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In tale opera sono già presenti tutti i temi del pensiero neoclassico. Giunto a Roma in quello stesso 1755,
aveva continuato il suo lavoro di bibliotecario presso il cardinale Domenico Passionèi (Fossombróne, 1682-
Roma, 1761), ma già dal 1758 era al servizio del cardinale Alessandro Albàni (Urbino, 1692-Roma, 1779), uno
dei maggiori collezionisti del tempo e fautore di un restauro integrativo dei reperti, abitando nella villa di lui
sulla Via Salaria.
La ricca biblioteca del cardinale, fra le più notevoli d’Europa, e la sua collezione di antichità, disseminate tra
gli ambienti anticheggianti della villa e il giardino, furono per Winckelmann allo stesso tempo occasione di
arricchimento culturale e momento di riflessione. Non è un caso, infatti, che poco dopo la sua scomparsa
(Winckelmann morì assassinato a Trieste l’8 giugno 1768), il boemo Anton Raphael Mengs (1728-1779) lo
ritraesse con una copia dell’Iliade tra le mani e il viennese Anton von Maron (1733-1808) lo mostrasse in
veste da camera, al suo tavolo da lavoro, in atto di descrivere il rilievo di Antinoo della collezione Albani (una
cui incisione Johann Joachim tiene appoggiata sul manoscritto che sta redigendo), contro uno sfondo in cui
compaiono, sulla destra, il busto di Omero della collezione Albani (ora ai Musei Capitolini) e, sulla sinistra,
nell’ombra, un nudo virile, lo stesso presente su un antico cammeo che, al pari dell’Antinoo, Winckelmann
aveva pubblicato nei Monumenti antichi inediti (1767).
A Villa Albani, lavorando e studiando, l’erudito tedesco poté condurre a termine un’opera grandiosa e
innovativa iniziata nel 1756, la Storia dell’arte nell’antichità, pubblicata nel dicembre 1763 con la data 1764.
Per la prima volta la storia dell’arte antica (L’ARCHEOLOGIA) veniva studiata sia dal punto di vista
cronologico – smettendo così di essere considerata un tutto omogeneo – sia dal punto di vista estetico (cioè
inerente al valore formale, alla qualità). Tale secondo criterio influenzò successivamente in modo negativo
gli sviluppi dell’archeologia. Infatti, quando agli inizi dell’Ottocento Lord Elgin portò in Inghilterra i marmi del
Partenone, non si volle credere che fossero di Fidia, ma si reputarono rifacimenti di età romana, tanto li si
trovò lontani dalla bellezza ideale classica e da quel che si credeva dovesse essere l’arte fidiaca; e quando
ancora, nel 1877-1882, furono riportati alla luce i frontoni del Tempio di Zeus a Olimpia, li si giudicò così
deludenti da definirli arte secondaria e provinciale.
Si faceva, cioè, molta fatica a riconoscere in queste sculture, capisaldi della plastica greca, quelle creazioni
che erano state immaginate e sognate con gli occhi del Neoclassicismo. Winckelmann, infatti, per tutta la vita
non vide mai un originale greco, ma solo copie del tardo ellenismo romano e, tuttavia, su esse fondò i propri
principi interpretativi di tutta l’arte greca.
Nei Pensieri sull’imitazione dell’arte greca (1755) che, come abbiamo già notato, costituisce la prima e già
compiuta teorizzazione del Neoclassicismo, il Winckelmann parte dal presupposto che IL BUON GUSTO
AVEVA AVUTO ORIGINE IN GRECIA e che TUTTE LE VOLTE CHE SI ERA ALLONTANATO DA QUELLA TERRA
AVEVA PERDUTO QUALCOSA. La grandezza artistica era, perciò, propria dei Greci. Pertanto «l’unica via per
divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi».
L’imitazione è cosa diversa dalla copia. Imitare, infatti, vuol dire ispirarsi a un modello che si cerca di
uguagliare, copiare è invece azione fortemente limitativa in quanto prevede la realizzazione di un’opera
identica in ogni parte al modello, l’originale.
Infatti nell’Antinoo (copia marmorea da originale bronzeo di scuola prassitelica) è «riunito tutto ciò che è
sparso nell’intera natura»; dalla statua di Apollo (copia romana del 130 ca d.C. da un originale del 350-324
a.C. attribuito a Leochares) sarà invece possibile «formarsi un’idea che superi le proporzioni più che umane
di una bella divinità». Inoltre «tale imitazione insegnerà a pensare e a immaginare con sicurezza, giacché si
troverà fissato in questi modelli l’ultimo limite del bello umano e del bello divino».
Infine, considerando il gruppo del Laocoonte, Winckelmann definisce ciò che egli ritiene essere il carattere
proprio di quella scultura e allo stesso tempo stabilisce il principio fondamentale a cui vedremo adeguarsi
ogni opera neoclassica:
«la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta
grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre
immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto
agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata».
Winckelmann sostiene, inoltre, che «più tranquilla è la posizione del corpo e più è in grado di esprimere il
vero carattere dell’anima».
Se è vero, perciò, che è più facile riconoscere l’anima nelle passioni forti e violente, tuttavia essa è grande e
nobile «solo in istato d’armonia, cioè di riposo». Una scultura neoclassica, allora, non dovrà mai mostrare
intense passioni o il verificarsi di un evento tragico mentre accade. Nella composizione dei propri soggetti,
pertanto, l’artista dovrà sempre scegliere l’attimo successivo all’ardente turbamento emotivo e
rappresentare il momento che precede o segue un’azione tragica, quando il tumulto delle passioni o non
c’è ancora o si è già attenuato.
Il contorno, il drappeggio
Nelle opere degli antichi Winckelmann riconosce come valori, oltre alla bellezza dei corpi, alla «NOBILE
SEMPLICITÀ E QUIETA GRANDEZZA», anche il contorno e il drappeggio. Da ciò deriva il gusto neoclassico per
i contorni ben definiti e per il disegno.
Poiché ancora poco si sapeva della pittura greca e, comunque, ciò che si conosceva dagli scavi di Ercolano,
Pompei e Roma era “non greco”, gli esempi a cui guardare per quel che concerneva la pittura erano indicati
in coloro che avevano operato nella Roma di papa Leone X, in particolar modo in Raffaello, il più “classico”
fra gli artisti del Rinascimento.
E al Parnaso di Raffaello, appunto, guarda Anton Raphael Mengs, «il più grande artista del suo tempo e forse
anche dei tempi che verranno», come scriveva di lui Winckelmann, nel dipingere lo stesso soggetto per la
volta del salone di Villa Albani nel 1761.
L’opera, dal grande valore didattico in quanto rappresentativa della proto-pittura neoclassica e realizzata
secondo le intenzioni di Winckelmann (che ne suggerì, verosimilmente, il soggetto e dette consigli a Mengs
circa l’esecuzione), riassume la concezione che il suo autore ha della bellezza e che avrebbe sintetizzato nel
1762 nei Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei («Pensieri sulla bellezza e sul
gusto nella pittura») come: «[…] il pittore che vuol trovare il buono, ossia il miglior gusto, deve imparare a
conoscerlo da questi quattro; cioè dagli antichi il gusto della bellezza, da Raffaello il gusto dell’espressione,
da Correggio quello del piacevole e dell’armonia, e da Tiziano il gusto della verità, ossia il colorito». Apollo,
in un’attitudine che ricorda quella dell’Apollo di Leochares, è al centro della composizione circondato dalle
Muse. Nella mano destra regge una corona di alloro, nella sinistra la lira. Mnemòsine, la madre delle Muse,
siede a sinistra. Dietro Apollo il dio Scamandro è disteso mentre tiene rovesciato un vaso da cui sgorga l’acqua
della fonte Castàlia, elargitrice di ispirazione poetica per chi se ne fosse dissetato.
La scena è ambientata all’aperto e la composizione, simmetrica rispetto alla figura assiale del dio delle arti e
della bellezza, vede i personaggi inclusi in un’ideale ellisse, mentre due circonferenze racchiudono il gruppo
di destra e quello di sinistra.
Le “arti minori”
Il fascino dell’Antico pervade altresì la produzione di oggetti e di arredi, oltre che la moda. Di alta qualità
sono anche i prodotti che, nell’età delle scoperte e dell’industrializzazione, vengono realizzati da manifatture
a metà fra artigianato e industria.
È il caso, ad esempio, delle porcellane francesi di Sèvres e della fabbrica parigina Dagoty nonché di quelle
italiane dei marchesi Ginori a Doccia (vicino Firenze) e anche della Real Fabbrica di Capodimonte (poi
Ferdinandea) a Napoli.
Ed è il caso, in particolare, delle ceramiche inglesi Wedgwood e Spode, che alla ricerca di nuovi materiali e
colori, capaci di imitare pietre e marmi naturali, sommano un processo realizzativo che ricalca quello della
divisione del lavoro, già da anni in uso nelle fabbriche britanniche. Infatti la realizzazione di un singolo oggetto
non è più propriamente artigianale, ma frutto dell’azione di più maestranze specializzate in specifiche attività
del ciclo produttivo, il che consente di mettere in commercio oggetti raffinati, ma in più esemplari che ne
abbassano il prezzo e ne consentono la diffusione presso più ambiti sociali.
I fondi azzurri a disegno bianco, rossi a disegno nero, rosa o verdi a disegno bianco, o semplicemente a
monocromo grigio scuro imitano di fatto, anche se in chiave moderna, la ceramica classica a figure nere e
rosse.
È Josiah Wedgwood (1730-1795) che inizia l’attività servendosi, per i disegni, di noti pittori e scultori. Fra i
vasi più significativi sono senza dubbio da annoverare quello (ancora in produzione) che imita il celebre Vaso
Portland, realizzato attorno al 1790 e il vaso detto “di Pegaso” (per via del cavallo alato che ne orna la
sommità del coperchio) o dell’Apoteosi di Omero, eseguito attorno al 1786. In pasta celeste a imitazione del
diaspro, quest’ultimo reca degli ornamenti in rilievo di pasta bianca che mostrano nel fronte il sommo poeta
greco coronato di alloro colto mentre, alla presenza di quattro personaggi, si accinge a salire dei gradini,
portando una grande lira.
Nel verso una palma precede un tempietto con il simulacro di Atena. La delicatezza del panneggio e i contorni
sicuri, assieme al candore delle figure monocrome rispecchiano i principi del Neoclassicismo, configurando il
vaso inglese come aggiornamento di un vaso attico.
Antichità e Grand Tour
Fra i motivi che hanno preparato la strada alla cultura neoclassica, contribuendo a diffonderne poi gli esiti, e
fra i motori che hanno mantenuto costantemente vivo l’attaccamento all’Antico, e alla città di Roma in
particolare, è da collocare il viaggio di istruzione che, dagli inizi del Settecento, da tutta Europa (in specie dal
Nord e dall’Inghilterra, ma anche dalla Russia) portava nobili e alto borghesi a visitare l’Italia, soprattutto
Roma, Firenze, Venezia e Napoli: il cosiddetto GRAND TOUR. Un viaggio di studio, non meno che di piacere,
che si intensifica nella seconda metà del secolo e che subisce un arresto solo con le campagne d’Italia di
Napoleone.
I souvenirs che i viaggiatori portano con sé divulgano le vedute delle antichità romane incentivando la
produzione del micro mosaico e la pratica delle copie di celebri sculture (realizzate in ogni dimensione).
Gli acquerelli, gli oli, i pastelli, le stampe serbano il ricordo delle solenni vestigia romane e nelle case
dell’aristocrazia europea entrano, assieme ai reperti di scavo – acquistati più o meno legalmente – ritratti
che immortalano i nobili viaggiatori al cospetto dei templi e delle più note sculture di quella che era stata la
capitale di un impero e che si dimostrava ancora capace di stimolare le arti.