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1792 un noto ritratto in cui lui viene raffigurato mentre dipinge

è stato riconosciuto fin da subito come artista di altri tempi, paragonabile ai grandi scultori (messi allo stesso
livello): ci si stupisce che solo canova ebbe l'idea di diventare uno SCULTORE ANTICO VIVENTE. -
concretizzare concetti di bello ed eterno nelle statue.
Simboli semplici, triangolo (piramide), rivestimento marmoreo NO COLORE SEMPLICITÀ DLELE
FORME = RIPRESA DELL'ANTICO

Antonio Canova, massimo scultore esponente del Neoclassicismo, nasce il 1 novembre 1757 a Possagno,
vicino Treviso.

L’inizio non è dei più facili, la sua è una famiglia di scalpellini e tagliapietre come ce ne sono tante, impiegata
nelle cave di marmo locali. Suo padre, e suo nonno prima di lui, sono abili artigiani, conoscitori della pietra
ma non certo grandi artisti. Il papà Pietro muore quando il piccolo Antonio ha solo quattro anni, sua madre
Angela poco dopo si risposa, cambia città e lo lascia con il nonno Pasino, che è pieno di debiti, lo maltratta e
non gli offre certo una vita agiata.

È attraverso il nonno però che Antonio scopre la seduzione dello scalpello, quando lo porta con sé per
aiutarlo in alcuni lavori che stava facendo nella villa di Asolo del senatore Giovanni Falier. È lui il suo primo
mecenate, l’uomo che intuisce l’eccezionalità di quel talento che scolpisce cesti di frutta per ornare
scalinate e giardini. È lui ad intuire che quel talento ha bisogno di essere coltivato e che nel 1768 lo porta
a Venezia nella bottega di Giuseppe Bernardi, conosciuto da tutti come il Torretti.

A Venezia si compie quindi la sua formazione artistica: la mattina è garzone di bottega, il pomeriggio può
copiare le opere famose, antiche e moderne, che si trovano nelle gallerie della città, la sera studia
all’Accademia del Nudo. Non ci mette molto Antonio a farsi notare per la sua bravura, ha solo quindici anni
quando scolpisce le due statue di Orfeo ed Euridice che l’intera città può ammirare alla festa della Sensa.

Nel 1777 ha vent’anni ed è pronto a fare da solo, apre uno studio tutto suo e realizza il suo primo grande
capolavoro, il gruppo scultoreo con DEDALO E ICARO, commissionato dal procuratore della Repubblica
Pietro Vettor Pisani, oggi conservato al Museo Correr. Nel gruppo scultoreo vediamo padre e figlio
abbracciati, Dedalo lega alle spalle di Icaro le ali di cera, che lo lascia fare ma allo stesso tempo, con il busto
e con la testa, compie un movimento divergente, come a volersi divincolare dalla stretta paterna, a volersi
allontanare prima del tempo.

I due protagonisti, Dedalo ed Icaro, fanno parte della mitologia greca, (Ovidio, Metamorfosi) Minosse per
punizione rinchiuse Dedalo e suo figlio all’interno del Labirinto da lui stesso progettato, i quali per fuggire
dalla propria prigione, decidono di fabbricarsi delle ali di cera con le quali voleranno via; secondo il mito, la
curiosità di Icaro lo portò a volare troppo vicino al sole, facendo scogliere le sue ali e portandolo
inevitabilmente alla morte.

La scultura è molto interessante soprattutto nelle notevoli contrapposizioni che il Canova mette in primo
piano: possiamo notare la vecchiaia di Dedalo in netto contrasto con la giovinezza di Icaro, e allo stesso
tempo, mentre il vecchio padre viene rappresentato inarcato in avanti, dall’altra parte invece il giovane
restituisce equilibrio alla composizione spingendosi nell’altro verso.
Non bisogna trascurare nemmeno le emozioni con cui Canova rappresenta i due protagonisti: Dedalo infatti
è pensieroso e ha un brutto presentimento riguardo questa folle impresa, mentre Icaro invece viene
rappresentato con una “smorfia” di incoscienza giovanile, tipica di chi non teme nulla e che non si cura dei
pericoli.

Guardando da lontano la composizione è possibile notare che “Dedalo e Icaro” formano una sorta di X, o
meglio una posizione chiastica, che si richiama al discorso della contrapposizione narrata precedentemente.

L'effetto di sorprendente REALISMO, nella resa dei corpi, spinse addirittura alcuni critici ad insinuare che lo
scultore si fosse avvalso di un calco preso direttamente su un modello vivente.

L'opera in marmo, completata nel 1779, aveva fruttato allo scultore, poco più che ventenne, la somma di
cento zecchini, utili per compiere finalmente il tanto desiderato viaggio a Roma.

Nel 1779, grazie ai guadagni dei suoi successi veneziani, Antonio può finalmente realizzare il suo grande
sogno: andare a Roma, studiare l’antichità alla sua fonte primaria. Il suo primo soggiorno dura un anno, un
anno di studio, di insaziabile ricerca e di scoperta, in cui può conoscere le collezioni più prestigiose,
immergersi nell’architettura antica, approfondire i testi classici e la mitologia.

Soprattutto a Roma Canova incontra altri artisti: il boemo Anton Raphael Mengs, lo scozzese Gavin Hamilton,
il francese Jacques Louis David (che arriverà poco dopo), tutti accomunati dal desiderio di riscoperta della
classicità, tutti affascinati dalle idee di Johann Joachim Winckelmann, il grande teorizzatore
del Neoclassicismo.

Da Roma, dove comunque ha deciso di stabilirsi, Canova parte alla volta di Napoli. Qui ammira le sculture
che il suo concittadino Antonio Corradini ha lasciato trent’anni prima nella Cappella Sansevero, visita la
collezione Farnese, straordinaria raccolta di antichità ma soprattutto visita i siti archeologici
di Pompei, Ercolano e Paestum. E proprio a Napoli realizza TESEO SUL MINOTAURO, la sua prima opera
di gusto pienamente neoclassico. Anche in questo caso, Canova fa riferimento alla mitologia greca, ma come
accade spesso nei suoi lavori, riesce a rappresentare i propri soggetti in momenti unici. Questo è stato il
primo lavoro in assoluto realizzato dal Canova quando quest’ultimo è arrivato a Roma. La commissione è
arrivata direttamente da Zulian, ambasciatore della Repubblica Veneziana, e ci sono voluti ben due anni
prima che potesse essere completata definitivamente.

Proprio come accennavamo precedentemente, Canova sceglie un momento particolare per rappresentare il
tema che ha scelto: piuttosto che scolpire nella pietra il combattimento tra Teseo ed il Minotauro, preferisce
scegliere quello che accade pochi attimi dopo la conclusione del conflitto.

Troviamo un Teseo stanco e non più in tensione, come si può evincere dai suoi muscoli rilassati e non più tesi
per lo sforzo, mentre si trova seduto sul cadavere del suo nemico, il quale a sua volta si trova su una roccia.
L’eroe guarda la bestia con uno sguardo stanco, estremamente differente da quello che aveva pochi attimi
prima, quando era spinto dalla furia e dal desiderio di eliminare questo mostro.

Canova sceglie di realizzare Teseo proprio mentre è inclinato indietro ed ha la gamba destra piegata ad angolo
acuto mentre l’altra è tesa, al fine di dare equilibrio in questa posizione di riposo.

In questo gruppo scultoreo, da una parte abbiamo Teseo, vittorioso e che simbolicamente indica la ragione,
mentre dall’altra parte, sconfitto, troviamo invece il Minotauro, simbolo della ferocia e dell’irrazionalità
tipica delle bestie. Da notare anche che Teseo trattiene tra le mani una clava, che non sappiamo se sia l’arma
utilizzata per sconfiggere il suo nemico oppure questo sia un altro elemento rappresentante il carattere
selvaggio del mostro.

Lo scultore, proprio come accade anche in altre statue facenti parte della sua produzione, mira a
raggiungere la BELLEZZA IDEALE, mescolando la propria tecnica all’imitazione dei modelli classici, proprio
come era enunciato all’interno delle teorie di Johann Joachim Winkelmann.

I riferimenti alla scultura antica sono evidenti, il suo Teseo si ispira al Marte Ludovisi, che ha visto a Roma, e
al Mercurio seduto, che ha conosciuto a Napoli. Ispirazione però non significa mera copia, non significa sterile
riproduzione. Delle statue antiche coglie l’atteggiamento di riposo e di meditazione, ma non un singolo
dettaglio del suo eroe fotocopia i precedenti, nulla è freddo, pedissequo, stereotipato. Canova accoglie il
pensiero di Winckelmann ma non ne resta prigioniero.

CONCETTO DI BELLEZZA IDEALE ED ETERNA

Policleto, Nirone e Fidia: hanno scritto le sorti della classicità greca, gli unici grandi scultori noti che aiutano
a capire quando la cultura greca fosse evoluta e sul loro concetto di bellezza.

Policleto rappresenta con una potenza espressiva una dinamicità del corpo.

Una volta trasferito a Roma il suo laboratorio, la carriera di Canova può decollare con la realizzazione delle
prime opere pubbliche, la tomba del papa Clemente XIV nella chiesa dei Santi Apostoli e quella di Clemente
XIII nella basilica di San Pietro.

Come se la cava un giovane scultore che arriva da Venezia con la tomba di un papa? È vero, ormai sa tutto
della scultura antica, ma in questo caso non basta. I committenti si aspettano un’opera celebrativa, che
esalti il pontefice e la sua famiglia e soprattutto che regga il confronto con gli altri sepolcri di cui San Pietro e
le altre chiese romane sono piene.

Qui non si tratta più di confrontarsi con l’età di Pericle ma con il Rinascimento e il Barocco. Dopo Fidia e
Prassitele ora tocca a Michelangelo e Bernini. Canova guarda con stima al passato, non nasce
Neoclassicismo. È ancora legato al gusto per il barocco perché l'eco di Bernini ancora echeggia in Italia.

concessorie imperfezioni di tipo barocca

- uomini panciuti, da fattezze anziane (volti corrugati)

- DINAMICITÀ

IMITARE GLI ANTICHI NELLA MANIERA PIÙ NEOCLASSICA POSSIBILE, MA È PIÙ VICINO AL PIÙ
VICINO AL BERNINI E MICHELANGELO PIUTTOSTO CHE ALLE OPERE DI NATURA NEOCLASSICA
Dai precedenti berniniani il giovane scultore trae l’impianto compositivo (un sarcofago, su cui è posto un
piedistallo, su cui a sua volta è posta la statua del papa) e anche gli elementi figurativi (due figure allegoriche
ai lati del sarcofago, il pontefice seduto in posizione benedicente e inginocchiato in preghiera) ma tutto passa
attraverso un processo di semplificazione, di purificazione: le linee curve e spezzate diventano rette,
l’esuberanza cromatica diventa candida monocromia, i panneggi abbondanti lasciano il posto a vesti leggere
che scendono lungo i corpi. Ancora una volta Canova dimostra quale sostanziale scarto esista tra
l’ispirazione e l’imitazione.
Roma, città multietnica e multiculturale, nel XVIII secolo è il crocevia del mondo. Aristocratici, diplomatici,
uomini di chiesa, mercanti e studiosi ne fanno la propria meta privilegiata, per gli artisti più grandi è un punto
d’arrivo ma anche un trampolino di lancio.

VIENNA: gli commissionano un mausoleo (ispirato a Tiziano)

Amore e Psiche è un gruppo scultoreo di Antonio Canova, realizzato tra il 1787 e il 1793 ed è conservato
presso il museo del Louvre, a Parigi. Una seconda copia, realizzata per mano dello stesso Canova, si trova
esposta al Museo statale Ermitage di San Pietroburgo in Russia.

Nel gruppo di Amore e Psìche che si abbracciano (commissionato nel 1788 dal colonnello John Campbell, ma
trattenuto dallo scultore che, terminatolo nel 1793, lo vendette solo nel 1800) Canova ha ripreso la favola
narrata nel romanzo L’asino d’oro di Lucio Apuleio. L’artista ha rappresentato un episodio della favola, quello
in cui Amore rianima Psiche svenuta in quanto, contro gli ordini di Venere, aveva aperto un vaso ricevuto
nell’Ade da Proserpina.

Antonio Canova ricevette la commissione di un gruppo raffigurante «Amore e Psiche che si abbracciano:
momento di azione cavato dalla favola dell'Asino d'oro di Apuleio», per usare le sue stesse parole, nel 1788
dal colonnello John Campbell.

Ispirandosi all'iconografia a un affresco di Ercolano raffigurante una baccante abbracciata da un fauno,


Canova iniziò l'ideazione del «modello grande» dell'opera il pomeriggio del 30 maggio 1787. La traduzione in
marmo venne avviata già nel maggio 1788, come attestato dall'amico Quatremère de Quincy; il gruppo
marmoreo come oggi lo conosciamo, tuttavia, fu portato a compimento solo nel 1793. Ciò malgrado, in
quell'anno Campbell non era in grado di sostenere le esose spese di trasporto per l'Inghilterra, e l'opera fu
acquistata nel 1800 per duemila zecchini da Gioacchino Murat, che la trasportò nel palazzo reale di
Compiègne, nelle vicinanze di Parigi, in Francia. Nel 1808, quando i beni di Murat entrarono in possesso della
Corona francese, Amore e Psiche passò insieme ad altre opere nelle collezioni del museo del Louvre, dove è
tuttora esposto.

L'opera non mancò di essere accolta freddamente in taluni ambienti artistici, dai quali fu ritenuta
eccessivamente barocca, complessa, perfino manierista. Tra i critici più feroci dell'Amore e Psiche vi era Carl
Ludwig Fernow, che nel 1806 scrisse in una dissertazione ove rimproverò Canova di non aver fornito «una
visione appagante dell'opera, da qualunque parte si contempli», continuando affermando che «invano lo
spettatore si affatica a ricercare un punto di vista da cui scorgere entrambi i volti, e nel quale ridurre a punto
di convergenza centrale ogni raggio dell'espressione di tenerezza». Malgrado queste critiche (che comunque
furono poche), l'opera fu un ulteriore successo nella fama europea di Canova: la risonanza del gruppo fu
enorme, e furono in moltissimi, tra artisti, viaggiatori e eruditi, ad affluire nell'atelier di Canova per poter
ammirare il marmo, a tal punto che lo scultore per difendersi dalla folla spesso andava a lavorare in un altro
studio.

Tra gli ammiratori più entusiasti vi erano John Keats, che ispirato dall'Amore e Psiche canoviano scrisse una
delle sue ode più celebri (Ode to Psyche, 1819: «Surely I dreamt to-day, or did I see the winged Psyche with
awaken'd eyes?»), e il principe russo Nikolaj Jusupov, in visita a Roma nel 1794. Jusopov giunse in Italia per
conto dell'imperatrice Caterina II di Russia, la quale voleva a tutti i costi il Canova al servizio della propria
corte; lo scultore rifiutò, ma accettò ugualmente di realizzare su commissione dello Jusopov una seconda
versione dell'Amore e Psiche. La gestazione di questa replica fu assai rapida: il modello fu completato nel
1795 e la statua in marmo, portata a compimento nel 1796, poté raggiungere la Russia nel 1802. Inizialmente
esposta nel palazzo del principe a San Pietroburgo, nel 1810 l'opera fu trasferita nella villa dello Jusopov ad
Arkhangelskoye, per poi tornare alla morte di quest'ultimo (1831) nuovamente a San Pietroburgo: dal 1929
l'opera è conservata nel museo dell'Ermitage, sempre in quella città.

Numerose altre furono le repliche dell'Amore e Psiche, non realizzate dal Canova bensì dall'allievo prediletto
che, avendo ricevuto dal maestro il modello in gesso originale dell'opera e
l'autorizzazione di trarne quante copie ne volesse, ne eseguì almeno cinque, con piccole variazioni. L'opera,
ripresa anche in una scultura di Auguste Rodin, fu calorosamente accolta anche da Gustave Flaubert, il quale
commentò:

«Ho baciato sotto l'ascella la donna in deliquio che tende verso Amore le sue slanciate braccia di
marmo. E che piedino! Che profilo! Ch'io possa esser perdonato, da tanto tempo questo è stato il
mio solo bacio sensuale, ed è stato qualcosa in più: ho baciato la bellezza stessa, ed era al genio che
sacrificavo il mio ardente entusiasmo»

(Gustave Flaubert)

L’autore narra che Psiche era considerata una delle ragazze più belle del mondo, e Venere, la dea dell’amore,
non poteva accettare che una mortale potesse competere con il suo fascino.

La dea, così, inviò suo figlio Amore con un piano per farla sparire; quando il figlio di Venere vede Psiche, però,
si innamorò perdutamente della ragazza, e così, invece che seguire il piano della madre, decise di portarla
segretamente nel suo palazzo.

Per evitare di essere scoperti, Amore strinse un patto con Psiche, dicendole che, quando si incontravano, non
avrebbe mai dovuto guardarlo.

Dopo alcuni incontri, però, Psiche era sempre più tormentata dalla curiosità di sapere chi era il suo amante,
e, istigata anche dalle sue gelose sorelle, nell’appuntamento successivo, la ragazza aprì gli occhi e guardò
Amore.

Il figlio di Venere si sentì tradito e volò via, abbandonando la ragazza. Psiche, innamorata del dio, era disposta
a tutto per vederlo tornare e così si piegò a delle tremende prove ideate da Venere.

Se Psiche avesse superato i test di Venere, avrebbe ottenuto l’immortalità ed avrebbe potuto ritornare al
fianco del suo amato. Con grande tenacia, la ragazza riuscì a superare tutte le prove, arrivando addirittura
negli Inferi per prendere un po’ della bellezza di Proserpina.

Quest’ultima prova si rivelò un inganno e Psiche cadde in un grande sonno, e quando Amore venne a sapere
degli sforzi effettuati dalla sua amata, si recò immediatamente da lei e la risvegliò con un bacio.

Sono molti i momenti con cui una statua di Canova avrebbe potuto rappresentare al meglio, ma lo scultore
ha scelto, tra le varie immagini di Amore e Psiche, proprio quella del bacio che sancisce la loro unione, e
segnando il lieto fine per loro.
Canova ha fermato nel marmo un attimo che rimane sospeso: la tensione dei due giovani corpi che non si
stringono, ma si sfiorano appena con sottile erotismo, mentre il dio contempla, ricambiato con la stessa
dolce intensità, il volto della fanciulla amata, ognuno rapito dalla bellezza dell’altro. È l’attimo che precede il
bacio, un contatto che sta per avvenire, che l’atteggiamento dei corpi e gli sguardi preannunciano.

Così come in tutte le sue opere Canova qui si dimostra assai sensibile all'influenza della statuaria classica,
mostrandosene debitore per l'equilibrio della composizione. Solo la visione frontale permette di fermare
un’immagine significativa del gruppo statuario, perché consente di coglierne la geometria compositiva
lineare formata da due archi che si intersecano (e che mettono in gioco il corpo leggermente sollevato e in
torsione di Psiche [a], la gamba destra e le ali tese di Amore, che da dietro si piega verso la fanciulla e
l’abbraccia sfiorandole i seni e la guancia destra). Due cerchi intrecciati (le braccia dei giovani amanti [c])
sottolineano il punto d’intersezione degli archi.

Amore poggia il ginocchio sinistro a terra mentre con la spinta della gamba destra si china in avanti, inarcando
il proprio torso e al contempo flettendo la propria testa così da avvicinarla al volto addormentato dell'amata,
che sorregge delicatamente con la mano destra; quella sinistra, invece, sfiora in modo romantico il seno di
lei, tradendo un desiderio innegabile ma non espresso. Nel tocco delle mani, il marmo diviene carne. Psiche,
invece, è semidistesa, rivolge il viso verso l'alto ed alza quasi timidamente le braccia per accogliere il bacio di
Amore, sfiorando con le sue dita i capelli di lui, che presenta le ali spiegate, come se fosse appena giunto per
soccorrerla. I loro corpi adolescenziali, caratterizzati da una perfezione anatomica squisitamente neoclassica,
sono completamente nudi, fatta eccezione per un drappo che vela appena le intimità di Psiche.

Tuttavia la visione frontale non esaurisce le possibilità di godimento dell’opera. È vedendo la scultura dal
retro, infatti, che si scorgono la faretra di Amore, la fluente capigliatura di Psiche e il vaso di Proserpina che
ha causato il suo svenimento: ruotando attorno all'opera, inoltre, variano all'infinito i rapporti reciproci tra i
corpi dei due amanti, ed è solo così che ci si può rendere conto della complessità del marmo. Infatti i rapporti
reciproci fra i due corpi, pensati nello spazio, mutano continuamente girando attorno al gruppo scultoreo.
Solo così ci si accorge della complessità della creazione di Canova.
Amore e Psiche, in ogni caso, risponde pienamente ai
. I gesti di Amore e Psiche, infatti, sono delicati ed espressivi, mentre i loro movimenti
nello spazio sono equilibrati, continui e ben sincronizzati; analogamente, Canova comunica il loro trasporto
amoroso in modo misurato ed equilibrato, sfumando la loro passione nella tenerezza e in un'affettuosa
contemplazione. Alcuni degli aspetti dell'opera, tuttavia, già rimandano al : pensiamo alla
sensualità che, seppur filtrata dal neoclassicismo canoviano, avvolge tutta la composizione, all'impiego di
linee di tensione interne e al dinamismo spiraliforme che anima l'intera scultura.

Il monumento funebre a Maria Cristina d'Austria è un'opera scultorea di Antonio Canova, custodita all'interno
dell'Augustinerkirche (chiesa di San Agostino) di Vienna.

Rappresentativo anche del clima tardo-settecentesco della poesia sepolcrale, il monumento canoviano si
lega facilmente al tema della morte così com’è magistralmente espresso anche nel carme Dei Sepolcri di Ugo
Foscolo (iniziato nel 1806 e pubblicato nel 1807), saldando una singolare vicinanza di sentimenti tra l’artista
e il poeta.

La sepoltura – collocata all’inizio della navata laterale destra dell’Augustinerkirche, la trecentesca chiesa degli
Agostiniani incorporata nell’Hofburg, il grandioso complesso del palazzo imperiale di Vienna – si presenta
come una piramide, all’interno della quale una mesta processione reca le ceneri dell’estinta.

La forma del sepolcro deriva, probabilmente, dalla Piramide di Caio Cèstio a Roma – un edificio della fine del
I secolo a.C. – o dalle tombe dei Chigi nell’omonima Cappella di Raffaello in Santa Maria del Popolo, anche se
si tratta della forma del più imponente monumento sepolcrale che la storia ci abbia trasmesso. Canova ne
sottolinea l’ingresso oscuro per mezzo di uno spesso architrave e di due stipiti leggermente inclinati.

Canova ricevette la commissione di questo grande cenotafio nell'agosto 1798 dal duca Alberto di Sassonia-
Teschen, in occasione della morte della sua consorte Maria Cristina, scomparsa il 23 giugno precedente.
L'obiettivo dell'opera era di rendere omaggio alla memoria di questa donna e al suo carattere assistenziale
e caritativo, mediante l'adozione di un complesso programma iconografico ideato dallo stesso duca Alberto.

Il lavoro di realizzazione del monumento si svolse in più fasi nei sette anni successivi: il primo disegno per
l'opera fu pronto nel novembre 1798, mentre i modelli in gesso delle varie figure componenti il sepolcro
furono completati dal Canova già nel luglio del 1800. Per il progetto lo scultore si servì dei bozzetti già
realizzati per un monumento funebre a Tiziano per la basilica dei Frari di Venezia, il quale non fu mai messo
in opera: anche le figure che fanno parte del corteo furono riprese da monumenti precedenti, come nel caso
del leone accovacciato e del genio alato, esplicitamente desunti dalla composizione della tomba di papa
Clemente XIII. La traduzione in marmo dei bozzetti, in ogni caso, avvenne nei cinque anni successivi, e il
monumento fu montato nella chiesa degli agostiniani di Vienna tra il 12 giugno e il 27 settembre del 1805,
per poi essere inaugurato nell'ottobre dello stesso anno.

Malgrado alcune critiche mossegli da qualche artista locale, il monumento funebre a Maria Cristina d'Austria
riscosse uno sfolgorante successo, e segnò un ulteriore consolidamento della notorietà europea di cui già
allora il Canova godeva. Tra gli ammiratori più ardenti vi era lo scrittore francese Stendhal che, in visita a
Vienna nel 1809, commentò che si trattava della «premier des tombeaux existants».

L'opera è strutturata su un'imponente piramide bianca, ben rappresentativa del gusto per le antichità egizie
che si era diffuso in seguito alla campagna d'Egitto di Napoleone Bonaparte; il ricorso a quest'antichissimo
tipo costruttivo è probabilmente derivato dalla piramide Cestia, un edificio di Roma del I secolo a.C., o dalle
tombe dei Chigi in Santa Maria del Popolo. Il punto focale della composizione è l'oscura apertura al centro
della piramide, sovrastata da un massiccio architrave, su cui leggiamo
(«Alberto alla sua ottima moglie»). Questo è sostenuto da stipiti inclinati, che accentuando sapientemente
l’effetto prospettico, conferiscono una maggiore inclinazione virtuale alla parete. Il buio ingresso è il varco
per cui si può entrare nella camera sepolcrale e, idealmente, allude alla soglia che separa l'Oltretomba dal
mondo dei vivi. La scelta di voler utilizzare la piramide è molto interessante: questa infatti rappresenta il
mondo dei morti, in continuità e non in contrapposizione con i personaggi che partecipano, rappresentanti
il mondo dei vivi.

Verso quest'apertura si sta avviando una mesta processione che, ascendendo da sinistra una breve gradinata
di tre livelli, reca le ceneri della defunta; per essere precisi, queste sono contenute entro un'urna retta dalla
Virtù, la donna che dirige il corteo insieme alle due fanciulle al suo fianco.

Adesso vediamo invece chi sono i personaggi che partecipano alla marcia funebre:

• Sopra all’entrata oscura c’è un medaglione con all’interno un ritratto della donna defunta, sorretto
da una specie di angelo, ma che in realtà è la personificazione della , la quale a sua volta
è accompagnata anche da un putto nel volo.
• Tra i personaggi sulla sinistra che partecipano alla marcia funebre troviamo un personaggio che
disperato e con il capo chino su un vaso (contenente le ceneri) si avvia verso la piramide,
accompagnato da due bambine. Questa è la personificazione della .
• Dietro, sempre sulla sinistra è presente una donna che invece accompagna un vecchio sotto braccio,
mentre segue la . Questa donna è la rappresentazione della .
• Sulla destra c’è un leone, rappresentante la , e proprio sopra al leone è presente invece
un genio con le ali, che rappresenta il ; ciò sta ad indicare la
.
• Sotto i piedi dei personaggi che si trovano a sinistra è molto interessante notare che è presente un
drappo, altro elemento inserito non casualmente: questo infatti rappresenta il forte
.

Tutti i componenti di questa dolente processione sono legati tra di loro da una ghirlanda di fiori e sono
invitati a camminare su un telo che, precariamente steso sulla gradinata come un velo leggerissimo e
impalpabile, sottolinea la continuità tra la vita e la morte.
Esaltando la defunta, Canova vuole sollecitare la meditazione sulla fatalità della morte, sul rimpianto e sulla
«corrispondenza d’amorosi sensi» – «Divina.Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi sensi, / celeste dote
è negli umani» avrebbe scritto Ugo Foscolo (Dei Sepolcri, vv. 29-31) – che sola riesce a mantenere in vita le
persone care scomparse, con il ricordo e gli affetti pietosi suscitati dalle tombe. Il mondo classico rivive nella
scena composta quasi teatralmente da Canova. Le ceneri della defunta vengono portate verso il buio della
morte da un mesto e dolente corteo a cui prendono parte giovani donne, fanciulle e un vecchio. Tutti sono
legati fra loro da una ghirlanda di fiori e tutti sono invitati a entrare passando sul tappeto che simboleggia il
destino e unisce, fisicamente, l’interno (la morte) con l’esterno (la vita).

Le Tre Grazie è il nome assegnato a due sculture di Antonio Canova ritraenti le tre famose dee della
mitologia greca e realizzate tra il 1812 e il 1817. Ne esistono due/tre versioni: la prima è conservata al
Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, mentre una sua replica successiva è esposta al Victoria and Albert
Museum di Londra.

“Le tre Grazie” fanno parte della mitologia greco-romana, e sono state identificate come figlie di Zeus, i cui
nomi sono Aglaia, Eufrosine e Talia, e nella tradizione mitologica, spesso accompagnano la figura di Afrodite.
Come ogni altra divinità, anch’esse hanno un significato simbolico, e difatti rappresentano lo splendore, la
felicità e la prosperità.

Fu Giuseppina di Beauharnais, la prima moglie di Napoleone Bonaparte, a invitare Antonio Canova ad iniziare
il gruppo scultoreo raffiguranti le Tre Grazie, come emerge in una lettera del 1812 in cui Giuseppe Bossi
scrisse allo scultore di avere «sentito il vociferare che tu debba fare per questa Signora [la Beauharnais] un
gruppo delle tre Grazie». La Beauharnais, tuttavia, non vide mai il gruppo, siccome Canova, che già nel 1813
si rammaricava di non poterle mostrare almeno un disegno, ultimò le Tre Grazie nel 1817, dopo la morte di
lei (avvenuta nel maggio del 1814).
L'opera riscosse uno sfolgorante successo. Due persone in particolare, furono particolarmente prodighe di
complimenti verso lo scultore. Il primo era John Russell, VI duca di Bedford, che colpito dalla bellezza del
marmo, tentò di acquistarlo: l'opera, tuttavia, fu reclamata da Eugenio di Beauharnais (figlio di primo letto
di Giuseppina) e trasportata in Russia, per poi entrare nel 1901 nelle collezioni del museo dell'Ermitage (dove
si trova tuttora). Il duca fu pertanto costretto a richiederne una seconda redazione, completata dal Canova
nel 1817 e prontamente ricollocata nella sua residenza di campagna, Woburn Abbey (oggi è esposta al
Victoria and Albert Museum di Londra).[2] A risentire della leggiadra e morbida sensualità delle Tre Grazie fu
anche il poeta Ugo Foscolo, autore per l'appunto di un carme Alle Grazie, dedicato al Canova:
«Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi,
nuovo meco darai spirto alle Grazie
ch’or di tua man sorgon dal marmo»

In quest'opera Canova riprende il soggetto d'ispirazione mitologica delle Grazie figlie di Zeus, ,
,e , le tre divinità benefiche che diffondevano splendore, gioia e prosperità nel mondo
umano e naturale. Si trattava, pertanto, di un soggetto che ben si adattava alla volontà di Canova di voler
riprodurre in scultura l'ideale di una bellezza serenatrice femminile riprendendo l'esempio della statuaria
classica, in perfetta linea con le teorie neoclassiche promosse da Johann Joachim Winckelmann. Il principio
estetico perseguito dal Canova, d'altronde, è riflesso in maniera quasi subliminale nell'etimologia stessa del
termine « », dal latino gratia a sua volta derivato da gratus «gradito; riconoscente».

Il gruppo scultoreo descritto d'ora innanzi è quello custodito al di


Londra, siccome è quello in migliore stato di conservazione: le due opere, tuttavia, differiscono solo per alcuni
piccoli, ininfluenti particolari.

Le sorelle si abbracciano in atteggiamento amorosamente familiare. La sorella centrale si trova più in alto e
viene abbracciata dalle altre due ai lati.

Le tre Grazie sono raffigurate nella loro posizione più canonica: nessuna delle tre figure dà del tutto le spalle
allo spettatore, differentemente da come avvenne in una tavola di Raffaello Sanzio probabilmente conosciuta
dal Canova. I loro volti, infatti, sono tutti di profilo: nel punto canonico di visione (ortogonale, ovvero
"davanti" alla scultura), la Grazia al centro è vista frontalmente, quella di destra è colta quasi di spalle e quella
di sinistra, infine, rivolge il fianco allo spettatore. Il senso di unione dettato dall'abbraccio della figura centrale
è rafforzato da un morbido velo che, ricalando dal braccio della Grazia di destra, cinge le tre fanciulle
celandone parzialmente le nudità. La Grazia di sinistra è addossata ad un pilastro decorato con un festone di
fiori. L’unico panneggio presente è avvolto morbidamente intorno al braccio della fanciulla di destra. Passa,
poi, al centro e, quindi ricade sulla gamba della grazia di destra come per legare idealmente le tre figure.

Oltre che nella consistenza quasi tattile del velo marmoreo, il virtuosismo di Canova si manifesta anche nelle
fluenti capigliature delle tre Grazie, che presentano tutte un'elaborata acconciatura raccolta in nodi sulla
nuca e in ciocche minutamente arricciolate, e nell'applicazione di una patina per imitare il calore rosato
dell'incarnato.

I capelli sono scolpiti da Canova con grande abilità tecnica. Infatti sembrano cadere in ciocche molto
realistiche. L'unico ornamento ambientale presente nella scultura, infine, è una colonna dorica sulla
sinistra, utile base d'appoggio per le tre fanciulle.

La composizione è con il vertice nella capigliatura della grazia centrale. Le braccia si


intrecciano creando una serie di linee curve che avvolgono le ragazze. Al fine di dare alla superficie delle
statue un aspetto più realistico, Canova ricopri il marmo con una patina di colore rosa.
La sorella centrale è scolpita frontalmente rispetto allo spettatore. Quella di sinistra di spalle, con il volto
leggermente inclinato e quella di destra, sempre di spalle con il volto di profilo. Canova ne Le tre Grazie è
stato capace di rappresentare, attraverso gli sguardi e le carezze un simbolo di affetto familiare. La nudità
delle fanciulle non ha un valore erotico ma esprime il concetto di bello ideale attraverso la perfezione fisica
dei soggetti. La luce scivola morbidamente sui corpi delle Grazie senza creare ombre profonde. Il modellato
è privo di asperità muscolari e tensioni. Canova, infatti, ha creato dei corpi femminili morbidi e armoniosi. I
glutei, ad esempio, sembrano subire naturalmente l’attrazione dal basso.

Le tre divinità, secondo la mitologia, donavano felicità e bellezza al mondo e al genere umano. Un precedente
artistico importante è il dipinto di Raffaello Sanzio, dallo stesso titolo, e conservato presso il Musée Condé.
Questo gruppo scultoreo è considerato dagli storici uno dei più importanti di Canova che fu uno più
importanti esponenti del Neoclassicismo.

Non si tratta di una scultura priva di espressione emotiva. Il Neoclassicismo preveda una lettura più razionale,
ispirata alla bellezza calcolata sulle proporzioni. Nonostante questo vincolo estetico il volto del Le tre Grazie
esprime una resa affettiva che chiarisce il rapporto tra le giovano donne. Canova fu artefice di ritratti
idealizzanti e classici come quello di Paolina Bonaparte.

Nella realizzazione di questo gruppo marmoreo Antonio Canova raggiunge forse la vetta più alta e matura di tutta la sua
esperienza artistica.

Ciascuna delle tre Grazie, infatti, è studiata e realizzata non solo per entrare in relazione intima e perfetta con le altre
due, ma anche per essere assolutamente conclusa in sé, con un grado di finitezza, attenzione ai particolari e abilità
realizzativa mai più eguagliato.

Ogni elemento, anche quello apparentemente meno significativo, concorre infatti al perseguimento del risultato finale
che Canova si propone, cioè l’esaltazione ideale della bellezza femminile nel solco della grande tradizione statuaria
classica.

A questa chiara finalità, perfettamente in linea con le teorie neoclassiche di Winckelmann, l’artista aggiunge la propria
straordinaria inclinazione verso la capacità di rappresentare la grazia, intesa come armonia di forme, delicatezza di
espressioni e leggiadrìa di posture. Il latino gratia, infatti, si
ricollega all’aggettivo gratus, nel significato anche di gradito e
riconoscente. La grazia è pertanto una qualità che, più ancora
della bellezza – che attiene solitamente a una sfera soprattutto
ideale – riesce a coinvolgere gradevolmente i sensi e lo spirito.
Ecco allora che nella realizzazione di ogni particolare Canova si
applica con una tecnica al limite del virtuosismo, modellando il
bianco marmo di Carrara con la duttilità con la quale si plasma
un modello in cera o in argilla.

Questo è particolarmente evidente nelle complesse ed


elaborate acconciature delle tre Grazie, nelle quali la gran
massa fluente dei capelli è sempre raccolta in ciocche
minutamente arricciolate o in morbide code annodate sulla
nuca.

Analogamente anche le posture e gli accenni di movenze


dei levigatissimi corpi nudi sono indagati e rappresentati
con uno studiatissimo gioco di mani e di braccia che ora
teneramente si cingono [e, f], ora più complessamente si
intrecciano, abbracciandosi reciprocamente alle spalle
[g, h] e al collo, come in una danza leggera [i, l].

L’uso del trapano per i capelli e delle raspe di varia


forma e ruvidezza per levigare e dettagliare gli incarnati
si ricollega alla raffinata tradizione scultorea barocca,
che aveva conosciuto una delle sue vette più alte
nell’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini.

Anche nel trattamento dei panneggi si evidenzia una


duplice attenzione al naturalismo del modellato, così
come all’idealizzazione formale. Il velo che ricala dal braccio sinistro e dalla mano della Grazia di destra,
infatti, dà l’idea di una morbidezza quasi tattile, pur nella innaturale e virtuosistica complicatezza delle sue
ripetute piegature.

Analogamente, la modellazione anatomica dei corpi assume


per Canova un’importanza assolutamente centrale,
addirittura superiore a quella della statuaria classica, dove
era simbolo di bellezza ideale e non concreto riflesso della
natura, che le patinature di cera ulteriormente esaltano

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