente coinvolto. Quelle tre gli bastarono
per gonfiarsi di soddisfazione. Dopo aver fatto la doccia, mentre si infilava
l'accappatoio, lo vidi fare una piccola smorfia e pudevolmente rivelarsi in una
espressione di rassegnata preoccupazione.
Che c'è? gli domandai.
Da un paio di giorni, quando allargo questo braccio e distendo i pettorali, sento un
dolorino in mezzo al petto. dentro al petto.
Sarà un doloretto intercostale.
No, è dentro.
Conosceva bene l'anatomia. Era un vero cultore del fisico e chiamava per nome ogni
pezzetto del corpo. Quella sillaba mi entrò nel cervello con una prepotenza
insopportabile. Avrei voluto cancellarla e, per scrollarmi dal cuore la sensazione di
disagio che mi suscitava, espressi la prima idiozia che mi scorreva sulla lingua:
Vedrai che domani non avrai più nulla.
L'indomani fece una radiografia e dopo una settimana fu ricoverato in ospedale. Otto
giorni più tardi lo operarono, spaccato come un capretto, (la cicatrice gli partiva dalla
scapola sinistra e, girando sotto al fianco, risaliva fino allo sterno) e scoprirono che
non si sarebbe dovuto intervenire chirurgicamente.
Iniziarono cinque anni di calvario sotto la croce di Hodgink e tra le abili mani di
patologi, ematologi, radiologi, chirurghi, ricercatori, studenti, allievi infermieri. Gli
fecero prelievi in ogni parte del corpo e, quando lo vidi incerottato anche sul dorso
delle mani e dei piedi, non potei fare a meno di pensare che la passione del supposto
Figlio del Dio “Io sono colui che sono”, si concluse in un giorno, benché preceduta
dalle ultime terribile tre ore, appeso alla croce. Il mio amico era lì, giorno dopo
giorno, e vedevo le sue sofferenze ed ascoltavo le sue speranze; e non sapevo cosa
dirgli. Ma quella mia presenza impotente, quella mia incapacità di riuscire ad
esprimere la benché minima parola di conforto, è stata, per me, l'espressione di
coraggio più intensa che avessi mai potuto raggiungere.
Si, per tutto quel tempo sono stato il cireneo sulla salita del Calvario, scelto per caso,
misteriosamente punito e purificato dal martirio di un innocente.
Cinque anni di ospedali febbri sudorazioni cortisone prelievi linfatici cobaltoterapie
radioterapie bombardamenti laser nausee svenimenti miglioramenti speranze ricadute
delusioni umiliazioni solitudine. Quale ragione può sopportare per anni tale strazio,
se non l'assenza della ragione? Cinque anni di abusi sulla sua pelle, sui suoi muscoli,
sulle sue ossa, sul suo sangue, (nelle notti serene camminava fino all'alba per
guardare le stelle e mi chiedeva se, secondo me, Gesù stesse lassù. Guardando lui,
pensavo invece che mi stesse camminando a fianco; ma come potevo dirglielo?),
sopportati e benedetti a causa della fiducia, misterioso elemento irrazionale, nelle
vane parole dei brancolanti curanti. La malattia l'avrebbe ucciso; è morto distrutto dai
farmaci.
Durante l'ultimo mese, allorché le vene vetrificate (cortisone e collaterali)
incominciavano a cedere, quelli della clinica delle malattie del sangue (come li
amava! Oh si, li amava, li rispettava e li ammirava, docile cavia), gli trovarono un
posto letto tra i malati terminali nell'ottavo padiglione di medicina del Policlinico
Umberto I°. Non ho mai più visto tanti moribondi in così piccolo spazio, divisi da
paraventi plastici. Cavie da laboratorio ormai inutilizzabili, rifiuto di una Ricerca
proiettata verso il radioso futuro di un Brevetto.
Non riuscivo a crederci. Essi tutti sapevano dove fossero, si vedevano morire
quotidianamente eppure non riusciva a penetrare in loro la consapevolezza di essere
giunti al capolinea della vita. Disfatti nel corpo, privi di forze; eppure avevano tutti,
negli occhi, la stessa parola: speranza. Per quindici giorni vide la morte
quotidianamente rinnovare gli inquilini del padiglione e, per quindici giorni,
continuava a ripetere la sua speranza di guarigione: Ciao Giobà, come va?
Oggi va un po’ meglio; solo questo gonfiore, qui, nella pancia.
E sudacchiava e deperiva ed ingialliva ogni giorno di più.
Loro che dicono?
Le analisi sono buone però: guarda! Il polso era nero.
Per fare un prelievo. certi infermieri. quattro o cinque buchi. Non sono capaci di
trovare le vene. (Infatti le vene si sfaldavano). Mi hanno fatto la TAC e non risulta
niente (chi avrebbe voluto dirti ciò che tu mai avresti potuto sentire?) solo questo
gonfiore, qui, nella pancia.
Tutto bene. Era stato un fusto che ti faceva invidia. Atleta per vocazione. Stilista
dell'anatomia.
Corsa judo ginnastica. Era un uomo che amava il suo corpo; ma tutto ciò che ami ti
tradisce: soltanto questo gonfiore, qui, nella pancia. A vent’anni anni era come
Marlon Brando in Fronte del Porto.
Lo dimisero. Il giorno seguente, quindici di agosto festa dell'Assunta, esplose,
purificato spirito, intelligenza cosmica non più vincolata alle umiliazioni della
materia.
Se non fosse, questo, un segno manifesto di Presenza Divina, se non fosse, questa,
una mantenuta promessa di Luogo di Beatitudine, allora dovrebbe trattarsi soltanto di
coincidenza. Ma allorché le coincidenze seguono, nei tempi e nei modi, annunciate
logiche susseguenti (Calvario Accettazione Morte Assunzione), come è possibile
dubitare dell'anello mancante per chiudere la catena: la Resurrezione?
Ricordi, Amico, quando cercavamo di tessere la rete dei pensieri,
capire le ambizioni, i desideri, guadare il nulla mano nella mano?
Ti destreggiavi su aspre scogliere, sul mugghiare di flutti limacciosi,
docile preda, fragile giullare dal viso mite e gli occhi generosi.
Deriso Donchisciotte, in Dolcidèa gemendo e sospirando,
percorrevi l'arida terra dell'indifferenza ed affrontavi,
armato solo di illusioni,
giganteschi, granitici bastioni di egoismi superbie finzioni.
A me correvi quando, dalle piaghe dell'anima,
traspiravi amarezza e disgusto
e t'illudevi di trovare conforto in chi, sotto la scorza dura del distacco,
celava cicatrici di battaglie più disperate e molto più confuse:
duelli con fantasmi senza tempo, ferite non curate
a ricordo d'impervie ascese e facili cadute.
E il lacrimare, Amico, sul clivo afoso e solenne del silenzio meridiano
tra i papaveri accesi e le corolle spogliate dei fiordalisi!
E gli ululati con gli spettri di luna
danzando, nella nebbiolina delle notti piovigginose,
tra i castagnacci e le querciole sulla Torricella.
E il terrore dell'alba
che ogni giorno rinnovava il tormento d'ogni giorno.
E quanti ancora, Amico!
Ricordi scanditi dal ticchettio indifferente del tempo deriso
nei vuoti giorni, affastellati ed arsi in un'unica pira, in un baleno,
nel brillio d'uno sguardo o d'un pensiero subito rinnegato.
Ricordi.
Ma nei ricordi ancora vivi, e pensi;
e dal pensiero, ogni risposta danza sulle tue labbra immobili:
farfalletta abbagliata che si spiaccica
sui rintocchi a martello della campana grande.
IL VIAGGIO
METEMPSICOSI
L'amore familiare è scritto nella genetica e non necessita di intelletto, gli basta la
memoria. Gli umani continuano a stupirsi perché alcuni animali mostrano
comportamenti affettivi straordinariamente simili ai loro, invece di stupirsi di se
stessi: umani che considerano ancora fondamentali e irrinunciabili comportamenti
affettivi animali.
Perché possedere l'intelletto e non riuscire a concepire che la famiglia è una sola e i
figli sono figli di tutti gli adulti, e gli adulti, padri e madri di tutti i figli?
Perché possedere l'intelletto e continuare a considerarsi, ancora, artefici della vita
negando la realtà di ciò che siamo: elementi della vita?
20.43: uscita per Bressanone - Val Pusteria.
Quanto ancora per San Candido?
Una sessantina di km.
La prima volta che capitai da queste parti, qualche anno fa, venni con il treno. In quel
periodo stavo a Pescara. Davo una mano a costruire un piccolo convento per una
comunità di frati. Due muratori e un manovale: io.
Da giugno a dicembre, sei mesi meravigliosi volati via senza inquietudini. Giorno
dopo giorno, sabbia calce cemento mattoni legname piastrelle tubi fili tegole, si
trasformarono in una cosa che, il 21 dicembre, assunse un nome unico e definitivo:
casa. Buon Natale, Capodanno, Epifania.
Dopo una ventina di giorni di inattività cominciavo a masturbarmi come uno
scapolotto quarantenne. Provai ad uscire per qualche sera. Durante l'estate avevo
conosciuto una ragazza a Silvi Marina. La terza sera la incontrai in un bar mentre
pomiciacchiava con un tracagnotto foruncoloso, tutto mamma e clear. Appena mi
vide, saltò su come una piattola dal pelo di Babilonia, la prostituta delle prostitute.
Ciaaao Primùuultimo! mi cantilena un salutissimo.
Mia madre mi ha chiamato così perché poi non ha più voluto saperne di svaginare
altri figli. Diceva ch'era castrante, che aveva la sua vita da vivere. Tutte quelle
stramaledette giaculatorie laicolibertarie scritte nella gola delle donne che,
finalmente, decidonodasé e che alla fine ti lasciano tanto vuoto, dentro, da non
poterlo più riempire senza l'ausilio costante di amici fidati: brandy whisky martini,
rossi antichi e nuovi, cherry sigarette pettegolezzi allegre compagnie. Che bella la
vita! Su, viviamo! Andiamo di qua, andiamo di là. "A fare icché?". Mai alcuno che
abbia una risposta compiuta, tipo quella che diede un povero Cristo al medico che,
dopo aver scaricato il defibrillatore, gli gridava nell’orecchio: “non andare, non
andare! Resta con noi! Ma dove vuoi andare!?: “consummatum est” .
Un tranquillante per uscire. Uno, per ritornare in quella casa così vuota. Due, per
riuscire a dormire. Ah che invidia mi fanno queste padrone della loro vita!
Ciao Sandra, lui chi è?
Un amico, cantiamo insieme nel coro della parrocchia. Facciamo una passeggiata?
E lui?
Aspetta gli altri, tra un'ora abbiamo le prove.
E mi getta in faccia un soffio erotico da farmi dimenticare il mondo. Sono già con lei,
sopra di lei, dentro di lei. Mi tocca una mano: Andiamo?
Ci tuffiamo nella tramontana, sul lungomare. La furbacchiona mi guida verso uno
stabilimento balneare in letargo. Apre una porticina laterale, facile facile così come io
apro una scatola di scarpe.
Sandra.
Sii. e la voce le muore in gola. Ha già trovato il flauto di Pan. Bruuucia.
Lo so bene. Sono tre mesi dall'ultima volta. Non è facile vivere con i frati e poi
lasciarsi andare al richiamo di Eros o perlomeno, è un pò imbarazzante.
Vieni, voglio sentirti dentro.
Anch'io voglio sentirmi entrare. Girati.
No. lì no, è ancora presto. Ma ormai non l'ascolto più; non potrei più ascoltare
alcuno. Debbo soddisfare la voce che ho dentro… La voce che ho dentro... Cos'è la
voce da dentro? Questo demone che improvvisamente mi chiama alla trasgressione;
mi incita all'umiliazione dell'altro, come sospinto da un delirante impulso ipnotico al
quale è inutile opporre resistenza e bello, nello stesso tempo, abbandonarsi; e poi
vedersi spettatore e attore; e sapersi carnefice e vittima; e sentirsi giustificato perché
capace di scavalcare una barriera sapientemente predisposta, giorno dopo giorno da
parole, si non confortate dall'esempio, ma pur sempre fortificate dal comune senso
dell’ipocrisia spacciata per pudore?
Cos'è questo rimorso ora? Questa irritazione nei confronti della vittima. Vittima?
Quale vittima? La fragile creatura che sussurra: no no, mentre impercettibilmente il
suo corpo, man mano si dispone al si si sissiiii!
Ma ora sono io che dico: no. Io che te lo faccio vedere e te lo nascondo. Io che te lo
faccio toccare e te lo tolgo. Io che ti frusto nell'orecchio: "Perché?" ma tu non sai
cosa ti stia chiedendo; perciò immergo ancora più profondamente l'artiglio della mia
irritazione. "Perché ti neghi mentre ti offri? E' un giuoco?". No, non può essere un
giuoco. Nessuno di noi due ama giuocare con dolore. E' la tua femminilità:
l'ambiguità naturale che non trova smentita neppure quando annaspa nel parossismo
dei sensi.
Eri molto stretta. Piangi?
Mi ha fatto male.
Ti ricordavo più. elastica.
Non l'ho fatto più da.
Da?
L'ultima volta con te. Lo so, tu pensi che sono. sono. Quando ti vedo, respiro il tuo
odore, io. io non capisco più niente. Solo con te mi capita di. così. subito. Io. io.
La bacio sulle palpebre. Battezzo le mie labbra con quell'acqua saporosa che sgorga
dallo spirito turbato dalla percezione di potenze che sfuggono alle imposizioni di
qualsiasi cultura, di qualsiasi ordinamento, di qualsiasi proposito. E' una disciplina
inesplorabile: è la DEBOLEZZA in assoluto, il richiamo del PIACERE,
l'impossibilità di RIFIUTO, quando c'è attrazione. E mi ritrovo a pensare che lei è
giustificata, mentre io sono più solo di prima; e più assetato.
La stringo. Dolcissimamente la avvolgo, la cullo, la acquieto. Fingo di crederle.
Dovrei crederle. Vorrei crederle.
La sera dopo, indosso il mio vecchio cappotto militare. Chiudo lo zaino. Un’occhiata
panoramica alla cameretta nuova nuova che potrebbe diventare il mio nido, soltanto
che lo chiedessi; basterebbe assoggettarmi alla legge della Regola ed indossare un
vestito che notifichi la mia appartenenza. No, non sono idoneo ad una esistenza
Regolata. Saluto gli amici frati. L'economo mi mette in tasca qualcosa. Il malizioso lo
chiamerebbe: compenso del manovale al nero; invece è soltanto il dono di un
intelletto comprensivo. Un milione cazzo! Ci posso fare il giro del mondo.
Alle ventunoetrenta prendo l'espresso Brindisi-Milano. Assalto il primo vagone che
mi si ferma davanti, apro la portiera. Caz! a momenti, da dentro la carrozza, mi
ruzzolano addosso tre persone. Impossibile salire anche un solo gradino. Richiudo la
portiera. Me lo percorro tutto, dall'esterno, questo lombricone osceno. Tutti i vagoni
sono pieni zeppi di poveri disgraziati. Potrei permettermi una prima classe; ma sono
uno di loro. Preferisco mangiare pane secco insieme a Lazzaro piuttosto che sedere al
desco di Epulone.
Luna
del palissandro amica e del licantropo
del solitario in vetta concubina
e dell'artista pazzo
gravida luna di nècri timori
d'armonie luciferine plananti
negli aridi cuori di rapaci
untori
d'illusioni perverse
di futuri ineguagliabili onori.
Placida luna
che nulla sai
dei tanti malanni che arrechi
dei candidi inganni
dei teschi sognanti
dei giorni di speranza che neghi.
Apro la porta di un altro vagone. I poveri disgraziati stanno addossati l'uno all'altro,
insaccati… nemmeno la metropolitana nell'ora di punta. Riesco ad infilarmi. Lo
zaino? Uno, approfittando della portiera aperta, mi prende per il bavero del cappotto;
così riesco a mantenermi in equilibrio, in punta di piedi, sull'ultimo gradino. Passo
dentro le cinghie dello zaino e chiudo la portiera. Riesco ad accomodarmi, in piedi,
sul predellino.
Facce rassegnate, senza più neanche la voglia di protestare. Pudore. Ci si vergogna.
Penso ai racconti di mio padre. Il 1943. la stazione Tiburtina. gli ebrei sacrificabili
nei vagoni merci. e non solo gli ebrei. L'odore della calca, l'odore asfissiante
dell'animale intrappolato. Fa caldo. Sudo. Il cappotto mi strangola. Non c'è il posto
per cadere e non c'è il coraggio per gridare… Auswhitz… Dachau… Qualcuno riesce
ad aprire un finestrino scorrevole. L'aria gelida mi sferza. Fuori sta piovendo. Lo
zaino…
Sigaretta?
si bagnerà.
Primù oh!
Eh? Che c'é?
La vuoi una sigaretta?
Si, grazie.
E' quasi buio. Abbiamo superato Brunico. Tra un pò saremo a Dobbiaco e, da lì a
San Candido, è una soffiata di naso.
A che ora chiude la pensione?
Alle undici.
Sono neanche le nove e mezza. Arriviamo comodi comodi.
Dling dlong. Ancona, stazione di Ancona. Qualcuno forse scenderà. no. L'espresso
501 Roma-Berlino continua la sua corsa nel buio e nella pioggia.
Un bambino piange. Il rabbino recita le Scritture: “Il Signore è la mia guida e la mia
salvezza, di chi avrò paura? Fammi giustizia o Dio, difendi la mia causa contro gente
spietata. Ascolta Dio, la voce del mio lamento; dal terrore del nemico preserva la mia
vita. Sorga Dio, i suoi nemici si disperdano e fuggano davanti a Lui quelli che lo
odiano. Salvami Dio, l'acqua mi giunge alla gola. O Dio non stare lontano vieni
presto ad aiutarmi". Nel cuore dei disgraziati scendono le parole del rabbino e verso il
cielo vorrebbe innalzarsi, se soltanto potesse, il greve silenzio disperato degli
umiliati.
Ho un pacchetto di caramelle Charms in una tasca del cappotto. Riesco a tirarlo fuori
ma non posso adoperare l'altra mano per scartare la caramella: stiamo troppo stretti.
Quello di fronte a me, petto a petto, mi presta una delle sue mani, quella che riesce a
liberare. Gli lascio il pacchetto e gli faccio cenno. Il pacchetto di caramelle passa di
mano in mano, faticosamente.
Sto dividendo con loro il caldo opprimente del riscaldamento, la nausea dei fiati, la
stanchezza dei piedi, l'umiliazione spirituale, lo scoramento di sentirsi ultimi, infimi,
merce deteriorata. Posso dividere con loro anche le mie caramelle. No, non le sto
dividendo. Con quelle caramelle li sto comunicando. Lo leggo negli sguardi dei
vicini, nella increspatura appena accennata delle labbra; lo sento nelle zaffate dei fiati
che respiro. Fin dove sono arrivate le caramelle è nata una comunità. Sono il loro
sacerdote dling dlong. Bologna stazione di Bologna.
Non ho una meta precisa né scadenze da onorare. Da qui posso prendere un treno per
ogni luogo della penisola, del mondo. Appena decido di scendere mi sento un
disertore; ma perdio! Non ho l'istinto del gregge io. Sono un uomo libero io. Eppure
questa vocina radicale e radicata non mi rasserena. Che altro potrei fare per loro? La
rivoluzione?
Anche se avessi il carisma del manipolatore di folle, a che servirebbe? Il banchetto
dei loro sogni è fatto di briciole; quelle briciole che cadono dalle tovaglie sbattute
dalle finestre delle case degli approfittatori.
Sono figli di padri che si accontentavano del poco, saranno padri di figli che
dovranno accontentarsi del meno.
Scendo. Lo zaino è talmente inzuppato di pioggia da spisciolare come il filtro del
moscato nella cantina di mio nonno buonanima. Pioviggina ancora. Fa freddo. Mi
sento anchilosato. Il treno riparte con il suo carico di inermi. Appena scompare il
Bobocù fanale lampeggiante di coda, li dimentico. Ora, nella notte, c'è un'unica
persona degna di tutte le mie preoccupazioni: me stesso.
A quest'ora della notte, l'unico buco caldo che si può rimediare è un altro treno. Il
prossimo all'una e cinquantadue, tra venti minuti: Roma-Monaco. Quasi quasi. non
sono mai stato più in su di Verona. Che partita quel giorno, con Larssen scatenato sul
campo e Gino, incazzato nero, tra gli ultra romanisti. Altri tempi e altre storie. altri
valori.
Più in su c'è il Trentino, l'Alto Adige. montagne e neve. Peccato che parlino
straniero. un momento: c'è don Cettino che ha impiantato una colonia per ragazzi in
Alto Adige. Non lo conosco. però potrei andare a fargli una visitina. Siamo paesani
dopotutto. Potrebbero servirgli un paio di mani che non si schifano di infilarsi anche
nel buco otturato di un cesso.
Con i ragazzi, si sa come vanno certe cose. Ci buttano di tutto: tampax preservativi
mutandine torsoli di mela palline da ping-pong. Se mi dice di no, do un'occhiata al
posto. Non ho mai visto una pista da sci. ci vado. Il posto come si chiama? Telefono a
Gino, l’affittacamere del mio periodo romano; è lui che me ne ha parlato, una volta.
uno squillo, due squilli, tre squilli, quattro. Prooonntooo!
Gino, sono Primultimo.
Primù, come stai? so' Andrea.
Andrè, c'è Gino?
Aspetta un momento che te lo chiamo. Sta a pomicià con le sorelle Annamolì ahahah.
Le chiamano così perché vanno per la trentina e non sono ancora riuscite ad
acchiappare un becco permanente. Basta niente per appioppare soprannomi. Conosco
uno soprannominato il Gobbo, solo perché i suoi hanno avuto la malaugurata idea di
battezzarlo Giulio. Un altro lo chiamano Vampiro da quando infila l’ago nelle arterie
dei donatori di sangue. Un altro ancora lo chiamano Ladro dal giorno in cui lo videro
uscire dal negozio del fioraio con un mazzo di garofani. Non li ha più comprati ma
continuano a chiamarlo Ladro lo stesso. Quanti tipi di perversione intellettuale siamo
capaci di trasformare in normalità ampliando, con sadico piacere, la finestra dei
sinonimi riprovevoli!
A Primù, vecchia sòla! da dove chiami?
Da Bologna.
E aspettate un momento. bone. statevi bone!
A Gì. Gino! mi ascolti?
Si, ti sto a sentire. E' che, ci sono le sorelline. stanotte pàrono pizzicate dal tafàno.
come le baccanti ahahah.
A Gì, sputagli addosso. così intanto che si leccano per ripulirsi, noi possiamo
parlare in santa pace.
Primù, prima di tutto ti devo da dare una notizia. Non è una bella notizia, mi
dispiace. noi lo conoscevamo, ma tu c'eri propio amico. Spartaco se n'è andato.
Dove?
E' i-to, mi capisci?
E' morto?
L'abbiamo accompagnato tre giorni fa.
Come è morto?
Assideramento. Su la spiaggia di Torvajanica. Prima è entrato in acqua e poi s'è
steso su la sabbia. con i tre sotto lo zero.
Chi c'era con lui?
Nessuno, mi dispiace Primù, d'essere stato io a darti la notizia, ma qualcuno te lo
doveva dire: ambasciator non porta pena.
Non ti preoccupare Gì, non è il caso d'averci rimorsi. Se n'è andato come aveva
stabilito lui.
Ci pensava da parecchio?
Non lo so. Però una volta mi disse: quando vedo che non ce la faccio più, me stendo
e me ne vado. Perciò se l'ha fatto vuol dire che era arrivato. E' stato fortunato,
almeno s'è l'è scelta.
E ti pare giusto?
Quello che è giusto non lo so; però mi pare meglio così che ritrovasse sfracellato da
un bastardo de automobilista mbriaco. Lui ha scelto capisci? Sapeva d'aver diritto
ad essere un uomo libero e quel diritto l'ha adoperato come meglio gli è piaciuto:
evviva Spartaco.
Amen, pure se non ti capisco. Comunque, in confidenza, me lo potresti dire che ci
aveva, che non andava, quel ragazzo? Era un bel ragazzo, stava bene di famiglia, le
donne gli davano retta. insomma non je mancava gnente: che cazzo je frullava per la
testa?
Eh, che je frullava... non lo so, di sicuro. Ti posso dire solo una cosa: la merda per
lui era oro e l'oro merda.
Me cojioni! Era propio arivato de cottura.
Gino, ho finito i gettoni e non ti ho ancora chiesto quello che mi serviva. Vado a
rimediarne n'artri pò e ti richiamo.
Va bene, ti aspetto.
Era proprio arrivato di cottura. Si, quando cadi nel precipizio vuol dire che hai
camminato per arrivarci e vuol dire che la strada sulla quale ti trascinavi, portava solo
lì e in nessun altro luogo: s'inabissò nel tutto quantificando il nulla.
Spartaco, avresti voluto dare la tua vita per il bene di tutti e invece hai dovuto
rifiutarla per salvarti da tutti. Gino e tutti gli altri pensavano che io e te fossimo
amici; invece tu non avevi amici. Come si fa ad essere amico di uno che vede il
mondo al contrario e quando parla non lo capisce nemmeno lo spirito santo?
Per quello che mi riguarda io ti volevo bene a livello fisico perché tu non ti incazzavi
mai, non alzavi la voce, non ti offendevi, non giudicavi e soprattutto non ti
proponevi: io qua, io là, io dico, io faccio, come ci succede un po’ a tutti. Tu c'eri
solamente, semplicemente e, a starti vicino, si respirava un sensazione di benessere
fisico.
Non mi ricordo quante volte abbiamo parlato noi due. A pensarci bene, mi sembra
che siano state un paio di volte soltanto. Una, quando ci siamo conosciuti in via
Frattina davanti alla vetrina di Bulgari e tu ti tappavi il naso con il pollice e il
mignolo mentre muovevi ritmicamente le altre tre dita come se stessi contando, ti
ricordi? Io volevo comprare un anellino per Rosina e, anche sapendo bene che non
sarei mai entrato in quel negozio, mi ero fermato davanti alla vetrina per dare
un'occhiata. Tu, rivolto al riflesso nello specchio dicesti: non la senti?
Che?
La puzza di merda.
No.
Viene da lì dentro, ti va un caffè?
Stavo per dirti di no; ma feci lo sbaglio di guardarti negli occhi e capii che non eri
pazzo: Se paghi tu.
Attraversammo la via e ci infilammo nella calca del caffè Greco.
Una volta qui si beveva un buon caffè.
E adesso?
Ci si viene solo per poterlo raccontare e proporsi alla vita come gemme bagnate dal
riflesso della fama di morti. E' un circolo vizioso: i morti continuano a seppellire
morti.
Vieni spesso qui?
Tutti i giorni.
Perché?
Se mai dovesse accadere il miracolo che qualcuno resusciti, voglio essere presente.
Che succede se uno resuscita.
Succede che nessuno se ne accorgerebbe, ma io si.
Il fatto straordinario era che ti stavo a sentire. Io che non riuscivo a sopportare
neanche quelli che capivo, restavo vicino a te che mi parlavi di niente senza il benché
minimo sospetto che tu volessi burlarti di me.
Hai mai sentito parlare di un luogo dove i padroni della cultura prolificano
facendosi le seghe su quello che è stato, sognando quello che sarà ed ignorando
quello che è?
Per la verità non riesco neppure a capire di cosa tu stia parlando.
Sono tre mesi che non parlo con qualcuno.
Perché?
So che nessuno mi capisce.
Come lo sai?
A nessuno interessa quello che dico.
Neanche io ti capisco, però sto meglio adesso che con quelli che capisco.
E' una questione somatica.
Che vor dì?
Vuol dire che tu sei ancora vivo.
Tutti quest'altri sarebbero morti?
Proprio così.
Ma l'hai guardati bene? Hai visto che vestiti? E l'oro che ci hanno addosso. E come
profumano. E i denti oh! Ce ne fosse uno che non ce l'ha bianchi e belli raggruppati
come chicchi d'uva.
Proprio così, quello che vedi è la cassa da morto, tante belle casse da morto di
prima classe, automatizzate. Se tu domandassi loro dove vanno, ti risponderebbero,
chi sta per andare in banca, chi in video, chi all'atelier, chi a Milano, chi in
America: vanno di qua e di là ma sempre all'interno del perimetro della gabbia;
nessuno di loro risponderebbe che sta cercando la strada per uscire dalla gabbia e
vuoi sapere perché? Perché non la vedono e soprattutto non sentono il profumo che
filtra tra le sbarre, il profumo che viene da di là. Che stai guardando?
Hai fatto segno di là.
Ma no, di là, dall'esterno della gabbia.
Ah, e che c'è all'esterno della gabbia?
Il buio e la libertà.
E il profumo?
E' il profumo della libertà.
E il buio?
E' la condizione indispensabile per essere libero. Dal buio puoi vedere chi si muove
nella luce e puoi vedere che chi si muove nella luce è talmente abbagliato dalla luce
da non riuscire a distinguere i soggetti dalle ombre; e così la sua principale
occupazione diventa quella di rincorrere le ombre: un'ombra dietro l'altra, sempre
girando attorno, dentro al confine della gabbia. Costoro vivono nel bagliore della
luce e sono solo cacciatori di ombre, sono condannati alla gabbia, sono morti.
Noi invece no? Non facciamo anche noi quello che fanno loro, non stiamo in mezzo a
loro?
Guarda bene e ti renderai conto che non ci cagano per niente; non ci vedono. Questo
vuol dire che noi stiamo dall'altra parte, nel buio. Loro vagano e noi li guardiamo;
loro cicaleggiano e noi ragioniamo. Non siamo come loro: noi siamo vivi.
Levami una curiosità: pure io ero morto prima d'incontrare te?
Tu dove te ne andavi?
Volevo comprare un anellino per Rosina.
E poi?
In giro, perché?
Non avevi un posto preciso dove dovevi andare, un lavoro da fare, insomma un
confine?
No.
Te ne andavi in giro e basta?
Si, me ne andavo in giro e basta.
Ce l'hai un lavoro?
No.
Perché?
Io ciò la sensazione che sarebbe come dire al vento: da oggi tu soffierai solo qui
sulla via Frattina tra il Corso e piazza de Spagna.
E come campi?
Con poco.
Ti basta?
Mi basta.
Non vorresti di più?
Certo che si, però mi basta il poco e al più non ci penso per niente.
Ce l'hai l'automobile?
No.
Non la vorresti?
Per farci che?
Per poterti muovere.
Io mi muovo lo stesso.
Con la macchina faresti prima e viaggeresti più comodo.
Primo punto: se dovessi arrivare prima partirei più presto e arriverei lo stesso.
Punto secondo: io viaggio più comodo quando è qualcun altro a doversi
preoccupare di guidare. Perciò a me la macchina non mi serve proprio.
Ti mettesti a ridere, ricordi? Poi mi dicesti: ho sentito il profumo, perciò t'ho invitato
a prendere il caffè.
Che profumo?
Di libertà. Lo sentivo avvicinarsi e quando ti sei fermato davanti dalla vetrina anche
il profumo è rimasto là; perciò la risposta è facile: tu non eri morto prima
d'incontrarmi.
Lo sai? Non mi riconsola per niente il fatto che, fra tutta questa calca , noi due,
secondo te, saremmo gli unici vivi.
Non sono io a dirlo.
E chi allora?
La ragione.
La tua
Anche la tua.
Proprio no. Io ti sono stato a sentire e ci sono stato bene però, per quanto riguarda i
vivi e i morti, non sono riuscito a capire un fico secco; perciò lascia in pace la mia
ragione che io non sono proprio in grado di dire che ragiono.
Allora mi mostrasti un anellino nel palmo della tua mano, un anellino di ottone con
una pietruzza verde incastonata. Contrattammo una mezzora, tra l'indifferenza
generale dei morti vaganti nel caffè Greco e alla fine me lo cedesti per
cinquecentolire. Rosina pianse quando glielo infilai al dito e volle fare subito
all'amore sotto l'archetto di Ponte Mollo.
Dopo di quella volta ci siamo rivisti tante altre volte e io ti ho fatto conoscere il mio
giro e tu hai ballato e chiavato con le ragazze e hai cantato e ti sei ubriacato con i
ragazzi; però non abbiamo più parlato fino a quel giorno in cui ci incontrammo per
caso a piazza Navona e tu mi domandasti a bruciapelo: quando parti?
Che ne sai che ho voglia di partire? volevo chiederti; invece ti risposi, prendendo la
decisione su due piedi: domenica.
E' il giorno migliore per partire. Di domenica gli angeli hanno chiesto al Padreterno
il giorno libero e abbandonano le chiese e se ne vanno in giro sulle strade, sui treni,
sulle navi, sugli aeroplani; se tieni gli occhi chiusi e ti affidi al naso ne potrai
riconoscere parecchi. Poi abbassasti la voce, quasi un alito di ponentino: gli angeli
non sopportano l'ipocrisia. Ti accendesti una sigaretta.
Ah Spartaco, tu ce l'hai un ideale?
Non lo so Primù, mi sento un esiliato. Guardo il mondo e mi piace solo quello che è
rimasto selvatico; guardo le persone e... non lo so che darei per sentirmi come loro,
uguale a loro. Mi specchio e cerco di convincermi: guardati, sei uguale a tutti gli
altri. Poi esco, li sento ragionare, li vedo come si comportano e mi dico: Dio mio
non li capisco, Dio mio questo non è il mio pianeta, Dio mio dove sono andato a
capitare.
Ti accendesti un'altra sigaretta, forse per darmi il modo di dire qualcosa; ma io avevo
il cuore gonfio e la lingua asciutta. Buttasti la cicca e, con le mani in tasca, guardando
la colomba in cima all'obelisco, dicesti: quando vedo che non ce la faccio più, me
stendo e me ne vado.
Questo sette mesi fa. Mi dispiace Spartaco, non riesco a versare neanche una lacrima
sul tuo ricordo anzi, ho addosso come una sensazione di compiacimento; è come se
sentissi cantare: bentornato a casa Spartaco, siamo stati tristi senza di te.
Giovane forte sicuro senza negli occhi il futuro
La vita sua sulla strada amici in ogni contrada
Spesso partivano in tanti appresso a voci invitanti
Voci che nascono dentro voci che sempre fan centro
E sulla strada il tramonto rapido come l'incanto
dava respiro alla notte complice d'intime lotte
E l'alba grigia veniva spesso a svegliarli alla riva
d'un mare placido e caldo d'un prato verde smeraldo.
Ospiti della natura al rito di mungitura
coglievano agili mani vergine frutta dai rami
Era la strada e gli amici erano i giorni felici
d'una perpetua gaiezza uomini in fanciullezza
Figli di sperma e calore ma anche figli del cuore
nel mondo come gitanti sempre guardavano avanti
Finché non venne il terrore divise armi torpore
allineati e inquadrati servi chiamati soldati
Le madri fiere e orgogliose fascino delle divise
senza intelletto e consiglio vendono il corpo del figlio
senza conoscerne il cuore donne d'azione e d'onore
sognano i fasti di corte chiamando vita la morte
E venne il tempo per tutti a chiedere conto dei frutti
dati con somma abbondanza negli anni della speranza
E venne il mondo a cercarli con le promesse di balli
su fiumi d'oro e su mari dolci a vedere ma amari
La mano tesa a saluto l'ultimo gesto goduto
l'ultima immagine pura nell'aria e nella natura
Ora soltanto ricordi niente più amici né accordi
Vede le corse affannose su brevi strade oleose
sente lo schianto sui muri fragili ossa di duri
Spinge al delirio il denaro pagano il prezzo più caro
Tutto ricorda e di tutto confronta il bello ed il brutto
Cerca una via da seguire l'unica saggia morire
Bruciò vestiti e danari sui denti delle comari
Un perizoma sui fianchi per la delizia dei bianchi
La bicicletta volava frusciando il mozzo girava
lungo la strada di Roma l'asino porta la soma
anche per chi non ha voce cristo inchiodato alla croce
Sputi ed insulti pesanti da auto e moto sfreccianti
Ossidi fumo rumori sputi da gente e motori
Niente però lo toccava solo la schiena mostrava
stretti e cocenti fra i denti gli affetti ed i sentimenti
lucente fissa lo sguardo l'intimo finale traguardo
Roma che al sole si culla mai si stupisce di nulla
Roma che ha visto ogni uguale chiamato ora bene ora male
Volava lento un gabbiano sul fiume pigro e lontano
rintocchi d'una campana un gracidare di rana
una carrozza un cavallo un prete nero uno giallo
sirene governative facce di neri passive
Roma che offre di tutto tutto e l'opposto di tutto
Dio abbracciato al denaro smoking al camposantaro
fiori di cera e d'asfalto cacca di cane e di guanto
rumore appeso a rumore silenzio assurdo per ore
ladri vestiti da onesti chi più onorato di questi?
Ora il cronista si arresta l'epilogo ora s'appresta
e lascia voce a chi c'era quel giorno di primavera:
Via Flaminia Corso Francia Via del Corso Colosseo
quando giunse a piazza Esedra già cresciuto era un corteo
ed a Piazza Cinquecento già schierati i poliziotti
fissi come manichini dietro scudi trasparenti
Girò attorno alla fontana per tre volte lentamente
poi deciso alzò la testa e guidò la bicicletta
contro la muraglia umana grigia immobile compatta
e non vide il manganello cadde a terra sulla fronte
cadde nudo cadde bello come stella nella notte
S'ora narro questa storia non crediate abbia pretesa
d'insegnare qualche cosa di stupire o poetare
Io la narro solamente perché è vera perché è stata
perché c'ero anch'io con lui c'ero sempre ovunque andava
C'ero quando bestemmiava s'abbruttiva si sbronzava
c'ero quando la mattina vomitando rientrava
e sbatteva con la fronte contro gli alberi per strada
e gridava sempre forte sfide al ghigno della morte
Fu perciò che lo seguii all'epilogo scontato
e lo vidi andare in guerra senza essere un soldato
senza armi né divisa senza scopo dichiarato
Vidi il corpo calpestato vidi il sangue raggrumato
quando il fumo si disperse quando il gas si fu diradato
Corsi primo a lui vicino corsi e non ne fui sorpreso
che sereno era il suo viso riposato il suo sorriso.
Ho trovato i gettoni e ritelefono a Gino.
Pronto. risponde al primo squillo.
Allora senti: come si chiama quel posto dove sta la colonia di don Cettino?
Sto momento non me lo ricordo. Aspetta che lo chiedo a Ninfetto. Ninfetto! Ninfeee!
Cià la bocca occupata sto finocchio. Ninfettooo! Come... quel posto ndove… er
bordello de... Primù, ci sei?
No, ci faccio.
Dai non te sturbà. Allora, il posto è San Candido e p'arivarci devi da cambiare a
Fortezza.
Ti ringrazio Gì, ci sentiamo.
A Primù, quand'è che ritorni? Da quando hai preso il volo, qui, con questa manica di
stronzi non si combina più niente. Pensa che non sono stati capaci d'nventarsi
neanche una posizione nuova. Siamo rimasti a la doppia rota sospesa. Sono sette
mesi, non se ne pò più! Ci vorebbe qualcosa di nuovo, ti pare?
A Gì, io un'idea ce l'avrei.
Ah si, quale? Dimmi dimmi.
Provate il cerchio egiziano.
E che vor dì? come si fa?
Non hai mai visto le pitture degli egiziani antichi?
E no che non le ho viste, stiamo a Roma, mica in Egitto.
Concesso. allora ascolta: i maschi si spogliano e si mettono in cerchio uno dietro
l'altro.
E poi?
Poi, quello di dietro glielo infila a quello davanti in modo che tutti rimangano
inchiavardati. Nel frattempo le femmine.
A Primù! ma anvedi d'annà affanc.
Non posso farne a meno: lo schiaffo della mia risata si stampa sui marmorei androni
deserti della stazione. A trecento km di distanza i miei vecchi compagnoni vivono.
Che vorrà dire vivere? Quando hai tolto l'amarume della bocca al risveglio, la
sensazione d'una debolezza cronica, la mezza giornata per risentirsi accettabili. forse
è proprio questo il vivere: rifiutarsi. A Primù, mi fece Gino quando gli dissi che m'ero
rotto e che me ne sarei andato in giro per qualche tempo, chi cià un'attività campa,
l’artri vivono. I filosofi si masturbano il cervello per riempire tomi in modo da
spiegare ciò che i reietti sanno dire con sei parole. A trecento km di distanza i miei
amici disperati si stanno scaldando con l'unico combustibile che conoscono: il calore
dei loro corpi. A qualche centinaio di metri ci saranno altri disperati. amici che non
conosco. anche loro staranno. vivendo. A cinque metri da me c'è una ragazza fasciata
in un sacco a pelo. Dormirà? forse è morta. ora controllo. ma poi che me ne frega?
Potrei essere io. mi avvicino, respira, è serena. le infilo diecimila lire sotto i capelli,
tra il collo e la spalla. Appena mi allontano so di aver vissuto. Quindici anni da
vitaccione li scambierei subito con un altro di questi attimi da. coglione.
Nulla ci resta ormai, neanche l’illusione
che un po’ di questa terra sia anche nostra,
un po’ di questo cielo di quest’acqua.
Noi siamo masse e nulla ci appartiene.
Tutto è di pochi e tutto non ha senso.
Eppure sento, ovunque, carmi di lode,
fragranze di incensi, preci, a Dei fatiscenti,
nati da coito umano. Moh!
Ti rubano la vita e tu li ossequi.
Nulla ci resta ormai di questo dono Divino,
di questa casa vitale,
di questo sublime mondo animale.
Soltanto l’emozione resta, l’emozione inespressa.
Essa ti fa individuo fra la massa e,
l’individuo,
una giorno si ribella:
è il filo di speranza che si sgroviglia nel tempo
in attesa di una mano
tesa ad afferrarlo.
Ancora quindici minuti per il treno. Decido di aspettare nel purgatorio della sala di
attesa di seconda classe. Poche anime in pena attendono rassegnate il loro treno.
Nessuno di loro va verso un paradiso. Sono tristi oscuri anonimi. In questi tempi solo
i miserabili e i dannati attendono le coincidenze nelle sale d'aspetto di seconda classe.
Un tonfo. Un vecchio addormentato è caduto dalla poltroncina di fòrmica. Due o tre
insonnoliti samaritani si precipitano su di lui. Respira. continua a dormire. E' crollato,
il vecchio. Sa che non ne vale la pena. Ha le mani nere e forse l'ha già vista l'Assurda,
in fondo alle belghe miniere di carbone. e forse è bella. desiderabile.
Quattro vie si incontrano
attorno ad un lampione
e si perdono nella notte.
Sceglie o si sceglie il destino?
IL DESTINO
Celia aveva ragione. Stanotte ci siamo fatti due porcelle e una vergine. La vergine è
questa camera d'albergo profumata d'intonaco fresco e di petunia, mentre l'odore del
fieno s'insinua, sottile, dalle imposte socchiuse per ricordare che là fuori, nel sole e
nel vento, la vita ricicla il quotidiano. E' nuovissimo, questo complesso, inaugurato
appena quindici giorni fa: piscina coperta, sauna, campo da tennis, camera a due letti,
colazione e un pasto a piacere; il tutto, per sole meschine 55mila al dì. Vorrà dire
che, invece dei quindici giorni programmati, ce ne faremo cinque; ma, pergiove,
ricordatori! Sono pronto a scommettere una notte d'amore con la prima voce che mi
telefona, maschio o femmina senza discriminazioni (sempre ciccia è), che le sei
accoglitrici turistiche, sguinzagliate per le strade della Pusteria, riempiranno questo
luogo, in ogni ordine di posti, nel termine di un paio di giorni. Poi, beh! Poi me ne
andrò con Celia sulla montagna, in un maso là, dalle parti di (stai fresco se pensi che
te lo dico) dove i funghi porcini si raccolgono con le ruspe e, per 48ore, anche i sordi
sentiranno suonare le campane a stormo.
Sono le due del pomeriggio. Bobocù non c'è. Sarà andato a far riparare la gomma.
Non ho voglia di alzarmi. Mi accendo una sigaretta e lascio che i ricordi si
arrampichino sulla fune azzurrata del filo di fumo.
La prima volta che capitai da queste parti, in gennaio, era un mondo bianco. Gli unici
colori, le automobili, come corolle di fiori trascinate dal vento.
Da Bologna a Bolzano dormii il sonno del viaggiatore stanco, spaparanzato sui sedili
di uno scompartimento vuoto.
Le ferrovie sono uno degli specchi del sistema politico di un paese. Da noi è
democratico e quindi ti confezionano treni di dodici carrozze sia per linee dove il
flusso medio dei viaggiatori è di duemila disgraziati, sia invece per dove la media si
mantiene sui trecento. Una volta bestemmi, una volta godi e alla fine, il bilancio è
quasi sempre in pareggio, per quelli che, come me, percorrono un pò tutte le strade. E
gli altri? Chi, quelli che sono costretti al solito tragitto? Se non sanno vivere senza la
moglie è forse colpa mia?
Alle 7.58 sono a Fortezza. La caffettiera della Val Pusteria ansima un paio di binari
più in là. Parte alle 8.01. Siamo una decina a scendere, tutti giovanotti. Io, per ultimo,
sto per imboccare il sottopassaggio pedonale, quando ti vedo tutti gli altri attraversare
il binario di slancio. Mi accodo e, hop! Due poliziotti ferroviari ci accolgono a
braccia aperte e ci ingabbiano nel posto di polizia.
Nel tempo in cui tu ti spari una sega davanti alla pornofoto di Cicciolina, mi ritrovo,
solo, davanti alla burbera faccia di un maresciallo maggiore. Gli altri, tutti
volatilizzati: chi poliziotto, chi finanziere, chi carabiniere: tesserino di
riconoscimento e via. Tra cani è vero che ci si morde, ma solo durante i periodi di
calore.
Lo sai che è vietato attraversare i binari?
Il maresciallo non è per niente fesso. Manco me: Si maresciallo, ma temevo di
perdere il treno. Parte tra un minuto. E non faccio nessun riferimento agli altri
scomparsi mentre, con i miei occhi di panda, passeggio innocentemente dentro i suoi
occhi cervidi.
E' un pò imbarazzato il vecchio; ha scoperto che non sono un piagnisdei. Gli divento
simpatico: Non lo perderai, stai tranquillo. Debbo farti la multa: diecimilalire.
Dieciii?! Non lo vede ma lo sente, il mio tonfo per terra. Recito meglio di RR ne La
Stangata: Maresciallo, io ho soltanto venti-mila-lire, se me ne toglie dieci…
Il milione dei frati nella tasca posteriore dei RoyRogers sta diventando un mattone,
mi tira giù i pantaloni. Eh no porcogiuda! Non me le freghi le diecimila: Senta
maresciallo, sto andando a San Candido per un lavoro stagionale in una colonia. Il
mio abbigliamento conforta le mie parole. Barba di cinque giorni, maglione e
cappotto militare … di otto bottoni ne restano tre, RoyRogers stinti e lisi, scarponcini
di camoscio ancora bagnati di pioggia bolognese. Uno sbandato del '45 mi avrebbe
abbracciato chiedendomi: Da che fronte?
Il tutore dell'ordine è commosso. In trent'anni e più di carriera deve averne viste di
tutti i colori; ma forse è la prima volta che si imbatte in un attore o forse non gli va di
sentirsi dire, dal mio pensiero, “disonesto!”, dopo l'esodo in sordina degli altri nove
colpevoli.
Beh... Sta cercando il modo di uscirne dignitosamente. Il fischio della tradotta lo
aiuta: Vai vai. Ma la prossima volta usa il sottopassaggio.
Ci può scommettere maresciallo! Afferro lo zaino e schizzo via come un suricato. Le
8.55 secondi. Porcaputtana!, tra me e il treno c'è un binario vuoto. Sono puntuali
come il termometro questi tirolesi. Se mi facessi il sottopassaggio, ciao ciao treno! Se
mi vedesse una tigre mi adotterebbe: con un balzo solo salto il binario (N.B. * Il
Gatto con gli Stivali non c'è mai riuscito *); faccio tre passi al volo, moderno Peter
Pan e mi ritrovo sul predellino del secondo ed ultimo vagone nell'attimo in cui le
ruote cominciano a girare. Mi volto verso il posto di polizia. Il maresciallo sta
sorridendo bonariamente da dietro i vetri della finestra.
E' simpatico questo vagone. Ne ho visti di simili nei films western. Nel centro, una
stufa a carbone alimenta l'impianto di riscaldamento. Anche se ho l'impressione di
aver attraversato il tempo e di essere ricaduto nella tradotta che parte da Torino, non
provo alcun moto di disagio; anzi, ci sto da papa. Passa il controllore. E' piuttosto
anziano, con un cappello da pulè francese e due spioventi baffoni juventini
(bianconeri). Dimenticavo gli occhi: alcoolici. Fora il mio biglietto, getta due
palettate di carbone nella stufa e se ne va. Un momento! Prima di uscire si ferma
vicino alla porta, si volta verso il finestrino di destra, ingobbisce un pò le spalle,
allunga un braccio a mano aperta e, dalla spalliera del sedile, ti vedo spuntare un
ciuffo di capelli biondi. Sicuro! Capelli di donna. Ed io che avrei giurato di essere
l'unico passeggero. Vedo uscire il controllore, gli do il tempo di entrare nel vagone
motrice, di assestarsi davanti alla sua bottiglia di grappa al mirtillo e mi lancio, come
il lupo cattivo, nel cestino di cappuccetto Bobocù.
Ah amico, che effetto unidirezionale! Tutto il sangue e tutte le fantasie mi si vanno ad
appollaiare sull'unico ramo che posseggo. Fortuna che il tronco è robusto. Non
credere, non sono per niente scemo. Il motivo c'è e te lo rivelo subito. Ne ho viste di
ragazze belle, ci puoi scommettere e ci ho anche giuocato; ma questa è latrice di un
tale potere di attrazione, da non potertela descrivertela. Immaginatela! La più bella
fija che saprai crearti nella tua fantasia non riuscirebbe a reggere il confronto;
neanche Aurelia Portaperta.
Io sono paralizzato, asciutto come una foglia bruciata; e rimarrei interdetto fino al
giorno del giudizio, se la pulcherrima non mi sorridesse, tendendomi la mano. Era la
destra, me lo ricordo bene. Fu un attimo. La lampo dei miei jeans si aprì come il
telone del palcoscenico. Non potevo crederci. Neanche una parola. Una mano gentile.
Dita affettuose. Unghie sbarazzine. E labbra. Amico, non potevo crederci! In quel
vagone fuori dal tempo, una donna, al di sopra d'ogni descrivibile bellezza, stava
giuocando con me, stava dando piacere a me vagabondo, trasandato, sporco.
Qualche volta, ripensandoci, mi convinco di aver sognato. Do la colpa a quella stufa a
carbonella ed anche alla sensazione di completo godimento; quella sensazione
irraggiungibile, allorché, costretto a mettere alla prova la tua virilità, non riesci a
superare il dubbio di essere stato all'altezza delle comparazioni. Uno stordimento
goduto per mancanza di ossigeno.
A dirtela papale papale, se fu un sogno oppure no, me ne fre go! Il fatto certo è che
ho goduto; e questo è ciò che conta. Tutte le cose, una volta passate, hanno valore in
base al ricordo che ti lasciano, e quello è tanto vivo, piacevole, duraturo, consolante
da.
Beata scalasanta che stai ndove t'hanno messa leccata e …
Arriva Bobocù. Riconoscerei le sue bestemmie anche in un'orgia logorroica di
diecimila bestemmiatori patentati.
Primùuuu!
E mi entra in camera con quella soddisfatta prepotenza che, a te che non sei portato
per la fotomemnosi riflessiva, ti faccio un parallelo (non confonderlo con un
parallelepipedo): te lo ricordi il Granduomo Presidente del Consiglio? Ti ricordi
come entrava in telecamera? Ci sei? Ebbene, tale e quale al mio amico Bobocù.
A Primù, non ci crederai! E' entrato con i pantaloni sbottonati e se li sta togliendo.
Va bene, non ci crederò.
No, volevo dire non ci crederai perché, cioè, insomma, sta arrivando una carrettata
di figa!
Che è, una gita scolastica?
Ma quale gita scolastica!
Pardon, un lapsus.
Un che?
Volevo dire: in questo periodo sono chiusi anche gli asili nido, figuriamoci se può
essere una gita scolastica. Aoh! Non sarà per caso un gruppo di figliedim?
Bobocù ride. Nudo come un puttino del rinascimento e arrapato come un satiro si
butta supino sul letto e ride durbans senza emettere suono. Gli trema la pancia e sulla
pelle sta maturando il chianti. E' terribile la risata muta. Mi turba. Mi spaventa. Mi
opprime. Bobocù!, ora la sua pelle è mostodipuglia. Diodiodiodio, soffoca! E mi
elettrizza il lampo di genio. Ce l'hai presente un dodici metri? Non lo splendido
levriero marino delle regate televisive, bensì il misero bussolotto incatenato alla
banchina, in una fetente novembrina giornata uggiosa. Guardalo bene. Lo vedi
l'albero spoglio come svetta? Tale e quale all'arnese di Bobocù.
Allargo il braccio e sferro lo schiaffo a sguincio più penoso in tutta la mia vita
trascorsa. L'urlo del Bobocù mi alleggerisce come un sughero sull'acqua:
"aaaaaahiahiahiah" e se lo tocca, se lo accarezza, se lo coccola. Se ci arrivasse, lo
bacerebbe, in uno slancio comprensibile di penica tenerezza. La sua pelle sta
riacquistando il normale colorito fiordipanna. Adesso sono io che rido, una bella
grassa risata caporalesca:
Mi sembravi l'asino di Arriàh durante l'ultimo carnevale. Dopo il secondo
bottiglione di Purosarvàni mescolato con Sambuca, cominciò a mostrare i dentoni
senza emettere suono. Proprio come te poco fa. Però l'asino fu più furbo: continuò a
respirare.
E rido e sorrido e ghigno e singulto e singhiozzo e me la godo tutta, la scena. L'arnese
gli sta lievitando.
Me l'hai rovinato, brucia! E' diventato il triplo, guarda! Che ci faccio adesso?
Ti lamenti? Pensa a quanti sarebbero disposti a partire da Roma e farsela a piedi fin
qui, se potessero scambiare le loro pelluncole flaccide con un fuoriserie come il tuo.
Darebbero via anche il culo, per un Coso simile.
Non l'hai mai sentito tu, che il troppo stroppia? Quale femmina se lo farebbe mai
avvicinare un … Coso… come questo?
Abbi fede.
Proprio adesso che arrivano quelle due trinciacazzi di stanotte insieme ad altre
quattro.
E' proprio abbacchiato il supersupersuper dotato.
Stai parlando di Edelweiss e Celia?
Si chiamano così?
Non glielo hai chiesto il nome?
Sai quanto me ne frega di chiamarle per nome. L'importante è che me la danno.
Ma tu, quando chiavi chiacchieri?
E tu?
Io glielo stiocco su e basta. Tu invece?
Dipende.
Da che?
Se mi si ammoscia un pò, mi metto a parlare. La parola aiuta. Uno che sa parlare
riesce a farla venire, la donna, anche senza toccarla.
A ciarlatanoooo!
A capoccia di tufoooo! Se tu tenessi gli occhi pocopoco aperti, ti accorgeresti che
succede anche agli uomini: basta un pò di fantasia.
Fregnacce.
Tu dici? Ti ricordi ad Imola l'anno scorso?
Si che mi ricordo, mi ricordo tutto.
Anche quel tizio con la faccia dipinta e vestito con un bandierone Ferrari, come
fosse un sari?
Che è un sari?
Lascia perdere, te lo ricordi bene quel tizio?
Si che me lo ricordo.
Anche quello che urlava?
Con tutta la confusione che c'era, come faccio a ricordarmi cosa urlava quel matto?
Lo vedi? Ciascuno fa caso solo a ciò che lo interessa. Tu ricordi tutto della corsa:
chi ha vinto, chi ha rotto per primo, chi ha fatto il miglior tempo sul giro e tutte le
altre stronzate riempiticce che lasciano il tempo che trovano. Invece io mi ricordo
solo le parole che urlava quel tizio; e in questo momento cadono come il sugo sulle
melanzane alla parmigiana.
Si può sapere insomma, che urlava?
Noto con piacere che la faccenda ti appassiona. Stanno bussando.
Non me ne importa! Finisci di dire.
E' permesso?
C'est la vie. Rimandiamo a più tardi: avanti!
Scorre il fiume
silente
ininterrotto flusso
murmure
di millenarie voci
vagiti e nenie
urlio d'irati cuori melodie di cantori
gemiti di membra dilaniate
sussurrii di amanti
sospiri di moribondi
Pregno di desideri e di speranze
ridente d'ogni pensiero
errante
su per le vette d'una conoscenza sconosciuta.
Gli Affanni le Preci i Riti
gli Onori i Troppo attesi amori
gli Addii le Conquiste
le Dolci lusinghe le Laceranti offese
Il Sapere il Potere l'Uomo
gli Uomini
nel Fiume silente
murmure
Pregno di desideri e di speranze
ridente d'ogni pensiero
errante
su per le vette d'una conoscenza sconosciuta.
NEL VENTRE DELLA BALENA
Una spinta ovattata, come una borsa d'acqua calda, cominciò a premermi sulla testa e
a spingermi, con crescente pressione, finché non mi sentii scivolare via come un
siluro dal sottomarino. Alleluia! Quando riuscii a fermarmi, dopo aver scardinato la
porta e dopo aver strisciato per tutto il corridoio travolgendo un cameriere, un
carrello stracolmo di coppe gelato, due piagnucolosi ragazzini teutonici che mi
stavano sulle scatole per via della nurse più brutta di Fantozzina senza trucco, una
coppia di biascicagiaculatorie sotto il montedivenere cortesi, quattro cummenda
panettonesi travestiti da tirolesi, una freddissima perticona inglese col suo fox-terrier,
ventotto giapponesi e le loro ottantaquattro macchine fotografiche; (e qui mi fermo
perché non riesco a ricordare tutti gli altri sventurati), mi ritrovai in fondo alle scale
di servizio con le natiche surriscaldate e il naso tra le cosce, in mezzo al pelo della
bernarda della moglie del ministro…
E ti pareva che non volevi sapere di quale ministro? Non sono un pettegolo, io.
Tanto più che debbo della riconoscenza a quella brava ministressa:
Oh povero giovane, come è ridotto!
Eh si, non c'è che dire. Il nobile peso della passerottona ministrica mi premeva sulla
carotide, mi soffocava: s.ven.go.
Ho visto terre dove si rideva,
nei laghi e nei torrenti si beveva
nuotando insieme ai pesci e agli aironi,
tra boschi di mirtilli e di lamponi
E terre dove l'aria del mattino
viaggiava trasportando il rosmarino
e la mentuccia il tiglio la mimosa
e l'oleandro il glicine la rosa.
Ho visto terre e ho visto gli abitanti,
ovunque ho conosciuto duellanti
in palio solo vita o solo morte:
l'identikit del cavaliere errante.
E sono andato sempre più lontano
sul mio cavallo e con la spada in mano
in cerca d'avventura e conoscenza
ovunque mi chiamò la provvidenza.
Sotto una sola bandiera ho cavalcato,
per mille bisognosi ho duellato
nel cuore nelle braccia e nei pensieri
la forza di centocinquanta cavalieri
che dopo aver vagato per il mondo,
seduti attorno a un tavolo rotondo
godevano ogni storia raccontata
e il seno caldo della donna amata.
Il giuramento dell'investitura
contro la prepotenza e l'impostura
bandiva l'odio dai nostri pensieri:
uomini consacrati cavalieri.
Narravano le gesta i trovatori,
la fede la pietà l'armi gli amori.
In ogni luogo si cantò di noi:
i cavalieri erranti assurdi eroi.
Il cavaliere errante vive di verità.
Cuore di navigante sul suo cavallo va.
Cammina per il mondo non chiede carità.
Nobile vagabondo sempre cavalcherà.
Adesso ti aspetti che ricominci con la solita solfa: quando rinvenni etc etc. Per chi mi
hai preso, per un ragioniere? Per uno scrittorucolo di rami di lago o di lagune
increspate sotto lievi carezze di luci lunari? Per un compilatore di orari ferroviari che
ti porta lemme lemme fino a Vienna a Costantinopoli a Timbuctù? Lì puoi andarci
quando ti pare e piace. E se hai voglia di farti un bagno, non c'è bisogno di qualcuno
che ti parli di Baden Baden; puoi tuffarti nel bidè di casa tua. Credimi, non c'è
nessuna differenza: sempre di acqua si tratta.
Di un pò: ti ci aveva mai portato qualcuno in quel posto? Tutti ti pooortano di quaaa
di laaa di suuu di giuuu e, (se accetti un consiglio è meglio andarci con
CeccrllViaggi). Collodi ti ha portato nello stomaco della balena; ma si sa, era un
burlone e gli piaceva prenderti per il culo; anche se non s'è inventato nulla perché
Giona c'era già stato prima di lui. A proposito di Giona, tanto di cappello signor
Collodi! E buon per te che gli integralisti non ti abbiano capito al volo.
Te li immagini, tu, questi austeri leggitori, alla lettera, dei sacri testi che ti descrivono
minuziosamente anche i battiti cardiaci del pescione che si rivomitò il Giona dopo tre
giorni e tre notti di agonica digestione? Tu che ne pensi? Non te ne è mai fregata una
sega? Eppure ci hanno meditato sopra fior di capoccioni e per una trentina di secoli.
Beh, visto che il discernimento non è il tuo forte, ti dico la mia. Secondo me il
pescione di Giona era come il cavallo di Troia. E anche per Collodi. Lui non ha fatto
altro che invertire le materie: la balena si pappa un legnaiolo e il suo manufatto.
Ma io, io ti ho riportato là dove nessuno è più rientrato, dopo esserne uscito la fatale
prima volta. E non si tratta di mito. La mammuthessa è ancora viva et vegeta e puoi
andare a domandarle se ti ho detto un punto di bugia. Come? Vorresti sapere dove
trovarla? Allora non ti fidi di me. Dal momento che non ti fidi di me, pensi forse che
io mi possa fidare di te?
Riprendo da quando svenni. Svenni per modo di dire, trmon! Piuttosto che star lì a
spiegare e tutti quegli infortunati, incacchiati neri, il percome e il perquando, adottati
una tattica politica ormai più che collaudata: la tattica politica della sovrapposizione,
sviluppata in un Paese di furbacchioni, dove la politica si evolve all’ombra della
cronaca.
Aggiungi fatto a fatto e l'ultimo, entrando in prima pagina per un tot di tempo
sufficiente, cancella quello precedente. Come la merda di vacca: tanti schizzi che
formano una sola torta. Il segreto è uno solo: dal momento che, ai bordi, secca presto
presto, basta fare in modo che nessuno ci cammini sopra. Non si sente più la puzza e
nessuno ci fa più caso. In questo modo si può andare avanti, diciamo, anche per un
quarantasette quarantotto anni, mese più mese meno. Perché non qualche anno
ancora? Perché qualsiasi letamaio, per quanto grande possa essere, al limite del
mezzo secolo viene talmente riempito, da tracimare. E la merda per la strada, non la
sopporta neanche chi ce la lascia; anche se, una volta passati i lutammari, te lo ritrovi
lì, con le brache calate, intento a riprendere la defecata interrotta. Ci siamo, ti riporto
in albergo.
Mi risvegliai nel letto della ministrica. Me ne stavo spaparanzato e alquanto
contrariato per l'interrotto intimo colloquio con il Divino Giove, delicatamente
massaggiandomi il .
Vissi infelice
finché uno mi disse
che tutti insieme, noi, facciamo l'inferno;
e chi si crede santo è diavolo
ALL'INFERNO E RITORNO
Caro diario, forse mi sono lasciato prendere da una non comprensibile passione e mi
sono trovato, per qualche riga, a divagare su argomenti molto molto perigliosi.
Comunque, se non potessi sfogarmi con te, con chi altri potrei? In quale canalone far
scorrere la lava di parole, una volta arrivata, ribollente, nel cratere della bocca? Tu sei
fidato, discreto, segreto; piccolo gasbiorto pulitore, invisibile, nel limo della mia
palude interiore. Tutto raccogli e racchiudi senza imbarazzi, querele, proteste,
consigli, suggerimenti ecc. Non sei un paterno rompicoglioni o un pedante
scassapalle; e per dimostrarti la mia riconoscenza ti ho personificato, lo sai. Ti ho
dato un nome (OSCENO); ti ho fatto crescere insieme a me e non dimentico, mio
caro, quando anche tu eri un democattocristocomsoc, né di pelle, né di fede; ma di
fatto si. Lo so, eri ancora ignorante (nel senso latino del termine). Eri come la goccia
d'acqua che si stacca dalla foglia e cade nel ruscelletto e viene scaricata nel fiume; ed
è così costretta a seguire la corrente, mischiata a tutte le altre gocce. Non conoscevi,
non potevi confrontare, farti una tua idea, distinguere e infine agire secondo te e non
secondo gli altri. Che so! Per fare qualche esempio, così, di poco conto: tu credevi
che tutti quelli che portavano la divisa fossero il bene e tutti quelli che il potere
chiamava fuorilegge fossero il male finché, un bel giorno, conoscesti la storia di
Robin Hood. Quel libro diceva che i fuorilegge erano i buoni, mentre gli altri, quelli
con la divisa erano le guardie pagate dal cattivo. Non era certo colpa loro se
comandava uno cattivo; però questo dimostra che è meglio non fidarsi di quelli che
portano la divisa proprio perché costoro non scelgono. Chi comanda comanda, loro
obbediscono e basta; e declinano ogni responsabilità delle loro azioni, riparati dalla
confortevole ala dell'ordine ricevuto. E poi gli uomini di cultura ci vengono ancora a
dire che l'uomo è un essere razionale dotato di autodeterminazione.
L'uomo.
Quale animale l'uomo!
Che misero!
Quale ragione lo sospinge ad essere sempre compiacente
sempre obbediente
al baffo d'un poverino sergente alle stellette di un infantile tenente
alle cellule cervicali andate a male di un teatrante generale?
Mistero. Tutto è mistero.
Non mi capisci? Ed io non ti capisco.
Uguale a te mi sento
quando mangio quando piscio;
ma quando penso non mi sento
uguale a chi imbraccia il fucile e diventa
un animale da preda, un che cosa?
Un corpo meccanico?
Un robot umano?
Un numero ordinario?
Una biglia da lotteria?
Un eroe americano?
Premi il grilletto, premi!
L'omicidio è, in fondo, suicidio
quando l'intelletto giace stordito dal succo del diletto.
Ulisse naviga ancora
ancora soffre lo strazio della strage
naviga ancora e ancora non ha pace.
Si, è proprio vero, sono diventati una miriade i figli di quel Dio che ha detto di
chiamarsi “io sono colui che sono” alias “chi io sia sono cazzi mia” che vorrebbe
dire:“obbedisci e taci”.
Deve esserci rimasto male quando comparve quel Gesù che diceva: “sono il figlio
dell’uomo che vi dice: sarete beati se vi comporterete in sincerità nella pratica di ciò
che avrete compreso. Questo vi renderà liberi, ma a causa di ciò sarete perseguitati
dai Potenti che non potranno più circuirvi e confondervi; essi non avranno più
potere su di voi e perciò ordineranno ai loro servi di uccidervi. Non abbiate timore
di morire perché apparterrete alla famiglia del Dio Padre che è anche Madre:
Amore. Amore è la forza che produce Intelletto, Ragione, Comprensione, Volontà di
Bene, e chiunque agisca e perda la vita a causa dell’Amore, ha conquistato la
dimensione elevata della Dignità; ha dimostrato di essere Figlio e non servo”.
Gli ci sono voluti tre secoli e mezzo, a “Io sono colui che sono”, per riuscire ad
affiliarsi questa Scheggia impazzita, uscita chissà da dove; ma infine ce l’ha fatta,
guarda caso, con un Imperatore pagano che ordinò un Concilio (Nicea) ed impose il
Dogma. Si continua ad accusare gli Imperatori Romani di persecuzione contro coloro
che non credevano nella Divinità dell’Imperatore; nessuno accusa i Pontefici Romani
di persecuzione contro coloro che non volevano credere nella Divinità del Credo
partorito da menti umane intente ad imporre un nuovo ordine mondiale, grazie al
potere militare dell’Impero Romano. Sia l’Impero sia il Credo sono frutti di menti ed
azioni umane.
C'è, forse, qualcosa di nuovo sotto al sole? Sembrerebbe proprio che, circa ogni due
millenni, sorga, su questo pianeta, qualcuno prepotentemente armato, che decida di
imporre un Nuovo Ordine Mondiale.
Frammenti di pensieri sui muri corrosi
Il tempo propone le angosce di sempre.
Chi sono io, Savonarola forse? O Torquemada? Che io abbia capito non significa che
possa anche spiegare ciò che nessuna spiegazione è in grado di far comprendere. Il
Mistero mi ha inghiottito e mi ha impresso sulla fronte il suo nome: solitudine. La
maledizione del Dio Assente è diventata la mia maledizione: uno e trino, esisto parlo
opero, nella solitudine assoluta, costretto ad essere rivelato da coloro che, non
avendomi mai visto, spergiurano di conoscermi meglio di me stesso.
Ma adesso me ne ritorno a quel che mi è più congeniale perché io sono colui che sta
tra il serpente e la mela.
A noi belle fanciulle, passerine di seta imburrata, morbide e calde topine umorose,
uniche consistenze meritevoli della mia devota attenzione. Dov'ero rimasto? Ah si,
nel letto della ministrica.
Dunque me ne sto spaparanzato in questo letto largo due piazze e trequarti
pressappoco, massaggiandomi il Gaudioso, giusto per non starmene con le mani in
mano. Queste meravigliose mani prolungamento degli occhi e materializzazione della
voce.
Potresti adoperarle per qualcosa di utile, potresti tu dirmi. Ed io ti rispondo che non
conosco utilità più utile del piacere. Mentre me lo sto massaggiando delicatamente,
mi do un'occhiatina attorno. Però, questi tirolesi! Sanno veramente renderle
confortevoli, le camere da letto. Deve essere a causa degli inverni, lunghi e freddi.
Quale luogo migliore del letto per passare il tempo e starsene al caldo?
Dentro al letto in compagnia
d'una giovane fanciulla
fresca fresca soda soda
anche il vecchio si trastulla.
Me lo sto massaggiando delicatamente guardandomi attorno quando, nell'altra stanza,
dalla porta di comunicazione socchiusa, sento una ben nota voce: Permesso? ed in
risposta, la voce della mia, molto pelosa nel punto giusto, ospite: Avanti.
E' Bobocù il Bobocù che viene a cercarmi.
Sta dormendo. La voce della ministressa mi ricorda il ringhio del cane che non vuol
mollare l'osso; ma il Bobocù è uno che non si perde in complimenti e non rispetta i
titoli di nessuno: Se dorme lo sveglio. Io ci devo parlare.
Il Bobocù insiste, la ministracana non molla ed io, per evitare un probabile scandalo,
intervengo: Malefico!
Lo senti? E' sveglio. Famme passà baldr! ed entra spavaldo, rasato, lavato, in una
parola, bello e fresco come un ciclone caraibico.
A Primù, come stai?
Io bene e tu?
Mannaggia a te, m'hai fatto prende uno spavento! Ci ridi? Mi credevo che t'eri rotto
l'osso del collo. Quando t'ho visto rugolà come una palla di neve intramezzo a tutta
quella gente; e poi scapicollatte giù per le scale, me só inteso de morì. La smetti de
ride? Sei pure svenuto.
Ma quale svenuto! Ho adoperato la tecnica della sovrapposizione e ho fatto il morto.
Me vorrissi dì che facevi nfenta!?
Non vorrei: te lo sto dicendo.
Sei proprio un paraculo aoh! Parevi proprio morto! E tutti quelli ... mezzi rotti,
strillavano che parevano indiavolati. Te posso assicurà che te sei salvato solo perché
parevi proprio morto.
E io ti posso assicurare, invece, che m'ha salvato il telegiornale.
E come? Quelli mica stavano a guardà la televisione.
Loro no, ma io si. E per più di una ventina d'anni. Così, quasi senza rendermene
conto, ho imparato pure io la tecnica della sovrapposizione.
Che razza de tecnica sarebbe?
E' una tecnica politica ormai più che collaudata, e infallibile. Sta a sentire: quando ti
capita di provocare qualche casino e, non ci sono santi, è lampante che sei stato tu,
tu fai il morto o il finto tonto e ti armi di pazienza. Intanto pensi a come trovare il
modo per farne uscire fuori un altro (di casino) possibilmente un pò più di effetto;
ma in genere non ce n'è bisogno, perché c'è sempre qualcuno che, un bel casino lo
combina quotidianamente per conto suo. A quel punto, dal momento che la memoria
dell'uomo sazio è corta, il casino che hai combinato tu, prima, passa in secondo
piano e viene dimenticato. Così ridiventi vergine e puoi ritornare a rifare tutti i
casini che ti pare.
Tu dici che funziona?
A Bobocù, lo sai che ti dico? Lasciamo stare. Dimmi piuttosto, tu come stai?
Non lo vedi?
Eccome se lo vedo: in pompa magna, ti sposi?
Per carità! Vado al lago de Bragnes con Celia.
Bragnes? Vorrai dire al lago di Braies.
Come si chiama se chiama. Senti sò venuto a ditte che tutto a posto.
Mezzo dialetto, mezzo italiano, sei emozionato?
Oh basta! Ho deciso che parlo come magno. Intanto, da ste parti, parlino tutti
peggio de mi. Allora tutto a posto. Però levime a curiosità: te ricordi quanno
stammio a parlà de quello che urlava a Imola, l'anno scorso, prima che rrivassino
tutte quelle fighe?
Certo che me lo ricordo.
Allora?
Allora che?
Allora ... che urleva!?
Il Bobocù è al limite della sopportazione e, proprio in quel momento la ministressa
decide di dimostrare la propria ospitalità: gradireste un caffè?
Bobocù esplode: Non gradìmo gnente! E vedi d'annà a moriamm.
Lo acchiappo in tempo e gli chiudo la bocca prima che quelle zeta finali, impattando
con la dignità della nobile donna, ne ammacchino l'aurea, sfavillante corazza morale.
Si grazie, gentilissima signora. Un caffè in questo momento sarebbe il massimo del
piacere; ed accettarlo, il minimo della nostra riconoscenza.
Benissimo. provvedo subito. Ma la signora non è per niente scema. Perlappunto è una
signora e si ritira in attesa di ulteriori sviluppi. Sarebbe a dire che non si farà più
vedere finché il Bobocù non avrà tolto il disturbo.
E lèvime sta mano da ki a bocca!
Sei più ignorante di alcuni deputati in parlamento.
Ah, sarei io l'ignorante? E quella ke se ntromette quando due stanno a parlà, kedè?
Cjai raggió, ma la devi capì. E' una donna, è la padrona de casa e voleva solo esse
gentile.
Pure tu, vedo che cominci a cambià parlata.
Io m'adatto 'lle situazio' e 'lla gente e, visto che hai deciso de fà vede a tutti ke s'i 'n
buzzurro, m'adatto a ti; si no, de fronte a l'antri passerei pé uno che cià a puzza sotto
o naso.
No no, non te vojo costrigne a sto sacrificio. Tornamo a parlà corretti come quelli
che se credino d'èsse. Allora?
Allora, quel tizio.
Embè?
Ogni volta che ripassava la Ferrari, ogni volta dico. Quanti giri erano?
Sessantadue!
Ogni volta che la Ferrari ci passava davanti, quello che adoperava la bandiera come
fosse un vestito, urlava: Fammi veniree, Ferrari fammi venireeee!
Si, si, adesso me lo ricordo.
E quando c'è stato quel sorpasso proprio lì davanti a noi, ti ricordi?
Mi ricordo, certo che mi ricordo.
Ebbene, quello ha mugolato: Vengoooooo!
Perché, io no?
Ritornando a ciccia, ecco la dimostrazione di quello che affermavo: uno se ne può
venire anche solo con le parole.
Ma che dici, lì c'era la Ferrari davanti agli occhi, il rombo del motore, l'odore della
benzina bruciata!
E se hai una bella figa davanti agli occhi, non è emozionante? E' logico che deve
esserci un'emozione circolante, se no la valvola non la apri nemmeno con le
cannonate.
Gira che ti rigira, con le parole hai sempre ragione tu. Lasciamo stare. Per quello
che è successo prima, volevo dirti che hanno sistemato tutto. In quattro e quattr'otto
sono arrivati una decina di falegnami e muratori e hanno risistemato tutto il casino
che avevi combinato.
Che c'entro io?
Quello che c'entri, c'entri. Io so solo che, dove ci sei tu succedono i casini anche se
dormi. Quello che non mi spiego però, è, come fai a uscirne fuori come se tu fossi
solo la vittima. Stanno tutti preoccupati per te. Le ragazze, quella. come la devo
chiamà? Quella. insomma hai capito.
Grossa?
Grooossa!?
Grassa?
Graaassa!?
Enorme?
Enooorme!? vacca maremmana vorrai dire! E poi i finanzieri, i camerieri, quelli che
hai mandato a zampe per aria e, non ci crederai, perfino i giapponesi.
I giapponesi?
I giapponesi. Anzi, sei diventato una specie d'eroe per loro. Se non era per te,
c'erano due che non si sarebbero mai parlati. Invece adesso si sposano.
Si sposano? spiegati meglio.
Allora, uno di quei giapponesi era innamorato di una, sempre giapponese, da
quindici anni e non s'era mai deciso a dichiararsi. E pure quella giapponese s'era
innamorata di questo giapponese e neppure essa s'era mai decisa a diglielo.
Ammazza Bò! Potresti anche esprimerti in maniera.
Parlo in dialetto e non te sta bene. Parlo in italiano e non te sta bene lo stesso. Come
devo parlà?
Parla come magni e ripeti tutto dall'inizio.
Allora: 'ntramezzo a quello mucchio de giapponesi ce ne stavino due, un maschio e
una femmina, che s'erino nnammorati da un sacco de tempo, ma nun s'erino mai
dichiarati. Va bè kossì?
Perfetto.
Dunque: tu, cò quel pò pò de casino che hai combinato, l'hai fatti dà una bella
capocciata l'uno cò l'antra, e così se sò dichiarati. E non è tutto. Stasera faranno a
festa de fidanzamento e vònno che tu starai presente come testimone.
'azzo.
Cazzo che?
Esprimevo la mia ammirazione per la concisione e chiarezza della tua esposizione.
Ma falla finita! Comunque t'ho detto come stanno le cose. Adesso me carico Celia e
me ne vado al lago. Guasta la vista!
Hasta.
Come?
Niente. Non riesco a capire come mai Celia ha accettato di venire al lago insieme a
te.
Faccio schifo?
No. Però non sei il suo tipo, ecco.
Stai bonino e tranquillo. M'ha chiesto d'accompagnalla al lago perché cià bisogno
de stassene un pò in pace; e pure io, se lo voi sapé, perché tutto quello k'è successo,
da ier sera, non me lo sarei mai potuto immaginà ke potesse succede, ti saluto.
Caro impagabile amico! Se gli dicessi che neanche io avrei potuto immaginare una
così fantastica realtà, non mi crederebbe: anzi!
L'aquila sopra al prato volteggiava
con le ali aperte e senza batter penna
a giri larghi e lenti.
RICONOSCENZA
I FRUTTI DELL'ONORE
( Il giapponese incazzato )
Prego ragazzi, continuate pure. Non vi preoccupate di me. Fate come se io non ci
fossi.
E questo chi è? Dove sta? Apro anche l'altro occhio e mi faccio una panoramica. Da
dove spunta costui? E' un amabile vecchietto sui settantacinque, tappetto al punto
giusto per sedere su una normale sedia senza toccare terra con le scarpe. Porta un
baschetto blu stile Pasionaria, alto sulla fronte, a far risaltare gli occhietti vispi, furbi
e indecenti. Deve averne viste di tutti i colori o, come si dice tra la gente comune,
deve averne fatte di cotte e di crude. Perché? Aspetta un momento e ti dico il resto.
Vado un attimo a pisciare e torno subito. Anche i raccontafavole pisciano, non lo sai?
Stai tranquillo non ho nessuna intenzione di incominciare a moraleggiare; vado torno
e ti racconto (come disse Cesare a Pompeo prima di partire per la Gallia).
Grandi amiconi Cesare e Pompeo. Anche tra questi due c'è di mezzo una storia di
letto. Ormai lo sappiamo tutti che la storia si fa nel letto anzi, si può dire, senza tema
di smentita, che il letto partorisce la storia.
Grandi amiconi, dicevo, finché non spuntò fuori Vercingetorige: alto, biondo,
vigoroso, possente cavalcatore di puledre, formidabile cazzo silvano. Tenendo
presente il fatto che viveva nelle foreste galliche e che al suo tempo non esistevano
superalcoolici e pacchetti di bionde, non c'è bisogno che appaia l'arcangelo a
testimoniare della virilità del barbaro.
Il munifico Cesare dunque si portò il Gallo a Roma per mostrarlo al popolo dietro al
suo carro del trionfo, con l'intenzione palese di portarselo in casa e imparentarselo a
tutti gli effetti; ma non aveva fatto i conti con la gelosia di PomPeo. Fatto si è che,
per decreto del Senato, il formidabile Cazzo Silvano alias Vercingetorige venne
sacrificato al sommo Giove Capitolino e Cesare non potette farci niente. Però partorì
l'idea che sconvolse l'ordinamento della repubblica romana. Si disse pressappoco
così, parola più parola meno: "Che razza di Cesare sono se, quattro burini chiamati
senatori, mi possono privare di ciò che è mio?" e detto fatto si inventò l'impero ma
non riuscì ad instaurarlo a causa della gelosia di Bruto il quale, stufo di sentirlo
piangere tutte le notti urlando il nome di Vercingetorige, lo tolse dal mondo come
tutti sappiamo: Tu quoque Brute, fili mi.
La storia non riporta la risposta di Bruto che potrebbe avergli risposto pressappoco
così: Non te reggevo più.
Tutta colpa degli speziali romani che non avevano ancora inventato i tranquillanti.
Probabilmente Cesare sarebbe campato fino alla demenza senile, Bruto sarebbe
diventato il secondo imperatore di Roma e nessuno avrebbe mai sentito parlare di
Filippi.
Comunque, all'inizio di tutto c'è il letto. Eh si: senza letto niente sesso, senza sesso
niente storia. Io proporrei di abolire il letto per avere la controprova scientifica di
questa tesi.
Il vecchietto dagli occhi vispi si sta godendo lo spettacolo. Ha una poltrona in prima
fila senza bisogno di pagare il canone e senza quei rompicazzo degli spot televisivi in
mezzo alla storia. Gli offro gratis un vero film di autore fotogramma per fotogramma
anzi, faccio di più: lo imprimo nella pellicola e ne faccio il protagonista.
Improvvisamente grida: Clitolide! Oddio! Un'erezione! ma Clitolide non lo sente. Le
palme delle mani del Bobocù le otturano le orecchie e le dita, intrecciate dietro la
nuca, la guidano in un va e vieni sincronizzato alla lunghezza del pistolone. Il
vecchietto comincia ad imprecare: Sgualdrina! Troia! Cavalla di Ippolito! Ecco a
cosa servono le mogli: a non farsi mai trovare nel momento del bisogno! E' eccitato
davvero. Gli succede il miracolo e non può trarne giovamento. Un baciapile
ortodosso direbbe sicuramente che è una punizione per un qualche peccato di lui o di
qualcuno dei suoi antenati. Partendo da questo presupposto, scorrendo le generazioni,
mi sa che si dovranno abolire tutti i pedigree. Comunque, peccato o meno, il
vecchietto è proprio arrapato e la foja lo sta facendo squinternare; ma la necessità
aguzza l'ingegno e il vecchietto mette in atto le sue (storicamente) documentate doti
di contorsionista.
Succede sempre così, devo fare tutto da me! si piega, si piega, si. e incomincia a
succhiarselo, con la bava che gli cola dall'orifizio labiale.
Caro diario forse tu non avresti voluto saperlo e stai già assaporando il disgusto del
futuro evolversi, ma io debbo. E' un fatto. E' accaduto, e la tua stessa vita dipende dai
fatti, dagli avvenimenti. Perciò vedi che è necessario, anche se ributtevole. Se vuoi
esistere devi accettare il bello ed il brutto, Dysneiland e Gerusalemme, Bengodi e il
Calvario.
Non uomini,
invita al banchetto sacrale, il servo infedele;
ma demoni.
Il vecchietto se lo sta ciucciando e la bava gli cola dalla bocca. Come avrà fatto a
piegarsi al punto da arrivare a ciucciarselo? Se la paura riesce a spingere due piedi a
novanta all'ora, non vedo perché una arrapatura impensata e impensabile non possa
spingere un povero cristo a chiudere il cerchio.
E' divino il vecchio, divino come le statue delle divinità Indù. Le palme delle mani gli
sbucano da sotto le ginocchia e le dita guizzano come tentacoli di polipo; poi si
distendono, raggelate da una scossa che gli pietrifica il corpo; e gli cade il basco
portandosi appresso un parrucchino di puro capello albino. Il basco blu e il
parrucchino albino sulla moquette rossa: esplode la Marsigliese. Un'orchestra di
diecimila elementi ed un coro di cinquantamila voci accompagnano il trapasso del
Tappetto: Allons grand-père l'infern t'attend e ta gloire è merda secca.
So che ai funerali ufficiali sarà tutta un'altra musica e i celebranti lo spediranno
direttamente nel Giardino, sotto le calosce del Creatore, su un'eterea astronave di
salmodie e nuvole d'incenso. I semplici, bischeri, ci crederanno e gli faranno anche
un monumento; gli intitoleranno strade e piazze e, tutti i suoi compari, finché il loro
Capo non li richiamerà là da dove li aveva mandati, commemoreranno, anno dopo
anno, la data della sua dipartita e celebreranno, coccodrilli compunti, la sacralità che
ha circonfuso il suo ultimo respiro.
Io me ne starò da una parte a ridere, io che so come stanno veramente le cose e mi
gusterò lo sperpero di fiori, la canea di panegirici e, soprattutto, i severi fascicoli della
causa di beatificazione. Anche quella, perché solo chi conosce la vera natura del
Sacro, sa ben inquadrare il livello di sacralità degno del Potere e del Denaro.
Mamma ricordi
quei giorni d'inverno davanti al camino?
Un tenue Bobocùre carezza di brace
schiariva e scaldava il tuo viso.
Ricordi il tuo canto
sussurro di mare al mattino?
"Bambino mio bambino mio"
Chissà che visioni pensandomi grande!
Chissà che emozioni nel cuore!
Poppavo dal tuo seno d'avorio
che mai vide il sole né sguardo d'estraneo;
per questo più t'amo e più ti rispetto ché
vita m'hai dato dal ventre e dal petto.
Adesso, il bisogno di un po’ di purezza
mi spinge a cercare e
solo su te
trovo certezza di osare una carezza
che sia solo affetto.
Morì. Il vecchietto sborrò e morì nello stesso tempo, e lo sperma seguì la scia della
bava, filante sperma filante, gocciolante, gocciola la goccia gocciola.
Dottoressa. mi azzardai a sospirare.
Era livida, forse sconvolta. Può darsi: più si che no. E' morto?
L'esperta è lei. Se gli desse un'occhiatina da vicino.
Perché non cade? E' rimasto lì, seduto sulla sedia. non è possibile, non è possibile.
sussurra e si massacra le dita delle mani, prima di stritolarsele tra le ginocchia.
Coraggio donna, andiamo a vedere.
E le accarezzo un pò le tette e le do una strusciatina al monte di venere per farle
tornare il colorito. Con il sangue ossigenato ritrova la fermezza della pratica
professionale.
E' morto, dice dopo averlo palpato sotto le orecchie, però non riesco a capire come
non sia caduto dalla sedia, è pazzesco! E' contro ogni legge naturale!
Non ti scaldare piccola mia. Controlliamo. Dammi una mano a spostarlo.
Non si può, bisogna avvertire la polizia.
Sei tutta matta, donna. Questo è. era un ministro. E' un corpo sacro. Pensi forse che
potremmo permettere a qualcuno di vederlo. così? Il mio spirito patriottico si
ribella, il mio senso di rispetto e di venerazione per le istituzioni ed i loro più alti
rappresentanti mi suggerisce di buttarti dalla finestra se. e me le avvicino con le
braccia tese e le dita aperte, pronto a stringerle il collo.
Non insisto, non avevo valutato il problema in tutti i suoi aspetti.
Brava. E' come l'acqua: si incazza e si placa senza preavviso. Incomincia a piacermi
anche se è bionda e bella e sono stufo di corpi biondi e belli.
Il corpicino inerte del vecchietto è una pallina oscena in bilico sulla sedia. La dottoré
ha ragione: è impossibile. Ma a me il vecchietto non mi frega. Te lo do io
l'impossibile, come diceva il Grillo impertinente quando ti sbatteva in primo piano i
culetti rotondetti delle brasiliane. Infatti me lo scruto a modino, come dicono in
Toscana, e. che ti vado a scoprire? Un perno, diavolo! Il perno famoso di Leone Gala.
Con un bel perno infilato nel buco del culo, anche l'universo, per quanto ballerino,
non correrebbe mai il rischio di cadere. Il vecchietto si era fatto fabbricare una sedia
sessuata portatile. Un marchingegno altamente raffinato e scrupolosamente fedele
alle misure indicate nel Turgeofallum Africum, il cui originale sparì dalla biblioteca
di Alessandria all’epoca del martirio della saggia Ipazia, saggia e non santa perché i
suoi carnefici furono monaci cristiani al servizio del “Dottore della Chiesa” Cirillo.
I romani, si che se ne intendevano! Copula contro copula, attacchi stoppate parate
rilanci incursioni sconfinamenti ammucchiate assembramenti venti venti venti
venticelli di ventre, aromi naturali, alcove semoventi e sedie cazzute, come la sedia
del defunto. E te credo che sfida la legge di gravità. Con quell'arnese di legno infilato
nell'ano, potrebbe farsi anche un mese di agriturismo: cloppete cloppete cavalca
cavallo, sgroppa sgroppa godo e non cado.
Godo godo godo: stronzate. Un godere tanto misero che non potrebbe riempire
neanche il ditale della sartina. Però com'è suggestionabile, plagiabile, il pensiero. Di
fronte ad un presente osceno, se n'è andato subito a cercarne uno più osceno nel
passato; eppure in quello stesso passato si sono pesate tonnellate di santità. Avrebbe
dovuto andare lì, per analogia: negli esempi di castità e virtù spirituale, in modo da
trovare una comparazione di livelli e di destini; e di giudizi, perché no?
Lasciando stare quello finale, esoterico e inconoscibile "ciò che non è possibile
all'uomo, è possibile a …" ci si può sempre regolare sul semifinale: il giudizio storico
che mostra limpidamente gli effetti della cultura del vizio.
Si, le società si disfanno come gelati al forno, nel proprio dolore e nell'altrui
disprezzo, quando il sesso diventa vizio; quando cioè la speranza tracima in
disperazione e l'unica visione del piacere è quella trascritta nei geni naturali.
Si, è stata la disperazione che ti ha ucciso, vecchietto mio, poiché nel sesso non
cercavi il godere, ma l'affermazione prioritaria della tua esistenza. Ti sei sentito
rinascere, nevvero? Un ritorno miracoloso alla giovinezza: un vecchio otre in via di
sbriciolamento riempito fino all'orlo di giovane mosto schiumante. Improvvido!
Dove nascondesti la tanto decantata saggezza senile? Dove il curriculum
ultrasettantennale di messe e comunioni? "Non è ciò che entra nel corpo che rende
impuro l'uomo" è Vangelo; quindi ciò che entra nel corpo non può neanche renderlo
puro, nevvero?
Infatti facesti la morte di quelli che ascoltano ma non sentono; di quelli che guardano
ma non vedono. Ti sto facendo una bella predica, ammettilo. Soprattutto perché mi
sento il cuore gonfio di misericordia: eri un immortale, sei un morto.
Cosa te ne farai degli umani onori alla memoria, dacché l'ultimo palpito del tuo cuore
si è perduto in un umano fallimento?
Cosa sono codesto piolo di legno nel tuo retto e codesto bollito di carne nella tua
bocca, se non il segno di una fame disperata di potenza?
Se avessi un pò di fede ti direi: QUMI e tu ti sveglieresti; allora ti parlerei di uno che
si è detto capace di saziare ogni fame e di spegnere ogni sete. Uno che di piacere se
ne intendeva. quel tipo di piacere che ti riempie il cervello, espellendo tutti gli
pseudopiaceri animali. Se avessi un pò di fede.
Tutto è trascorso eppure ancora
tutto ritorna sempre più intensamente
ad inquietare la memoria.
Sembrava giuoco ed era vita vera:
il galoppo sfrenato sui cavalli a dondolo
i voli stregati su manici di scopa
i tesori di carta stagnola
le stelle tra le mani
il sole e la luna nascosti nel cofanetto delle caramelle.
Tutto è trascorso come trascorre il gusto
di un amore vissuto tra le rose
per ammazzare il tempo o per segnare
un nuovo trionfo nel libro del disgusto.
Tutto è trascorso come trascorre il treno
sulle tristi rotaie solitarie
mentre il falco librato nel silenzio
contempla e già gusta la feroce picchiata
sulla preda ignara.
Tutto è trascorso ma non tutto è perso
ancora viaggia un palpito nel cuore:
voglio vivere!
Mi è rimasta solo la pietà, perciò non permetterò che alcuno possa vederti, così. So
che non appena ti avrò tolto da quella sedia ti scioglierai in liquami puzzolenti; ma
supererò lo schifo ed il ribrezzo perché mi sento tuo debitore. Si, mi hai dato una
grande lezione di vita propedeutica alla morte e non vorrò, per tutto l'oro del mondo,
finire come te.
Bobocù, vieni qui.
Aspetta che sto a finì.
Finirai un'altra volta, adesso vieni qui che sono casini. Che succede? e si avvicina
abbottonandosi le brache.
Che ca. nel vedere il vecchietto circonflesso, gli si immobilizza la glottide nel
cemento dello stupore. É un allocco a becco aperto in attesa del becchime materno.
Poi i suoi occhi si rivoltano al soffitto e diventa bianco man mano, come una
damigiana quando se ne cava il vino: L'arcangelooo, sussurra.
Che arcangelo?
Non lo so. l'arcangelo.
Che fa?
Parla.
Che dice?
Dice che bisogna 'nventasse n'antro profeta perché se no so' cazzi.
Sono cazzi?
Dice proprio così: so'cazzi.
Perché sono cazzi?
Dice che non c'è più rispetto per il cielo e Lassù il Capo comincia a dare segni di
impazienza. Dice che l'ommini stanno a prenne 'na brutta piega e che ce vole n'antro
profeta, che se no se scordano de Dio e va a finì che s'ammazzano come cani
arrabbiati.
E perché lo dice proprio a te?
Dice che ce vole uno puro, pe' fa o profeta. Dice che m'hanno scelto a me.
Tu saresti uno puro? Tu che stai sempre in cerca di mettere a mollo il biscotto?
Dice che non conta niente perché io non ho mai costretto nessuna. Dice che so' puro
perché nonostante me fossi innamorato ho saputo rinunciare alla donna pe' non
rovinaje la famija e i fiji. Dice che so' puro perché, su o lavoro, non me so mai stato
a grattà le palle, dice proprio così: tu non ti sei mai grattato le palle sul lavoro, non
hai mai rubato i soldi al principale e ai clienti. Dice che so' ignorante, che non
conosco la filosofia, la dialettica e la retorica e perciò "non potrò cambiare il senso
delle cose che lui me dirà di dire". Dice che questo è un avvertimento e che poi
ritornerà a dimme tutto.
Fallo aspettare un momento: domandagli del morto.
Quale morto?
Il vecchietto inchiavardato sulla sedia. Che risponde?
Dice che a lui je interessano i vivi. i morti so' morti e non c'è più niente da fa. Dice:
lascia che i morti seppelliscano i morti, tu vieni con me.
Dove?
Sulla montagna. Devo andà co' lui sulla montagna.
Ci vengo pure io.
No. Dice che ci devo andare da solo.
E tu digli che io sono amico tuo e che tu, da solo, non vai da nessuna parte.
Vole sapé perché ci vuoi venire anche tu.
Digli che voglio fare da testimone; se no, non ci crederà nessuno.
Lui dice che la verità se testimonia da sola e, pure se te permettesse de venì co' noi,
non ce la faresti a salì sulla montagna.
Perché?
Se uno non è puro, non ce la fa.
Io non sono puro?
No, tu ragioni troppo e chi ragiona non fa. A lui je serve uno che fa e je ne basta uno
solo.
Allora lo sai che di dico? Apri bene l’orecchi: io, a questo arcangelo non ci credo.
Lui dice se, secondo te, io me sarei potuto inventà una sola delle cose che ho detto.
Inventare no, ma ripetere si.
Vedi allora che ci deve essere qualcuno che me le dice.
Non è detto: tu non hai fatto altro che ripetere cose risapute da millenni. Puoi averle
lette e imparate a memoria; e adesso mi stai prendendo in giro con questo arcangelo
che ti svolazza intorno.
Lui non svolazza intorno, Lui sta fermo come il sole e dice che, se proprio ce voi venì
sulla montagna, vieni; così te renderai conto che non te stamo a raccontà bucìe
perché.
Perché?
Perché, a un certo punto, a me mi porterà Lui e a te non ti porterà nessuno: perché
non sei stato invitato. Noi andiamo.
Aspetta un momento: domandagli come si chiama.
Dice che non te deve interessà.
Digli che invece mi interessa perché la verità che viaggia anonima è già una mezza
bugia.
Dice che. t'ha detto una parolaccia.
Tu sei il maestro della parolaccia, perché ti vergogni a ripeterla?
Questa a te non te la dico. Te la potrei dire pe' conto mio; ma se te la dice un altro
non ci sto. Tu, arcangelo o non arcangelo, le parolacce a Primultimo non gliele dici,
capito? Si è scusato, Primù.
Ah che amico il Bobocù! Puro come la fiamma dell'inferno. Non guarda in faccia a
nessuno quando gli tocchi l'amicizia.
Dice che si chiama Giacchiele e che. gli hai fatto perdere la serenità.
Perché quella pausa?
Veramente lui ha detto che gli hai proprio rotto i coglioni; perciò mo' se ne ritorna
su dal Principale a sentì come se deve da regolà e poi torna.
Digli di fare buon viaggio e di non prendersi il disturbo di farsi rivedere.
Ha detto: magari! Mi sa che non gli stai simpatico.
Si, che non gli sto simpatico. Quando mai può stare simpatico uno che ti domanda
perché? Devi andare di là. Perché? Perché te lo dico io. Tu chi sei? Io sono Dio.
Momento, momento. con tutto il rispetto e l'adorazione possibile, caro Dio, se tu non
mi dici perché devo andare là, o non lo sai o pensi che non riesca a capirlo. In tutti e
due i casi, io sarei carne morta che viene presa da un posto e buttata in un altro. E
questo contrasta con quello che mi hanno insegnato di Te e di Me.
Mi hanno detto che Tu sei fedele a Te stesso: perciò non potrai mai servirti
dell'ignoranza; e mi hanno detto che hai creato Me, libero, in grado di intendere e di
volere, di accettare e di rifiutare: perciò non potrai mai chiedermi di servirTi
nell'ignoranza. Allora permettimi di dubitare e di pensare che qualcuno, infelice, ha
aggiunto una D a un io, forse inavvertitamente; o forse ho capito male io
nell'allitterazione delle sillabe. Perciò ogni volta che qualcuno mi dirà di andare di
qua o di la, o di fare questo o quello, o di credere in questo e in quello e non saprà
rispondermi e si irriterà nel sentirmi domandare perché, avrò la certezza che quel
qualcuno parla per sé e non per Te.
Perciò questo Giacchiele che pretende capo chino e gambe in spalla, chi è veramente?
Da dove viene? Cosa vuole? Sono preoccupato. E meno male che non ha detto di
chiamarsi Gabriele, contro il quale non avrei alcuna possibilità. La prima volta si
presentò a un certo Abramo e nacquero gli Ebrei, Semiti; la seconda si presentò ad
una certa Maria e ad ovest fiorirono i Cristiani. Iafiti; la terza volta coinvolse un certo
Maometto ed apparvero gli Islamici, Camiti. Sem, Iafet, Cam, i tre figli di un certo
Noè, l’unico che sopravvisse al Diluvio. Tre fratelli, tre capostipiti, tre tribù
inconciliabili, costrette, ora, a condividere, gomito a gomito, lo strazio della reciproca
intolleranza. Si, meno male che non ha detto di chiamarsi Gabriele; da come ha
saputo manipolare la gran parte dell’umanità, non avrei potuto fare niente per il mio
amico. Avrei soltanto potuto stare a guardarlo mentre accedeva all’immortalità, a
prezzo di chissà quali luttuose tragedie.
Con codesto Giacchiele, invece… Giacchiele… mai sentito nominare; e la facilità
con la quale sono riuscito ad innervosirlo, mi conforta nel convincimento di potergli
strappare il Bobocù dalle mani.
No, il Bobocù non lo mollo. Se vogliono un profeta se lo vadano a cercare altrove. Se
lo vogliono puro, lo cerchino nei manicomi; i più puri stanno rinchiusi in quei luoghi.
Il mio amico non è un puro: è un deficiente. Ed io più di lui, perché invece di dargli
uno sganassone e svegliarlo, mi sono messo a discutere con il suo schok. La vista del
vecchietto morto, e morto come!, lo ha squilibrato e precipitato in una dimensione
mistica; e lì c'era pronto Giacchiele. Giacchiele…
Guardo (il Principio operante), la dottoré (il dubbio) e la, ormai ex ministressa
(l'adorazione) che guardano il Bobocù (l'impostore o l'eletto?) che guarda il morto (la
natura) che si sta guardando, con occhio spento, le palle sgonfie (la morte).
Sono perplesso. Il Bobocù che s'inventa un arcangelo? Mi rifiuto di crederci. Dunque
è vero. Allora? Allora mi guardo bene il Bobocù e cerco di leggergli, attorno alla
bocca, una traccia, una sfumatura che sia di sarcasmo, ironia, celia. Per inventarsi un
arcangelo e riuscire a rimanere serio, occorre una di quelle facce di gomma costruibili
solo dopo decenni di pratica politica. Il mio amico non potrebbe, ne sono convinto;
eppure la sua faccia è una maschera di pietra. Niente sudoretto, niente tremolii di
palpebra e di labbro, niente emozione: una vera, nobile faccia da schiaffi. e rimango
perplesso.
Il Bobocù è il centro del nostro universo. Per diritto divino o di fantasia, è il
Prescelto, è colui che ha il diritto alla parola e alla guida. finché non si muoverà non
potremo muoverci, finché non parlerà non potremo parlare. Spero che si sbrighi.
dovesse entrare qualcuno e trovarci qui, con il morto in quello stato e le nostre
bocche ripiene di arcangeli e di visioni, andrà a finire che ci ingabbiano tutti, chi a
Regina Coeli, chi a Santa Maria della Pietà.
Il Bobocù è immobile, talmente statico da sembrare una proiezione di diapositiva. Il
tempo stringe. Il morto si sta raffreddando e io, concedetemi, mi sto proprio
scoglionando.
Dai, Bobocù. Bisogna sistemare il morto.
Pensaci tu, io adesso ciò da fare. e se ne va con un passo da duce avviato incontro
alla gloria, trascinandosi dietro gli occhi adoranti della stagionata, quelli perplessi
della dottoré ed i miei, preoccupati è dir poco. Ma debbo lasciarlo andare. Urge
risistemare il morto in una posizione di accettabile decenza.
Schiocco le dita: Forza mesdames, al lavoro.
Mi carico sulle spalle la sedia e il morto e scaravento il tutto nella vasca da bagno.
Con l'aiuto dell'acqua bollente divido i due oggetti inanimati e, mentre la vedova lava
amorevolmente le ormai inutili membra e la dottoressa riassetta il letto, cancello dal
pavimento ogni traccia del tragico trapasso. Mezz'ora di alacre lavoro, mezz'ora di
devota pietà, mezz'ora di silenzio e finalmente tutto appare come tutto avrebbe
dovuto essere: l'ex grand'uomo, adagiato nel suo letto, è trapassato serenamente nel
sonno.
Sono sfinito. Mi congedo dalle due signore che neanche sentono la mia voce: mano
nella mano, nella penombra che annuncia la veglia, si stanno guardando teneramente
negli occhi. Sono libero.
Noi, assassini di Dio, aspiriamo all'immortalità
ma le uniche parole vive che ci sfiorano le labbra
sono i panegirici di morti.
IL BOBOCÙ PROFETA
Un'alba di silenzio s'apre a oriente
e partorisce vette inviolate
guglie d'avorio
tinte di sangue e di escrementi delle angeliche schiere
impalate, spennate vive, scorticate.
Le angeliche schiere cancellate dal cuore della vita
a causa della Parola che muore
candidamente
dolcemente imbossolata
nel filamento untuoso delle parole .
Sono, praticamente, un polipo gettato sulla spiaggia allorché, entrato nella mia
camera, chiusa la porta a chiave e avvicinatomi al letto, vi cado sopra in una specie di
spirale discendente. Potrei anche essere l'acqua di un secchio gettata in uno splash.
Che qualcuno conservi il mio scheletro per il risveglio. Non mi piace neanche un pò
l'idea di potermi ritrovare invertebrato come l'omino della Lagostina. se mai dovessi
risvegliarmi. A dire la verità, in questo momento non me ne frega niente: voglio
dormire, soltanto dormire, per sempre dormire. rmire. mire.
Mi risveglio contento come una pasqua. Sono di nuovo me stesso, con tutte le ossa,
robuste, e i muscoli, scattanti. Il sonno è il farmaco più tonificante che conosca.
L'orologio segna le undici e, dal chiarore che filtra dalle persiane, ne deduco che
siano le undici del mattino. Ho dormito la bellezza di una quindicina d'ore; alla faccia
di chi soffre di insonnia. Fate movimento, signore e signori insonni; convertitevi alla
sana e prolungata ginnastica sessuale, tanta e quotidiana, secondo i crismi della più
autentica animalità, con chiunque vi capiti, ovunque vi capiti e in qualsiasi momento
vi capiti. Datemi retta, mandate a quel paese le case farmaceutiche: ci guadagnerete
in salute, nel risparmio e soprattutto nel godere. Se invece godete di più nell'ingoiare
pillole e nel commiserarvi l'un l'altro l'atrocità sofferta nelle lunghe veglie notturne,
allora. come non detto. Ritiro il consiglio e mi dimetto dalla carriera di consigliere.
Tutto tace. Non un rumore, uno scalpiccio, un bisbiglio. Mi sono addormentato in un
albergo e mi risveglio, per dare l'idea, nel chiostro di un convento di clausura
abbandonato. Per chi non sa che cosa sia un convento di clausura, dirò che mi ritrovo
all'interno dello stadio Meazza a sanSiro il lunedì mattina. Fateci una capatina e
conoserete l'angoscia della solitudine e dell'abbandono.
Mi sto stiracchiando ben bene, stile gatto soriano in pensione, seguendo il percorso
dei muscoli e dei tendini in tensione, con la vista inconfutabile dell'occhio interiore.
Mi percorro questo misterioso corpo, atomo per atomo, cellula per cellula,
fluttuandomi dentro: aquila in un cielo terso, cetaceo in un mare calmo. Sono il Dio
che rivisita la sua opera per adorarsi nella contemplazione del risultato: la perfezione
peribile. Me ne autocompiaccio, prima che l'eternità venga a costringermi alla
perfezione imperibile: alla immutabile estasi della visione invisibile.
Mi stringo a me stesso, mi compenetro, mi avvolgo. Spira su spira mi amalgamo,
galassia narcisa che si riflette nei suoi miliardi di stelle e le raccoglie in un unico
abbraccio, sfibrante. Collasso. Implodo. Esplodo in uno schizzo di sperma filante. Mi
estasio. Mi sono goduto.
Nel gradevole abbandono alla spossatezza, regalo disinteressato di ogni eiaculazione
estatica, inserisco il disco della memoria e do una ripassatina veloce alle schermate
degli ultimi avvenimenti. Mi sembra che tutto scorra in un miscuglio di ritmi
divergenti eppure amalgamati. L'unica nota stonata è la visione arcangelica del
Bobocù: un’alzata di sipario su una improbabilità che c'entra come i cavoli a
merenda. Però non posso farci niente, non posso cambiare nemmeno una virgola.
Tu, mio caro, sei un diario e non un ricettacolo di fantasie; sei perciò obbligato ad
ospitare l'accaduto, il fatto nudo e crudo, tale e quale a come si presenta.
E rivedendo, mnemonicamente, la faccia estatica del Bobocù e risentendo, sempre
con gli orecchi della memoria, il fantomatico nome di Giacchiele, mi infilo sotto lo
spruzzo della doccia strofinandomi, fino al suo esaurimento, con un vergine bianco
pezzo di sapone marsiglia. Ah come profumo di pulito e di bucato! Mi sembra di
avere il naso infilato nel cassettone delle lenzuola della nonna.
E penso al Bobocù. Il suo letto è rifatto. Non una grinza sul copriletto, non
un'impronta sul cuscino. Dove avrà dormito stanotte? Se ti dicessi che un sommesso
russare mi invita a chinarmi, a guardare sotto il letto e a vedere il Bobocù beatamente
addormentato sul pavimento, mi crederesti? Potrebbe essere plausibile, dal momento
che la carriera di profeta richiede una certa dose di ascetismo. Però, in presenza di un
comodo materasso permaflex, avvolto in pulite lenzuola di misto lino, la forza
dell'abitudine vincerebbe su qualsiasi titanico proposito di ogni qualsiasi apprendista
asceta. Perciò non te lo dico che il Bobocù si è infilato sotto al letto per dormire sul
nudo pavimento. Stavolta la verità te la mostro e te la nascondo, te la presento ma
non la nomino: ti lascio libertà di scelta. C'è o non c'è il Bobocù sotto il letto? Non mi
interessa.
Vado a farmi una girata. Voglio sapere perché non sento ancora una voce, un rumore;
perché ho l'assurda sensazione di essere rimasto l'unica presenza nell'albergo. Do una
sbirciatina al piano: nessuno in vista. Busso ad un paio di camere: nessuno risponde.
Scendo al piano di sotto: stessa totale assenza di movimento. Scendo ancora: sala da
pranzo, bar, cucina, hall. Nessuno e, niente.
Sono solo, anzi siamo in tre: io, la mia ombra e il rumore dei miei passi. Uno e trino,
in questo vuoto primordiale sto assaporando il dilaniante tormento dell'Assoluto:
impossibile non soggiacere al trapanante impulso di creare. creare. anche una mosca,
una zanzara, persino un umano: purché ci sia movimento d'intorno, purché una
qualsiasi presenza mi renda presente.
C'è una parete a specchio e, nella profondità del cristallo, vedo uno, a mia immagine
e somiglianza: è una presenza e si muove. Riproduce fedelmente tutti i miei
movimenti.
Mi avvicino, si avvicina. Sorrido, sorride. Mi illude e lo tocco. Lo bacio: una gelida
presenza assente. Per analogia, quella proiezione irridente del me sofferente, mi
illumina d'una infinitesimale percezione della terribile tragedia Divina: ti creo a mia
immagine e somiglianza e subisco il gelo dell'ipocrisia o dell'indifferenza, e non
posso neanche distruggerti senza cancellare me stesso.
Quanto tempo trascorro a camminarmi incontro e riallontanarmi, avanti e indietro,
nella profondità dello specchio? Sono prigioniero del riflesso di me stesso, io che non
sopporto di essere il prigioniero di nessuno. Quando realizzo che, per liberarmi,
debbo distruggere lo specchio, ho già un gBobocù posacenere di onice bilanciato nel
palmo della mano destra. Lo scaglio contro lo specchio che esplode in miliardi di
schegge barbaglianti; ma da ciascuna di quelle schegge, un beffardo me stesso mi
irride e mi sconvolge.
Nell'intento di isolarmi mi sono moltiplicato: ho creato un popolo di ombre. A questo
punto mi incazzo di brutto. Afferro il manicotto della pompa antincendio e provoco il
diluvio albergale. Affogo il pavimento sotto a un metro d'acqua, poi apro la porta e
lascio che il deflusso porti con sé ogni frammento di cristallo ed ogni riflesso di me
stesso. Stavolta non salvo nessuno. Non ci sarà alcun Noè a riprodurre ombre vaganti
di giostra in giostra, nel tragico luna park dell'universo.
Amo, Retimna, l'amara sorte.
Il ritrovarmi solo ogni momento
Peregrinante
In groppa al mio liocorno
Sui fumi del vino.
Viandante
In un firmamento osceno:
Buio Programmato Fisso.
Così è così sei.
Andare! Dove!?
Cercare! Cosa!?
Osare! E poi?
Condannato alla morte in ogni caso.
No, basta!
Intuire che
Buio è sinonimo di Luce
Ignoranza è vera Sapienza
Correre è come starsi Fermo
No, basta!
"Ascolta: che importa se l'altro non vede?
Tu vai!
Lascia che pensi l'uomo all'uomo.
Tu vai!"
Dove? Se anche Dio ha temuto di andare da solo!
Se c'è stato un inizio, Dio non è. Se ci sarà una fine, Dio non sarà stato e voi avreste
invano sperato, invano creduto, invano pregato invano. Voi non sareste, invece voi
siete, la vostra voce vi manifesta. Io chiedo a ciascuno di voi: tu sei?
La voce di Bobocù mi giunge tonante dalle fessure della porta della piscina e tante
voci all'unisono erompono: io sono.
Chi sei?
E tante voci all'unisono tuoneggiano: colui che sono.
Ascoltate la vostra voce, non ha detto colui che è stato o colui che sarà. la vostra
voce ha dichiarato: io sono colui che sono. Questa è la voce di Colui che è, Colui
che vive, Colui che la Sua Natura obbliga ad operare perennemente. Egli è la
creazione e la distruzione, la dolcezza e l'amarezza, la tenerezza e il furore, la
passione e l'odio. Voi siete tutto questo e per questo siete, e le vostre opere vi
manifestano.
Niente ha avuto inizio, niente avrà fine: tutto è da sempre perché ciò che esiste,
esiste. Non abbiate timore della fine perché ogni fine è un inizio, non temete la
perdita del corpo perché il corpo non esiste: è soltanto una delle metamorfosi di
colui che voi siete, una delle infinite metamorfosi della fantasia del creatore-
distruttore, Colui che è. Non il corpo è, colui che è; Colui che muove il corpo è colui
che è. Il corpo ha avuto inizio e avrà fine, è stato e non sarà. Riconosciti e vedrai che
ogni forma è un corpo e in ogni corpo tu sei.
La follia del Bobocù ha valicato i confini dell'umano, ha penetrato l'abisso del
mistero, si è inebriata del sidro della conoscenza, si è adagiata nel grembo della
sapienza. Bobocù non è più lui, è un puro folle ineffabile. Il famoso “Colui che sono”
deve avergli fatto mettere qualcosa nel bicchiere mentre stava al lago di Braies con
Celia. Tra me e me scommetto che ha cambiato anche il nome.
Infatti una timida voce si leva a domandare: maestro Spandiluce, la tua sapienza.
Non sono maestro, io sono un servo, il servo dell'Arcangelo. Le mie parole sono le
sue parole e le sue parole sono le parole della verità.
Diabolico Bobocù malefico, non è pazzo. Ho frequentato un genio per più di
trent'anni senza essermene mai accorto. Dichiarandosi servo dell'ambasciatore celeste
si è elevato automaticamente al rango di Dio: le MIE parole sono le Sue parole e le
SUE parole sono le parole della verità; quindi il furbacchione proclama: le MIE
parole sono la Verità. Siamo appena all'inizio ma già vedo le Parche srotolare il filo
della tragedia.
Fermati Cloto, ti si bloccasse il fuso, e tu Lachesi, diventa di sale, e tu Atropo, riponi
le forbici nel fodero! Debbo intervenire, non so come ma debbo. Pur essendo
obbligato all'imparzialità del redattore, sono pur sempre un personaggio attivo della
storia.
Non potrò forzare le parole per cambiare l'evolversi degli avvenimenti, ma potrò
agire direttamente nell'avvenimento. E le parole saranno costrette a seguirmi.
Intrigante? Mistificatore? Chi se ne frega. Qui c'è da salvare un amico.
Quando in Mesopotamia ci fu da salvare Daniele dai denti dei leoni e dalle fiamme
della fornace, il suo amico non ci pensò su due volte ad intervenire, anzi gli fece fare
anche carriera, come pure a Giuseppe in Egitto.
Non sono quindi, io, giustificato ad intervenire in Val Pusteria per salvare il mio
amico da pericoli maggiori di quelli corsi dai due summenzionati? Io debbo salvare il
mio amico dalla dabbenaggine fanatica di alcuni e dal disprezzo violento dei tanti;
quei tanti che, historia docet, sono convinti di avere già l'esclusiva della verità. Ogni
nuova verità deve fare i conti con la precedente e poiché la verità è il più redditizio
dei business, è consequenziale il fatto che il prete e il pretore siano concordi nella
necessità di una ammonente crocifissione
In giro si sente ancora dire, da qualche bocca di ritardato psico-spirituale, che Gesù fu
ucciso dagli Ebrei o dai Romani. Non ce l'ho con codesti ritardati, non è colpa loro se
sono vuoti: ciascuno dà quello che ha. Mi incazzo perché tacciono i saggi che hanno
e non danno, che sanno e non parlano. La verità è fissata nel Vangelo e sta davanti a
tutti, nuda come il re. Allora poiché gli idioti non vedono e i saggi temono l'ira del re,
occorre la voce del bambino per gridare che il re è nudo.
D’accordo, il bambino c'è e grida che Gesù è stato ucciso dai Poteri: il Potere
Religioso, il Potere Politico e il Potere Giudiziario. I Sacerdoti lo condannarono a
morte, il Pretore emise la sentenza, i Militi eseguirono la condanna. Dire che siano
stati gli Ebrei o i Romani i responsabili di cotanta infamia, sarebbe come dire che il
caffè abbia ucciso Pisciotta. Perciò debbo salvare il mio amico dalla furia demoniaca
dei Poteri, debbo evitargli gli osanna dei semplici e il calvario dei potenti: è la mia
missione.
Dopo tanto vagare nella ricerca di un perché, scopro di essere nato per essere il
custode del Bobocù, baluardo umano contro le lusinghe angeliche.
Erede degli attributi divini: fantasia, forma, intelletto e volontà, contro incorporee
parvenze di verità. Ora la mia vita ha un senso e avrà un senso anche la mia morte o,
per dirla con le parole del Bobocù, ho indossato questa forma per questo.
Ho bisogno di meditare. Io non conosco la verità per grazia infusa, debbo
raggiungerla con l'intuizione della fantasia e la logica della ragione. Debbo analizzare
il mio amico e giungere il più vicino possibile al vero motivo scatenante, al Perché.
Solo aprendo questa porta e tuffandomici dentro potrò avere una speranza, perché in
tal modo avrei conquistato la stessa posizione dell'Arcangelo e potrei guardarlo in
faccia a tu per tu, naso a naso, fiato a fiato. Esco e m'inerpico su per il viottolo che
conduce al monte Casella.
RISOLUZIONE
Lavoravo nella colonia di don Cettino quando salii per la prima volta il sentiero del
monte Casella, guidando una fila di sessanta adolescenti più una assistente di
diciannove anni, alta un metro e sessanta, e pesante novantasei chili: Maddalena.
Nessuno era mai riuscito a farla camminare per più di cento metri eppure, quella
volta, nessuno riuscì a dissuaderla dal partecipare all'escursione. Da come mi
guardava, sapevo che avrebbe tentato di affrontare anche il K2, pur di starmi vicina.
Maddalena puzzava di selvatico come una volpe in calore; uno stomachevole puzzo
di marchese guasto mescolato con polvere di antibiotico: repellente. Lo stesso puzzo
di Aureliana, che le faceva il vuoto attorno, finché non arrivò a tiro delle narici di
Pasquale che impazzì: ruppe un fidanzamento decennale e venne diseredato dal
padre. Non avrei mai creduto che il naso potesse ottenebrare la ragione, ma essendo
testimone degli avvenimenti, potei osservare che l'animale uomo non conosce ragione
e l'istinto è più potente dell'intelletto.
Pasquale prese Aureliana e la chiavò giorno e notte per una settimana; poi la chiavò
tutte le notti per quattro mesi. Quando li rividi, sei mesi più tardi, Pasquale aveva
perso lo stomaco da autotrenista e Aureliana aveva perso il puzzo. Perdendo il puzzo,
Aureliana perse anche Pasquale. Pasquale invece, avendo perduto, prima la famiglia
poi la passione, guadagnò la libertà alla quale rinunciò, poco dopo, in cambio di un
insolente matrimonio con una anziana benestante: “non so che farmene della libertà
senza il denaro” mi disse in via confidenziale.
Dunque Maddalena venne all'escursione, mi si appiccicò ai talloni, pretese la mano
nei punti di salita più difficoltosi, mi intossicò, mi spogliò di ogni capacità razionale e
fece di me una belva feroce. Avevo dimenticato la responsabilità di guidare sessanta
adolescenti su un sentiero di montagna, avevo dimenticato il monito divino di
sopportare pazientemente le persone moleste, avevo dimenticato che la legge punisce
l'autodifesa, se non è documentata da visioni di testimoni. Ero puro istinto di
conservazione e, per salvarmi da una esplosione di nausea crescente che mi aveva già
bloccato lo sterno, dovevo allontanare da me quella ventosa puzzolente. Riuscimmo a
salire ma, appena prendemmo il sentiero per la discesa, Maddalena mise un piede in
fallo e si fece i trecento metri di discesa in dodici secondi. Povera Maddalena, se
invece di me avesse incontrato Pasquale non sarebbe morta giovane e vergine.
Non ho rimorsi, nossignore. Non mi considero un omicida ma un custode del
sacrosanto diritto individuale a non essere violentati nella propria natura. Non ho
aggredito, sono stato aggredito; non ho offeso, mi sono difeso.
Se la mia difesa ha causato la morte dell'aggressore, se la mia reazione ha causato la
distruzione di una azione prevaricante, come posso ritenermi autore di male?
Non meritavo punizione e non ho avuto punizione per il semplice fatto che si è
catalogato l'avvenimento come un incidente; mentre invece nelle situazioni in cui non
si può simulare l'incidente, il soggetto sottoposto alle prevaricazioni altrui, se tentasse
di liberarsi verrebbe immediatamente represso dalla legge. Questo filo di pensiero mi
riconduce a Bobocù e all'Arcangelo che lo sta violentando.
Bobocù non potrà liberarsi dell'invisibile carceriere, primo: perché non si rende conto
di essere prigioniero; secondo: perché avendo resa pubblica la sua posizione di
posseduto, tutte le sue azioni sono ormai vincolate all'oppressione della legalità.
La droga spirituale ha fatto di lui un tossico mistico, una delle più pericolose
aberrazioni dell'elemento uomo.
Io, che mi sono assunto il titanico onere di ricondurlo alla redenzione umana, dovrò
combattere contro l'esaltazione del suo io allucinato e contro la fede furiosa dei suoi
seguaci, finalmente protagonisti, eletti alla realizzazione di un disegno nascosto nelle
viscere del mistero. Due forze terribili, troppo potenti per un uomo.
Ma io non sono un uomo normale, non mi appassionano le solite sfide a cui sono
interessati gli uomini.
Lottare per un pezzo di terra, o per una passera invece che per un'altra, o per una idea
altrui mai meditata per manifesta incapacità speculativa, che stronzate!
Io mi esalto nelle imprese impossibili, nelle epiche imprese degne di un vero uomo
dove per vincere non servono i coglioni e i quadricipiti ma bensì quegli attributi
invisibili che, essendo rarissimi, vengono universalmente accreditati alla genialità. Io
non mi reputo geniale: sono soltanto un uomo che vuole combattere da uomo per la
realizzazione dell'uomo.
E poiché la mia visione dell’uomo diverge da quella comune, obbligandomi a
percorrere una stradina tracciata nel sottobosco intricato di una giungla, appena
appena intuibile nel groviglio di felci, rovi e liane, la lotta che debbo affrontare non
mi propone, come avversario, la solitudine, ma l’unicità; si, non mi sento solo, bensì
unico.
Organizzo il mio piano di battaglia. Punto primo: diventerò uno dei suoi seguaci.
Punto due: sarò talmente perfetto da diventare automaticamente ridicolo. Punto tre:
trascinerò nel mio ridicolo il profeta e tutti i suoi seguaci. Punto quattro: l'Arcangelo
diventerà la barzelletta del secolo. Punto cinque: io e Bobocù ce ne ritorneremo a
casa come se non fosse successo niente, accenderemo il forno a legna che abbiamo in
comune, cucineremo cannelloni al ragù, capretto lattonzo, pollo con patate, pizze al
pomodoro, ai fiori di zucca, ai peperoni gialli, alle cipolline e patate novelle,
inviteremo gli amici e passeremo una nottata in allegria mangiando e raccontando,
bevendo e cantando la ballata del cantautore:
In questa selva di anime morte
un unico suono scompone il silenzio:
il verso impudico del corvo.
Tutto ciò che non unisce divide, tutto ciò che divide diversifica, tutto ciò che
diversifica diviene incomprensibile, tutto ciò che è incomprensibile genera paura.
Poiché la paura è irrazionale, la frequentazione dei discendenti dei nostri coloni,
trasferiti su questo pianeta dal Consiglio di Edden sette periodi fa, mi suggerisce che
costoro abbiano perduto la capacità di sfruttare ciò che ha fatto, del nostro popolo, i
colonizzatori dell'universo: la ragione. Infatti essi vivono prevalentemente nella
paura, l'uno dell'altro. Giungo alla conclusione che la loro evoluzione è degna di
commiserazione e, soprattutto la loro fine: si autodistruggeranno.
Ho provveduto ad isolare due di costoro, elementi interessanti per la nuova colonia di
Syphron. Il trasferimento dei suddetti avverrà secondo consuetudine.
Prima di procedere alla formattazione e ricompattamento della loro memoria,
suggerisco al Consiglio di EDDEN di prendere visione del diario che allego e di
spettrare il presunto autore: l'uno dei due che corrisponde al nome di Primultimo. Su
questo pianeta, anche se hanno penalizzato la razionalità, sono tuttavia riusciti a
sviluppare una capacità di fantasia superiore a qualsiasi altra colonia dell'universo.
Soprattutto le fantastiche teorie sulle Divinità meritano uno studio approfondito da
parte delle nostre menti direttorie.
Rapporto n.37377/69 ispettore intergalattico KRONYAN-5/8 dal pianeta Aretaen-2
nel quadrante 8/X di Tyrion - 5000° periodo di Edden.