DIREZIONE D’ORCHESTRA
RELATORE
M° Luciano Acocella
STUDENTE
Alessandra Mazzanti
n. matricola 6954
CORRELATORE
Prof. Piero Mioli
DIREZIONE D’ORCHESTRA
RELATORE
M° Luciano Acocella
STUDENTE
Alessandra Mazzanti
n. matricola 6954
CORRELATORE
Prof. Piero Mioli
1. PRESENTAZIONE Pag. 3
5.2 Il trionfo della morte del Camposanto di Pisa ispira Totentanz di Franz Liszt Pag. 28
5.3 La più antica innodia libera nel Te Deum di Giuseppe Verdi Pag. 31
5.4 Il canto liturgico della Roma pontificia in Tosca di Giacomo Puccini Pag. 39
1
7. NUOVI COLORI, FORME, ATMOSFERE: IL GREGORIANO APRE Pag. 100
STRAORDINARI E IMPENSABILI ORIZZONTI
7.1 Debussy e il canto gregoriano: il nuovo stile di Pelléas et Mélisande Pag. 100
7.2 Sinfonia di Salmi di Igor Stravinsky: tra passato e presente, il respiro della Pag. 122
musica
2
1. PRESENTAZIONE
E’ un dato di fatto che il mondo musicale, in questi ultimi anni, mostri un interesse sempre
crescente verso il canto gregoriano. Il motivo di tale interesse nasce dal fatto che quest’antico
repertorio ancora parla e ha qualcosa di essenziale da insegnare all’uomo e al musicista di oggi.
Importantissimo è stato naturalmente l’apporto della semiologia allo studio e
all’approfondimento del canto gregoriano, la scienza cioè che studia e teorizza ogni tipo di segno
linguistico, visivo o gestuale, che nasca secondo codici che si producono nella vita sociale.
La semiologia infatti ci ha mostrato il canto gregoriano nella sua vera essenza: non è musica
aggiunta a un testo, ma è canto generato dalla parola, nasce e si sviluppa su di essa, e da essa prende
le qualità ritmiche ed espressive; è canto che esalta la parola nel suo significato più profondo, è
«esegesi» della parola, ossia, al tempo stesso, studio, approfondimento e interpretazione di essa. Nel
canto gregoriano non c’è divisione ma simbiosi perfetta tra testo e canto: nasce dal cuore del
musicista che si è messo all’ascolto del testo.
Canto gregoriano significa anche modalità, ossia struttura compositiva dei brani che è mutata
nel tempo, a partire dai primi secoli di vita delle comunità cristiane fino alla riforma carolingia e
l’avvento delle prime forme di scrittura musicale, cambiando principi compositivi, scale di
riferimento, note di attrazione. Anche lo stesso sistema modale è oggi oggetto di uno studio
approfondito. Il “canto gregoriano” non viene più considerato infatti come corpo unico di
composizioni ma si ricerca la probabile forma originaria di ogni brano, studiando il tipo di
evoluzione che è avvenuta lungo quasi 1000 anni di storia del canto cristiano.
Questo approfondito studio pone le sue basi proprio nel XIX secolo quando ha luogo quella che
viene definita la «restaurazione gregoriana». Il canto gregoriano infatti, dal mille in poi, aveva
subito mutamenti e una continua e costante decadenza rispetto alla sua prima e antica forma
originale, sia da un punto di vista melodico che modale, tanto da venire addirittura stravolto e
totalmente modificato.
Con il fiorire degli studi paleografici del XIX secolo ha avuto anche inizio un nuovo e
importante influsso del canto gregoriano sulla musica sinfonica e lirica, sacra e profana, e questo a
diversi livelli: spesso è stato sfruttato il potere evocativo di melodie che richiamavano direttamente
il testo su cui erano nate, o ne è stato sfruttato il tipico melodizzare salmodiante per richiamarne il
tono orante, o ancora, ha rappresentato il linguaggio a cui riferirsi per rinnovare lo stile e cercare
nuovi orizzonti compositivi.
Il lavoro che viene qui proposto non sarà perciò un approfondimento sul canto liturgico stesso.
Dopo un breve excursus storico dalle sue origini ai giorni nostri e una breve analisi della riforma
ceciliana, movimento che influenzerà particolarmente il periodo storico in analisi, intenderà
mostrare come il canto gregoriano sia entrato nel linguaggio di alcuni importanti compositori del
XIX e primi decenni del XX secolo, grazie alla sua forza artistica ed evocativa.
Di ogni composizione presa ad esempio verranno proposti alcuni passi significativi da cui poter
dedurre come esso abbia saputo ispirare ogni musicista nei modi più svariati. Si potrà vedere infatti
come ogni composizione si sia avvalsa di uno o più aspetti peculiari al canto gregoriano con i più
diversi risultati artistici.
Il materiale da trattare è quantitativamente molto rilevante, e non sarebbe qui possibile né
proporre tutto quello che sia stato composto riferendosi al canto gregoriano, né analizzare ogni
composizione in tutti i suoi dettagli.
Il fine che si intende qui perseguire è quello di proporre un ulteriore livello di approfondimento
del repertorio sinfonico e lirico di questo periodo storico che ponga una maggiore attenzione al
rapporto di tanti musicisti e delle loro creazioni artistiche con il canto gregoriano.
3
2. BREVE STORIA DEL CANTO GREGORIANO
La storia del canto della liturgia cristiana1 abbraccia un periodo di dodici secoli, nel corso dei
quali, come tutte le grandi esperienze creative dell'uomo, attraverso una progressiva
caratterizzazione, passa dalla fase breve e instabile dell'infanzia e dell'adolescenza a quella della
piena maturità. Il canto della liturgia cristiana fiorisce in seno alle comunità, che sorgono in diversi
luoghi raggiunti dall'irradiazione missionaria della chiesa. Ma la distanza, a volte rilevante, tra di
esse favorisce ben presto la nascita di centri cultuali locali, che vanno via via caratterizzandosi con
liturgie e canti propri. Il canto cristiano prende allora nomi diversi: canto romano, gallicano,
mozarabico, beneventano, milanese, aquileiese, celtico, ecc., secondo la regione di appartenenza di
ciascuno.
Nel sec. VIII il re dei Franchi Carlomagno dà disposizione perché il canto romano, ammirato
ovunque, venga adottato in tutte le chiese della Gallia (riforma romano-carolingia). Dall'innesto
della tradizione romana in quella gallicana nasce il canto che è appunto chiamato gregoriano. Con
il tempo, alcuni altri repertori liturgici verranno assorbiti in questa nuova creazione; altri ancora,
come il milanese e lo spagnolo, continueranno il loro cammino, mantenendo fino ad oggi la loro
autonomia.
Consolidato ed ulteriormente ampliato nel suo repertorio con melodie e forme nuove (sec. IX-
XI), il gregoriano diverrà il supporto naturale di un'altra nuova e grande esperienza musicale, come
la polifonia.
Il canto gregoriano rappresenta un patrimonio di inestimabile valore storico e culturale. Ecco
alcune ragioni:
— i primi dodici secoli di storia della musica sono quasi esclusivamente segnati da esso;
— altre manifestazioni musicali medioevali quali la musica religiosa laudista e molta parte
della
musica profana ne prendono l'ispirazione ritmico-melodica;
— la polifonia nasce e si sviluppa su quell'illustre repertorio;
— la composizione specifica trae origine dal testo e si attua in diversi generi nel rispetto
dello
stile verbale, così da costituire un modello perfetto di simbiosi testo-melodia;
— l'opera di ornamentazione dei testi da parte di teorici e musicisti, che hanno accompagnato
la
formazione e la definitiva ristrutturazione del repertorio gregoriano mediante ricercati
procedimenti compositivi, ha impresso a questo canto qualità artistiche tali che fino ad oggi il
suo linguaggio musicale non ha conosciuto limiti di tempo e di spazio.
La molteplice varietà di melodie nel gregoriano è determinata in parte dal fattore tempo e in
parte dalla regione di provenienza.
Il fattore tempo ha contribuito alla diversificazione del repertorio. Le melodie del fondo
classico2 comportano una struttura modale differente da quella delle melodie elaborate in epoche
posteriori. La loro composizione avviene con la nascita di nuove forme liturgico-musicali e
nell'ambito dell'istituzione di nuove festività, abbracciando l'intero arco di tempo della formazione
del calendario liturgico. Le melodie più sviluppate del Kyriale, le Sequenze e i Tropi fino alle
composizioni pseudo-gregoriane del XVI e XVII secolo, inserite nell'attuale repertorio, risentono
del tonalismo e di movenze melodiche inusitate nel periodo classico.
1
Questo e il capitolo seguente fanno riferimento all’introduzione storica di A. TURCO, Il canto gregoriano, Corso
fondamentale, Edizioni Torre d’Orfeo, Roma, 1996.
2
Un brano appartiene sicuramente al fondo classico se si trova documentato in uno dei sei manoscritti prodotti da DOM
R.J. HESBERT nell'Antiphonale Missarum Sextuplex, Bruxelles, 1935. Il Graduale triplex, Solesmes, 1979, e il
Graduel neumé, a cura di P.E. CARDINE, Solesmes, 1955, indicano, con sigle all'inizio di ogni brano, se il testo è
presente in qualcuno di quei manoscritti.
4
Anche il fattore provenienza è determinante nella formazione estetico-modale delle
composizioni. Ad esempio, le composizioni più antiche provenienti dalla corda madre Re
(tradizione gallicana) offrono strutture modali e criteri d'ornamentazione differenti da quelle
provenienti dalle corde madri Do e Mi (tradizione romana).
Dopo la riforma romano-carolingia, completato liturgicamente il repertorio gregoriano, trovato
e perfezionato il sistema di affidarlo ad una documentazione scritta con la notazione musicale, lo
spirito esuberante della cultura del sec. IX passò alla ricerca di nuove creazioni sia di testi che di
forme musicali.
Questo nuovo fervore creativo — rinascimento carolingio — nasceva da diversi fattori: dal
bisogno di favorire la religiosità popolare, con espressioni più personali, senza con questo rinnegare
testi e melodie ufficialmente inseriti nella liturgia; dall'esigenza della schola di aggiornare e
ampliare il repertorio di canti; dall'esigenza di favorire il sorgere di altri momenti devozionali, al di
là della celebrazione della Messa e dell'Ufficio, mediante testi nuovi, feste particolari e locali, e la
drammatizzazione di quanto si celebrava nella liturgia.
Questo nuovo fervore creativo si manifestò attraverso la forma poetico-musicale delle Prose,
delle Sequenze, dei Tropi e dei Versus.
Tali composizioni, che abbracciano un periodo di tempo che va dal sec. IX fino al sec. XII e
anche più tardi, vengono definite post-classiche, perché in esse è cambiata la tecnica compositiva
rispetto a quelle precedenti del fondo primitivo. I canti si presentano melodicamente più estesi, con
procedimenti compositivi contrassegnati da ampi intervalli, con giochi e rime melodiche, nei quali
si avverte più palesamento la presenza del tonalismo.
Il proliferare di nuove forme musicali contribuì assieme ad altri fattori, come il sorgere delle
prime forme di polifonia, ad accelerare il processo di decadenza del gregoriano. A dire il vero già i
codici più antichi, con la notazione musicale, ne portavano i primi sintomi.
Ecco in sintesi i fattori della decadenza gregoriana:
— le melodie e i testi dei tropi, che vengono intercalati nei brani, fanno perdere la loro
unità interpretativa;
— il processo di sillabazione dei melismi ostacola un'interpretazione flessibile e ben
articolata dei brani;
— il sorgere della polifonia, con il conseguente impiego del mensuralismo (la vox
principalis, tolta dal gregoriano, in sincronia con la vox organalis) porta inevitabilmente a
livellare le finezze ritmiche del canto gregoriano, introducendo una nuova pratica esecutiva;
— la progressiva trasformazione della scrittura musicale porta alla notazione quadrata, dove
del neuma non è più leggibile il significato interpretativo. Nei confronti delle melodie viene
perpetrato pian piano un tale livellamento, da far perdere al gregoriano reputazione musicale
artistica e procurargli il nome di cantus planus (termine sinonimo di "canto monotono");
— in nome della lingua e della povertà evangelica, nel sec. XII, vengono rimaneggiate le
melodie, purificandole da melismi, ritenuti "inutili";
— l'accentuarsi della trascuratezza e dell'ignoranza per la vita liturgica e l'uso predominante
degli strumenti musicali portano alla dimenticanza totale del gregoriano.
La decadenza viene ulteriormente accentuata dall'affermarsi del tonalismo, che tenta di
assimilare i modi gregoriani, già ridotti al numero di otto dal sistema teorico dell'octoechos, alle
tonalità moderne:
5
Soltanto il 4° e 8° modo conservano la loro originalità, che non sembra essere riducibile al
sistema tonale moderno. La letteratura organistica fa uso di queste tonalità per i suoi Versi da
intercalare al canto gregoriano.
Ma chi straziò del tutto il gregoriano fu l’Edizione medicea del 1614-15, così chiamata dalla
casa editrice veneziana che ne curò la pubblicazione. Il papa Gregorio XIII aveva incarico lo stesso
Palestrina ed il suo collaboratore Annibale Zoilo di procedere alla revisione del repertorio. Ma
l'opera del Palestrina era destinata a non essere condotta a termine, a causa delle critiche mossegli
da un musicista spagnolo, un certo Fernando, che si servì della stessa autorità di Filippo II di
Spagna per far giungere alla Santa Sede le sue rimostranze.
La vicenda subì vari risvolti, finché lo stampatore Raimondi della tipografia orientale della
medicea riuscì a far nominare una commissione di sei musicisti, tra cui Nanino, Anerio e Soriano,
sotto la presidenza del card. Del Monte, per portare a termine l'edizione riformata. Con la medicea
il gregoriano poteva considerarsi sepolto; fu un'edizione mostruosa, come la ebbe a definire qualche
studioso. A questo punto, il canto, quando e dove ancora lo si praticava, non meritava più alcuna
considerazione. Qualsiasi vocalità e interpretazione erano possibili.
Ecco un esempio tolto dall'edizione medicea (tetragramma inferiore), comparata con la
versione melodica attuale della vaticana, (tetragramma superiore), per rendersi conto del tipo di
corruzione raggiunto:
6
Per tre secoli, dal XVII al XIX, l'edizione medicea fa da testo base a moltissime altre edizioni,
che si rendono necessarie per il moltiplicarsi delle diocesi, delle istituzioni religiose, ecc. Nascono
inoltre melodie pseudo- e neo-gregoriane, come l'Ordinario della Messa VIII (De Angelis), delle
Messe di Henri Du Mont, le Antifone mariane, in tono semplice, Alma Redemptoris, Ave Regina
caelorum, Regina caeli e Salve Regina; melodie che rappresentano probabilmente un modo di
reagire alle antiche, corrotte e mal eseguite. La produzione non si arrestò neppure all'alba del XX
secolo, quando ormai il ricupero dell'autentico gregoriano era già in atto.
7
3. LA “RESTAURAZIONE GREGORIANA”
I primordi della restaurazione gregoriana sono da collocare all'inizio del sec. XIX ad opera di
eminenti cultori e studiosi di musica, stanchi e inorriditi dalla pratica esecutiva del canto «piano»
che nelle chiese è ormai sentito come un ingombro dal quale non è possibile sbarazzarsi; lo si adatta
il più possibile alle esigenze e alle mode correnti, a un gusto che ne snatura il carattere sia nelle
versioni più «dotte» praticate nelle cappelle musicali, sia nelle esecuzioni popolari, che
comprendono alcuni inni, salmodie e messe così lontani dal modello originario da essere a stento
riconoscibili.
La stessa trattatistica avalla procedimenti che ne modificano intrinsecamente la natura, quali
l'introduzione di trilli nelle intonazioni (eseguite con valori larghi), l'andamento lento o più mosso
dettato non da leggi musicali ma dal grado della festività (equivalenze: sbrigativo - feriale,
maestoso - festivo), l'uso di pause contrastanti con lo stesso naturale fraseggio, le sovrapposizioni
melodiche a intervalli di terza, l'accompagnamento organistico con accordi pieni, sotto ogni nota, a
mo’ di corale.
Tuttavia già dagli inizi del sec. XIX agiscono validi studiosi di musica, coinvolti in un più
vasto rinnovamento archeologizzante, qual era stato avviato dagli «illuminati» del secolo
precedente, e che viene ora sostenuto da ideali e fervori romantici. Teologia, liturgia, letteratura,
architettura e musica beneficiano di un fervore di ricerche ricche di conseguenze per le scienze
storiche e per la stessa produzione artistica. Per la causa del gregoriano si rivela determinante
l'attenzione prestata agli antichi manoscritti, unita allo sforzo per decifrare la scrittura neumatica.
L'operazione di «ritorno alle fonti» procede tra scoperte esaltanti e delusioni; ma anche attraverso
abbagli interpretativi, si matureranno quelle intuizioni che saranno alla base del successivo
progresso scientifico3.
Tutto fa pensare che ci si stia incamminando sulla buona strada. Purtroppo, nonostante che
l'edizione medicea venga definita «quella che si allontanava maggiormente dall'antico canto»4, la
Sacra Congregazione dei Riti nell'anno 1871-1872 fa una concessione trentennale di ristampa
all'Editore Pustet di Ratisbona.
L'impegno e la tenacia degli studiosi nel tentativo di ricuperare l'autentico gregoriano
attraverso gli antichi manoscritti sembravano destinati a fallire. Fortunatamente dall'Abbazia di
Solesmes l'abate Dom Prosper Guéranger (1805-75), con i suoi migliori monaci, promuove l'opera
di riforma del canto, convinto che attraverso la sua restaurazione si sarebbe poi passati facilmente al
rinnovamento della liturgia.
Si comincia perciò a lavorare sui manoscritti a disposizione per ricavare le melodie da lungo
tempo accantonate e completamente dimenticate. Nel 1882 alcune delle melodie ricostruite
vengono eseguite a titolo esemplificativo al Congresso di musica sacra di Arezzo da Dom Pothier,
personaggio senza dubbio più rappresentativo di Solesmes in quel momento. Il Congresso
inaspettatamente abbandona i sostenitori dell'edizione medicea di Ratisbona per schierarsi dalla
parte di Solesmes e a grandissima maggioranza auspica che i libri liturgici di canto siano d'ora in
poi il più possibile conformi all'antica tradizione. I congressisti vengono ricevuti dal papa Leone
3
Coloro ai quali la restaurazione gregoriana è debitrice di qualche risultato, prescindendo dalla sua entità o dal suo
oggettivo valore, sono J-P. Fétis (che inizia nel 1808 a lavorare sui neumi, e nel 1846 idea un’edizione gregoriana sulla
base di un MS antico), C.-H.-E. de Coussemaker (che compie ricerche sui teorici antichi, su biblioteche e sulla scrittura
dei codici per spiegare l'origine dei neumi), J-L.-P. Danjou (che scopre il Tonale di Montpellier, codice digrafico, cioè
notato in neumi e in lettere alfabetiche), Th. Nisard (fondatore di riviste di musica antica e di musica sacra), J-L.
D'Ortigue (per quanto arrivi alla conclusione che i neumi antichi sono illeggibili), L. Lambillotte (che riporta alla luce
nel 1851 il Cantatorium, Cod. 359 di S. Gallo, e lo ritiene copia del libro inviato a Carlomagno da Adriano I: di esso
offre una trascrizione musicale in valori mensurali). Un elenco più completo degli studi dell'epoca, redatto da Dom
Mocquereau, si trova nell'introduzione generale alla Paléographie Musicale, vol. I.
4
J. BONHOMME, Principes d'une veritable restauration du chant grégorien, Paris, 1857.
8
XIII, il quale, pur elogiando l'opera di Solesmes, non intende per il momento avallarla
ufficialmente.
Dopo il Congresso di Arezzo, Solesmes continua nell'attività intrapresa. Alla pubblicazione del
Liber Gradualis del 1883, fanno seguito una dopo l'altra a breve distanza di tempo altre edizioni
contenenti l'Ufficiatura di Natale, della Settimana Santa, dei Defunti, ecc. A dare una mano a Dom
Pothier si fa avanti un altro monaco, Dom André Mocquereau (1849-1930). Dotato di capacità e di
sensibilità musicali, avvia le ricerche sui manoscritti con metodologia scientifica e fonda la collana
della Paléographie Musicale, che fino ad oggi conta ventitre volumi. Con quest'opera di altissimo
valore storico e scientifico, Dom Mocquereau dà inizio alla scienza della paleografia musicale.
Nel 1896 appare la prima edizione del Liber Usualis Missae et Offici. È una pubblicazione
pratica, che contiene insieme i canti della Messa e dell'Ufficio delle principali domeniche e feste,
senza dover ricorrere a più libri liturgici (Graduale, Antiphonale, Processionale, Hymnarius, ecc.).
Per la sua utilità e praticità la pubblicazione viene apprezzata in tutto il mondo; basti pensare che tra
il 1903 e il 1905 se ne fanno ben cinque edizioni. Ma la novità editoriale del Liber Usualis è
rappresentata dalla notazione quadrata corredata dei segni ritmici, sotto forma di episemi verticali,
orizzontali e di puntini di cui Dom Mocquereau è l'ideatore:
Dom Mocquereau, che si era battuto per una restaurazione scientifica del gregoriano, era
convinto che questa non costituiva esclusivamente un problema di restituzione melodica, ma anche
di interpretazione ritmica, coerente alla tradizione dei manoscritti. D'altra parte diverse proposte —
generalmente di tipo mensuralistico — si stavano facendo strada. Eccone alcuni esempi (Cfr. J.
GAJARD, Metodo di Solesmes, Venezia 1960, pp. 12-13):
C'era il pericolo che il frutto di tanto lavoro di Solesmes venisse sciupato da interpretazioni
mensuralistiche oppure in stile oratorio esagerato. Dom Mocquereau adotta quindi il metodo
ritmico del religioso Antonin Lhoumeau de St-Laurent-sur-Sèvre, che questi aveva pubblicato nel
1892 in Rythme, exécution et accompagnement du chant grégorien, rielaborandolo in modo più
organico e schematico.
Con questo metodo, che prenderà il nome di metodo di Solesmes, Dom Mocquereau era
“persuaso di attrarre [...] al canto gregoriano i musicisti moderni, educati ad un tipo di ritmo basato
su misure binarie o ternarie, mostrando loro che era possibile, con qualche accomodamento, far
9
rientrare il canto gregoriano in misure binarie o ternarie, liberamente mescolate: e in questo consiste
appunto la teoria della misura libera”5.
Anche nel Motu Proprio di Pio X del 1904 viene esplicitamente dichiarato che “le melodie si
dovevano restaurare nella loro purezza e integrità secondo la tradizione dei manoscritti antichi”.
Per non cadere in esclusivismi editoriali, si procede alla nomina di una Commissione Pontificia
con a capo Dom Pothier, affinchè si ponga mano alla pubblicazione tipica delle melodie
gregoriane6.
Dal 1913 in poi la Santa Sede affida invece direttamente a Solesmes l'incarico di proseguire nei
lavori.
Gli anni che seguono sono caratterizzati dallo sviluppo e dall'approfondimento delle ricerche e
degli studi gregoriani, alla testa dei quali sono ancora due monaci di Solesmes Dom Eugène
Cardine e Dom Jean Claire. Al primo va il merito di aver fondato la scienza della semiologia
gregoriana, al secondo di aver fatto conoscere scientificamente l'evoluzione modale dei repertori
liturgici occidentali. I risultati che vengono conseguiti segnano una svolta decisiva nell'ambito
dell'interpretazione e della visione estetico-modale del repertorio gregoriano. Di pari passo,
conformemente ai dati acquisiti, anche le edizioni di canto vengono migliorate. Per tali ragioni
l'attuale momento, che possiamo datare dal 1950 in poi, può essere considerato il secondo periodo
della restaurazione gregoriana.
5
Cfr. J. CLAIRE, Centocinquanta anni di «restaurazione gregoriana»: Uomini, idee, libri, «Bollettino
dell'Associazione Internazionale Studi di Canto Gregoriano», XV, 1990, p. 19.
6
Durante i lavori della Commissione emergono nell'impostazione metodologica due opposti orientamenti, impersonati
uno da Dom Pothier, che con troppa facilità era propenso ad accogliere i vari accomodamenti già introdotti nelle
melodie gregoriane, l'altro da Dom Mocquereau, che ad ogni costo mirava ad una versione melodica scientificamente
— come era possibile a quel tempo — attendibile. Le due posizioni irrinunciabili impediscono alla Commissione di
arrivare a dei risultati concreti. Per queste difficoltà, la redazione dei libri liturgici di canto gregoriano viene affidata
alla diretta responsabilità di Dom Pothier. Così, nell'arco di tempo fra il 1905 e il 1912, vengono alla luce le principali
edizioni vaticane di canto gregoriano.
10
4. IL MOVIMENTO CECILIANO E IL MOTU PROPRIO DI PIO X
Per movimento ceciliano si intende quel movimento di opinione e di riforma operativa nel
campo della musica sacra che si sviluppò nel mondo occidentale lungo tutto l'Ottocento in reazione
al gusto dominante. Frutto, in gran parte, della mentalità storicizzante dell'idealismo romantico
(notevole importanza ebbe a questo proposito, lo scritto Über Reinheit der Tonkunst di A. Fr. J.
Thibaut, 1824), il movimento ceciliano vide la luce anzitutto lungo un asse italo-germanico, legato
alla rivalorizzazione della polifonia romana del Cinquecento, e simultaneamente si trovò in
consonanza con il mondo cattolico francese di stampo restauratore (filo-romano e anti-gallicano),
orientato soprattutto alla riscoperta del repertorio monodico gregoriano. Il movimento ceciliano
assunse come mitica e ideale patrona la romana Cecilia, una nobile romana, esaltata dalla
religiosità popolare per la sua verginità a cui, come tale, fu attribuito il carattere di «musica», cioè
colei che canta in modo angelico a Dio con la testimonianza della propria vita.
Alimentato dalle prime fasi dell’industrializzazione che contribuirono a generare un desiderio
di semplicità e spiritualità, il movimento ceciliano si inseriva nel quadro più ampio di una nuova
coscienza storica, che tendeva ad allontanarsi dal presente per ricostruire un passato fatto di
repertori intangibili, di opere musicologicamente venerate e musealmente ricollocate sull'altare
della cultura.
La situazione che ne determinò lo sviluppo fu caratterizzata dal prevalere, nelle chiese, di
forme e modi esecutivi tipici dello stile concertante e della musica “secolare”. Si delineò così
l'orientamento a cercare nell'antico la migliore incarnazione possibile del sacro, lontano dalla
profanità del moderno. La soluzione venne individuata nella monodia liturgica medievale (canto
gregoriano) e nell' aurea polifonia vocale del Cinquecento, con esclusione di ogni apparato
strumentale, eccettuato l'organo, «re degli strumenti». Sul piano più strettamente rituale, un'altra
critica toccava l'invadenza quantitativa del fatto musicale, che straripava dalle sue giuste
proporzioni e tendeva a stravolgere il senso stesso dell'azione liturgica.
In Germania, l'epicentro si collocò tra Monaco e Ratisbona: con Gaspar Ett (1788-1847) e Karl
Proske (1794-1861) furono poste le basi di una rivalutazione del canto a cappella, sia di tradizione
cinquecentesca sia di marca neo-rinascimentale. Franz Xavier Witt (1834-1888) fu l'esponente più
attivo e realizzò una serie di concrete iniziative, dal «catalogo» delle musiche «degne» di essere
eseguite in chiesa, alla fondazione dell'«Associazione S. Cecilia» (Allgemeiner deutscher
Cäcilianverein = ACV) nel 1868, che radunò tutti coloro che aderivano al movimento ceciliano in
terra germanica. A suo fianco, il musicologo Franz Xavier Haberl (1840-1910) diede inizio alla
Scuola di Musica Sacra di Ratisbona, destinata a esercitare un durevole influsso.
Nel 1870 viene pubblicato il Cäcilienkalender, il primo catalogo di musiche approvate per l'uso
liturgico. Si operò una netta distinzione tra musica strettamente liturgica per i principali servizi
divini, musica sacra per brevi servizi devozionali e concerti di musica religiosa. Il canto gregoriano
apriva la lista della musica approvata, seguito da polifonia a cappella, musica per organo e canti
comunitari.
Se sul piano delle nuove composizioni il movimento ceciliano produsse, nel complesso,
soltanto musica mediocre, non rimase però inascoltato da autori come Liszt, Bruckner, Rheinberger
e molti importanti autori dell’epoca.
11
Ma pur apparendo come innovatore, il movimento ceciliano in Italia si propose essenzialmente
come un movimento riformatore di stampo nostalgico, con preoccupazioni in prevalenza estetico-
religiose, ma dai presupposti rituali sostanzialmente immobilisti, anzi arcaizzanti. Nell'ultimo
quarto di secolo, l'Italia, specie nel Nord, sotto l'influsso dei promotori germanici diede infatti
l'avvio a un attivo movimento ceciliano locale, che mobilitò un numero imponente di musicisti e
canalizzò tentativi tanto generosi quanto troppo spesso modesti. Dai congressi (il primo a Venezia
nel 1874) alle scuole di musica sacra (la prima, nel 1875, a Milano), dagli studi (gli articoli di A. De
Santi su «Civiltà Cattolica», a partire dal 1887) alle associazioni (varie le vicende
dell'«Associazione Italiana S. Cecilia», fondata a Milano nel 1880), dalle riviste (assai numerose) ai
nuovi compositori (tra cui Tomadini, Tebaldini, Perosi, Bottazzo, con molti altri), dal rinnovamento
dell'organaria alla moltiplicazione delle scholae cantorum anche in ambiente rurale, il
Cecilianesimo italiano riuscì a modificare almeno in parte la prassi del canto di chiesa e a far
maturare un diverso ideale di musica liturgica.
Come primi esponenti del movimento ceciliano in Italia vanno considerati i musicisti romani
Fortunato Santini (1778-1861), infaticabile raccoglitore di documenti della polifonia d'epoca
palestriniana. Egli dedicò molto tempo a copiare manoscritti musicali, diventando un collezionista
di autografi, edizioni rare e copie di preziosi originali. Mendelssohn lo conobbe durante il suo
soggiorno romano nel 1830 ed ebbe a definirlo un «vero collezionista nel miglior senso del
termine». Giuseppe Baini (1775-1844), direttore della Cappella Sistina, mediocre compositore ma
entusiasta e attivo riscopritore di Palestrina: la sua biografia7 appassionata, ma colma di inesattezze,
svolse un ruolo capitale per la mitizzazione del personaggio. In essa leggiamo: “ … la musica
ecclesiastica si spogli una volta delle maniere teatrali, che tanto male se le confanno, e sull'esempio
della musica prenestina torni ad essere degna della casa dell'orazione ... Ella (questa musica) si è
voluta far lecito contro gli espressi divieti del Vaticano di adottare anche gli strumenti da fiato e
perfino quelli di pulsazione; bene le sta s'è caduta nel dispregio universale delle persone di buon
senso, e de' medesimi libertini. Non v'ha chi non detesti il suo teatrale apparato, le sue maniere da
scena”. Pietro Alfieri (1801-1863) insegnante di canto gregoriano al Collegio Inglese di Roma, curò
edizioni di opere dei massimi polifonisti italiani, in particolare di Palestrina; lo stesso Gaspare
Spontini (1774-1851) sostenne il movimento ceciliano, ma il suo intervento riformatore rimase
infecondo.
Funzionale al tipo di liturgia postridentina e centralizzata, che l'Ottocento lasciò intatta, e
motivato soprattutto da problemi di gusto e di genere, il movimento ceciliano rappresentò una
vigorosa, ma talora confusa presa di coscienza rispetto a uno degli aspetti importanti del celebrare
in musica, ma non andò oltre un rifiuto degli «abusi», in nome di una temperie più «sacra» e più
«devota».
L'ambiente delle cappelle musicali romane fu il bersaglio preferito del movimento ceciliano
italiano, e rimase a lungo refrattario a qualsiasi evoluzione, nonostante i ripetuti tentativi
dell'autorità ecclesiastica locale.
Un terreno di scontro, e insieme di contatto, con il mondo francese fu la querelle a proposito
dell'Editio Medicea, che il gruppo di Ratisbona sostenne a spada tratta, ma che finì per essere
sconfessata dalle stesse autorità vaticane a favore della nuova edizione critica dei Solesmensi.
7
G. BAINI, Memorie storico-critiche della vita e delle opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina… detto Principe della
Musica, Roma, 1828.
12
scrittura musicale corretta e «conveniente», di una «dignità» che separasse la musica sacra da quella
operistica, insomma di una «bellezza» idealizzata secondo i canoni di un accademismo, spesso di
maniera. Unita ai rinnovati miti e ai santi protettori (gregoriano, polifonia, organo; Cecilia,
Gregorio, Palestrina), a cui il movimento ceciliano si riferì, questa sacralità musicale iniziò un
distacco del repertorio chiesastico dal mondo compositivo contemporaneo, venendo cosi a
rafforzare l'identità culturale di una Chiesa in posizione difensiva nei confronti del mondo laico.
Il Motu proprio «Fra le sollecitudini» (1903) del papa Pio X rappresentò in qualche misura il
coronamento delle linee di azione proposte dai diversi riformatori e impresse ai modelli culturali
ceciliani il sigillo dell'autorità, ma rappresentò pure la riforma definitiva del canto gregoriano.
Dalla pubblicazione dei documenti inediti, pubblicati da «La Civiltà Cattolica»8 risulta come
questa riforma sia avvenuta in Italia grazie a tanti che vi hanno creduto e collaborato, tanto italiani
che stranieri, ciascuno nel proprio campo e nelle sue possibilità, ma soprattutto per merito di due
grandi personalità: Pio X e Padre Angelo De Santi S. J.
Il Padre De Santi, Padre Gesuita (1847-1922), partecipò a molti congressi del Cäcilien - verein
in Germania ed in Austria, nel 1883 conobbe Guerrino Amelli, l'ideatore e fondatore
dell’Associazione Italiana di S. Cecilia e alla fine del 1887, per volere di Leone XIII, fu chiamato a
Roma per una rigorosa campagna di riforma musicale da attuarsi mediante l'opera di divulgazione
de «La Civiltà Cattolica». La sua conversione al gregoriano avvenne allorché s'incontrò con D.
Mocquereau, nella quaresima del 1888, e fu allora che De Santi disse: «È evidente che questo canto
sarà un giorno quello della Chiesa»9. Nel 1909 succedette al P. Amelli come presidente
dell'Associazione Italiana di S. Cecilia, carica che tenne sino alla sua morte, dirigendo in pari tempo
anche il «Bollettino Ceciliano». E’ inoltre soprattutto all'opera del P. De Santi che si deve la
fondazione dell'attuale Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma.
Il cardinal Giuseppe Sarto, eletto papa con il nome di Pio X il 4 agosto del 1903 in seguito alla
morte di papa Leone XIII, prese immediatamente a cuore le sorti della musica sacra promulgando,
in data 22 novembre 1903, il Motu Proprio in concomitanza con la festa di Santa Cecilia a Roma.
Tale «Istruzione» a tutti i vescovi pone le sue basi su scelte operate diversi anni prima dall’ancora
Cardinale Sarto, patriarca di Venezia.
In una conferenza che P. De Santi tenne nel 1910 a Venezia10 riguardo alla musica sacra, infatti
si afferma: “[…]. Il motu proprio nella parte sua sostanziale e dispositiva, che ha per titolo
Istruzione sulla musica sacra, altro non è che il voto che il Card. Sarto, a richiesta della S.
Congregazione dei Riti, inviava a Roma. Fu pubblicato allora dalla Congregazione il Regolamento
dell'agosto 1894, e il voto del Card. Sarto messo da parte perché si giudicavano i tempi non ancora
maturi. Pio X dieci anni dopo giudicò maturi i tempi”11.
8
P. FRANCESCO - M. BAUDUCCO S. J., P. Angelo De Santi S. J. e la fondazione della Scuola Superiore di Musica
Sacra in Roma (Documenti inediti), in «La Civiltà Cattolica », 1961, pp. 583 – 594.
9
E. MONETA - CAGLIO, Dom André Moquereau e la restaurazione del Canto Gregoriano, in «Musica Sacra»,
Milano, 1960, p. 106.
10
F. ROMITA, La preformazione del Motu Proprio di S. Pio XX sulla musica sacra, in «La Civiltà Cattolica», Roma
1961.
11
Da ultimi documenti si sa che nel 1893 la Sacra Congregazione dei Riti inviò a tutti i Vescovi un questionario sulla
eventuale riforma della musica sacra in Italia, affinché questi esprimessero il loro parere, ed in questa circostanza
l'allora Cardinale Sarto scrisse al P. De Santi in data 9 luglio 1893 chiedendogli di stendere per lui la relazione,
desiderando uniformarsi al giudizio già espresso da De Santi nella rivista Civiltà Cattolica. Perciò quello che viene
considerato dallo stesso De Santi il primo documento e fonte del Motu Proprio di S. Pio X è stato il Voto che il Card.
Sarto inviò alla Congregazione dei Riti nel 1893, col titolo autografo: Studio / del Cardinal Giuseppe Sarto / Patriarca
di Venezia / sulla Musica Sacra Liturgica / che in ordine / alla riv. Circolare 16 giugno 1893 / umilmente presenta / al
Santo Padre / ed alla Sacra Congregazione dei Riti, scritto dal P. De Santi. Se dunque Pio X fu la legittima autorità che
fece propri i documenti, approvandoli e addossandosene la responsabilità, P. Angelo De Santi fu lo studioso ed il
tecnico, tanto del Voto del 1893 quanto del Motu Proprio del 1903.
13
La formazione musicale di Papa Sarto non fu, almeno all'inizio, diretta al canto gregoriano,
bensì alla polifonia. L'interesse per il canto gregoriano di Pio X (1835-1914) crebbe con l'aumentare
della sua simpatia per l'opera di Solesmes, nata soprattutto durante le conversazioni con Lorenzo
Perosi, Maestro della Cappella Marciana di Venezia, che presentò diverse sue composizioni al
cardinale Sarto, primi esempi di una “musica liturgica rinnovata”. Già nel 1895, infatti, il cardinale
Sarto, fu promotore per un ritorno al canto gregoriano e nel programma musicale per le funzioni
all'interno della Basilica di San Marco inserì una propria composizione. Era una pastorale scritta
anche con l'aiuto del giovane Perosi, costituita dal “solo canto gregoriano, sfrattando le eclatanti
musiche rigirate, plurivocali e strumentali, accompagnate dall'organo e da un'assordante batteria di
clarinetti, archi, trombe, corni, timpani, e tant'altro [ ... ]”.12
Di grande rilievo sono le indicazioni che troviamo nel Motu Proprio «Tra le sollecitudini» a
proposito del canto gregoriano, e grande influenza avranno sulla musica sacra dell’epoca.
Dopo avere elencato, quali principi generali, i caratteri che debbono essere propri della musica
sacra, ossia la santità e la bontà delle forme, l’universalità e l’essere arte vera, nel II Capitolo,
Generi di musica sacra, troviamo:
3. Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza
il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto ch’essa ha ereditato dagli antichi padri,
che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente
propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più
recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza.
Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della
musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una
composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e
nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da
quel supremo modello si riconosce difforme.
L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del
culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua
solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questo soltanto.
In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli
prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi.
Anche la polifonia è considerata il genere a cui ispirarsi per rinnovare l’arte sacra, e così, al
paragrafo successivo:
4. Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia,
specialmente della Scuola Romana, la quale nel secolo XVI ottenne il massimo della sua
perfezione per opera di Pier Luigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito
composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La classica polifonia assai bene si
accosta al supremo modello di ogni musica sacra che è il canto gregoriano, e per questa
ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni più solenni della
Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche essa restituirsi
largamente nelle funzioni ecclesiastiche, specialmente nelle più insigni basiliche, nelle chiese
12
Da appunti perosiani rinvenuti in casa-Onofri. Tratto da A. AMADORI, Lorenzo Perosi. Documenti e Inediti,
Akademos, Vigo Cursi – Pisa, 1999.
14
cattedrali, in quelle dei seminari e degli altri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non
sogliono fare difetto.
Importante comunque sottolineare quale fosse, a fronte di tali indicazioni, il vero intento di
riforma della musica sacra, atteggiamento che sarà proprio anche della musica extra-liturgica e
profana dell’epoca da noi presa in esame, ed in particolare, dei decenni tra la fine del XIX e l’inizio
del XX secolo, ben espressa dallo stesso Angelo De Santi: “Riformare la musica sacra, non vuol
dire sic et simpliciter ripristinare la musica sacra del passato, costringendo i compositori di oggi, di
copiare i maestri del passato. Bisogna creare nuove formule musicali, dando nuova vita a formule
antiche. Creare da un lato, e resuscitare dall'altro [ ... ].”13
13
G. TEBALDINI, La musica sacra nella Storia e nella Liturgia, Macerata, 1904, p. 39.
15
5. LA PURA CITAZIONE LETTERALE DELLA MELODIA GREGORIANA
Gli autori che inseriscono solo citazioni letterali di melodie gregoriane nelle loro composizioni
lo fanno sotto la spinta dei più diversi stimoli creativi. Per ognuno di essi infatti la melodia prescelta
deve assolvere un fine che può essere letterario, drammatico, evocativo. A tale scopo sfruttano
perciò le peculiarità proprie di ognuno di questi canti, non ultimo, ciò che essi rappresentano
nell’immaginario collettivo.
Potremo osservare che si rivelerà di grande importanza, sì la melodia gregoriana, ma anche e
soprattutto il testo che essa sottintende. Il gregoriano è canto che esalta la parola nel suo significato
più profondo, e questo è forse l’aspetto che in queste composizioni viene maggiormente messo in
risalto. Esso non influenza però lo stile del compositore.
Hector Berlioz fu un compositore discusso e mai accettato appieno dai suoi contemporanei e
mostra nella sua musica quei caratteri, quali l’amore per il macabro, per il grottesco, per il gesto
magniloquente, gli atteggiamenti esibizionistici, il gusto della deformazione, più tipici del
romanticismo letterario che non propriamente di quello musicale. In nessun altro compositore
dell’epoca romantica si ritrovano infatti tali caratteri (ad eccezione di Liszt, che appunto perciò va
riguardato come un fenomeno eccentrico al Romanticismo) mentre si ritrovano nella «Jeune
France»14 e in vari aspetti del Romanticismo letterario germanico. Se alla radice della spinta
compositiva dei compositori romantici quali Beethoven, Weber, Schubert, Schumann, Chopin o gli
operisti italiani, c’è l’energia di una invenzione melodica il cui slancio lirico governa la stessa
struttura del pezzo raggiungendo sempre una catarsi finale che trionfa su ogni dualismo, salvo rare
eccezioni, in Berlioz l’invenzione melodica ignora la spontaneità e le idee tematiche sono
eminentemente «fabbricate» e accolte quasi come citazioni, come dati, come oggetti.
L’uso del gregoriano, nella sua poetica, si può ascrivere al suo rifiuto e distacco dalla realtà
contemporanea, ed al suo rivolgersi ad una classicità vagheggiata e rimpianta, il ritornare a Virgilio,
alla preistoria di ogni delusione, come simbolo di un’evasione assoluta, ad un mondo mitico,
rievocato dagli spazi sconfinati della sua orchestra onnipotente.
Egli inserisce nell’ultimo movimento della Symphonie fantastique la melodia del Dies irae, una
sequenza per la Messa dei Defunti. Vedremo dettagliatamente quale sia il testo di questa
famosissima sequenza poiché ritengo che soprattutto ad esso Berlioz abbia fatto riferimento e che
rappresenti il motivo della scelta di questo canto gregoriano per la sua sinfonia.
Se il romanticismo ignorò la «musica a programma», credendo nelle dirette capacità espressive
della musica e assumendo all’occorrenza titoli e didascalie come non più che metafore poetiche
(come Schumann che usava trovarli dopo aver scritto la musica), Berlioz al contrario fa un costante
riferimento a un testo letterario preciso mostrando come per lui la musica in sé non avesse senso, e
sentisse la necessità di un programma che avviasse l’ascoltatore a un punto di riferimento esterno
che la sua musica si impegnava ad esaltare nella sua strenua tendenza al gesto teatrale. Anche a
questo si ascrive dunque l’importanza del testo del canto gregoriano.
Altro aspetto peculiare della sua opera è il dualismo che si osserva tra la composizione in senso
stretto e la veste orchestrale. L’orchestrazione di Berlioz non soltanto introduce un’infinità di
14
Con jeunes-France vengono definiti i giovani romantici del “piccolo Cenacolo” del quale hanno fatto parte Gérard
de Nerval, Pétrus Borel e Théophile Gautier che si caratterizzavano per gli eccessi, la smania di eccentricità, la
progressiva alienazione in stereotipi comportamentali.
16
procedimenti nuovi e di lungo avvenire, ma mostra di avere anche una funzione diversa da quella
tradizionale. Alcuni passi, nella riduzione per pianoforte, possono apparire quasi senza senso (il che
spiega i 4 insuccessi consecutivi al «Prix de Rome» e il fatto che Schumann, recensendo la
Fantastique nella trascrizione per pianoforte, trovasse pagine incomprensibili) poiché il timbro e il
gioco stesso dei volumi fonici in Berlioz, assai spesso non sono più semplici modi di sottolineare il
senso di ciò che è già nella composizione propriamente detta, ma hanno un valore per se stante,
sono essenzialmente un mezzo di trascendere la materia musicale.
Osservando dunque quale sia la veste orchestrale assegnata alla melodia gregoriana, ne
comprenderemo ancor meglio il ruolo ad essa assegnata all’interno della sua composizione.
Osserviamo dunque in dettaglio il Dies Irae. Questa sequenza15 compare nei libri alla fine del
sec. XII ed è attribuita a fr. Tommaso da Celano ( + 1250). Argomento centrale del canto è quello
della fine del mondo seguita dal giudizio finale di Cristo, inteso come momento conclusivo e
rivelatore della vicenda dell’uomo e dell’universo. L’immagine grandiosa e tremenda di quel giorno
è sottolineata dalla cadenza ritmica, alternata agli accenti di preghiera che conducono al conclusivo
appello del peccatore a Dio e alla sua misericordia.
Essa è formata da venti strofe, che procedono parallelamente a due a due fino alla sedicesima;
le altre sono disposte in modo irregolare. Poiché la stessa melodia può appartenere a versetti
diversi, verrà mano a mano riportato il testo, con traduzione a fronte, dei diversi versetti
corrispondenti agli elementi tematici inseriti da Berlioz nella sua composizione, per meglio
immaginare a quali di essi egli possa essersi ispirato.
Questa la sequenza completa come la riporta il Liber Usualis, p. 1810:
15
La sequenza è una nuova forma liturgico-musicale che si è sviluppò all'inizio del sec. IX dai lunghi e difficili
melismi dello iubilus alleluiatico detta appunto sequenza Sono state raccolte cinquemila sequenze da tutti i manoscritti.
Nei messali del tardo medioevo si può dire che ogni festa aveva la sua sequenza. Bisogna però dire che nella liturgia la
sequenza non è mai entrata ufficialmente. Solo con il Concilio di Trento furono ammesse le seguenti quattro:
Victimae paschali laudes (per la Pasqua), attribuita a Wipo di Borgogna (990-1050), cappellano alla Corte di Corrado
II, sul tema musicale di All. Christus resurgens (GT 226). In origine aveva nove strofe; in seguito fu tolta l'ottava strofa
(Credendum est magis soli Mariae veraci quam Iudaeorum turbae fallaci), cosicché si è venuto a determinare lo
schema con la prima strofa che fa da preludio e l'ultima da conclusione. Le altre strofe seguono a due a due, appaiate in
linea orizzontale (2-3) e verticale (4-6 e 5-7).
Veni Sancte Spiritus (per la Pentecoste) è in versi trocaici, secondo la ritmica medioevale o romanzo (= neolatina), sul
tema musicale di All. Veni Sancte Spiritus (GT 253). Viene attribuita a vari autori; probabilmente l'autore vero sarebbe
lo stesso Stefano Langton (1165-1228), arcivescovo di Canterbury. È composta di dieci strofe, che procedono
orizzontalmente a due a due.
Lauda Sion (per il Corpus Domini) è attribuita a s. Tommaso d'Aquino (1225- 1274). È formata da ventiquattro strofe,
che procedono più o meno a due a due. A questa sequenza sono stati applicati il metro e la melodia della sequenza
Laudes crucis attollamus attribuita a Adamo di San Vittore. Il tema musicale è preso dall'All. Dulce lignum (GT 598).
Dies irae (per la Messa dei Defunti) compare nei libri alla fine del sec. XII. E’ attribuita a fr. Tommaso da Celano ( +
1250). La sua melodia non è ricavata da alcun tema musicale.
Una quinta sequenza, Stabat Mater (per la festa dei Dolori di Maria), inizialmente componimento senza una
destinazione liturgica, comparve dapprima solo nei libri di preghiere private, quindi dal XV secolo nella Messa Mariana
sopra citata. Eliminata dal Concilio di Trento, venne reinserita nella liturgia da Benedetto XIII nel 1727. Fu sempre
ritenuta di Jacopone da Todi ( + 1306) mentre altri parlano di s. Bonaventura. La melodia, in II modo, risale al secolo
XIII. Comprende venti strofe, in ritmo trocaico, che procedono melodicamente a due a due. La sua melodia non è tolta
da alcun tema musicale.
Tali composizioni, che abbracciano un periodo di tempo che va dal sec. IX fino al sec. XIII, vengono definite post-
classiche, perché in esse è cambiata la tecnica compositiva rispetto a quelle precedenti del fondo primitivo. I canti si
presentano melodicamente più estesi, con procedimenti compositivi contrassegnati da ampi intervalli, con giochi e rime
melodiche, nei quali si avverte più palesemente la presenza del tonalismo.
17
18
La Symphonie fantastique fu scritta dopo una cocente delusione amorosa ed è concepita come
una composizione a programma: “Episodi dalla vita di un artista, Sinfonia Fantastica in cinque
parti”, ma nelle revisioni successive Berlioz invertì l’ordine del titolo dando maggior enfasi
all’aspetto del fantastico. Questo il testo a cui si ispira: un giovane musicista malaticcio e di natura
sensibile, con una immaginazione vivida si è avvelenato con dell’oppio in un parossismo di
disperazione d’amore. La dose di narcotico che lui assume non è però sufficiente a provocare la
morte ma lo getta in un lungo sonno accompagnato da forti allucinazioni. In questa condizione le
sue sensazioni, i suoi sentimenti e ricordi trovano espressione nella sua mente malata nella forma di
immagini musicali. Anche la donna amata prende nella sua mente la forma di una melodia, come
un'idea fissa che continuamente ritorna e che lui sente ovunque. Nell’ultimo movimento, l’artista,
ancora sotto l’effetto dell’oppio si vede attorniato da fantasmi, stregoni, mostri, tutti radunati per il
suo funerale.
Troviamo qui un ritmo di danza, maligna, triviale e grottesca al quale si unisce il tema del
primo tempo, l’idée fixe che rappresenta il suo amore per la donna irraggiungibile, eseguito dal
clarinetto in do:
Quinta battuta di 62
Ed ecco che, al suono di una campana funebre, si ode il canto del Dies irae.
La campana produce la tonica (Do) e la dominante (Sol), uniche note con cui armonizzerà
inizialmente il canto gregoriano che appare proposto all’unisono da 4 fagotti e da 2 tube, con un
effetto timbrico stupefacente, stentoreo, come se provenisse dalla profondità stessa degli inferi:
Ogni strofa della sequenza è formata da tre emistichi, di cui Berlioz presenta inizialmente solo i
primi due, possiamo immaginare con l’intento di proporre questo testo:
Corni e tromboni, sempre accompagnati dalle campane, ripresentano la melodia di questi due
emistichi in valori dimezzati, armonizzandola. Viene quindi nuovamente ripetuta dai legni (senza
fagotti) e dai violini e viole pizzicati, in un ritmo danzante di 6/8.
19
20
Al n. 67 si presenta quindi la melodia di un solo emistichio, che abbiamo chiameremo “d”,
trattata come il frammento melodico precedente, con la sola aggiunta dei pizzicati dei violoncelli e
contrabbassi, melodia a cui possono corrispondere i seguenti testi:
21
Tuba mirum spargens sonum … La tromba che sparge il suono straordinario … d
Quindi, al n. 68, prima della danza del Sabbath, abbiamo la presentazioni di altri due emistichi
che nella versione originale gregoriana non sono messi di seguito: il primo corrisponde al primo
frammento melodico, che però ritroviamo anche in diverse altre strofe, e quello che segue lo
troviamo invece a conclusione della terz’ultima e penultima strofa:
… quod sum causa tuae viae: … … che sono la causa della tua venuta, … a
Preces meae non sunt dignae: … Le mie preghiere non sono degne, … a
Da un punto di vista testuale, non è illogico pensare che gli emistichi al n. 67 e 68 possano
corrispondere al testo:
Al n. 77 abbiamo quindi il riapparire del tema gregoriano con i due emistichi iniziali,
presentato da corni e violoncelli, ma che va spegnendosi e che si interrompe per dare spazio al
crescendo che culminerà nel fortissimo in cui si uniscono Dies irae e danza sabbatica. Qui Berlioz
unisce il frammento melodico che abbiamo definito “a” con un frammento che chiameremo “e”:
22
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26
Testualmente è probabile che possa essersi voluto riferire ai due emistichi conclusivi che fanno
parte della 16° strofa:
Sebbene non si possa escludere che la scelta dei diversi frammenti melodici sia stata dettata al
compositore esclusivamente da ragioni musicali e che il tema del Dies irae sia stato usato
unicamente a mo’ di ideé fixe sfruttandone solo e unicamente le qualità evocative, alla luce di ciò
che abbiamo osservato essere le caratteristiche peculiari della poetica di Berlioz, è molto probabile
che nella sua scelta abbiano avuto pari peso entrambi gli aspetti, quello melodico e quello testuale,
inscindibili nella Symphonie, come sappiamo esserlo nel canto gregoriano.
E’ questo doppio livello di comprensione che permette ad ognuna di queste citazioni di
acquistare una forza evocativa ancora maggiore all’interno del percorso musicale e poetico della
Sinfonia.
27
5.2 Il trionfo della morte del Camposanto di Pisa ispira Totentanz di Franz Liszt
Stimoli molto diversi hanno spinto Franz Liszt ad avvalersi della medesima melodia gregoriana
utilizzata da Hector Berlioz, la sequenza Dies irae, quale tema del Totentanz - Paraphrase über
Dies irae per pianoforte e orchestra. L'idea di scrivere delle variazioni sulla sequenza per la Messa
dei Defunti fu infatti suggerita nel 1838 a Liszt dall'affresco allora attribuito all'Orcagna16, ma in
realtà di Buonamico Buffalmacco17, Il trionfo della morte18, che si trova nel Camposanto di Pisa19.
Nel Totentanz Liszt utilizzò anche una composizione per pianoforte e orchestra, De Profundis.
Psaume Instrumental, abbozzata tra il 1834 e il 1835 e mai condotta a termine. Nel 1849 Liszt
realizzò il progetto del 1838 scrivendo, completa, la prima versione del Totentanz, che nel 1918
venne scoperta da Ferruccio Busoni, da lui eseguita a Zurigo nel 1919 e pubblicata nello stesso
anno. Nella versione definitiva le parti ricavate dal De profundis vennero eliminate.
Come scrive Piero Rattalino20, non è improbabile che, almeno all'inizio, il seguito delle
variazioni venisse organizzato in relazione con l'affresco del Camposanto, e non è improbabile che
Liszt intendesse inserire nell'opera implicazioni ideologiche; ma non è nota alcuna interpretazione
programmatica del Totentanz, né di allievi o amici di Liszt né di musicologi.
16
Andrea di Cione detto l'Orcagna (attivo tra il 1343 e il 1368). Svolse la sua attività prevalentemente a Firenze. Fu
attivo come architetto, scultore e pittore.
17
Buonamico di Martino detto Buffalmacco (Firenze, ... – 1340) è stato un pittore italiano fiorentino, attivo nella prima
metà del XIV secolo, rappresentante di primo piano della pittura gotica in Toscana.
18
L'affresco di Buonamico Buffalmacco raffigurante il Trionfo della Morte è il primo di una serie di tre grandi scene
per il Camposanto di Pisa e fu eseguito nel 1336-41, su commessa dei frati domenicani. Staccato dalla parete e riportato
su tela (misura: metri 5,6 x 15,0), l'opera è oggi conservata presso lo stesso Camposanto Monumentale nel cosiddetto
"salone degli affreschi", appositamente attrezzato per la conservazione al chiuso dell'importante ciclo pittorico. Il tema
del Trionfo della Morte, legato alla credenza della fine del mondo, assume tra le mura di un cimitero, un valore
fortemente suggestivo. La scena è frammentata in più scene dominate da diversi sentimenti: l'orrido, il grottesco, il
comico, il senso di serenità. A destra del dipinto si vede il "Giorno dell'Ira" ormai iniziato, e con esso la battaglia tra
angeli soccorrevoli e implacabili demoni, determinati a strappare le anime dai corpi dei defunti. È un formidabile
"Memento mori".
19
Il Camposanto Monumentale di Pisa è il più giovane dei monumenti costruiti in Piazza dei Miracoli a Pisa. La
costruzione del Camposanto Monumentale di Piazza dei Miracoli fu iniziata nel 1277 da Giovanni di Simone, come
indica un'iscrizione latina a lato del portale destro ed intorno al XIV secolo vi fu iniziato un ciclo pittorico purtroppo
semidistrutto durante la seconda guerra mondiale. Gli affreschi del Camposanto Monumentale di Pisa occupavano tutta
la superficie delle pareti interne dell'edificio.
20
P. RATTALINO, Il concerto per pianoforte e orchestra da Haydn a Gershwin, Ricordi, Milano-Giunti, Firenze,
1988, pp. 228-230.
28
Liszt utilizza come tema l’intera prima strofa:
Dopo un introduzione in cui viene, si potrebbe dire, proclamato l’inizio del Dies Irae, di cui
vengono presentati i primi due emistichi, la melodia gregoriana è esposta dall'orchestra (oboi,
clarinetti, fagotti e archi, poi fagotti, trombone basso, tuba, violoncelli e contrabbassi, con l'aggiunta
alla fine di oboi, violini e viole). Il cambiamento della strumentazione mette in evidenza la struttura
"bivalve" che egli attribuisce al tema gregoriano (i primi due emistichi, e il terzo che qui viene
ripetuto 3 volte), struttura su cui giocherà nel corso della composizione, basandosi a volta a volta
sull'intero e su una delle due parti.
Interessante notare il metro che egli attribuisce alla melodia:
Egli attribuisce una minima alle sillabe cui corrisponde una sola nota, un punctum nella
scrittura gregoriana, e trasforma in semiminime quelle note che appartengono a pes o clivis, ove
cioè alle sillabe corrispondono due suoni. Inserisce quindi una semiminima col punto sulla sillaba
accentata Da- di David, trasformando in croma la prima nota del pes che troviamo sulla sillaba -vid.
Si può definire una sorta di interpretazione mensurale della scrittura gregoriana, quella contro cui si
batteranno i paleografi di Solesmes nel cercare di recuperare il canto gregoriano nella sua più
probabile forma originaria.
29
1'affinità e la novità si bilanciano in modo miracoloso e la struttura acquista insieme una
coerenza ed una varietà che fanno del Totentanz una delle maggiori invenzioni formali della musica
romantica.
Dopo l’ultima cadenza del pianoforte abbiamo l’Allegro animato finale, che inizia con la
seconda parte del tema gregoriano (il terzo emistichio),
per poi presentare per l’ultima volta, in fortissimo, la prima parte del tema, affidata agli
strumenti gravi: fagotti, III trombone e basso tuba, violoncelli e contrabbassi.
Il Totentanz non piacque alla critica e piacque poco al pubblico dell'Ottocento e negli ultimi
decenni del secolo fu eseguito quasi dai soli Nicolai Rubinstein e Alexandr Siloti, allievo di Liszt.
Oggi le esecuzioni non sono infrequenti, ma in genere non si è ancora riconosciuta in tutta la sua
portata la grandezza di questo capolavoro che nel panorama della musica per pianoforte e orchestra
ha ben pochi paragoni.
Come abbiamo potuto osservare, in questo brano il canto gregoriano ha rappresentato per Liszt
uno spunto fondamentale e la sua musica mostra come ciò che di esso lo ha attratto sia il fascino
arcano e impressionante che questa antica melodia porta con sé.
30
5.3 La più antica innodia libera nel Te Deum di Giuseppe Verdi
Abbiamo molte fonti che ci riferiscono dell’intento di Giuseppe Verdi di scrivere un Te Deum.
Si tratta soprattutto di lettere che il compositore di Busseto scrisse ad alcuni musicisti chiedendo
informazioni e scambiando con loro opinioni al riguardo. Da queste lettere e dalle risposte che egli
ricevette riusciamo a farci una chiara idea di quali fossero stati i suoi fini artistici, l’interpretazione
che egli dava al testo dell’inno, l’animo con cui lo scrisse.
Rivela ironia, senso dell’umorismo e una continua ricerca di nuovi orizzonti, la lettera che
Verdi scrisse a Edoardo Mascheroni, da Genova, il 21 aprile 1895 riguardo a questo suo progetto:
“[…] Voi dite d’aver sorpreso sul mio scrittoio qualche foglio di partitura!... Forse è vero!
Volevo fare un Te Deum!! Un rendimento di grazie non per me, ma per il pubblico per essere
liberato dopo tant’anni di sentire altre opere mie!! […] P.S. Dunque Palestrina! Meraviglioso! Se si
pensa all’epoca, alla scarsezza melodica ed armonica di quei tempi, alla ristrettezza delle
modulazioni, Palestrina sembra un miracolo non mai eguagliato in nissun tempo!...”.21
Apriamo una breve parentesi per illustrare le caratteristiche salienti del canto gregoriano del Te
Deum. Il Te Deum, assieme al Gloria in excelsis, rappresenta una delle più antiche forme di canto
liturgico rimaste nella liturgia, l’innodia libera, accanto alla salmodia, ai canti delle preghiere e le
monizioni del celebrante. In queste melodie l’elemento comune fondamentale è costituito dal tenore
o corda di recitazione, su cui viene eseguito gran parte del testo. Molto spesso il termine inno era
sinonimo di salmo, ma a volte poteva significare una composizione non biblica, che imitava, da un
punto di vista ritmico, l’andamento libero dei salmi.
Da un punto di vista modale presenta una modalità di tipo monocordale su scala pentatonica il
cui grado melodico per la recitazione è costituito dalla corda madre Re ed è assente la corda mobile
Si.
Questa la melodia del Tono solenne, quello che verrà utilizzato da Giuseppe Verdi, di cui viene
ora riportata la parte iniziale e trinitaria:
21
G. VERDI, Lettere 1835-1900, Oscar Classici Mondadori, Milano, 2000, p. 389.
31
Per comporre il suo Te Deum Giuseppe Verdi si rivolgerà a diversi musicisti per cercare
esempi e materiale con cui potersi confrontare.
Uno di questi è Lorenzo Perosi, come possiamo leggere su alcuni appunti perosiani rinvenuti a
casa Onofri: “Nei ricordi di Perosi ritornava spesso anche il nome dell’illustre Giuseppe Verdi, e
quando il vecchio e celeberrimo Maestro ebbe bisogno di un tema ‘gregoriano’, da inserire nel suo
famoso Te Deum, la grandiosa composizione che poi scrisse nel 1896, si rivolse con una garbata
lettera indirizzata «Al Signor Lorenzo Perosi», per avere lumi. Perosi, ricevuta la richiesta, si mise
subito al lavoro, e scrisse un tema musicale gregoriano che poi inviò al ‘Grande vecchio’,
accompagnato da un bigliettino di saluti, ricco di elogi nei confronti di Giuseppe Verdi.22”
22
A. AMADORI, Lorenzo Perosi. Documenti e Inediti, Akademos, Vigo Cursi – Pisa, 1999, p. 159-160.
32
Da questo appunto risulta dunque che Perosi abbia fornito a Verdi, non tanto il tema originale
gregoriano, quanto un tema, potremmo dire “gregorianeggiante”, come Perosi era maestro nel saper
ricreare.
Altro importante interlocutore fu Giovanni Tebaldini23, con cui Giuseppe Verdi intrattenne un
consistente carteggio. Già nel 1894, tramite l’Editore Giulio Ricordi, Verdi aveva chiesto a
Tebaldini spunti musicali originali quando cercava l’ispirazione per delle Danze da aggiungere alla
rappresentazione di Otello all’Opéra di Parigi. Il loro carteggio inizia però in forma diretta con la
lettera del 18 Febbraio 1896, dopo che Tebaldni gli aveva inviato un libro da lui pubblicato in cui
comparivano, tra l’altro, brani di Francesco Antonio Vallotti24:
“[…] Ella parla a lungo del P. Vallotti di cui io sono ammiratore... anzi riconoscente per alcuni
studi fatti su suoi temi nella mia gioventù; ed a p. 45 vedo citato un Te Deum del P. Vallotti!
È stata una sorpresa per me che cerco da tanto tempo questa Cantica musicata, senza trovarla
né in Palestrina, né in altri suoi contemporanei! Di altri Te Deum scritti per occasione alla fine del
secolo passato, od al principio di questo, mi importa poco: ma mi piacerebbe assai conoscere questo
del Vallotti... qualunque ne sia il valore. […].”25
Lo stesso giorno, scriveva a Boito:
“Eureka!
Ho trovato un Te Deum! Niente di meno!… Autore il P. Vallotti, che io, come sapete, stimo
moltissimo.
Ho scritto a Tebaldini perché ne faccia estrarre per me una copia.
Vi dico tutto questo perché rammentiate che il giorno 14 di Febbrajo 189626 avete visto un mio
Te Deum, nel caso mi accusassero… Ma nò, nò, non vi è pericolo, perché io non lo pubblicherò.
[…].”27
Tebaldini, dato il suo interesse per il Te Deum, gliene invierà di diversi autori, e Verdi nella sua
risposta del 1 marzo 1896, esprimerà quella che secondo la sua poetica, deve essere
l’interpretazione di questo inno, non ritrovandola nei brani ricevuti:
“[…] Io conosco alcuni Te Deum antichi, ne ho sentiti altri pochi moderni e mai sono stato
convinto dell’interpretazione (a parte il valore musicale) data a quella Cantica.
Questa viene ordinariamente cantata nelle feste grandi solenni, chiassose o per una vittoria, o
per un’incoronazione etc.
Il principio vi si presta, ché Cielo e Terra esultano… “Sanctus sanctus Deus Sabaoth” ma
verso la metà cambia colore ed espressione…
Tu ad liberandum… è il Cristo che nasce dalla Vergine, ed apre all’Umanità Regnum
coelorum… L’umanità crede al Judex venturus… lo invoca. Salvum fac… e finisce con una
preghiera… Dignare Domine die isto… commovente, cupa, triste fino al terrore!
23
Giovanni Tebaldini nasce a Brescia il 7 settembre 1864. Giovane prodigio, suona in chiesa ancor prima di seguire i
corsi di pianoforte e violino presso il locale Istituto Musicale “Venturi”. Svolge una intensa attività come direttore di
coro, organista, pianista, direttore d’orchestra, giornalista. Sarà grazie all’incontro con don Guerrino Amelli -
l’iniziatore della riforma della musica sacra in Italia - che verrà introdotto agli studi di paleografia musicale, canto
gregoriano e polifonia vocale. Dirige il Conservatorio di Parma dal 1897 al 1902, dove ha come allievo, tra gli altri,
Ildebrando Pizzetti.
Molta sua produzione compositiva è di genere sacro. Insigne studioso di paleografia musicale, si è dedicato all’attività
di trascrizione e riduzione in partitura moderna di oltre 140 composizioni italiane e straniere. Tebaldini, per la
multiforme e coerente attività, la cultura musicale e interdisciplinare, occupa un posto di rilievo nella moderna
musicologia europea. È rimasto attivo fino alla morte, avvenuta a San Benedetto del Tronto l’11 maggio 1952.
24
Vallotti Francesco Antonio (Vercelli, 1697 – Padova, 1780), minore conventuale di San Francesco, organista,
compositore e teorico. Fu maestro di cappella della Basilica di Sant’Antonio a Padova per oltre cinquant’anni. Ebbe
rapporti con Padre Martini e con Tartini che lo considerava il miglior organista dell’epoca.
25
In Idealità convergenti - Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini di Anna Maria Novelli e Luciano Marucci, D’Auria
Editrice, Ascoli Piceno, 2001.
26
G. VERDI, Lettere 1835-1900, Oscar Classici Mondadori, Milano, 2000.
27
L’Archivio musicale della Cappella Lauretana e in Lettere di Arrigo Boito raccolte e annotate da Raffaello de Rensis,
Società editoriale di Novissima, Roma, 1932.
33
Tutto questo ha nulla a che fare colle vittorie e colle invocazioni; e perciò desideravo conoscere
se Vallotti, che viveva in epoca in cui poteva disporre d’un’orchestra, e d’un’armonia abbastanza
ricca, aveva trovato espressioni, e colori, ed aveva intendimenti diversi da molti de’ suoi
predecessori.
Comincio a credere che questo mio desiderio resterà allo stato di desiderio a meno ch’Ella
tanto studioso ed erudito non trovasse per azzardo qualche Te Deum che pregherei mandarmi
musicato secondo le mie, forse storte, idee.
Le restituisco il Volume speditomi, e la ringrazio vivamente. Questi Te Deum dell’Anerio e
d’altri sono, s’intende, ben fatti, ma non mi illuminano, né sciolgono i miei dubbi. […].”28
Al che Tebadini il 18 Marzo 1896 gli risponde:
“[…] Le considerazioni da Lei fatte circa all’interpretazione da dare al Te Deum sono così
elevate da vincere ogni altra obbiezione. Infatti la stessa melodia ambrosiana, che cantata da mille
voci è imponente e suggestiva, non fa gran caso della differenza di significato fra i capoversi da Lei
citati. Autori antichi che abbiano tenuto conto di essa non ne ho peranco incontrato. Ma mi
propongo di continuare nelle mie indagini. Intanto devo dirLe che il Vallotti in alcuni punti
modifica sì lo stile, non però in tutti quelli citati da Lei, né in maniera tanto evidente quanto Ella
giustamente sostiene dovrebbesi fare. […].”29
Come ebbe a scrivere Giovanni Tebaldini in un articolo che scrisse per la “Nuova Antologia”30
nel 1913, in occasione del centenario della nascita di Verdi, l’esegesi che Verdi in questa lettera
compie del testo dell’Inno presenta senza dubbio molto interesse perché permette d’osservare come
e quanto nella composizione musicale abbia seguito il disegno che si era tracciato.
Importante, a mio avviso, sottolineare prima di tutto come, a differenza di ciò che per esempio
farà Puccini pochi anni dopo per l’opera Tosca, Verdi non abbia scelto per il Te Deum la melodia
popolare più cantata e conosciuta, ma abbia voluto proprio questa melodia antica, piena di fascino e
colma di immagini ataviche. Certamente, però, come lo stesso Tebaldini osserva, l’interpretazione
puramente liturgica dell’Inno in parola non poteva certamente appagare la fervida fantasia di Verdi,
abituato a cogliere tutti i particolari d’espressione lirica in ogni più piccolo dettaglio. Lo si vede
chiaramente dal commento che la lettera del 1 marzo 1896 allo stesso Tebaldini ci riferisce. Infatti
le varianti contenute nell’inno della primitiva liturgia cristiana non ricorrono sempre là ove il testo,
secondo l’interpretazione di Verdi, lo vorrebbe.
Verdi utilizza dell’inno i primi due versetti, il primo, originale, intonato dai bassi del I coro, il
secondo, trasportato una quarta sopra, dai tenori del II coro. Già in questa scelta notiamo come la
stessa essenzialità e il senso arcano proprio di questa antica melodia sia stata sfruttata da Verdi a
fini drammatici.
28
G. VERDI, Lettere 1835-1900, Oscar Classici Mondadori, Milano 2000, p. 391.
29
Originale presso Archivio Carrara Verdi, S. Agata; testo pubblicato in Idealità convergenti - Giuseppe Verdi e
Giovanni Tebaldini di Anna. Maria Novelli e Luciano Marucci, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno, 2001
30
Da «Nuova Antologia», vol. CLXVII, serie V, Roma, 16 ottobre 1913; ripubblicato in «Bollettino Ceciliano», a.
VIII, n. 5, Roma, novembre 1913; stralcio in Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini, D’Auria
Editrice, Ascoli Piceno, novembre 2001.
34
Farei a questo punto anche una breve digressione sull’interpretazione che se ne possa dare in
sede esecutiva: infatti, poiché lo stesso Verdi scrive: “Senza misura”, e sottolinea che si tratta di un
Cantus firmus, senza scrivere alcun segno di dinamica (ci sarà p solo alle parole Te aeternum
Patrem, quando la composizione inizia in tempo misurato) le possibilità interpretative possono
essere molto diverse. Si differenziano molto, per esempio, le esecuzioni di grandi direttori, tra
passato e presente, probabilmente anche a causa della diversa consapevolezza odierna della prassi
esecutiva del canto gregoriano. Due esempi per tutti: l’interpretazione di Arturo Toscanini con la
Nbc Radio Symphony e quella di Claudio Abbado con i Wiener Philarmoniker. Se Toscanini
propone questa frase con piena sonorità e a voci spiegate, piuttosto lentamente, declamando ogni
sillaba del testo, creando poi un grande contrasto dinamico con la frase seguente, Abbado propone
un coro quasi sottovoce, molto fluido, seppure sempre abbastanza lento, che confluisce, quasi senza
soluzione di continuità nel piano successivo.
Dal commento che Giovanni Tebaldini ne fa nell’articolo sopra citato possiamo dedurre che la
visione verdiana di questo incipit sia più vicina all’interpretazione di Toscanini: “[…] S’inizia esso
sul tema liturgico, bello, grandioso, imponente. […].”31
La composizione dunque, dopo questo incipit gregoriano, prosegue con una successione di
accordi semplici che passano dall’uno all’altro coro e che rivestono un carattere di falso bordone.
Vi ritroviamo uno stile compositivo che potremmo dire palestriniano, compositore che, come
abbiamo potuto leggere nella lettera a Edoardo Mascheroni, Verdi amava molto.
Alle parole Sanctus, Sanctus Domine Deus Sabaoth abbiamo uno scoppio improvviso con il
tutti orchestrale in fortissimo. Quindi il primo coro canta Pleni sunt cœli et terra majestatis gloriae
tuae mentre il secondo risponde ancora: Sanctus, Sanctus. Si presenta poi un bellissimo tema che
dovrà passare come filo conduttore, sotto diverse forme e diversi colori, attraverso tutta la
composizione.
Seppure la melodia non è direttamente derivata dalla melodia gregoriana, resta però
gregorianeggiante per l’uso di alcuni intervalli, (la terza minore del secondo sanctus) e il carattere
salmodiante di alcuni passaggi (es: Dominus Deus Sabaoth):
31
Da «Nuova Antologia», vol. CLXVII, serie V, Roma, 16 ottobre 1913; ripubblicato in «Bollettino Ceciliano», a.
VIII, n. 5, Roma, novembre 1913; stralcio in Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini, D’Auria
Editrice, Ascoli Piceno, novembre 2001.
35
Il contrappunto delle voci riveste qui un carattere corale estremamente elegante e di grande
bellezza con un dialogo che viene proposto dai legni, a cui si aggiungono i violini, ed è poi imitato
dai bassi, mentre le parti acute dell’orchestra e del coro contrappuntano con frasi ricche e sonore.
Alle parole: Patrem immensae majestatis troviamo, in fortissimo, nuovamente una scrittura
corale salmodiante:
A battuta 90, introdotto dalle tre trombe, e poi presentato dal coro con le parole Tu, Rex
gloriae, abbiamo l’impiego, in qualità di tema, di uno dei versetti dell’originale gregoriano; tema
che poi verrà utilizzato in modi diversi e unito ai temi precedenti sino alla fine del brano:
36
Di grandissimo impatto l’interpretazione delle parole finali dell’inno, secondo i suoi stessi
intenti: “[…] e finisce con una preghiera… Dignare Domine die isto… commovente, cupa, triste
fino al terrore! […]”32 ove, su un pedale, a note ribattute, come una sorta di incedere implacabile,
con clarinetti, fagotti, violoncelli, contrabbassi e gran cassa, il coro all’unisono, accompagnato
sempre all’unisono dai legni e dai violini e viole, riprende una sorta di canto gregoriano, che
riprende, seppur variata, la cadenza della frase iniziale:
seguita da una sezione polifonica, in ppp, con i cori che si alternano, come era accaduto
all’inizio della composizione.
33
Da “Nuova Antologia”, vol. CLXVII, serie V, Roma, 16 ottobre 1913; ripubblicato in “Bollettino Ceciliano”, a. VIII,
n. 5, Roma, novembre 1913; stralcio in Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini, D’Auria Editrice,
Ascoli Piceno, novembre 2001, p. 234.
38
5.4 Il canto liturgico della Roma pontificia in Tosca di Giacomo Puccini
Anche Puccini impiegherà melodie gregoriane nelle sue composizioni. L’esempio più
conosciuto è l’imponente impiego del Te Deum nel finale del I Atto di Tosca. Come però si potrà
constatare, l’approccio del compositore toscano con il canto liturgico non si limiterà a questa
citazione. Infatti, a fini drammaturgici, egli modellerà su di esso le movenze delle stesse melodie
dei protagonisti.
Puccini, come Verdi, per giungere al reperimento dei più diversi materiali musicali che gli
permettessero di realizzare la sua idea drammatica, si rivolgerà ad alcuni personaggi, ognuno
capace di fornirgli idee e spunti su cui poter elaborare una ambientazione compiuta e organica.
Infatti, in Tosca, è di grande rilievo l'impiego di forme, come la marcia, l’inno, la danza, in un
doppio livello: la citazione pura e semplice (Te Deum, gavotta fuori scena, rullo funebre di tamburi,
marcia della fucilazione), o l'insinuazione allusiva nella struttura, così da renderla accessibile
all'ascoltatore.
Per l’utilizzo di queste citazioni e per l’ambientazione Puccini non mancò di rivolgersi, come si
è detto, ad altri collaboratori oltre a Giacosa e Illica, la cui collaborazione iniziò proprio con Tosca
a mostrare i suoi limiti. Da Roma gli vennero in aiuto, per taluni particolari inerenti
all'ambientazione dell'opera, l'amico lucchese Alfredo Vandini e un altro toscano, don Pietro
Panichelli34, giovane domenicano nel convento della Minerva e direttore del coro dei monaci.
Quest’ultimo in particolare è uno di coloro che tra i contemporanei di Puccini ebbero modo di
rendere noti aspetti "intimi" della sua vita. Li riferisce in un libro dal titolo “Il "pretino" di Giacomo
Puccini racconta... “35 (Pisa 1940). Nel libro troviamo lettere e testimonianze cui hanno fatto
riferimento nelle loro ponderose monografie i più noti studiosi pucciniani così che il "pretino",
come Puccini lo aveva soprannominato, è riuscito, almeno per le vicende relative alla composizione
di Tosca, a legare, anche se in modo assai secondario, il suo nome a quello del suo adorato "amico":
“[…] Eravamo nel dicembre del 1897, neanche un mese cioè dalla mia preziosa conoscenza col
Maestro. Io a Roma e lui a Milano o a Torre del Lago. Incominciò subito tra noi due una nutrita
corrispondenza epistolare, soprattutto su schiarimenti e informazioni che riguardavano Tosca [...].”
Da lui sappiamo che Puccini “teneva molto che il canto del Te Deum fosse trasportato in Tosca
con la severità del canto liturgico secondo il rito prettamente romano”. Fu Don Panichelli ad
informarlo sul suono delle campane mattutine delle chiese prossime a Castel Sant' Angelo 36, che
34
Don Panichelli, nativo di Pietrasanta, era un giovane monaco dell'ordine dei Domenicani che prestava servizio a
Roma nella Chiesa di Santa Maria in Via Lata, a duecento metri dal celebre negozio di Ricordi in Via del Corso, luogo
di ritrovo di musicisti e musicofili. Si narra che Don Pietro passasse più tempo da Ricordi che nella sua chiesa essendo
un grande appassionato di musica, non solo di quella sacra (dirigeva un coro di gregoriano) ma soprattutto di quella
operistica. Poiché quando Puccini veniva a Roma uno dei suoi punti di riferimento era proprio il negozio di Ricordi, fu
facile che proprio in quel negozio avvenisse lo "storico" incontro, non si sa quanto premeditato, fra il monaco
musicofilo ed il celebre maestro, a Roma per una ripresa di Bohème nel novembre 1897. «Vidi entrare un signore»
racconta Don Panichelli «alto, giovane, elegantissimo, col bavero del cappotto rialzato e abbottonato al collo, colla
sigaretta in bocca e un'elegante bombetta in capo secondo la moda di quei tempi».
A ricordo dell'incontro Don Panichelli si fece autografare una foto di quelle vendute dal negozio con la dedica e la data:
29 novembre 1897.
35
P. PANICHELLI, Il «pretino» di Giacomo Puccini racconta..., Nistri-Lischi, Pisa, 1940.
36
“[…] La prima difficoltà un po' seria fu quella delle campane che dovevano riprodurre - nel preludio del III atto -
l'Ave Maria dell'alba di Roma. Io ebbi in quel tempo, non dico la pazienza di Giobbe, che sminuirebbe il mio pensiero,
ma tutto l'entusiasmo di un amico fedele dell'arte pucciniana per la ricerca dei toni di quelle campane che erano le più
vicine agli spalti di Castel Sant'Angelo. Ne feci una nota e gliela mandai subito.” Non riuscendo egli però a trovare la
nota corrispondente al campanone di S. Pietro dovette ricorrere al maestro Meluzzi del Vaticano che aveva fatto
ricerche in proposito, il quale sentenziò che la nota era un mi naturale sotto il rigo. Di questo informò subito Puccini:
“Caro Maestro. Eureka! Ho trovato. Il maestro Meluzzi ha potuto assicurarmi che quel tono squarciato, indistinto,
confuso, inafferrabile del campanone di San Pietro risponde ad un "mi" naturale. E mi ha soggiunto che posso scriverlo
a lei sotto la sua responsabilità. Affezionatissimo Don P. Panichelli”.
39
s'odono nel preludio del terzo atto e gli fornì, desumendolo dal rituale romano, il tema del Te Deum.
Il 17 gennaio 1898 Puccini scrive al pretino: “Carissimo signor Panichelli. La ringrazio dei preziosi
ragguagli sullo scampanio mattutino di Roma e ne terrò calcolo. Anche il "Te Deum" mi è di grande
utilità per il finale di Tosca. Mi tenga in memoria [...] e si abbia i saluti più affettuosi del suo
Giacomo Puccini”.
Le informazioni che Puccini prese sulla liturgia romana, per il finale I, furono capillari, e
riguardarono anche l’aspetto scenico del quadro spettacolare. Da lunghe ricerche condotte presso
antiquari e mercanti d’arte della capitale ricavò diciotto tavole dipinte a mano, in cui si ritraevano
tutti i costumi dei partecipanti alle cerimonie solenni, nonché una pianta ove si riproduceva l’ordine
in cui essi sfilavano in processione. Ne chiese notizia inoltre a Don Panichelli, assieme alla richiesta
di poter conoscere in dettaglio quale fosse il costume delle guardie svizzere di allora37.
Insieme ad Alfredo Vandini, egli gli procurerà inoltre i versi dello stornello romanesco cantato
dal pastore all'inizio del terzo atto, versi che furono scritti appositamente dal poeta Giggi Zanazzo 38.
Prendendo in esame l’uso del canto gregoriano, si può notare, soprattutto nel I atto, oltre alla
citazione del Te Deum, l’utilizzo di movenze salmodianti del canto e di movimenti modaleggianti.
Questo lo ritroviamo nel momento in cui il personaggio, o direttamente afferma di pregare, o
racconta di altre persone che pregano, o, come nel caso di Scarpia, serve a mettere ancora più in
evidenza la sua abiezione che cerca giustificazione nella sua appartenenza al potere datogli dalla
Chiesa e dal potere religioso dello Stato Pontificio.
La prima apparizione l’abbiamo con la recita dell’Angelus da parte del Sagrestano al n. 13. Egli
recita il testo latino su una sola corda di recita, che viene ripetuta dalla campana, dall’arpa e
alternativamente dagli archi e dai flauti. La melodia che l’accompagna ha invece la semplicità di un
canto popolare sacro. La preghiera si chiude con un cadenza plagale su cui echeggia un Amen, non
cantato da alcuno.
37
“[…] Per la prima ricerca avevo a portata di mano un prezioso informatore: fino a quell'epoca ero già direttore di
canto nel piccolo coro della Basilica di Santa Maria in via Lata al Corso. Uno dei canonici era Mons. Togni,
cerimoniere pontificio. Chiesi a lui le informazioni che volevo e potei mandare subito a Puccini ciò che era l'ordine
rigoroso in tali processioni. In quanto al costume degli svizzeri girai mezza Roma e potei trovare da un rigattiere di Via
della Vite una bellissima stampa a colori che li riproduceva in modo artisticamente meraviglioso e gliela mandai”.
Queste sue premure gli fruttarono una lettera di ringraziamento di Puccini scritta pochi giorni prima di partire per Roma
per presenziare alle prove dell'opera che ci dà inoltre notizia del direttore d’orchestra e del rapporto di fiducia che
intercorreva tra Puccini e il musicista napoletano: “[Torre del Lago] dicembre 1899 Caro Pretino, la ringrazio dei
figurini svizzeri e della sua gentile letterina. Speriamo che Tosca vada bene e che faccia onore al suo autore. Gli amici
di Roma, Vandini, Panichelli, ecc. ecc... spero rimarranno contenti dell'operato del maestro cuccumeggiante. Dica a
Vandini che meno bataclan faranno intorno alla mia persona più grato mi avranno. Io dopo le sacramentali tre recite (se
non mi fischiano alla prima) mi rendo latitante nei boschi che furono asilo sicuro per tanto tempo a Tiburzi e compagni.
Là alle beccacce sfogherò l'ira venatoria e mi rifarò dei patemi provati in trenta o trentacinque giorni di prove. Lì nel
verde, nell'agreste, nel selvaggio della tanto splendida maremma, ospite di simpatiche persone, passerò credo i più bei
giorni della mia esistenza. Ma siete matti?! Essere a caccia dove certamente ce n'è, e dopo un successo! E' il momento
vero dell'animo tranquillo! Ne voglio profittare e mi ci tufferò. Altro che banchetti, ricevimenti, visite ufficiali!... Io
credo che l'opera avrà un successo hors ligne. Mugnone ci metterà tutta la sua grande anima di artista nel concertare e
nel dirigere, e tutti i bravi esecutori (già animati a dovere) faranno mirabilia e daranno tutto. Questa volta sono in buone
mani: impresa, orchestra, artisti e direttore. Speriamo nel pubblico di Roma e soprattutto sulla riuscita dell'opera. Al
fuoco sulla ribalta vedremo se veramente l'ho indovinata. Saluti Vandini. A Lei suo aff.mo G. Puccini”.
38
Nato nel 1860 e morto nel 1911, Giggi Zanazzo è stato il più illustre studioso delle tradizioni e del folklore romano,
al quale si debbono una serie di raccolte grazie alle quali viene restituita limpidamente l’immagine del popolo romano,
l’anima e l’essenza interiore del romano di un tempo. Fondamentali, in questo senso, le sue riscritture di favole, novelle,
leggende e proverbi, riunite in quattro volumi sotto il titolo Tradizioni popolari romane.
40
41
Anche Cavaradossi, parlando di “quell’ignota” (l’Attavanti) che era andata a pregare nei giorni
precedenti, per descrivere quanto devotamente ella pregasse, riprende il canto su un’unica corda di
recita:
42
Quando poi Cavaradossi intona la famosa aria “Recondite armonie”, il sagrestano
“contrappunta” il suo canto, che ora si distende per lo più in ampi intervalli, con interventi a mo’ di
litania (“Scherza coi fanti ma lascia stare i santi”):
43
44
Ancora, quando Cavaradossi descrive Scarpia, “Bigotto satiro che affina con le devote pratiche
la foia libertina e strumento al lascivo talento fa il confessore e il boia!” ecco ritornare il canto
salmodiante; quasi ne descrivesse così il bigottismo e il suo ergersi ad autorità anche religiosa.
L’armonia giustappone accordi di tonalità lontane (Sib settima di dominante, Lab, Mi) utilizzando il
Sol# quale nota comune:
Di particolare interesse inoltre le melodie date a Scarpia dal n. 68, Andante mosso, quando, al
suono delle campane, si rivolge “(a Tosca, insinuante e gentile)”, per offrirle “l’acqua benedetta”.
Qui, il suo canto si intona attorno alla nota Sib, con ornamentazioni e cadenze tipiche delle
salmodie:
45
Alle parole “vostra aspetta” Mib Re Sib Do, corrispondono alle note Fa Mi Do Re della
terminatio in Re del II tono salmodico:
La cadenza che invece troviamo alle parole : “per offrirvi l’acqua benedetta”
Prosegue quindi fino al n. 71 con questa melodia a mo’ di tono salmodico, o, se vogliamo, di
recitativo liturgico, con relative cadenze:
46
Vediamo come cambi immediatamente la melodia già alle parole: “e vi trescan d’amore!”. Da
qui in poi, anche durante il canto del Te Deum, essa si caratterizzerà per cromatismi e ampi slanci,
soprattutto quando egli, parlando a se stesso, vedrà avvicinarsi il suo successo ed esprimerà i suoi
desideri erotici nei confronti di Tosca che è caduta nella sua trappola.
Grande la sapienza costruttiva del Finale I: in essa vediamo unirsi melodie, armonie, che con la
loro stessa diversità e disomogeneità descrivono la contraddittorietà del personaggio Scarpia.
Esso ha inizio infatti al suono delle campane che ripetono 2 note, Fa e Sib, che diventeranno il
basso ostinato di tutto il finale, fino al canto del Te Deum.
La scala utilizzata in questa sezione non è altro che un tetrardus, il modo di Sol, ovvero una
scala maggiore ma con settimo grado abbassato. La melodia che viole e violoncelli presentano alla
decima di n. 80 ne è un esempio: senza alcuna alterazione, essa ha il suo primo appoggio sul Sib (=
Sol) alla tredicesima di n. 80; viene quindi ripetuta, sempre senza alcuna alterazione, innalzando lo
stesso disegno una terza sopra:
Anche l’armonia fa uso unicamente delle note di questa scala e gioca sull’ambiguità che deriva
dall’avvertire il Sib (= Sol) come una tonica, o meglio, una finalis, o una possibile dominante di un
Mib (= Do), su cui però non risolve che nell’ultimo accordo del I Atto.
L’organo presenta chiaramente le armonie per lo più usate in questa sezione:
L’uso di una scala modale non impedisce però a Puccini di creare una melodia piena di
sensualità e di languore che verrà ad accentuarsi in sezioni successive, caratterizzate anche da
47
cromatismi, sempre però sullo stesso basso ostinato, (quattro prima di n. 82, quindi ai n. 84, 85 e
86 fino a quattro prima di n. 87).
Questa scala modale gli permette però di far entrare il canto del Te Deum, che verrà
accompagnato dalla melodia dell’inizio del Finale I, quasi a mettere in diretto contrasto i caratteri
sacro del primo e sensuale della seconda. Solo alla seconda di n. 88 avremo il secondo versetto del
Te Deum non armonizzato, ma accompagnato all’unisono e in ff da corni, trombe e tromboni.
Prima dell’entrata della processione che canta il grandioso inno, Puccini inserisce un’altra
preghiera che la liturgia non prevede. Egli però ne sentiva la necessità da un punto di vista
drammaturgico.39 Sacrificherà quindi l'autenticità per l’effetto drammatico, unendo brani tratti dalla
Bibbia scelti dal Salmo 46, dalla Genesi, e dalla Dossologia:
39
Interessante il lavoro di ricerca che Puccini compì per trovare il testo per questa preghiera. A questo riguardo si
rivolse prima ad Alfredo Vandini: “Ho detto che desidero delle parole perché siano mormorate, perciò io le voglio..
Dica al Vescovo di inventare qualcosa per me. Se non lo farà lui, io scriverò al Papa e lo riterrò un impiegato
imbecille!”. Non soddisfatto di queste minacce, scrisse una serie di poscritti alla lettera in un tono sempre più alterato:
“Trovi le parole per me o io diverrò un protestante!” “Se Lei non mi spedisce queste preghiere io comporrò una marcia
funebre per la religione!" Ed ancora: “O Lei troverà questi versi o io bestemmierò per il resto della mia vita!”.
Quindi, dalla villa Mansi di Monsagrati nell'agosto del 1898, scrisse a Don Panichelli:
“Caro Pretino. Quando Lei mi scrive è sempre per notizie che mi sono care [...]. Io lavoro a Tosca e sudo dal caldo e
dalle difficoltà che incontro ma che saranno, spero, superate. Ora desidero un favore: si tratta che al primo atto (finale)
in Chiesa di Sant'Andrea della Valle ha luogo un Te Deum solenne di festeggiamenti per vittoria d'armi. Ecco la scena:
dalla sagrestia escono l'abate mitrato, il capitolo, ecc. ecc. in mezzo al popolo che per due ali ne osserva il passaggio.
Sul davanti della scena poi, c'è un personaggio (il baritono) che monologheggia indipendentemente, o quasi, da ciò che
succede nel fondo. Ora io ho bisogno di far recitare preci al passaggio dell'abate e del capitolo. Sia insomma il capitolo
o sia il popolo, ho bisogno di far brontolare con voce sommessa e naturale, senza intonazione, come sul vero, delle
preci-versetti. L'Ecce sacerdos è troppo imponente per essere mormorato. So già che non usasi dire né cantare niente
prima di intonare il solenne Te Deum che viene fatto appena arrivato all'Altar Maggiore, ma ripeto (sarà vero o no) io
vorrei trovare qualcosa da brontolare quando dalla sagrestia vanno all'Altare, e ciò dal capitolo o dal popolo. Ma
sarebbe meglio quest'ultimo, perché più numeroso e perciò più efficace musicalmente. Indagare, cercare la cosa adatta e
inviarmela subito facendo cosa graditissima al suo aff.mo Giacomo Puccini”. Don Panichelli ci riferisce: “Cercai di
strizzare il mio cervello. Mandai versetti, preci e giaculatorie che fossero di carattere popolare, ma questa volta non fui
in grado di interpretare il pensiero del Maestro e... feci fiasco. Cioè non fu veramente un fiasco, come mi disse lui in
seguito. «Tu mi mandasti dei versi bellissimi e adattissimi per essere messi in bocca al popolo in quella circostanza, ma
io avevo bisogno di forti accenti fonici perché la voce parlata del popolo riuscisse ben distinta in mezzo al suono delle
campane e dell'organo. Scelsi perciò da me stesso, sia pure con logica discutibile: adiutòrium nòstrum in nòmine
Dòmini. Qui fecit coèlum et terram»”.
48
Questa preghiera non è intonata, ma, come nella prassi liturgica dell’epoca, viene proclamata
recto tono.
Segue quindi il Te Deum.
Egli si avvale della melodia in VIII modo, semplice, popolare, che prende sì spunto dall’inno
gregoriano risalente al IV secolo, facente parte del fondo classico, ma che per la sua semplicità
veniva cantata normalmente anche dal popolo ed era dunque universalmente conosciuta.
Questi alcuni dei moduli che lo caratterizzano:
Un altro intervento, con parole tratte dal Dies irae lo troviamo alla seconda di n. 38 del II Atto
49
La traduzione è: “Quando siederà il Giudice, ciò che è nascosto sarà rivelato: nulla rimarrà
impunito”.
Dimostra come nell’opera, anche da un punto di vista testuale, ci sia l’intento di rappresentare
Scarpia quale identificazione stessa del potere divino, e dunque con un potere assoluto, sia sui corpi
che sulle anime dei sudditi.
Anche questa frase è presentata quale salmodia.
Questi sono solo alcuni esempi di come Puccini abbia saputo utilizzare movenze, colore,
melodie originali del canto gregoriano in uso alla sua epoca, al fine drammatico di descrivere un
periodo storico quale quello della Roma Pontificia del XIX secolo. La fusione del suo stile con
stilemi propri della modalità e della salmodia, riescono a descrivere l’ambiente, il carattere dei
personaggi, l’ineluttabilità del giudizio del potere assoluto, in modo compiuto e spontaneo, quasi
fosse ognuna di queste peculiarità stesse ad esprimersi naturalmente.
50
6. IL GREGORIANO INFLUISCE ANCHE SULLA SCRITTURA
A partire dalla seconda metà del XIX secolo fino ai primi decenni del XX, si osserva come la
ricerca di nuovi orizzonti compositivi conduca molti compositori al recupero della modalità
medievale e del canto gregoriano. Un diffuso gusto medievalistico informa pure la drammaturgia e
le arti figurative a partire dai primi anni del novecento.40 Con l’accrescersi della consapevolezza
della ricchezza del repertorio gregoriano, grazie al progresso degli studi paleografici dei monaci
solesmensi e alla spinta della riforma ceciliana, anche i compositori che si avvicinano ad esso con
un mero interesse culturale e non strettamente religioso, iniziano a trovarvi spunti per rinnovare il
proprio stile.
Incontriamo quindi compositori che si avvalgono sì di citazioni letterali delle melodie
gregoriane, ma queste inserite in uno stile compositivo che ne sfrutta anche alcune delle peculiarità
salienti dal punto di vista melodico e armonico.
Quanto era cambiata la vita di Liszt dal periodo della composizione della parafrasi sul Dies
irae, Totentanz, a quello della composizione dell’oratorio Christus, tanto cambiò il rapporto che la
sua musica e il suo stile ebbero con il canto gregoriano, presente in entrambe.
Totentanz vide la luce nel 1849, nei primi anni del suo soggiorno a Weimar, dopo il lungo
periodo di concerti e tournée che dal 1938 al 1847 lo portò a percorrere tutta Europa, dal Portogallo
alla Russia e alla Turchia, ottenendo ovunque successi strepitosi.
Christus venne composto durante il soggiorno di Liszt a Roma (dal 1861 al ’69), dopo che
furono trascorsi i 13 anni della sua intensa attività a Weimar dove fu Kapellmeister di corte. Fu
questo un periodo che segnò l'alba di una nuova era nell’arte creatrice di Liszt. I risultati più
importanti sul piano della composizione degli “anni di pellegrinaggio” precedente avevano
arricchito la letteratura pianistica. È con Weimar che comincia la serie dei poemi sinfonici, delle
sinfonie e delle grandi composizioni corali. Le composizioni precedenti erano nate dalle
impressioni lasciate sul compositore dalla natura, o da un paesaggio, da letture, da opere d’arte o da
musiche di altri compositori. A partire da Weimar, questo metodo creativo “riflesso” sarà messo al
servizio di un’”arte drammatica” di più vasti orizzonti.
Sarà soprattutto a Roma che verranno alla luce la maggior parte delle sue grandi composizioni
di musica sacra, città che egli considerava come un vero centro di cultura internazionale. Ritenne
qui di poter portare a compimento tutti i suoi progetti di riforma in materia di generi e di istituzioni
della musica sacra cattolica e che avrebbe potuto divenire un “nuovo Palestrina”, il “salvatore della
musica”.
Importante ricordare inoltre che in questi anni del soggiorno romano egli prese la tonsura
(1865) e ricevette gli ordini minori, così che il “virtuoso degli anni di pellegrinaggio”, il
“Kapellmeister di corte” si trasformò in “abate Liszt”; un abate che passava le sue giornate a
lavorare nel monastero della Madonna del Rosario, sul Monte Mario.
Verrà accusato di sacrificare la musica sacra al teatrale e di apparire dietro una “nuova
maschera”. In realtà, questo nuovo periodo compositivo non produsse nella vita dell'artista un
40
Cfr. STEFANIA FILIPPI Il carteggio fra D'Annunzio e Debussy, Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900
Italian Literature, Dicembre 2001, n. 2 - 15 dicembre 2001- ISSN 1124 1578 -
http://www.unibo.it/boll900/numeri/2001-ii/W-bol/Filippi/Filippi_frame.html.
51
cambiamento radicale tanto da rinnegare o mettere in discussione il frutto dei periodi precedenti.
Semplicemente, Liszt aveva trovato una forma nuova alle sue necessità interiori.
Questo è ciò che forma lo sfondo spirituale e biografico della composizione della Leggenda di
santa Elisabetta, della Messa dell'Incoronazione, della Missa Choralis e dell'oratorio Christus.
L’oratorio Christus41 presenta caratteristiche uniche tra i lavori dello stesso genere della
tradizione tedesca: l’uso di testo latino scelto dalla Vulgata42 e dalla liturgia cattolica romana;
descrizione programmatica degli eventi; uso del canto gregoriano; musica orchestrale a programma.
Si compone di 14 numeri composti come unità chiuse, che ne permettono anche l’esecuzione
indipendente, suddivisi in tre grandi parti strutturali, come mostra l’elenco sottostante, che specifica
pure su quali melodie gregoriane ognuna di esse sia costruita:
I. Oratorio di Natale
1. Introduzione
Brano orchestrale; si basa sul canto gregoriano Rorate coeli, introito della quarta
domenica d’Avvento.
2. Pastorale e Annunciazione dell’Angelo
Per Soprano solo, coro, orchestra; musica e testo basati sul canto Angelus ad pastores e
Facta est, 3° e 4° antifona per le Lodi del giorno di Natale; testo tratto da Luca 2, 10-
14.
3. Stabat mater speciosa (Inno)
Coro e organo; testo: contrafactum natalizio della sequenza Stabat mater dolorosa.
4. Musica dei Pastori presso la mangiatoia
Orchestra.
5. I tre Re santi (Marcia)
Orchestra; incipit con ripresa dei canti presenti ai n. 1 e 2.
41
L’analisi qui proposta fa ampi cenni al sapiente lavoro compiuto da Howard E. Smither in H. E. SMITHER, The
Oratorio in the Nineteenth and Twentieth Centuries, UNC Press, Chapel Hill, NC 2000.
42
La Vulgata è una traduzione della Bibbia in latino dall'antica versione greca ed ebraica, realizzata all'inizio del V
secolo da San Girolamo. Il nome è dovuto alla dicitura latina vulgata editio, cioè "edizione per il popolo", che richiama
sia l'ampia diffusione che ottenne (in precedenza con Vulgata si indicava la traduzione della versione dei Settanta, che
ebbe anch'essa notevole diffusione), sia lo stile non eccessivamente raffinato e retorico, più alla portata del popolo.
Dalla sua realizzazione fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) la Vulgata ha rappresentato la traduzione ufficiale
della Bibbia per l'intera Chiesa cattolica.
43
Graduale romanum p. 799; Graduel romain p. 9; Liber Usualis p. 22.
52
III. Passione e Resurrezione
11. Tristis est anima mea
Christus (Bar solo) e orchestra; testo tratto da Matteo 26, 38-39.
12. Stabat mater dolorosa
Coro, soli (S, Ms, A, T, B) e orchestra; musica e testo basati sulla sequenza gregoriana
(formalmente attribuita a Jacopone da Todi, francescano, XIII sec.).44
13. O flii et filiae (Inno di Pasqua)
Coro femminile e harmonium (o flauto, oboe e clarinetto); musica e testo dall’inno
gregoriano.45
14. Resurrexit
Coro, soli (S, Ms, T, B) e orchestra; musica basata sui canti gregoriani presenti ai n. 1, 2
e 10; testo: frammenti dalla liturgia e dalle acclamazioni Christus vincit.
Sebbene a prima vista Christus potrebbe sembrare un insieme eterogeneo di brani indipendenti,
all’ascolto si avverte un alto grado di coerenza strutturale e unità stilistica. Da un punto di vista
strutturale notiamo inoltre la posizione simmetrica dei due Stabat mater (al terzo posto dall’inizio e
al terz’ultimo) e il posto centrale riservato a La fondazione della Chiesa, un numero di cruciale
significato per questo oratorio cattolico romano.
Lo stile dell’intera opera è fortemente condizionato dal canto gregoriano: dei quattordici
numeri, nove iniziano con melodie gregoriane e molti di questi sono permeati da citazioni o
parafrasi (in particolare i n. 1, 2, 5, 6, 7, 10, 12, 13, 14).
Di alcune di queste sezioni verranno ora proposti esempi delle melodie gregoriane che vengono
utilizzate e il loro trattamento all’interno della composizione.
I. Oratorio di Natale
1. Introduzione
Brano orchestrale; si basa sul canto gregoriano Rorate coeli, introito della quarta
domenica d’Avvento.
44
Liber Usualis p. 1874.
45
Liber Usualis p. 1875.
53
Questo canto è stato trovato in due libri liturgici della collezione di libri di Liszt: Graduale
romanum (in notazione moderna), p. 25; Graduel romain (in notazione quadrata), p. 18. Copie di
entrambi i libri si trovano presso il Centro di Ricerche Liszt di Budapest. La riproduzione che viene
riportata più avanti è quella del Graduale romanum:
E’ interessante notare quali e quante siano le differenze tra la notazione quadrata dell’edizione
vaticana del 1896 e quella del Graduale romanum su cui Liszt si è basato per creare la sua
composizione.
Non starò a rimarcare le differenze melodiche tra la versione utilizzata da Liszt e il Liber
Usualis per ogni brano preso in esame. Esse sono significative, così come lo è l’interpretazione
ritmica che viene attribuita ai diversi gruppi neumatici.
La frase: “Rorate” appare come apertura della composizione, proposta dai violini II, senza
alcun accompagnamento:
54
Verrà quindi presentata in tutte le tessiture, e armonizzata modalmente, su un protus:
Alla battuta 48 troviamo quindi la frase “et nubes” proposta dagli archi in tremolo, all’unisono:
Qui l’armonia, propone accordi allo stato fondamentale (Re min., Do mag., La min., Sol mag.,
La min., Do mag., Re min., Do mag., Re min.,), anch’essi sempre costruiti sul modo di Re:
Segue quindi una Pastorale, Allegretto moderato, il cui incipit è modellato su “Rorate”:
56
L’armonia è costruita sul modo di sol (tetrardus):
57
2. Pastorale e Annunciazione dell’Angelo
Per Soprano solo, coro, orchestra; musica e testo basati sul canto Angelus ad pastores e
Facta est, 3° e 4° antifona per le Lodi del giorno di Natale; testo tratto da Luca 2, 10-
14.
Graduale romanum (copia personale di Liszt presso il Centro Ricerche Liszt di Budapest) in
notazione moderna), p. 58:
58
Il numero 2 inizia con il soprano solo, senza alcun accompagnamento:
Si può osservare come, a parte qualche sillabazione, il canto gregoriano del Graduale romanum
sia ripreso praticamente integralmente.
Sulla parola “alleluia” costruirà liberamente, ma con assonanze precise al canto originale, la
risposta del coro femminile:
59
Tutto scritto in un rigoroso modo di Sol (tetrardus). Questo coro ha assonanza con l’Alleluia
che aprirà il n. 13, O filii et filiae.
Sulla fine di questo intervento si innesta nuovamente la voce del soprano solo che intona
l’antifona Facta est proposta solo fino alle parole “caelestis exercitus” :
60
Graduale romanum (copia personale di Liszt presso il Centro Ricerche Liszt di Budapest) in
notazione moderna), p. 59:
Oltre a queste citazioni letterali, la maggior parte delle melodie e dell’armonia di questo
numero sono ispirate al canto gregoriano: a misura 199 (lettera Z) i violini primi soli presentano una
melodia caratterizzata da una quinta ascendente e il tono intero superiore, che ci riporta alla melodia
del n. 1. L’armonia è qui costruita su un modo di Fa (tritus) con Sib, in trasposizione. Interessante
notare come le acciaccature del clarinetto alle battute 226-229 risultano una reminiscenza della
pastorale del n. 1.
61
IV. Dopo l’Epifania
6. Le Beatitudini
Baritono solo [Christus], coro, organo; inizio con incipit di Rorate coeli; testo tratto da
Matteo 5, 3-10.
Il n. 6 inizia con una introduzione dell’organo basata su Rorate coeli, incipit del n. 1.
Procede quindi in uno stile responsoriale, salmodiante, alternando il baritono solo (Christus)
non accompagnato, in una moderna parafrasi di uno stile gregoriano, con risposte corali in stile
accordale, inizialmente a cappella, quindi accompagnate in modo non invadente dall’organo.
62
63
segue …
64
Poiché le melodie sono simili a cantillazioni gregoriane, tutto il brano è molto più diatonico
rispetto agli altri numeri dell’oratorio, sebbene non sia completamente assente il cromatismo tipico
di Liszt. Il coro è per lo più a cappella, con pochi accordi dell’organo che l’accompagnano:
65
66
67
10. L’ingresso in Gerusalemme
Coro, soli (S. Ms, T, B) e orchestra; musica basata sul canto Ite missa est (tono festivo);
testo scelto da Matteo 21, 9; Marco 11, 10; Luca 19, 38; Giovanni 12, 13.
Graduale romanum (copia personale di Liszt presso il Centro Ricerche Liszt di Budapest) in
notazione moderna), p. 799:
Notare la diversa trasposizione nella quale viene presentato questo canto: in scrittura Do, su
esacordo naturale, definito 5 modo, nel Liber Usualis, in scrittura Fa, su esacordo molle, nel
Graduale romanum, utilizzato da Liszt. A parte la durata attribuita alle diverse note, alcune diverse
sillabazioni e la variante nella cadenza finale, la sostanza non cambia: è un canto molto esteso, di
matrice chiaramente post-classica.
All’inizio del brano troviamo la parafrasi dell’incipit di questa melodia, presentata dai violini I:
68
Esso verrà riproposto in una tessitura sempre più acuta. Questa prassi si può ascrivere ad alcune
acclamazioni gregoriane che sono prescritte da cantarsi sempre più in alto:
69
Possiamo in questo numero ritrovare una perfetta fusione tra frammenti gregoriani, elementi
assolutamente diatonici e modali e l’armonia cromatica e modulante tipicamente lisztiana:
70
All’entrata del coro, l’orchestra presenta le note all’unisono, come all’inizio della
composizione:
Anche questo elemento verrà presentato in una tessitura sempre più acuta.
71
Sempre sull’incipit dell’Ite missa est costruirà quindi una fuga corale:
Questo può considerarsi tra i capolavori di tutto l’oratorio. Esso inizia con una parafrasi della
sequenza gregoriana Stabat Mater, con il sistema compositivo tipico di Liszt di mantenere per lo
più l’altezza originale dei suoni, ma creando nuovi ritmi.
72
Questa la frase iniziale data al mezzo soprano solo:
Il brano, che da solo dura quasi quaranta minuti, è una monumentale serie di libere variazioni,
una per ognuna delle venti stanze della sequenza. Il canto gregoriano e sempre chiaramente presente
in tutte la variazioni tranne che nelle n. 3, 8, 10, 11 e 19 dove però è possibile ritrovarne riferimenti.
Nonostante la presenza continua della sequenza gregoriana, questo numero presenta la scrittura
maggiormente cromatica di tutto l’oratorio, probabilmente per sottolineare il dolore che il testo
esprime. L’inizio orchestrale, (archi e legni) pur nella essenzialità di linee spesso non
accompagnate, o procedenti per terze parallele, mostra questa magistrale unione di modalità e
cromatismo:
73
Sono presenti anche movenze tipicamente legate a figure retoriche musicali come la figura
suspirans: pause e accordi sul tempo debole, per esempio come accompagnamento della prima
entrata del coro alle battute 46-62 (seguono le battute 45-65):
74
note legate a due a due con legatura di portamento, o pausa seguita da tre note, presenti per esempio
come uno dei controcanti della seconda variazione, battute 64-79, che troviamo alla fine
dell’esempio precedente, a partire dalle ultime due battute, e che prosegue, in partitura,
nell’esempio che segue:
Si tratta della seconda variazione (che propone le parole della seconda stanza) dove il canto
gregoriano è presente nel tenore per le prime cinque misure e prosegue quindi nella voce del basso.
La melodia originale è leggermente modificata con qualche cromatismo, mentre la melodia del
soprano è estremamente cromatica.
Lo Stabat mater si divide in due grandi sezioni (le stanze 1-11 e 12-20) separate da un ampio
interludio orchestrale (batt. 461). Il climax del brano viene raggiunto ai versi 11 (inizio batt. 410) e
19 (inizio batt. 759) che presentano anche alcuni frammenti simili. Altri aspetti strutturali
interessanti sono la ricapitolazione nella seconda sezione: la musica del primo verso (batt. 28) è
ripetuta con alcune modifiche nel verso 14 (“Juxta crucem”, batt. 543) e quella del verso 9 (“Eja
Mater”, batt. 296) è variata per il verso 15 (“Virgo virginum”, batt. 585).
Questo numero, incredibilmente breve rispetto al precedente, crea uno straordinario contrasto:
è puro gregoriano, con la melodia dell’inno quasi immutata, inserita in un costante ritmo ternario,
75
con coro femminile che alterna il canto all’unisono con un’armonizzazione modale a tre parti,
accompagnata da harmonium o legni.
Questa, nella versione per canto e piano, la realizzazione del primo versetto:
76
14. Resurrexit
Coro, soli (S, Ms, T, B) e orchestra; musica basata sui canti gregoriani presenti ai n. 1, 2
e 10; testo: frammenti dalla liturgia e dalle acclamazioni “Christus vincit”
Il numero finale dell’oratorio oltre a presentare frammenti della liturgia e delle acclamazioni
Christus vincit si presenta come una ricapitolazione della maggior parte canti gregoriani che si sono
presentati lungo tutta l’opera. Inizia con l’incipit dell’antifona Rorate coeli (n. 1), introduce diverse
volte lungo tutto il brano Ite missa est (n. 10) e basa il soggetto di un fugato su una quinta
ascendente che ricorda Angelus domini (n. 2). L’”alleluja” del Resurrexit riporta inoltre all’alleluja
incipit del n. 13. Il grandioso “Amen” che chiude il numero, inizia con l’incipit del Rorate coeli
nella parte orchestrale (batt. 376) che chiude l’oratorio con la stessa melodia con cui era iniziato.
Per le sue caratteristiche assolutamente uniche nel suo genere, Christus rappresenta uno dei più
importanti oratori del XIX secolo. Nonostante questo, le esecuzioni di questo brano non furono
numerose ai suoi tempi come non lo sono in tempi moderni.
Già in una lettera del 23 ottobre 1866 a Carl Gille, all'indomani del suo cinquantesimo
compleanno, Liszt parlava con rassegnazione delle possibilità di esecuzione del suo oratorio: “Mi
importa poco dove e quando lo si darà. Per me, scrivere le mie opere rappresenta una necessità
artistica, ed io mi accontento perfettamente del solo fatto di averle scritte.” Questo tono rassegnato
non era totalmente senza motivi. Infatti, sebbene siano stati eseguiti poco tempo dopo frammenti
dell’opera, si dovette aspettare molto tempo prima che essa venisse data integralmente. Interessante
ricordare l’esecuzione della sola I Parte ad opera di Giovanni Sgambati, caldo sostenitore italiano di
Liszt, che la diresse a Roma il 6 luglio 1867. Questa verrà poi diretta da Anton Rubinstein a
Vienna il 31 dicembre 1871, con la partecipazione di Anton Bruckner all’organo.
La prima esecuzione integrale di Christus si svolse il 29 maggio 1873 in un bastione del
protestantesimo, nella chiesa Herder di Weimar, sotto la direzione del compositore.
Diverse possono essere le motivazioni di tali scarse esecuzioni: prima di tutto la durata (l’opera
completa dura più di 3 ore); il libretto inusuale all’epoca per la sua essenzialità meditativa invece
che narrativa o drammatica; il fatto che le società corali dell’epoca erano per lo più concentrate nel
mondo protestante (tedesco e inglese) e non erano culturalmente disposte ad accettare un lavoro con
testo latino ed un uso tanto ampio del canto gregoriano.
Aspetto peculiare dell’opera il fatto che, sebbene si tratti di musica per esecuzione
concertistica, il testo e l’uso del canto gregoriano suggeriscono che sia anche musica devozionale.
Un po’ come lo stesso Mendelssohn che, nell’inserire testi e corali della liturgia luterana nelle sue
opere, desiderava poter trasformare la sala da concerto in una chiesa. In questa guisa, quest’oratorio
rappresenta la realizzazione delle qualità della musica sacra che Liszt descrive in un articolo del
1834: [la musica sacra deve] “unire in una grandiosa relazione, teatro e chiesa; [deve essere] nello
stesso tempo drammatica e santa, sontuosa e semplice, solenne e severa, ardente e impetuosa,
tempestosa e calma, pura e fervente”.46
46
P. MERRICK, Revolution and Religion in the Music of Liszt, CUP Archive, Cambridge, 1987, pp. 19-20.
FRANZ LISZT, Gesammelte Schriften, Lipsia, 1882.
77
6.2 Arcaismo e modernità nella musica “gregoriana” di Ottorino Respighi
47
Cfr. ELSA RESPIGHI, Ottorino Respighi: Dati biografici ordinati, Milano, Ricordi, 1954, p. 125; cfr. inoltre E.
RESPIGHI, L'influence du chant grégorien dans la musique de Respighi, in «Schweizerische Musikzeitung», aprile
1956, p. 161.
48
Cfr. ATTILIO PIOVANO, in Ottorino Respighi, Eri Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Torino, 1985, p. 207.
49
Cfr. GIORGIO PESTELLI, La “Generazione dell'Ottanta” e la resistibile ascesa della musicologia italiana, in
Musica italiana del Primo Novecento - La Generazione dell’80, Atti del Convegno, Firenze 9-11 maggio 1980, a cura
di F. Nicolodi, Firenze, Olschki, 1981, p. 31 e sgg.; sull'argomento si veda, inoltre, il saggio di FIAMMA NICOLODI,
Per una ricognizione della musica antica, in Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Firenze, Sansoni, 1982,
pp. 67-118.
78
contatto diretto con costoro, sicuramente il clima culturale di quegli anni lasciò traccia nel giovane
compositore. In particolare, fu Giovanni Tebaldini, in un articolo del 1914 comparso sulla rivista
«Harmonia», ad “attirare 1'attenzione sui primi studi di gregorianistica”50 che quasi sicuramente
Respighi già conosceva, così come certamente non fu all’oscuro dell’attività dei benedettini di
Solesmes51.
Non si dimentichi, inoltre, che l’interesse di Respighi per le musiche del passato, conservate
presso la biblioteca del Liceo bolognese, risale ai primi anni del nostro secolo52.
Si tratta, in conclusione, di una serie di stimoli culturali che sicuramente ebbero presa sul
giovane Respighi fin dagli anni della formazione. Respighi non fu certo l’unico in quegli anni a
interessarsi al gregoriano e a utilizzarlo poi sistematicamente nelle proprie composizioni: ebbe
infatti come compagni di percorso quasi tutti gli altri esponenti della “generazione dell'Ottanta”
(Pizzetti soprattutto), anch’essi operanti nel medesimo clima di rinnovamento e di superamento del
passato (superamento, in special modo, della tradizione melodrammatica ottocentesca).
Esaminiamo ora una tra le più significative partiture di Respighi nella quale si osserva un
ricorso esplicito al modalismo, e nella quale è possibile altresì riscontrare un impiego costante di
veri e propri elementi tematici gregoriani.
Dedicato dall’autore all'amico intimo e valentissimo violinista Arrigo Serato, il Concerto
gregoriano, la cui partitura prevede un organico orchestrale assai ampio, venne composto nel 1921
e pubblicato dalla casa editrice Universal nel 1922. Il Concerto si divide in tre movimenti; tuttavia
giacché i primi due (“Andante tranquillo” e “Andante espressivo”) devono venire eseguiti
strettamente collegati l'uno all'altro, mentre solamente l'ultimo tempo (“Allegro energico”) indicato
quale “Finale (Alleluja.)” è nettamente separato, all’ ascolto il Concerto risulta piuttosto diviso in
due grandi blocchi, a loro volta pluri-frazionati in numerose contrastanti sezioni.
Il primo movimento si apre con una calma introduzione di quinte vuote, realizzate da violini e
viole che prelude all'esposizione di un tema modale da parte degli oboi:
50
Cfr. GIORGIO PESTELLI, La “Generazione dell'Ottanta” e la resistibile ascesa della musicologia italiana, in
Musica italiana del Primo Novecento - La Generazione dell’80, Atti del Convegno, Firenze 9-11 maggio 1980, a cura
di F. Nicolodi, Firenze, Olschki, 1981, pp. 31-32.
51
Si ricordano, al riguardo, alcune date fondamentali: il primo fascicolo della Paleographie musicale è del 1889. A
dieci anni di distanza, l'esecuzione da parte di Perosi di melodie gregoriane, che egli dimostrò appartenere agli archivi
vaticani, pose con urgenza il problema della riforma del corpus gregoriano e, per usare le parole di Cattin, «fece
precipitare la situazione a favore di Solesmes». Finalmente è del 1903 il Motu proprio che costituisce la prima tappa
della riforma. A partire dal 1905 compaiono i primi volumi della Editio vaticana a cura di Dom Pothier.
52
Cfr. ancora la testimonianza di ELSA RESPIGHI, O. Respighi, dati biografici ... Op. cit., p. 30.
79
Si tratta di una melopea in primo modo trasposto: il tema viene immediatamente ripreso e
imitato, dapprima dal corno inglese quindi dal fagotto, accompagnati da note lunghe in quinta e poi
solo in ottava degli archi che si diradano sempre più per poi riprendere il tema lento iniziale assieme
ai flauti, in una tessitura grave, clarinetto basso, fagotti, corni, e trombe, con una prevalenza di
colore scuro e profondo, su cui si staglierà l’entrata del violino solo con la melodia prima
appartenuta all’oboe:
80
Adotterò qui i termini propri della teoria classica greca53 per definire i diversi modi gregoriani,
come soleva fare Respighi e come si deduce chiaramente da alcuni dei titoli di sue composizioni
(Concerto in modo misolidio, Quartetto dorico).
Si nota una grande sapienza nel combinare diverse scale modali per ottenere quello che pure
nel canto gregoriano originale può a buona ragione chiamarsi “modulazione”, ossia cambio di modo
di ochtoechos o semplicemente, nelle melodie più arcaiche, cambio di corda madre e trasposizione
esacordale. La frase iniziale, come si è detto, è scritta in dorico trasportato in La:
cui segue l’abbassamento della corda mobile da Si a Sib (in trasposizione: da Fa# a Fa
naturale), cosa che ritroviamo normalmente nelle melodie in primo modo gregoriano. Ma è
possibile anche interpretarlo come una modulazione al tardivo modo eolio54:
53
I termini dorius, phrigius, lidius, con l’aggiunta del termine mixolidius furono adottati dai classici latini (tra cui
Marziano Capella, Boezio e Cassiodoro) come naturale riferimento a tutta la dottrina musicale greca ma, nei trattati del
IX-X secolo, con doppia applicazione: in omaggio a Boezio e come ripetizione del formulario teorico dell’antichità, e
per esporre una teoria embrionale più adatta alla pratica coeva. Manca infatti, nei primi trattati dell’epoca carolingia una
nomenclatura autonoma e definita. Questi termini nel Medioevo, dall’Alia Musica (X sec.) in poi verranno applicati alle
«ottave modali» ecclesiastiche. La compilazione di tale trattato, proveniente probabilmente dalla Francia nord-orientale
o dalle Fiandre occidentali, frutto di una equivoca interpretazione del testo di Boezio, risulterà fondamentale per le
ripercussioni che avrà sui teorici posteriori.
A partire dal IX secolo appaiono, riferiti agli 8 toni ecclesiastici, anche altri vocaboli che dobbiamo alla tradizione della
chiesa orientale: i termini greci latinizzati prima solo di authentus e plagalis, quindi l’ulteriore divisione in protus,
deuterus, tritus, tetrardus. Gli elementi di origine bizantina infiltratisi nella pratica e nella teoria occidentale in epoca
carolingia vengono a sovrapporsi a sistemi salmodici orientali e occidentali più antichi e affrettano una classificazione
tonale già avvertita come necessità. (Cfr. MARIA TERESA ROSA-BAREZZANI, Modalità, in Dizionario
Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, UTET, Torino, 1983).
54
Glareanus (Dodecachordon, 1547) propone l’adozione di 12 modi, aggiungendo agli 8 tradizionali quello di La e
quello di Do con i relativi plagali, appicando loro i termini aeolius e ionius. Questo procedimento è suggerito da
Glareanus non, come spesso si suol dire, per introdurre 2 scale corrispondenti ai moderni minore e maggiore, o ancor
meno per innovare la teoria del canto liturgico, bensì per perfezionare e completare quest’ultima, anche in vista
dell’applicazione dei modi tradizionali alla polifonia.
81
Si tratta di una continua “modulazione”, intesa come passaggio dall’uno all’altro dei modi
d’ochtoechos, sia trasposti che in scrittura originale:
82
Nella sezione che segue, la terza dell’accordo è eseguita solo dal violino solista e poi dai
clarinetti che lo imitano, mentre gli archi che l’accompagnano con accordi lunghi presentano
accordi con quinte vuote:
- n. 2 “Allegro molto moderato”
Do maggiore
La minore
Do maggiore
La minore
Re minore
La minore
Re minore
La minore
A partire dalla battuta 48 “Sostenuto”, dopo una sezione “Mosso” e in crescendo fino al
fortissimo, sempre costruita sulle armonie precedenti, il carattere cambia completamente.
Osserviamo qui come l’elemento modale entri nell’armonia e nella figurazione melodica in un
modo tipico del linguaggio di Debussy, ove la modalità viene spesso impiegata “in funzione di
allentamento della tensione tonale propria del tardo-romanticismo tedesco”55.
Possiamo mettere alcuni elementi a confronto, ad esempio, con il Prélude à l’après-midi d’un
faune. In certo qual modo, la stessa melodia iniziale dell’oboe di Respighi presenta assonanze con
la melodia del flauto che apre il Prélude, nel suo inciso conclusivo.
55
GUIDO SALVETTI, Il Novecento I, EDT, Torino, 1977, p. 183.
83
Anche nel frammento della melodia di Debussy ritroviamo quel 4 grado aumentato dal sapore
arcaico che caratterizza la melodia di Respighi:
Ma tornando alla sezione centrale del brano di Respighi, notiamo come esso si apra con un
accordo di settima di III specie, accordo che non avevamo incontrato fino ad ora, e, dopo alcune
battute sospese sull’accordo di Re minore con la melodia del violino che presenta il Si bequadro,
dunque un chiarissimo modo dorico, segue un lunghissimo pedale di Fa, da battuta 52 alla battuta
73 dove si ha la vera e propria ripresa. Su questo pedale si susseguono accordi di settima di IV
specie che, grazie all’abbassamento della 7, si trasformano in settima di dominante utilizzata per il
suo colore e non più per la sua funzione. Un simile uso dell’accordo di settima di dominante lo
possiamo ritrovare in Debussy. La stessa melodia del violino in questi passaggi ha chiare assonanze
con il frammento iniziale della melodia del flauto in Debussy. Naturalmente, non si sostiene che ci
sia stato plagio, ma, dato l’interesse di Respighi nei confronti della musica del compositore
francese, piuttosto, che abbia avuto presente un certo colore orchestrale, un particolare uso
dell’armonia, un melodizzare con cui Debussy ama esprimersi.
84
Respighi: Concerto gregoriano – batt. 50-58:
85
86
Debussy: Prélude à l’après-midi d’un faune – batt. 11-15:
87
Questo confronto è di particolare interesse perché ci mostra come l’influenza del canto
gregoriano in Respighi avvenga secondo vari tipi di approccio. Egli fu capace di ripensare l’antico
in senso completamente diverso rispetto ad un gusto ancora tutto ottocentesco56 che aveva per altro
informato alcuni suoi precoci accostamenti alla musica del passato, per esempio, nel trascrivere il
monteverdiano Lamento d’Arianna. Questi suoi procedimenti novecenteschi lo apparentano a
Pizzetti e a Malipiero, pur convivendo con tratti tradizionali e addirittura tardo-romantici.
Con la ripresa che, come abbiamo detto, avviene alla battuta 73, ritorna l’atmosfera arcana ed
evanescente che aveva caratterizzato l’inizio della composizione ed una estesa cadenza del violino
introduce direttamente il secondo movimento, questa volta fondato su un tema originale gregoriano:
la sequenza Victimae paschali laudes57:
56
Cfr. FEDELE D’AMICO, Situazione di Ottorino Respighi (1979-1979), su «Vita italiana: documenti e informazioni»,
vol. XXIX (1979) n. 8, N. S., Roma, Libreria dello Stato, 1980 e in Ottorino Respighi, Eri Edizioni Rai
Radiotelevisione Italiana, Torino, 1985 p. 111.
57
Victimae paschali laudes (per la Pasqua), attribuita a Wipo di Borgogna (990-1050), cappellano alla Corte di Corrado
II, sul tema musicale di All. Christus resurgens (GT 226). In origine aveva nove strofe; in seguito fu tolta l'ottava strofa
(Credendum est magis soli Mariae veraci quam Iudaeorum turbae fallaci), cosicché si è venuto a determinare lo
schema con la prima strofa che fa da preludio e l'ultima da conclusione. Le altre strofe seguono a due a due, appaiate in
linea orizzontale (2-3) e verticale (4-6 e 5-7).
88
Respighi evita le ripetizioni melodiche che hanno luogo nella sequenza, e prende il materiale
musicale corrispondente ai primi cinque emistichi. Riprende poi da “Dic nobis Maria” e chiude
dopo il terzo emistichio con una cadenza che corrisponde alle ripetizione delle parole “quid vidisti
in via?” o anche a “sudarium et vestes”, a valori più allargati.
6. Angelicos testes,
7. sudarium, et vestes.
8. Surrexit Christus spes mea:
praecedet suos in Galilaeam.
Respighi: Concerto gregoriano – II mov. batt. 109-119, parte del violino solo:
Interessante osservare come egli, seguendo una tecnica già impiegata in altre sue composizioni
“gregoriane”, abbia utilizzato un ritmo estremamente mutevole e vario nel tentativo di riprodurre
così la libertà ritmico-fraseologica tipica del melodizzare gregoriano. In questo movimento
troviamo l’alternarsi di sezioni in cui la melodia gregoriana ritorna quasi invariata nel suo aspetto
melodico e ritmico, quasi a volerne preservare un’aura di inviolabilità, ma trasfigurata
89
timbricamente, e immersa in atmosfere impreziosite da effetti sonori assolutamente singolari,
spesso con grande economia di mezzi.
Respighi: Concerto gregoriano – II mov. batt. 109-121, prima esposizione del tema da parte
del violino solo:
90
Respighi: Concerto gregoriano – II mov. batt. 127-138, seconda esposizione del tema da parte
del clarinetto basso e poi dei 4 corni.
91
92
93
Respighi: Concerto gregoriano – II mov. batt. 184-196, terza esposizione del tema da parte del
violino solo all’acuto, e poi dei violoncelli.
94
Alla battuta 204 i clarinetti, il clarinetto basso e i fagotti ripresenteranno nuovamente il tema
ma variandone la conclusione.
Le sezioni che invece si alternano a queste sono caratterizzate da temi gregorianeggianti e da
un’armonia a tratti modale, a tratti nello stile che avevamo ritrovato anche nel primo movimento,
con accordi aumentati e settime di dominante, settime di quarta specie, e questo in particolare nella
sezione che conclude questo secondo movimento.
95
Questa la melodia che Respighi ne trae:
Egli altera l’originale gregoriano nell’incipit, elimina i Si, cambia la nota cadenzale finale da
Sol in Fa e lo amplia nella seconda parte aggiungendovi una libera clausola cadenzante. Non è più
quindi una vera e propria citazione come nel movimento precedente, bensì una rielaborazione della
melopea originale. Grazie alle variazioni apportate alla melodia, essa tende a perdere i caratteri
tipici dell’VIII modo (finalis Sol e dominante di composizione Do), perché, se non si conoscesse
l’originale, si sarebbe indotti a pensare a un tema in quinto modo (finalis Fa, dominante di
composizione Do).
Il tema in apertura viene esposto dai corni mentre gli altri strumenti intervengono con energici
incisi accordali (battute 229-242, prima esposizione del tema da parte dei corni cui segue la seconda
esposizione da parte del violino solo):
96
97
Anche in questo movimento abbiamo l’alternanza di episodi che ripropongono il tema per
intero e senza alcuna variazione, e altri che ne sviluppano solo alcuni incisi. L’andamento allegro
98
del movimento fa sì che il tema modale perda quasi ogni carattere di religiosità assomigliando
piuttosto a una energica danza.58
Estremamente rilevante la capacità del compositore di trasformare incessantemente questi
elementi presentandoli in combinazioni sempre nuove e differenti, sebbene eviti, in linea di
massima, procedimenti di sviluppo veri e propri, preferendo un’articolazione del discorso in sezioni
contrastanti l’una con l’altra.
Questo non è il solo brano in cui Respighi si sia rivolto al canto gregoriano, citandone
letteralmente alcune melodie o avvalendosi dei modi e delle scale antiche. Altri esempi sono: Tre
Preludi sopra melodie gregoriane per pianoforte, Trittico botticelliano, il Quartetto dorico,
Concerto a cinque, Concerto in modo misolidio per pianoforte e orchestra, Vetrate di chiesa,
Metamorfosi sinfoniche. Dalla qualità e quantità di brani, dagli spunti che seppe trarre per il proprio
stile, si deduce che per Respighi, l’incursione nel campo del canto gregoriano non fu un’esperienza
occasionale, ma anzi divenne una precisa tendenza stilistica. Tendenza che lo associa ad altri
componenti della “Generazione dell’Ottanta” che volevano attingere nel canto gregoriano le norme
di un nuovo melodismo, caratterizzato armonicamente dal sapore modale. E fu proprio tale
«volontà d’arcaismo» (l’espressione è di Boulez) a consentire a Respighi di aggiungere un colore
diverso, più asciutto e trasparente alla sua ricca tavolozza orchestrale: un connotato arcaizzante che
diventò una sorta di gergo musicale, la cadenza di una tradizione nazionalistica, accanto alle
avanguardie del primo Novecento europeo parzialmente seguite da Casella e Malipiero.
La poetica del gregoriano fu per un compositore quale Respighi, mai d’avanguardia e mai
sperimentatore, un’esigenza spirituale prima che estetizzante, spirituale in senso mistico, in una
netta dicotomia con l’atteggiamento sacro: infatti, un’intonazione paganeggiante informa sempre le
sue pagine di carattere genericamente arcaico.
E’ importante notare inoltre come egli viva in un’epoca in cui si giunge a stigmatizzare ogni
edonismo sonoro mentre, a livello pittorico, troviamo il recupero del primitivo con Derain che si
ispirerà a Giotto e al ‘400 toscano. E’ naturale dunque vedere nel gregorianismo di Respighi e
Pizzetti, una relazione con il “giottismo” di Carrà, in cui il critico tedesco Heftman vedeva il
risorgere dell’Italia «arcaica e paesana nella sua antica solennità e nella sua malinconica
grandezza». Esattamente come per l’arte figurativa, anche per la musica il ritorno al passato
rappresentò in Italia l’aspirazione a una più intensa vita spirituale che rappresenterà la spinta per i
musicisti dell’”Ottanta” all’adozione di un linguaggio arcaico, polimodale, tipico della nostra antica
tradizione gregoriana e madrigalistica.
I brani “gregoriani” di Respighi rappresentano un momento “costruttivo” importante nella
nostra storia di inizio Novecento e palesano agganci precisi con alcune tra le più importanti
tendenza europee. Secondo Sergio Marinotti59, composizioni quali la Lauda per la Natività del
Signore, possono rappresentare «l’alternativa italiana, certo provinciale e strapaesana, a una delle
più alte opere sacre del nostro secolo, la Sinfonia di Salmi di Stravinsky […]. Un altro emblema
della cifra europea di Respighi».
58
Come rileva Attilio Piovano nel suo articolo A. PIOVANO in Ottorino Respighi, Eri Edizioni Rai Radiotelevisione
Italiana, Torino 1985, il tema gregoriano così formulato presenta una curiosa somiglianza con un frase inserita da
Dvoràk nel primo tempo della IX Sinfonia Op. 95 “Dal nuovo mondo” (composta nel 1892-93) e derivante dallo
spiritual Swing Lo’ Sweet Chariot (batt. 149 del I mov. Flauto solo). E l’attacco stesso del “Finale” del Concerto
gregoriano”, con quel suo caratteristico andamento quasi da danza a piena orchestra, sembra richiamarsi, almeno nello
spirito, a più di una pagina della su citata Sinfonia di Dvoràk.
59
S. MARTINOTTI, Respighi tra modernità ed arcaismo in Musica italiana del primo Novecento “La generazione
dell’Ottanta”, Atti del Convegno, Firenze 9-11 maggio 1980, a cura di F. Nicolodi, Firenze, Olschki, 1981, p. 131.
99
7. NUOVI COLORI, FORME, ATMOSFERE: IL GREGORIANO APRE
STRAORDINARI E IMPENSABILI ORIZZONTI
Abbiamo osservato alcune composizioni di musicisti che si sono avvicinati al canto liturgico
medievale sfruttandone, sì, le peculiarità estetiche, melodiche e armoniche, ma citandone comunque
anche, letteralmente o quasi, le melodie originali. Questa prassi preservava l’integrità delle antiche
melodie, ma manteneva pure, in un certo qual modo, un distacco tra queste e la creazione del
musicista. Prendiamo in esame ora quelle composizioni che invece lo faranno assurgere a vero e
proprio motore di un rinnovamento e che di esso prenderanno i tratti più salienti, amalgamandoli
con gli stilemi e il gusto del compositore, tanto da divenirne sua parte integrante.
60
Charles-Marie-Anne Bordes (1863-1909) fu allievo di Marmontel e di C. Franck. Si fece notare in un primo tempo
per le sue doti di improvvisatore. Maestro di cappella a Nogent-sur-Marne e a St.-Gervais a Parigi, fondò l’Association
des Chanteurs de St.-Gervais allo scopo di diffondere le opere della polifonia classica e del canto gregoriano. Fondò
anche il periodico «La tribune de St.-Gervais».
61
Il cancelliere Eugène-Henri Vasnier riceveva spesso nella sua casa di Parigi o in quella di Ville d’Avray il giovane
musicista.
62
Santa Maria dell’Anima, vicino a Piazza Navona.
63
CLAUDE DEBUSSY, I bemolli sono blu : lettere 1884-1918 , a cura di François Lesure, Archinto, Milano, 1990, pp.
7-8.
100
A Parigi andava ad ascoltare i concerti dei «Chanteurs de St.-Gervais» come egli stesso ci
riferisce in una lettera a André Poniatowski64 del febbraio 1893: “[…] Questi ultimi giorni mi sono
consolato con una splendida emozione musicale: è stato a Saint-Gervais, una chiesa dove un prete
intelligente65 ha deciso di fare rivivere l’antica e bellissima musica sacra: hanno cantato una messa
di Palestrina per sole voci. […]
Sentendo quelle musiche, ci si domanda perché quest’arte, che è così bella, abbia poi deviato
per strade in cui non avrebbe incontrato che sventure, infatti è la sua stessa essenza che si è
trasformata, ed è veramente incredibile ritrovarcela oggi all’Operà!
Naturalmente a Saint-Gervais vi erano pochissimi musicisti, […]. C’erano viceversa dei
letterati e dei poeti, gente che ha saputo preservare meglio la sovranità della propria arte. […]”. 66
Saranno tuttavia i Benedettini a rivelare meglio di tutti le bellezze del canto gregoriano. La
liturgia sempre solenne permetteva agli artisti una conoscenza più ampia del suo vasto repertorio.
Da allora alcuni musicisti cominciarono a recarsi a Solesmes per andare alla sorgente della melodia
pura.
“Alcuni maestri illustri si danno appuntamento alla celebre abbazia”, disse l'abate Norbert
Rousseau. Fin dal 1894, anche Lorenzo Perosi, che diverrà più tardi direttore della Cappella Sistina,
amava accostarsi regolarmente ai segreti dell'arte gregoriana. Nel 1897, Charles Bordes, vi fece un
breve soggiorno. Conquistato dal fascino del primo viaggio, vi ritornò con Vincent d’Indy,
Alexandre Guilmant e trenta cantori della sua schola per seguire le lezioni di Dom Moquereau e
partecipare alla recita dell’Ufficio.67 L'abate Norbert Rousseau nel sua libro fa anche cenno alle
visite di altre personalità del mondo delle lettere, come Camille Bellague, Pierre Lalo e Louis
Laloy.68
Ma è forse nella gioventù di Debussy che noi ritroviamo avvenimenti ed occasioni che possono
maggiormente avere influenzato la sua sensibilità ed avergli fatto conoscere colori e sonorità che il
musicista maturo amalgamerà in una nuova e rivoluzionaria scrittura.
Egli nacque a Saint-Germain-en-Laye nel 1862. All’età di soli due anni fu affidato a sua zia
Madame Alfred Roustand che a Cannes si occupò della sua educazione e di quella di suo fratello e
sua sorella.
L’ambiente che egli trovò a Cannes presso sua zia fu molto diverso, da un punto di vista
intellettuale, sociale e soprattutto religioso, da quello che avrebbe trovato presso i suoi genitori,
modesti commercianti di Saint-Germain-en-Laye, i quali non erano praticanti. Madame Alfred
Roustand, infatti, donna profondamente credente, si preoccupò particolarmente della formazione
religiosa dei suoi nipoti. Si occupò ella stessa della loro educazione cercando il più possibile di
rendere il loro animo sensibile alla pietà e alla preghiera. Fece loro frequentare corsi di catechismo
e li fece regolarmene partecipare all’Ufficio presso la Cattedrale.69
Fu a Cannes che Claude Debussy, seguendo il desiderio di sua zia, cominciò, all'età di sei anni,
i suoi studi di pianoforte col professore italiano Cérutti e si rivelò presto come eccezionalmente
64
Industriale, banchiere, piantatore, il principe Poniatowski (1864-1955) era anche scrittore e grande amico di
Mallarmé, Degas e di molti altri letterati e artisti. Desideroso di sostenere materialmente Debussy, aveva progettato con
i suoi due amici americani, nonché direttori d’orchestra, Anton Seidl e Walter Damrosch, un concerto del compositore
negli Stati Uniti.
65
Si tratta dell’abate De Bussy (sic), curato di Saint-Gervais, assieme al quale Charles Bordes aveva fondato la Société
de propagande pour la divulgation des chefs-d'œuvre religieux, nome poi mutatosi per la troppa lunghezza, su proposta
dello stesso Bordes, in Schola Cantorum.
66
CLAUDE DEBUSSY, I bemolli sono blu : lettere 1884-1918 , a cura di François Lesure, Archinto, Milano, 1990, p.
28.
67
Cfr. Tribune de Saint-Gervais, 1899, p. 185.
68
Cfr. Ecole Grégorienne de Solesmes, Desclée, 1930, p. 58.
69
Queste informazioni sulla educazione di Debussy le ha fornite la sorella, Adèle Debussy, invitata in Svizzera da
Radio Genève per assistere al concerto commemorativo in occasione del 30° anniversario della morte di Claude
Debussy, in un dialogo che ella ebbe con Julia D’Almendra. (Cfr. JULIA D’ALMENDRA, Les modes grégoriens dans
l’œuvre de Claude Debussy, Librairie Gabriel Enault, Paris, 1950, p. 62).
101
dotato. Nel 1873, all'età di soli undici anni, si iscrisse al Conservatoire di Parigi, ove Mauté de
Fleurville, ex allieva di Chopin, notando il suo talento, consigliò alla famiglia di fargli seguire la
carriera di musicista.
Andò dunque ad abitare a Parigi, ma non appena ne aveva l’occasione, tornava a Cannes, città
che amava moltissimo, così come amava molto sua zia. E questo accadde fino ai suoi 19 anni,
quando la zia venne a mancare.
Fu dunque verosimilmente in questa città che subì maggiormente l’influenza della modalità e
del canto gregoriano, partecipando all’Ufficio presso la Cattedrale. Sua sorella ha rivelato che, in
tutti i suoi soggiorni a Cannes, Claude Debussy, secondo il desiderio di Madame Roustan, andava a
cercarla presso il Convitto delle Suore di Saint-Thomas de Villeneuve per accompagnarla
regolarmente alle Messe solenni in Cattedrale.
Questo fatto fondamentale, ignorato dagli storici, ha giocato un ruolo della più alta importanza
nella formazione dell'orecchio e delle tendenze del giovane Debussy.
Con tutta la permeabilità della sua giovane sensibilità musicale, il piccolo Claude si è dovuto
accorgere presto della differenza di struttura e di ritmo che esisteva tra le musiche su cui studiava
con il suo maestro e quella che egli stesso aveva potuto cantare nella Cattedrale.
E’ logico pensare che egli si sia orientato nettamente verso la modalità prima ancora di entrare
al Conservatorio di Parigi, dove non ritroverà più le armonie della sua infanzia. Si spiega così,
come ci riferisce Maurice Emmanuel,70 “la mediocrità dei suoi studi di armonia propriamente detta,
al Conservatorio”71 e “il suo orrore per le abituali formule di cadenza […]. Il professore esigeva che
la «quarta e sesta» annunciasse la cadenza della «dominante» sulla tonica. Ed il discepolo si
ingegnava ad evitare questa routine. Da qui ne nasceva una discussione continua. Durante tre o
quattro anni, rimproverato ad ogni istante, vegetò in questa pesante atmosfera di una classe dove la
musica portava una parrucca, brutta e consumata”.72
Si arriva dunque alla gioventù di Debussy, quando egli, come abbiamo visto, ascolta con tanto
entusiasmo la musica rinascimentale, diretta derivazione del canto gregoriano: “[nella musica di
Bach] vi si ritrova quasi intatto quell’”arabesco musicale” che è la base di tutti i tipi d’arte […].
I primitivi, Palestrina, Vittoria, Orlando di Lasso, ecc., si servirono di questo divino
“arabesco”. Essi ne trovarono il principio nel canto gregoriano, e ne rinforzarono i fragili intrecci
con resistenti contrappunti. […]”.73
Come gli impressionisti ed i simbolisti, egli voleva liberarsi di tutte le costrizioni dogmatiche
che lo legavano al romanticismo o al classicismo; l'arte non doveva accettare dittature. Solo il suo
gusto, le sue emozioni, dovevano orientare il suo genio.
La musica prende parte all'allargamento generale della reazione spirituale iniziata dai poeti e
pittori dell’epoca. Essa si dibatteva tra la tradizione e le nuove ispirazioni. Malgrado l'influenza
wagneriana, la musica francese faceva degli sforzi per liberarsi dalla corrente tedesca, per ritrovare
70
Marie François Maurice Emmanuel (1862-1938), fu compositore e musicologo. Studiò pianoforte con Ravazzi,
armonia con Theodore Dubois (6 dicembre 1881 - Archivi nazionali, AJ 37/105*), storia della musica con Bourgault-
Ducoudray e composizione con Leo Delibes. Fece pure studi di filologia classica e storia dell'arte alla Sorbona e
all'Ecole du Louvre. Ha conseguito la laurea in lettere nel 1887. La sua elaborazione dei ritmi e l’introduzione di modi
antichi gli guadagnarono la censura di Leo Delibes che non gli consentì di competere per il «Prix de Rome». Fece corsi
con Ernest Guiraud e si legò con Debussy.
Si è avuto qualche motivo di mettere in dubbio la fedeltà della memoria di Emmanuel. Le informazioni da lui fornite
non erano tutte di prima mano. Fu da Marmontel, in rue Blanche, dove era bene accolto, che egli udì quelle “armonie
nuove secondo Achille” che il padrone di casa serviva a ospiti come Reyer, Guiraud e Réty. Emmanuel aggiunge che
“ciò avveniva negli anni successivi al 1880”. Di prima mano erano invece le fantasie armoniche suonate da Achille al
corso di Delibes, libertà che sembravano affascinare il futuro musicologo e che egli si affrettava a riportate da
Marmontel. (Cfr. FRANÇOIS LESURE, C. GAZZELLI Debussy. Gli anni del simbolismo, EDT srl, Torino, 1994, p.
32).
71
MAURICE EMMANUEL, Pelléas et Mélisande de Claude Debussy: Étude et Analyse, Mellottée, Paris, 1926, p. 17.
72
ibidem, p. 12.
73
CLAUDE DEBUSSY, Il signor Croche antidilettante, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1986, p. 36.
102
l'istinto che aveva prodotto tanti capolavori al tempo lontano dei clavicembalisti. Berlioz, Gounod,
Saint-Saëns, Massenet, Chabrier, Vincent d’Indy, provarono ad aprire nuove strade, senza arrivare,
tuttavia, a scostarsi dell'arte classica. Quando essi si permisero di fare alcune infrazioni alle leggi
classiche, l'armonia ristabiliva molto rapidamente l'equilibrio.
Si è visto anche nel modo di utilizzare il canto gregoriano di questa epoca un esempio di questa
mentalità, e questo è forse perché, di tutti questi compositori, Debussy fu forse il solo a non mai
volere “fare del canto gregoriano”, mentre fu anche il solo a ritrovarne lo spirito.
Tra i mezzi tecnici adoperati da Debussy per realizzare il suo scopo, molti sono stati già
analizzati e lungamente commentati. Uno pare non abbia ottenuto sufficientemente attenzione, ed è
quello che ci si è proposti di studiare.
È precisamente all'epoca in cui si manifesta la personalità di Debussy nella sua arte, che il
movimento di restaurazione del canto gregoriano, iniziato da Solesmes, comincia a diffondersi.
Esso porta un’estetica nuova che risponde alle ispirazioni a cui abbiamo accennato innanzi.
Debussy ha conosciuto questa restaurazione? Certamente non nel dettaglio tecnico. Infatti, è
possibile verificare che non potrebbe essere una influenza diretta ad ispirare Debussy, poiché fin da
“Mandoline” (1882) troviamo già le prime rivelazioni modali nelle sue opere, mentre la
pubblicazione del Graduale data l’anno seguente.
Già dalle prime misure viene creata un’atmosfera del tutto nuova. Infatti, pur non essendoci
nessun accidente in chiave, non siamo realmente né in Do maggiore, né in La minore ma in un VII
modo gregoriano. Il colore modale è enfatizzato dall’accordo di 9° di dominante senza terza, dalle
due quinte sovrapposte, ugualmente caratterizzanti i rapporti scalari del VII modo.
103
Ma i concerti di musica sacra rinascimentale che dovevano suscitare più tardi l’entusiasmo del
compositore francese, erano essi stessi il risultato del movimento di restaurazione. Essi
esprimevano, in un certo qual modo, i bisogni estetici che egli provava in quel momento e
risvegliavano in lui i ricordi della sua infanzia e dei suoi soggiorni a Cannes, ricordi di una musica
più imperfetta probabilmente, ma la cui impronta profonda aveva persistito nel suo subconscio.
Nella sua musica si ritrovano questi ricordi lontani, venuti ad aggiungersi a nuove impressioni.
Sono le eco, coscienti o inconsce, di questa nuova atmosfera musicale.
Pelléas et Mélisande è il grande capolavoro di Debussy. Segna l'apogeo della suo opera, nello
stesso momento in cui egli affermava nel modo più completo non solo il suo genio, ma anche i gusti
e le predilezioni del suo spirito. In Pelléas i colori della tavolozza sonora di Debussy si fondono in
un modo più profondo, più intimo rispetto alle opere precedenti; l'impressione che se ne ricava ha
un carattere quasi religioso e mistico.
Si nota come Debussy in questa opera faccia uso dei modi medievali per esprimere le
sfumature infinitamente delicate dei suoi colori ideali. Non si tratta di tinte forti, brillanti e robuste,
di contrasti sorprendenti, ma di tinte pallide, discrete e vaghe che perfettamente si adattano al
mistero della trama lirica.
Come nota Julia D’Almendra, i temi del Preludio di Pelléas et Mélisande sono del gregoriano
più puro. Essi sono scritti nel I modo, il “Modus Gravis” secondo gli antichi, un modo minore
senza sensibile, per natura raccolto, ma allo stesso tempo grave e solenne, calmo e risoluto:
Anche l’armonizzazione, per lo più per quinte parallele, contribuisce a dare un colore arcaico a
questa melodia.
104
Il secondo tema è possibile consideralo scritto sempre in I modo, oppure, come avremo
conferma dall’uso che ne farà alla fine del Preludio, è pure possibile pensarlo come costruito sulla
dominante del VII modo.
VII modo:
Alla battuta 5 esso è armonizzato con accordi creati su una scala esatonale:
Il secondo tema che appare invece alla battuta 12 è trasposto una quarta sopra ed armonizzato,
su un doppio pedale di quinta, Sib-Fa, con una settima sul quinto grado del VII modo, e un accordo
maggiore con nona minore, in cui è presente una nota alterata, Do diesis (= Sol diesis) estranea alla
scala modale:
105
Questa la realizzazione orchestrale:
Da questi temi così brevi e semplici nasce subito un'atmosfera speciale. A Debussy bastano uno
o due accordi per creare una ambientazione profondamente impregnata di mistero che ha spesso
106
qualche cosa di religioso. Il Preludio si svolge interamente in questa atmosfera, ed è ancora alla
ripresa del secondo tema che sale il sipario, (4 battute prima di 3) e si vede Mélisande a bordo di
una fontana:
Dopo il dialogo tra Golaud e Melisand torneranno i due temi iniziali con una armonizzazione
modale:
20
107
108
E’ particolarmente interessante vedere come, nelle ultime sei misure del frammento sopra
proposto, vengano sovrapposti i due temi. L’armonizzazione del secondo tema presenta qui il Mi
bemolle mentre il Si non viene espresso. Il primo tema, in I modo, viene riproposto alla quarta
sopra (esacordo molle) come pure il secondo tema, in VII modo, utilizzando la seguente
trasposizione:
109
Nella sezione che abbiamo sopra riportato, ove abbiamo notato la sovrapposizione del I e II
tema, grazie all’uso in qualità di ostinato di terzine che presentano in sé disegni binari, egli realizza
una totale instabilità ritmica, su cui i due temi emergono quasi sospesi nel tempo.
Il canto di Golaud è anch’esso un continuo alternarsi di gruppi binari e ternari e sorprende per
il suo carattere salmodiante, caratteristica che dominerà tutta l’opera:
Di grande intereresse è la parte di Geneviève, sia da un punto di vista ritmico che melodico.
Non la si può definire né un’aria, né un recitativo nel senso comune dei termini. Senza grandi salti
melodici, è una linea melodica che non ha che calme ascese e che si svolge per lo più su un recto
tono, come un recitativo salmodico.
Alcune cadenze di frase sono dei semplici riposi, ma altre possono essere riconosciute come
tipiche cadenze gregoriane. Ne è un esempio già la prima frase in cui Geneviève annuncia ad Arkel
l’arrivo di una lettera di Golaud a suo fratello Pelléas, (II Scena, quarta di 22):
110
Sembra la tipica cadenza del deuterus, con il tono intero sotto la tonica, che possiamo
paragonare alle cadenze di diversi canti del graduale, antifone, inni, o all’Amen del Gloria XV, uno
dei brani che rappresenta l’innodia libera più arcaica, assieme al Te Deum, che ci sia pervenuta
intatta.
Questo tipo di cadenza, con maggiori o minori ornamentazioni, fa perno sulle note Sol Mi Re
Mi, quelle attorno a cui si muove la cadenza creata da Debussy. In realtà, tutto l’assolo di
Geneviève pare costruito per lo più su un deuterus:
23
111
Questo primo frammento, al di là della diversa scelta delle corde di recita, ha chiare assonanze
con il Gloria XV che abbiamo poco sopra presentato.
La declamazione musicale è molto simile a quella del recitativo liturgico del canto gregoriano:
la divisione in battute, dato il tipo di scrittura vocale, risulta quasi una esigenza dettata solo da
necessità di partitura, ma è chiara la volontà del compositore di basare il ritmo sulla parola invece
che sulla misura, da ciò che scrive alla quinta di 23:
112
Tutta la frase precedente si distende sulle note su cui insistono il III e IV modo gregoriano,
come mostra il parallelo con alcuni passaggi dell’Introito Omnis terra GT p. 260, ed in particolare,
con la salmodia semiornata del IV modo:
113
La frase che segue pare invece fare riferimento alle intonazioni tipiche del II modo gregoriano:
25
Lo può mostrare chiaramente il parallelo con l’Antifona Exsurge Domine, dal Liber Usualis p.
835, che presenta un formula d’incipit molto frequente nelle melodie di II modo:
114
Questo assolo di Arkel ha le stesse caratteristiche modali di quello di Geneviève, la stessa
libertà ritmica, la stessa agilità nel movimento sinuoso e delicato, senza grandi salti, senza grandi
contrasti:
27
115
28
116
ha movenze che possiamo ritrovare in molti canti in IV modo del Graduale. Per esempio la
possiamo mettere a confronto con l’Offertorio Benedixisti, Domine, GT p. 23:
La cadenza:
è molto simile a quella di Geneviève in II modo e rassomiglia ad una cadenza tipica di II modo
che possiamo per esempio ritrovare in una cadenza mediana dell’Offertorio Cibavit eos, GT p. 377:
La frase che troviamo poco dopo inoltre, per il suo carattere e per la curva melodica, ricorda
molto un passaggio dell’ Offertorio Intonuit de caelo, GT p. 204:
Il recitativo che segue la lettura della lettera a Pelléas si svolge dunque per lo più in ambiente
modale e con quel ritmo libero che è stato sottolineato precedentemente. E questo, per mantenere la
117
stessa recitazione quasi salmodiante che si potrebbe definire, con le parole di Julia D’Almendra,
una “salmodia lirica”. Il suo carattere rispetta perfettamente le scale modali gregoriane col Fa, ora
diesis, ora bequadro, che corrisponde al Si nei brani gregoriani, unica nota volubilis.
Gli intervalli dei tasti bianchi, su cui vengono costruiti i diversi modi con le loro diverse finalis,
col Si bemolle o il Si bequadro, che si trovano nel Gregoriano, sono stati semplicemente trasposti
da Debussy una quinta sopra:
Anche l'armonia con cui che Debussy sostiene e accompagna questo canto è assolutamente
modale, anzi, la si potrebbe quasi definire gregoriana, in quanto potrebbe, per lo più servire quale
accompagnamento ideale al canto gregoriano, secondo il tipico stile proposto dai monaci di
Solesmes.
la frase di Geneviève nella III scena del I atto (quinta di 36), «Devant le Château»:
nella I scena del II atto, «Une fontaine dans le parc», la frase di Pelléas (quarta di 3):
E ancora, nella stessa scena, la frase di Mélisande, quando il suo anello di fidanzamento cade
nell’acqua (ottava di 10):
11
Nella II scena del II atto, «Un appartement dans le château», tutta la parte iniziale del canto di
Golaud è in IV modo, con tipiche cadenze frigie (settima di 16):
118
Dopo qualche alterazione, tutto resta modale, e Debussy torna al IV modo, trasposto una quarta
sotto, su Si (nona di 17):
119
Quando Golaud chiede a Mélisande dove sia l’anello di fidanzamento che le aveva donato, lei
risponde (settima di 29):
30
Questa cadenza è molto simile a tante del repertorio liturgico in IV modo. Possiamo osservare,
per esempio, la cadenza finale dell’Offertorio Iustitiae Domini, GT p. 309:
Se infatti eliminiamo le note centrali dei climacus, resta precisamente la forma usata da
Debussy:
Sarebbe impossibile citare qui tutti i passaggi che rivelano riferimenti ed assonanze con la
modalità e la melodia gregoriana. Se ne possono infatti ritrovare in tutta l’opera: la melodia del
violino a tre prima di 34, alla fine della II scena del I atto, trasposta su esacordo duro, è in un IV
modo, la frase di Pelléas nella III scena del II atto «Ce sont trois vieux pauvres» rassomiglia alla
cadenza del IV tono salmodico, la melodia di Mélisande all’inizio del III atto «Mes longs cheveux»
è in un I modo trasposto e modula poi verso un V modo, le frasi di Yniold all’inizio della III scena
del IV atto «Oh! Cette pierre est lourde» e a seguire quelle Pelléas, nella IV scena «Et je n’ai pas
encor regardé», sono in IV modo, la frase di Arkel, «Regardez comme elle dort» all’inizio del V
atto è scritta in I modo, e sono possibili altri esempi ancora.
Abbiamo segnalato le cadenze più tipiche ed abbiamo notato come Debussy si sia servito
particolarmente del IV modo gregoriano. Si ritrovano, tuttavia, moltissimi casi in cui le cadenze
sono modalmente equivoche e possono esprimere modulazioni a modi diversi, dando così la
possibilità al compositore di muoversi in totale libertà.
D’altra parte, la concezione che informava lo spirito compositivo di Debussy è bene espressa
nella lettera che egli scrisse al suo editore, Jacques Durand, il 3 settembre 1907: “[…] Del resto, mi
convinco ogni giorno di più che la musica, per la sua stessa essenza, non è un qualcosa che si possa
riversare in un forma rigorosa e tradizionale. Ha colori e tempi ritmati … tutto il resto, non sono
120
altro che idiozie inventate da freddi imbecilli a spese dei maestri che hanno fatto quasi
esclusivamente musica d’epoca!
Solo Bach ha presagito la verità.
Ad ogni modo, la musica è un’arte giovane, sia come mezzo che come «scienza». […]”.74
Il musicista, dunque, guidato da un gusto raffinato ed un grande istinto, sfida le regole
classiche, ricerca nel passato nuovi procedimenti e nuovi elementi per dare alla musica mezzi di
espressione rinnovati. Pelléas et Mélisande è il capolavoro incontestabile che, all'aurora del XX
secolo, ha permesso a Debussy di realizzare in modo geniale l’unione tra passato e presente. Un
ritorno al passato non certo integrale, ma che tiene conto dei progressi realizzati durante i secoli.
Debussy ha sapientemente unito a tutti gli elementi presi in prestito dall'arte antica, tutti i preziosi
contributi creati dal suo genio divenendo così il caposcuola della renaissance francese.
74
CLAUDE DEBUSSY, I bemolli sono blu : lettere 1884-1918 , a cura di François Lesure, Archinto, Milano, 1990, p.
122.
121
7.2 Sinfonia di Salmi: tra passato e presente, il respiro della musica
Igor Stravinsky compone la Sinfonia di Salmi in quella che viene definita la sua stagione
«neoclassica», il cui inizio coincide con il suo graduale riavvicinamento alla chiesa ortodossa. Il
processo, iniziato attorno al 1920 grazie anche alla lettura dei “Vangeli e di altra letteratura di
argomento religioso” e la frequentazione a Nizza di padre Nicola Podosenov della chiesa russa, nel
1923 determinò un’acuta crisi spirituale e trasformò il compositore in un “autentico praticante della
chiesa ortodossa dal 1926 al 1939”75.
Se la coincidenza tra l’inizio dei due processi, artistico e spirituale, è certamente fortuita, non lo
è il parallelismo dei successivi sviluppi, in quanto la “religiosità ritrovata” determinò importanti
conseguenze anche sul piano creativo ed estetico.
La prima immediata conseguenza fu quella di interrompere per alcuni anni la produzione di
balletti. In una lettera a Diaghilev in cui lo avverte della sua intenzione di rientrare nella Chiesa,
Stravinsky parla del balletto come dell’«anathème du Christ», anche se sotto la metafora religiosa,
questa violenta condanna sembra mascherare un altro profondo desiderio: quello di allontanarsi ed
emanciparsi definitivamente da Diaghilev. Nelle Chroniques de ma vie, rievocando con
commozione l’amico morto da qualche anno, a proposito di questo allontanamento, affermava: “Le
nostre affinità di idee e di opinioni erano meno intime di prima, poiché col passare del tempo si
erano sviluppate secondo vie spesso diverse”76.
Molte delle convinzioni poetiche di Stravinsky sono fortemente impregnate di religiosità e di
un senso di santificazione dell’attività creativa. Nella Poetica della musica, scritta nel 1939, proprio
al culmine del periodo di più intenso fervore religioso, sottolinea come l’artista debba darsi ordine e
disciplina come chi recita una preghiera o compie un atto rituale; come egli debba porsi limiti per
non cadere nell’arbitrio e per essere più libero; intende la musica come principio unificante, come
“ricerca dell’uno attraverso il molteplice” e “come elemento di comunione con il prossimo e con
l’Essere”.
La religiosità incide sulla creatività di Stravinsky in diversi modi e a diversi livelli: troviamo
una religiosità implicita nello stesso atto creativo per cui egli dedica «alla gloria di Dio» lavori privi
di apparente contenuto religioso, come per esempio la Sinfonia in Do, oppure una religiosità che
investe opere di contenuto profano orientando il significato di miti pagani (Oedipus rex,
Perséphone, Orpheus) e di intrecci favolistici (Rake’s Progress) nella direzione di una sorta di
caritas cristiana, e ancora, una religiosità che si manifesta nella creazione di lavori di contenuto
sacro (Sinfonia di Salmi, Babel, Canticum Sacrum, Threni ed altri lavori del periodo seriale). C’è
infine una religiosità che si esplica nella composizione di lavori concepiti espressamente per una
destinazione liturgica (Messa, Tre cori sacri). Importante notare come egli operasse una netta
distinzione, oltre che tra sacro e profano, anche tra brano liturgico e brano concertistico: “Non si
può immaginare un fedele che assuma un’attitudine critica di fronte all’ufficio divino. Vi sarebbe
«contradictio in adjectio», il fedele cesserebbe di essere fedele. L’atteggiamento dello spettatore è
esattamente opposto: esso non è condizionato dalla fede, né dalla cieca sottomissione. A teatro si
ammira o si respinge; ciò richiede innanzi tutto un giudizio, non si accetta se non dopo aver
giudicato, anche inconsciamente. Il senso critico ha dunque una parte essenziale. Confondere questi
due ordini di idee, significa dar prova di mancanza assoluta di discernimento oltre che di cattivo
gusto”.77
Il rigore che qui rileviamo, e forse proprio la paura di cadere nel “cattivo gusto”, di mescolare e
confondere l’intima sfera religiosa con quella estetica e profana, trattenne Stravinsky dal rivelare la
75
IGOR STRAVINSKY - ROBERT CRAFT, Expositions and Developments, New York, 1962, in Colloqui con
Stravinsky, Einaudi, Torino, 1977, p. 265.
76
IGOR STRAVINSKY, Chroniques de ma vie, Paris, 1935; trad. it., Feltrinelli, Milano, 1979, p. 144.
77
Ibidem, pp. 40-41.
122
sua conversione nelle Croniques scritte nel 1935, così come dal non fare accenno ai suoi primi due
lavori di carattere liturgico, il Pater noster del 1926 ed il Credo del 1932. E quando parla della
Sinfonia di Salmi, «composta per la gloria di Dio», confuta un’interpretazione in chiave «ebraica»
di questo capolavoro, insiste sul tasto dell’«inespressività» della sua musica, ma tace sulla sua
conversione. Quest’opera è una confessione della sua religiosità più che eloquente, ma espressa in
forma oggettiva e impersonale.78
Nella composizione della Sinfonia di Salmi il tempo ha rappresentato un aspetto di grande
rilevanza che ha indotto Stravinsky a profonde riflessioni: “Nel musicare i versi dei salmi ero stato
molto occupato da problemi concernenti il tempo. Per me la relazione fra tempo e significato è una
questione primaria d’ordine musicale, e finché non sono sicuro di aver trovato il tempo giusto, non
posso comporre. Apparentemente i testi suggerivano varie velocità, ma questa varietà era senza
forma.”79 Il concetto di tempo è particolarmente importante nella concezione stravinskiana. Ne
parla nella Poetica della musica, ove distingue, citando il pensiero di Suvtchinsky80, “due specie di
musica: una si evolve parallelamente allo svolgimento del tempo ontologico e lo compenetra,
facendo nascere nello spirito dell’ascoltatore un sentimento di euforia e per così dire di «calma
dinamica»; l’altra supera o contrasta questo svolgimento, senza aderire al momento sonoro. Essa
sposta i centri di attrazione e di gravità e si stabilisce nell’instabile, il che la rende adatta ad
esprimere gli impulsi emotivi del suo autore. […]
La musica legata al tempo ontologico è generalmente dominata dal principio di somiglianza;
quella che si riferisce al tempo psicologico procede volentieri per contrasto.”81
Gianfranco Vinay propone una interessante analisi della Sinfonia di Salmi in cui prende in
esame soprattutto questo aspetto del tempo della composizione. Se ne riportano i passaggi più
salienti riguardanti particolarmente il primo movimento.
Stravinsky ha scelto i testi salmodici e l’ordine di successione “in modo da tracciare un
percorso spirituale che dalla supplica e dalla prostrazione (primo movimento – Salmo 38, vers. 13 e
14), attraverso la fede e la speranza (secondo movimento – Salmo 39, vers. 2,3 e 4) giunge alla lode
ed al giubilo (terzo movimento – Salmo 150, completo). […] Nei primi due movimenti il tempo
rimane inalterato ed uniforme per tutta la durata del movimento […] e il dinamismo espressivo è
realizzato principalmente con l’avvicendamento di ritmi diversi, movimenti contrappuntistici e
dislivelli fonici. Nel movimento finale, invece, la successione di tempi diversi trova il suo principio
unificante nel rapporto tra l’unità di tempo e le unità ritmiche […]. Nei primi due casi l’unità di
tempo determina l’unitas, mentre nel terzo, la varietas: in entrambi i casi, però, il rapporto tra
l’unitas e la varietas realizza la «calma dinamica» del tempo ontologico.
78
Cfr. GIANFRANCO VINAY, Stravinsky neoclassico, Marsilio Editori, Venezia, 1987, p. 155.
79
IGOR STRAVINSKY - ROBERT CRAFT, Dialogues and diary, London, 1961, 1968.
80
Pyotr Petrovich Suvchinsky, più tardi noto come Pierre Souvtchinsky (1892-1984), ucraino, fu un mecenate e
musicologo. Erede di una fortuna, prese lezioni di pianoforte da Felix Blumenthal ed inizialmente sperò di divenire
tenore lirico. Fu mecenate e co-editore del giornale musicale di San Pietroburgo Muzikalniy Sovremennik fondato nel
1915. Fu amico di Nikolai Myaskovsky, Prokofiev e Stravinsky. Emigrò dalla Russia nel 1922 e visse a Berlino e Sofia,
dove fondò la Russian-Bulgarian Publishing House; quindi a Parigi, dove rimase per il resto della sua vita. Fu ancora
attivo in circoli musicali e sostenitore della musica di Olivier Messiaen e Pierre Boulez nel dopoguerra; fondò assieme
a Boulez e Jean-Louis Barrault la serie di concerti Domaine musical. Il ritrovamento di suoi appunti dimostrerebbe
l’apporto concreto dato da Suvchinsky alla stesura stessa della Poetica della Musica di Stravinsky.
81
IGOR STRAVINSKY, Poétique musicale: sous forme de six leçons, (1939), Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1942, trad. it. Poetica della musica, Edizioni Curci, Milano, 1954, p. 29.
123
Nel primo movimento [vedi tabella sopra proposta, n.d.r] l'unità di tempo è , e una
prima sorpresa è riscontrare che la prima sezione fino alla transizione strumentale comprende
esattamente 92 tempi di battuta rapportati al valore di una semiminima; ciò significa che il tempo
reale di esecuzione è esattamente un minuto. La parte restante del movimento comprende 194
pulsazioni di semiminima, e quindi deve esser eseguito in un tempo approssimativo di 2 minuti
primi. All'interno di questo arco di tempo di 3 minuti circa si realizza un incremento e un
decremento: un incremento di intensità fonica e ritmica nei periodi che Stravinsky mette in
particolare risalto facendo spiccare certe parole salienti, di supplica, del testo: deprecationem, ne
sileas, remitte mihi. L'incremento ritmico consiste nella sovrapposizione, ai pedali di semicrome, di
entrambi gli ostinati ritmici (quartine di crome e di semicrome) che, separatamente e
alternativamente, creano un dinamismo ritmico all'interno del tempo costante: una circulatio
poliritmica della stessa formula a valori diminuiti di grande intensità espressiva. Il decremento è
invece quello delle cesure (accordo di Mi minore e piena orchestra e respiri); la frequenza con cui
ricorrono, massima nella sezione introduttiva, diminuisce nel corso del movimento, per scandire
infine solamente lo stacco tra una sezione e l'altra82”.
Stravinsky ciò nondimeno, sempre nella Poetica della musica, collega al discorso del tempo
anche quello dei rapporti tra i diversi suoni e i diversi accordi. Dopo avere parlato dei concetti di
consonanza e dissonanza e di come la “musica di ieri e di oggi [unisca] senza riguardo accordi
dissonanti paralleli che perdono così il loro valore funzionale” non comportando perciò più “di
necessità una risoluzione”, afferma come oggi appaia “necessario obbedire […] alla necessità eterna
di rinsaldare l’asse della nostra musica e di riconoscere l’esistenza di alcuni poli di attrazione. La
tonalità è solo un modo di orientare la musica verso questi poli. La funzione tonale è interamente
subordinata alla potenza attrattiva del polo sonoro ed ogni musica è una serie di slanci convergenti
verso un punto definito di riposo: il che è vero del canto gregoriano come della fuga di Bach, della
musica di Brahms come di quella di Debussy. […]
82
GIANFRANCO VINAY, Stravinsky neoclassico, Marsilio Editori, Venezia, 1987, pp. 158-159.
124
Le articolazioni del discorso musicale rivelano una relazione nascosta fra il tempo e il gioco
tonale. Poiché ogni musica è una serie di slanci e di riposi, è facile intendere che l’accostamento e
l’allontanamento dei poli d’attrazione determinano, per così dire, il respiro della musica.”83
Alla luce di queste affermazioni, si intende dunque analizzare il primo movimento della
Sinfonia di Salmi prendendo quindi in considerazione entrambi gli aspetti, tempo e armonia,
completando, per così dire, l’analisi del tempo della composizione compiuta da Vinay, con
l’osservazione dei diversi poli di attrazione. Potremo osservare in tal modo come questi siano
strettamente imparentati con la modalità e le cellule originarie della melodia gregoriana.
Osservando il materiale melodico e armonico della parte introduttiva, notiamo come esso
appartenga per lo più a scale modali, naturali o trasposte, ed, in particolar modo, al deuterus. Infatti,
prendendo in esame le singole quartine che compongono per esempio il primo frammento ritmico-
melodico, possiamo osservare come, a parte il Si bequadro della terza, esse possano fare parte di
scale modali, trasposte o naturali:
In realtà è difficile dire a quale modo ognuno di questi frammenti appartenga perché cambia
continuamente la finalis, o, usando la terminologia stravinskiana, il «polo di attrazione» di ognuno
di essi.
A questi arpeggi segue una cesura, come Vinay la definisce, ossia un accordo accentato, che
riporta all’accordo di Mi minore. Questo modo di procedere si ripete, con maggiore o minor
numero di note estranee, fino alla successiva cesura a battuta 8. Quindi, a battuta 12 e 13 un’altra
scala modale, anch’essa senza una chiara nota verso cui graviti, porterà ad un nuovo accordo di Mi
minore:
83
IGOR STRAVINSKY, Poetica della musica, Edizioni Curci, Milano, 1954, pp. 33-34.
125
Il senso di sospensione che si avverte è dato proprio dalla trasposizione in cui questa scala è
proposta, perché l’accordo di Mi minore che la conclude, se lo trascrivessimo anch’esso una terza
sotto come la scala che lo precede, diverrebbe un accordo di Do# minore, dunque un accordo
totalmente estraneo alle scale modali. Al di là e al di fuori di qualsiasi movimento o trasposizione,
l’accordo di Mi minore pare qui essere concepito come un punto fermo, immobile e immutabile.
Da qui inizierà quindi una frase chiaramente in deuterus, con melodie che si contrappuntano,
tutte modali:
Questa introduzione sembra rappresentare uditivamente, ciò che Stravinsky spiega nella
Poetica della musica: “Comporre, per me, significa disporre in ordine un certo numero di quei
suoni secondo alcuni rapporti d’intervallo. Quest’esercizio porta a cercare il centro in cui deve
convergere la serie di suoni che si trova impegnata nella mia impresa. Sono quindi indotto, dato un
centro, a trovare una combinazione che lo raggiunga, o anche, stabilita una combinazione che non è
ancora ordinata ad un fine, a determinare il centro verso il quale deve tendere. La scoperta di questo
centro mi suggerisce la soluzione. Soddisfo così il mio gusto vivissimo per questa specie di
topografia musicale.”84
La musica di queste prime battute pare essere alla ricerca del suo centro di attrazione,
deviandone continuamente e venendo riportata costantemente verso di esso dagli accordi imperiosi
di Mi minore, ossia sul primo grado del deuterus, fino a quando, al n. 2, non vi si stabilisce.
Al n. 4 inizia quindi il canto dei contralti soli, accompagnati dal primo e terzo oboe. Il canto
propone una sorta di tono salmodico arcaico, che si muove attorno ad una sola corda, con
accentuazioni alla nota superiore. Lo possiamo ritrovare per esempio nei versetti dei Psalmus
responsorius sulla corda Mi, che fanno parte del repertorio più antico a noi pervenuto:
84
IGOR STRAVINSKY, Poetica della musica, op. cit. p. 35.
126
Psalmus responsorius, Adiuva nos, Graduale Simplex p. 84.
127
Al n. 5, quando in forte entra tutto il coro, sottolineando le parole Et deprecationem meam,
possiamo notare una cadenza del canto come ne troviamo tante nelle melodie di IV modo, ad
esempio:
L’armonizzazione del coro è modale, con una nota estranea, il La bemolle, che però permette di
riproporre, nei contralti, trasportata una terza sopra, gli stessi intervalli che costituiscono la cadenza
del deuterus:
128
L’accordo finale, Sol senza la terza, è come una modulazione al tetrardus, ed anche questo è un
comportamento assai naturale delle melodie gregoriane che, prima di cadenzare nel modo in cui
appartengono, si muovono anche in ambiti modali diversi, in quanto spesso costruite grazie
all’unione di formule, o melodie-tipo, o grazie a centonizzazioni.
Dopo una breve transizione strumentale, con un accordo tenuto dai flauti e un melisma
proposto dall’oboe, le cui note cardine sono Re e Fa, sotto tonica e sopratonica del deuterus,
riprende la stessa melodia salmodiante dei contralti, con alcune varianti all’orchestrazione, in
particolare, l’aggiunta al grave di violoncelli e contrabbassi che contrappuntano il canto con la
ripetizione di due terze minori (Fa-Lab Mi-Sol). A due prima di n. 9 abbiamo un’altra melodia
modale, questa volta non trasposta, che porta ad un altro imperioso accordo di Mi minore:
129
Dal n. 9 riprende la stessa frase che avevamo incontrato al n. 2, in deuterus, con la stessa
melodia modale che era prima appartenuta al corno, e che ora nasce dalle note gravi degli arpeggi,
ma in valori dilatati.
Si svolge tutta su un pedale di Mi, che sembra riprodurre una sorta di ison, ossia una procedura
greco-ortodossa, di matrice bizantina, in cui la nota tonica veniva tenuta o dai cantori o
dall’assemblea senza pronunciare delle parole, o dall’organo, mentre il cantore eseguiva una
melodia di solito ricca di melismi estesi. L’ison serviva come riferimento tonale.
Ritmicamente abbiamo la sovrapposizione di entrambi gli ostinati ritmici (quartine di crome e
di semicrome).
In questa seconda frase in deuterus, troviamo l’entrata in forte dei tenori a cui si aggiungono i
soprani, che ripetono, sulla corda di recita Mi, le parole ne sileas, che grazie a questa procedura
armonica, melodica e ritmica vengono messe in particolare rilievo.
Anche questa frase viene bruscamente interrotta dall’accordo di Mi minore accentato:
Da n. 10 inizia una nuova sezione, che mantiene la stessa pulsazione ritmica delle crome e
delle semiminime, ma con movimenti melodici diversi dei vari strumenti, e una melodia
caratterizzata da ampi salti di ottave, settime, quinte, quarte, abbandonando la corda di recita e
l’accentuazione al semitono superiore:
130
Se però togliamo alla melodia i salti d’ottava (procedimento che Stravinsky utilizzerà anche
nella fuga del II movimento per variare il tema che ha il nucleo generativo solo ed unicamente in
due terze minori) vedremo come la melodia rimanga perfettamente in un ambito modale e
gregorianeggiante:
131
Introito Sicut oculi servorum, Graduale Triplex p. 77
Interessante inoltre osservare le figurazioni ritmico melodiche del primo e secondo fagotto,
seguiti poi dal primo trombone a cui si aggiungerà il corno inglese:
132
I frammenti melodici fanno parte della scala modale di IV modo, e quando abbiamo la
trasposizione una terza sopra della melodia dei soprani alla seconda di n. 11, pure il trombone
propone frammenti trasposti.
Al n. 12 abbiamo il ritorno, per la terza volta, ma questa volta in fortissimo, della sezione in
deuterus, come l’avevamo incontrata al n. 2 e al n. 9. Anch’essa si svolge tutta su un pedale di Mi,
su quello che avevamo definito un ison, e ritmicamente abbiamo nuovamente la sovrapposizione di
entrambi gli ostinati ritmici (quartine di crome e di semicrome). Sono queste le sezioni che
rappresentano i nuclei portanti di questo movimento, i «poli di attrazione» attorno a cui esso
gravita, e questa terza frase ne rappresenta inoltre il culmine: tutte le voci del coro cantano in
fortissimo le parole Remitte mihi, sempre sulla corda di recita Mi, assieme alla quinta vuota Si.
Segue quindi una sezione simile a quelle che avevamo incontrato al n. 4, ossia alla prima
entrata delle voci, e al n. 7. Torniamo al piano, con gli stessi movimenti rotatori degli strumenti, e
la stessa melodia iniziale su Mi con accentuazioni al Fa, cantata questa volta dai tenori, all’acuto,
subito meno forte, ed accompagnata dalle note Mi e Si, acquisite dall’accordo precedente. Quindi,
con movenze sempre modaleggianti, si raggiunge un ultimo apice melodico alle parole amplius non
ero. Su queste parole troviamo una grandiosa cadenza in VIII modo:
133
che ritroviamo facilmente nel repertorio gregoriano nelle melodie in VIII modo:
Questa cadenza collega questo I movimento a quello successivo che deve iniziare senza
soluzione di continuità. Il significato espressivo e simbolico del progressivo incremento e
decremento che abbiamo constatato, ottenuto grazie a mezzi ritmici, melodici e armonici, è quello
di una intensificazione graduale della supplica, ma anche di un' altrettanto graduale conquista di
fiduciosa speranza che rende la preghiera più accorata ma anche ferma; dal n. 10 in poi non
abbiamo più trovato gli accordi che spezzavano imperiosamente gli episodi precedenti, ma abbiamo
assistito ad un crescendo dinamico (da mezzoforte a fortissimo) ed un' ascesa melodica continua e
progressiva che, con una sorta di anabasi, ci hanno fatto raggiungere il culmine finale.
Non verranno presi in esame i due movimenti successivi. Si desidera però sottolineare come
anche il tema del III movimento sia di derivazione gregoriana:
E’ infatti simile all’incipit del Communio Exulta filia, Graduale Triplex p. 47:
E’ possibile a questo punto porsi questa domanda: Igor Stravinsky si è un riferito volutamente
al canto gregoriano?
Il compositore russo, parlando del suo ritorno alla religione, ci dice: “Forse il fattore più
determinante nella decisione di ritornare alla Chiesa russa, piuttosto che convertirmi a quella
134
romana, fu il fattore linguistico. La lingua slava usata nella liturgia russa è sempre stata la lingua in
cui recitavo le preghiere, sia da piccolo che adesso”.85
Questa composizione rappresenta però prima di tutto, un brano «concertistico» e non liturgico,
distinzione che, come abbiamo sopra sottolineato, era di fondamentale importanza per Stravinsky.
Dunque non esprime un suo privato modo di pregare, ma vuole essere una religiosità rappresentata,
osservata dall’esterno, oggettiva.
Questi salmi sono inoltre in lingua latina, la lingua che, fin dalla più lontana antichità, nella
preghiera, ha dato vita al canto gregoriano.
Inoltre è di grande importanza lo stretto rapporto che Stravinsky aveva con la musica del
passato: “Che dire allora della musica antica […]? Per quanto mi riguarda, l’esperienza mi ha
dimostrato da gran tempo che ogni fatto storico, vicino o remoto, può essere messo a profitto come
uno stimolo che ridesti la facoltà creatrice […]”.86
E più avanti, definendo la sua musica antitonale piuttosto che atonale, in quanto l’a privativa
equivarrebbe a dire che egli fosse diventato sordo alla tonalità, aggiunge: “Modalità, tonalità,
polarità sono soltanto dei mezzi provvisori, che passano, o passeranno. Ciò che sopravvive a tutti i
cambiamenti di sistema è la melodia. I maestri del Medio Evo e del Rinascimento si preoccupavano
della melodia non meno di Bach e di Mozart, e la mia topografia musicale non solo la prevede, ma
le riserba lo stesso posto che le spettava nel sistema modale o tonale.”87
Dunque è assai plausibile pensare che egli si sia rivolto a quel repertorio che è melodia per
eccellenza.
Concludo con quella che ritengo una sua affermazione particolarmente illuminante riguardo al
suo rapporto con il passato, la tradizione e la volontà e capacità di renderli vivi e presenti. Egli
ritiene sia fondamentale per il compositore saper bene osservare e quindi sapersi valere delle
proprie osservazioni grazie ad “una cultura acquisita e un gusto innato”88. E’ questo che permette
che si stabilisca la tradizione: “Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso,
ma una forza viva che anima e informa di sé il presente. […] Lontanissima dall’implicare la
ripetizione di quel che è stato, la tradizione presuppone la realtà di quel che dura. […] La tradizione
garantisce […] la continuità della creazione.”89
85
IGOR STRAVINSKY - ROBERT CRAFT, Expositions and Developments, New York, 1962, in Colloqui con
Stravinsky, Einaudi, Torino, 1977, p. 265.
86
IGOR STRAVINSKY, Poetica della musica, op. cit. pp. 24-25.
87
Ibidem, p. 36.
88
Ibidem, p. 50.
89
Ibidem, pp. 51-52.
135
8. CONCLUSIONI
Come ha mostrato il seppur breve excursus testé proposto, l’interesse dei compositori del XIX
e XX secolo nei confronti del canto gregoriano è stato notevole ed estremamente fecondo.
Gli approfondimenti proposti non esauriscono l’enorme quantità di brani che sarebbe possibile
citare ed analizzare, ma esemplificano i diversi approcci con i quali esso è stato assunto quale fonte
di ispirazione.
Esso è prima di tutto entrato a far parte della creazione dei compositori quale canto fermo, una
sorta di voce ancestrale, forte, evocativa, lapidaria, attorno alla quale ruota l’evento musicale, ad
essa però estraneo quanto a colore, ritmo, espressione, e proprio grazie a questa così profonda
“estraneità” essa appare ancora più solenne, possente, senza possibilità di smentita.
Con il procedere del tempo, diversi compositori cominciano però a sentire che la loro ansia di
rinnovamento potrebbe trarre spunto proprio da questo mondo arcaico e ancora per lo più
inesplorato. E, mano a mano, pure lo stile compositivo si modella sulle melodie gregoriane e sulla
modalità, fino a giungere alla totale assenza di vere e proprie citazioni: esso diviene parte integrante
dei tratti stilistici dei compositori e, grazie alle sue caratteristiche movenze, parla attraverso i loro
propri linguaggi.
Nella tabella che segue sono stati aggiunti, oltre ai brani precedentemente esaminati, altre
composizioni estremamente significative in relazione all’indagine in argomento.
Il diverso colore attribuito ad ogni riga dello schema evidenzia visivamente se il canto
gregoriano sia entrato nelle diverse composizioni solo come canto fermo, o come citazione e con
diverse influenze sulla scrittura o, totalmente assenti le citazioni letterali, abbia ispirato melodie e
armonie secondo forme e modalità gregoriane:
136
La pura citazione letterale della melodia gregoriana
137
La scelta non è esaustiva, dunque non si intende qui proporre una “statistica” che possa avere
valore scientifico. E’ già comunque palese come, attorno alla fine del XIX secolo e inizio del XX, il
gregoriano sia assurto a vera e propria miniera di spunti e ispirazioni, un universo ideale a cui
attingere nei modi più diversi, in armonia con la personalità e i fini artistici di ogni compositore. Da
un certo momento in poi esso uscirà nuovamente dallo stile degli artisti che cercheranno nella
dodecafonia e in altre esperienze compositive, lontane dal mondo sonoro del canto gregoriano, la
loro espressione. Esso però continuerà a venir citato, riacquistando nuovamente il ruolo di lingua
lontana, “parola eterna” ed intangibile.
Alla fine di questo lavoro può nascere spontanea una domanda: Perché ricercare questa radice
in tali composizioni e nella poetica dei diversi artisti? Una tale consapevolezza in quale modo può
rappresentare un utile approfondimento?
La risposta a tali domande è molteplice. Prima di tutto è importante sottolineare che ruolo
ricopra il canto gregoriano nella storia della musica occidentale e cosa ancora oggi rappresenti.
90
Cfr. ALBERTO BASSO, Storia della musica – Dall’Antichità al Barocco (Italia, Francia), UTET, Torino, 2004, pp.
13-15, 26-28, 30-31, 51.
139
diverse ragioni.
Prima fra tutte, il fatto che l’importanza del canto gregoriano venga spesso relegata alla sua
sola funzione religiosa: esso rappresenta la più intensa ed intima preghiera mai concepita
dall’uomo, ma è anche cultura nel senso più ampio del termine. Come si è potuto sottolineare, è da
esso che prende le mosse e si modella lo sviluppo della musica occidentale.
Un altro motivo per cui l’influsso del canto gregoriano sulla musica dal mille ai giorni nostri
non trova la meritata attenzione lo si può ascrivere al fatto che oggi esso venga considerato
patrimonio di pochi specialisti. E’ tanto complessa la sua storia e spesso difficile una sua corretta
interpretazione, che lo si confina nei secoli passati del suo splendore, lasciando che pochi studiosi
di esso si occupino, dimenticando come, anche in forme modificate se non snaturate e stravolte,
abbia continuato, in ogni periodo storico, ad avere parte essenziale nel pensiero di un grandissimo
numero di compositori.
Osservando in particolare i secoli XIX e XX che sono stati qui presi in considerazione, si
ritiene spesso che la natura stessa dei movimenti culturali che hanno caratterizzato queste epoche
siano a priori lontani dal mondo del canto gregoriano. Ma questo breve lavoro ha inteso mettere in
luce come questo aspetto della musica lirica e sinfonica dell’’800 e inizio ‘900 abbia basi storiche
ben precise nella nascita dello storicismo, nella “restaurazione gregoriana” e nel movimento
ceciliano, avvenimenti che non avrebbero potuto avere luogo se lo stesso humus culturale non lo
avesse permesso.
Queste dunque alcune tra le più importanti motivazioni che avvalorano e comprovano la
fondatezza e l’opportunità di una simile indagine.
140
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