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ISBN: 978-88-7625-838-1
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1. Essere e coraggio
2. Essere, non essere e angoscia
3. Angoscia patologica, vitalità e coraggio
4. Coraggio e partecipazione
5. Coraggio e individualizzazione
6. Coraggio e trascendenza
CHE COS’È IL CORAGGIO?
1. Essere e coraggio
Un’ontologia dell’angoscia
Tipi di angoscia
Periodi di angoscia
La distinzione dei tre tipi di angoscia è sostenuta dalla storia della civiltà
occidentale. Possiamo constatare che alla fine della civiltà antica predomina
l’angoscia ontica, alla fine del Medioevo l’angoscia morale e alla fine
dell’epoca moderna l’angoscia spirituale. Ma, nonostante il predominio di un
tipo, anche gli altri sono presenti.
Sulla fine dell’epoca antica e sulla sua angoscia del fato e della morte si è
parlato abbastanza durante l’analisi del coraggio stoico. Lo sfondo
sociologico è noto: il conflitto delle potenze imperiali, la conquista
dell’Oriente da parte di Alessandro, la guerra fra i suoi successori, la
conquista dell’Occidente e dell’Oriente da parte della Roma repubblicana, la
sua trasformazione in impero a opera di Cesare e Augusto, la tirannia degli
imperatori postaugustei, la distruzione degli Stati cittadini e nazionali
indipendenti, lo scalzamento degli antichi sostegni della struttura demo-
aristocratica della società, il sentimento dell’individuo di essere nelle mani di
poteri, naturali e politici, completamente al di là del suo controllo e del suo
calcolo – tutto questo produsse una terribile angoscia e la ricerca del coraggio
di affrontare la minaccia del fato e della morte. Nello stesso tempo l’angoscia
del vuoto e della mancanza di significato rese impossibile a molti, specie fra
le classi colte, trovare una base per questo coraggio. Lo scetticismo antico,
fin dalla stessa sofistica, da cui ha origine, associava elementi eruditi ed
esistenziali. Lo scetticismo della tarda antichità non fu che disperazione della
possibilità di agire e pensare secondo ragione. Esso spingeva gli uomini nel
deserto, dove la necessità di decidere, teoricamente e praticamente, è ridotta
al minimo.
Ma la maggior parte di quelli che sperimentavano l’angoscia del vuoto e
la disperazione della mancanza di significato cercava di affrontarle con un
cinico disprezzo dell’autoaffermazione spirituale. Tuttavia la loro arroganza
scettica non poteva nascondere l’angoscia. L’angoscia della colpa e della
condanna operava efficacemente in quei gruppi che si riunivano nei culti
misterici con i loro riti di espiazione e purificazione. Sociologicamente queste
sette di iniziati erano piuttosto indefinite. Nella maggior parte di esse
venivano ammessi perfino gli schiavi. In esse però, come nell’intero mondo
antico non giudaico, era sperimentata più la colpa tragica che la colpa
personale. La colpa è la contaminazione dell’anima a opera del regno
materiale o di potenze demoniache. Perciò l’angoscia della colpa rimane,
come l’angoscia del vuoto, un elemento secondario nella predominante
angoscia del fato e della morte.
Soltanto l’impatto del messaggio giudaico-cristiano mutò questa
situazione, e così radicalmente che verso la fine del Medioevo l’angoscia
della colpa e della condanna era diventata decisiva. Se c’è un periodo che
merita il nome di “età dell’angoscia” è il periodo della pre-Riforma e della
Riforma. L’angoscia della condanna, simboleggiata come “l’ira di Dio” e resa
più intensa dalle immagini del purgatorio, spingeva la gente del tardo
Medioevo a tentare in vari modi di lenire la propria angoscia: pellegrinaggi in
luoghi santi, possibilmente a Roma; disciplina ascetica, talvolta dura e severa;
devozione verso le reliquie, spesso riunite in raccolte massicce; accettazione
di castighi ecclesiastici; desiderio di indulgenze; e messe e penitenze e
preghiere ed elemosine. In breve, la domanda era una sola e incessante: come
posso placare l’ira di Dio e ottenere la misericordia divina, il perdono del
peccato? Questa forma predominante di angoscia abbracciava le altre due
forme. La figura personificata della morte appariva nella pittura, nella poesia,
nella predicazione, ma era la morte e nello stesso tempo la colpa. La morte e
il diavolo erano alleati nell’inquieta fantasia di quel periodo. Con le invasioni
della tarda antichità ritornò l’angoscia del fato. La “fortuna” divenne uno dei
simboli preferiti dell’arte del Rinascimento, e nemmeno i Riformatori furono
immuni da credenze e paure astrologiche. E l’angoscia del fato fu resa più
intensa dalla paura di potenze demoniache che agissero direttamente o
attraverso altri esseri umani per provocare malattie, rovine e morte.
Contemporaneamente il fato fu esteso oltre la morte allo stato prefinale del
purgatorio e agli stati finali dell’inferno e del paradiso. Non fu dissipata la
tenebra della destinazione finale; nemmeno i Riformatori ci riuscirono, come
mostra la loro dottrina della predestinazione. In tutte queste espressioni
l’angoscia del fato appare come un elemento dell’onnicomprensiva angoscia
della colpa e della continua consapevolezza della minaccia della condanna.
Il tardo Medioevo non fu un periodo di dubbio, e l’angoscia del vuoto e
della perdita di significato apparve due volte soltanto, ma per entrambe si
trattò di occasioni eccezionali e importanti per il futuro. La prima fu il
Rinascimento, quando lo scetticismo teoretico ritrovò nuova vita e nuovo
vigore e il problema del significato assillò alcuni fra gli spiriti più sensibili.
Nei profeti e nelle sibille di Michelangelo e nell’Amleto di Shakespeare si
avvertono i segni di una potenziale angoscia della mancanza di significato. La
seconda furono gli assalti demoniaci sperimentati da Lutero, che non erano
né tentazioni in senso morale né momenti di disperazione per l’incombente
minaccia della condanna, ma momenti in cui la fede nella sua opera e nel suo
messaggio spariva e non rimaneva alcun significato. Simili esperienze del
“deserto” o della “notte” dell’anima sono frequenti fra i mistici. Si deve
comunque richiamare l’attenzione sul fatto che in tutti questi casi
predominava ancora l’angoscia della colpa, e che solo dopo la vittoria
dell’umanesimo e dell’illuminismo prevalse l’angoscia spirituale.
Non è difficile riconoscere la causa sociologica dell’angoscia della colpa
e della condanna che sorse alla fine del Medioevo. In generale si può dire che
fu il dissolversi dell’unità protettiva della cultura medievale religiosamente
guidata. Più particolarmente si deve richiamare l’attenzione sul sorgere, nelle
grandi città, di una classe media colta, gente che tentava di sperimentare
personalmente quello che fino ad allora era stato semplicemente un oggettivo
sistema di dottrine e sacramenti gerarchicamente controllato. In questo
tentativo, però, essa venne in lotta, sotterranea o aperta, con la Chiesa, della
quale riconosceva ancora l’autorità. Si deve richiamare l’attenzione
sull’accentramento del potere politico nelle mani dei principi e della loro
amministrazione burocratico-militare, cosa che eliminava l’indipendenza
delle classi inferiori nel sistema feudale. Si deve richiamare l’attenzione
sull’assolutismo di Stato che trasformava le masse della città e del contado in
“sudditi” il cui solo dovere era lavorare e obbedire, senza alcuna possibilità di
resistere all’arbitrio dei signori assoluti. Si deve richiamare l’attenzione sulle
catastrofi economiche connesse col primo capitalismo, come l’importazione
di oro dal Nuovo Mondo, l’espropriazione dei contadini e così via. In tutti
questi fenomeni, più volte descritti, il conflitto fra l’apparizione di tendenze
indipendenti in tutti i gruppi della società da una parte e il sorgere di un
assolutismo di potere dall’altra è in gran misura responsabile del predominio
dell’angoscia della colpa. Il Dio irrazionale, imperioso, assoluto del
nominalismo e della Riforma ha in parte la forma dell’assolutismo sociale,
politico e spirituale dell’epoca, e l’angoscia creata dalla sua immagine è in
parte un’espressione dell’angoscia prodotta dal fondamentale conflitto sociale
del Medioevo in dissoluzione.
Il crollo dell’assolutismo, lo sviluppo del liberalismo e della democrazia,
il sorgere di una civiltà tecnica, con la sua vittoria su ogni nemico e la sua
stessa incipiente disintegrazione – questi sono i presupposti sociologici del
terzo periodo dell’angoscia. In questo momento prevale l’angoscia del vuoto
e della mancanza di significato. Noi siamo sotto la minaccia del non essere
spirituale. Le minacce del non essere morale e ontico, naturalmente, sono
presenti, ma non sono indipendenti e non predominano. Questa situazione è
così fondamentale per il problema sollevato in questo libro da esigere
un’analisi più completa di quella dedicata ai due periodi precedenti, e
quest’analisi dovrà essere messa in correlazione con la soluzione costruttiva
(cfr. capp. 5-6).
È significativo che i tre principali periodi dell’angoscia appaiano ciascuno
alla fine di un’era. L’angoscia, che nelle sue forme diverse è potenzialmente
presente in ogni individuo, diventa generale se le consuete strutture del
significato, del potere, della credenza e dell’ordine si disintegrano. Queste
strutture, finché sono valide, costringono l’angoscia entro un sistema
protettivo di coraggio per partecipazione. L’individuo che partecipa alle
istituzioni e ai costumi di vita di un tale sistema non viene liberato dalle sue
angosce personali, ma ha il mezzo per superarle con metodi che non gli sono
sconosciuti. In periodi di grandi mutamenti questi metodi non funzionano
più. I conflitti fra il vecchio, che tenta di mantenere le sue posizioni, spesso
con nuovi mezzi, e il nuovo, che priva il vecchio del suo intrinseco potere,
generano angoscia in ogni direzione. Il non essere, in una situazione simile,
ha due facce, che rassomigliano a due incubi (forse espressione di una
consapevolezza di queste due facce). Una è l’angoscia del limite annientante,
dell’impossibilità di evasione e dell’orrore di essere presi nella morsa. L’altra
è l’angoscia dell’illimitato annientante, dello spazio infinito, informe, nel
quale si cade senza mai giungere al fondo. Situazioni sociali come quelle
descritte hanno il carattere di una trappola senza via d’uscita e di un vuoto
tenebroso e ignoto. Ambedue le facce della stessa realtà suscitano la latente
angoscia di chiunque le guardi. Oggi la maggior parte di noi le guarda!
3. Angoscia patologica, vitalità e coraggio
Vitalità e coraggio
L’angoscia e il coraggio hanno un carattere psicosomatico. Sono biologici
non meno che psicologici. Dal punto di vista biologico, si direbbe che la
paura e l’angoscia siano le guardie che indicano la minaccia del non essere a
un essere vivente e danno vita a movimenti di difesa e resistenza contro
questa minaccia. La paura e l’angoscia devono essere considerate espressioni
di quella che si potrebbe chiamare “autoaffermazione in guardia”. Senza la
previdente paura e l’irresistibile angoscia nessun essere finito sarebbe in
grado di esistere. Da questo punto di vista il coraggio è la prontezza di
prendere su di sé le negazioni, anticipate dalla paura, per amore di
un’affermazione più piena. L’autoaffermazione biologica implica
l’accettazione del bisogno, della fatica, dell’insicurezza, del dolore, della
possibile distruzione. Senza quest’autoaffermazione sarebbe impossibile
conservare o accrescere la vita. Quanto più un essere è ricco di forza vitale,
tanto più è in grado di affermarsi nonostante i pericoli preannunciati dalla
paura e dall’angoscia. Tuttavia un coraggio che disprezzasse i loro
avvertimenti e promuovesse azioni di carattere direttamente autodistruttivo
sarebbe in contraddizione con la loro funzione biologica. Qui sta la verità
della dottrina aristotelica del coraggio inteso come il giusto mezzo fra la viltà
e la temerarietà. L’autoaffermazione biologica ha bisogno di un equilibrio fra
il coraggio e la paura. Tale equilibrio è presente in tutti gli esseri viventi che
sono in grado di conservare e accrescere il loro essere. Se gli avvertimenti
della paura non hanno più effetto o se la dinamica del coraggio ha perduto il
suo potere, la vita perisce. La tendenza alla sicurezza, alla perfezione e alla
certezza a cui ci siamo riferiti è biologicamente necessaria. Ma diventa
biologicamente distruttiva se si evita il rischio dell’insicurezza,
dell’imperfezione e dell’incertezza. Viceversa, un rischio che abbia un
realistico fondamento nel nostro Io e nel nostro mondo è un’esigenza
biologica, mentre è autodistruttivo senza questo fondamento. La vita, quindi,
include la paura e il coraggio come elementi di un processo vitale in
equilibrio mutevole, ma essenzialmente stabile. Finché ha quest’equilibrio la
vita è in grado di resistere al non essere. La paura e il coraggio non equilibrati
distruggono la vita, la conservazione e l’accrescimento della quale è la
funzione dell’equilibrio della paura e del coraggio.
Un processo vitale che mostri questo equilibrio e con esso potenza di
essere ha, in termini biologici, vitalità, cioè potenza vitale. Il giusto coraggio
quindi, come la giusta paura, dev’essere inteso come l’espressione della
vitalità perfetta. Il coraggio di esistere è una funzione della vitalità.
Diminuzione di vitalità implica quindi diminuzione di coraggio. Rafforzare la
vitalità significa rafforzare il coraggio di esistere. Gli individui nevrotici e i
periodi nevrotici sono privi di vitalità. La loro sostanza biologica si è
disintegrata. Essi hanno perduto il potere della piena autoaffermazione, del
coraggio di esistere. Che questo accada o no è il risultato di processi
biologici, è il fato biologico. Periodi di diminuito coraggio di esistere sono
periodi di debolezza biologica nell’individuo e nella storia. I tre principali
periodi di angoscia non equilibrata sono stati periodi di vitalità ridotta; hanno
rappresentato la fine di un’era e hanno potuto essere superati solo dal sorgere
di gruppi dalla vitalità potente, che hanno preso il posto di gruppi dalla
vitalità disintegrata.
Fin qui abbiamo esposto l’argomentazione biologica senza criticarla. Ora
dobbiamo esaminarne la validità nei suoi diversi momenti. Il primo quesito
da porre si riferisce alla differenza fra la paura e l’angoscia qual è stata per
tempo sviluppata. Non ci può essere dubbio che la paura, che è diretta verso
un oggetto ben definito, abbia la funzione biologica di preannunciare le
minacce del non essere e provocare misure di protezione e resistenza. Ma ci
si deve chiedere: si può dire lo stesso dell’angoscia? La nostra
argomentazione biologica ha usato prevalentemente il termine “paura”, solo
eccezionalmente il termine “angoscia”. È stato fatto intenzionalmente. Infatti,
biologicamente parlando, l’angoscia è più distruttiva che protettiva. Mentre la
paura può suggerire i mezzi con cui affrontare i suoi oggetti, l’angoscia non
può farlo perché non ha oggetti. Il fatto a cui si è già alluso, che la vita tenti
di trasformare l’angoscia in paura, mostra che l’angoscia è biologicamente
inutile e non può essere spiegata in termini di profilassi vitale. Essa produce
forme molto controproducenti di condotta. Pertanto l’angoscia trascende, per
sua stessa natura, l’argomentazione biologica.
Il secondo quesito riguarda il concetto di vitalità. Il significato della
vitalità è diventato un problema importante da quando il fascismo e il
nazismo hanno trasferito il rilievo teorico della vitalità in sistemi politici che
in nome della vitalità hanno attaccato la maggior parte dei valori del mondo
occidentale. Nel Lachete di Platone il rapporto fra coraggio e vitalità è
discusso nei termini del problema se gli animali abbiano coraggio. Molto si
può dire in favore di una risposta affermativa: l’equilibrio fra la paura e il
coraggio è ben sviluppato nel regno animale. Gli animali sono messi in
guardia dalla paura, ma in particolari condizioni disprezzano la loro paura e
rischiano la sofferenza e la distruzione per amore di quelli che costituiscono
una parte della loro autoaffermazione, per esempio la loro prole o il loro
gregge. Ma, nonostante questi fatti, Platone nega che gli animali abbiano
coraggio. Ed è naturale. Infatti, se il coraggio è la conoscenza di ciò che si
deve evitare e di ciò che si deve osare, non può essere separato dall’uomo in
quanto essere razionale.
La vitalità, la potenza di vita, è in correlazione con quel tipo di vita a cui
dà potenza. La potenza di vita dell’uomo non può essere vista separatamente
da quella che i filosofi medievali chiamavano “intenzionalità”, cioè il
rapporto con i significati. La vitalità dell’uomo è grande quanto la sua
intenzionalità; esse sono interdipendenti. Questo fa dell’uomo il più vitale di
tutti gli esseri. Egli può trascendere una data situazione in ogni direzione e
questa possibilità lo porta a creare al di là di se stesso. La vitalità è il potere di
creare al di là di noi stessi senza perderci. Più un essere ha potere di creare al
di là di se stesso, più ha vitalità. Il mondo delle creazioni tecniche è
l’espressione più cospicua della vitalità dell’uomo e della sua infinita
superiorità sulla vitalità degli animali. Soltanto l’uomo ha completa vitalità,
perché egli solo ha completa intenzionalità.
Noi abbiamo definito l’intenzionalità “essere diretti verso contenuti
significativi”. L’uomo vive nei significati, in ciò che è logicamente,
esteticamente, religiosamente valido. La sua soggettività è impregnata di
oggettività. In ogni incontro con la realtà le strutture dell’Io e del mondo sono
interdipendentemente presenti. La più fondamentale espressione di questo
fatto è il linguaggio, che dà all’uomo il potere di astrarsi dal dato concreto e,
dopo che se ne è astratto, di ritornarvi, di interpretarlo e trasformarlo.
L’essere più vitale è l’essere che ha la parola e che dalla parola è affrancato
dalla schiavitù del dato. In ogni incontro con la realtà l’uomo è già al di là di
quest’incontro. Ne è informato, lo confronta, è tentato da altre possibilità,
anticipa il futuro così come ricorda il passato. Questa è la sua libertà, e in
questa libertà consiste il potere della sua vita. Essa è la sorgente della sua
vitalità.
Se la correlazione fra vitalità e intenzionalità viene giustamente intesa, si
può accettare l’interpretazione biologica del coraggio entro i limiti della sua
validità. Non c’è dubbio che il coraggio sia una funzione della vitalità, ma la
vitalità non è qualcosa che si possa separare dalla totalità dell’essere
dell’uomo, dal suo linguaggio, dalla sua creatività, dalla sua vita spirituale,
dal suo interesse supremo. Una delle conseguenze infelici
dell’intellettualizzazione della vita spirituale dell’uomo fu che la parola
“spirito” andò perduta e fu sostituita da “mente” o “intelletto”, e che
l’elemento di vitalità presente nello spirito fu separato e interpretato come
una forza biologica indipendente. L’uomo fu diviso in un intelletto senza
sangue e una vitalità senza significato. Il medio fra i due, cioè l’anima in cui
vitalità e intenzionalità trovano la loro sintesi, fu cancellato. Alla fine di
questa evoluzione fu facile per un naturalismo riduttivo derivare
l’autoaffermazione e il coraggio da una vitalità puramente biologica. Ma
nell’uomo nulla è “puramente biologico”, così come nulla è “puramente
spirituale”. Ogni cellula del suo corpo partecipa alla sua libertà e spiritualità,
e ogni atto della sua creatività spirituale è nutrito dalla sua dinamica vitale.
Quest’unità era presupposta nella parola greca areté. Essa può essere
tradotta con ‘virtù’, ma solo se si eliminano le implicazioni moralistiche che
il termine ha nell’accezione moderna. Il termine greco associa la forza e il
valore, il potere dell’essere e la realizzazione del significato. Colui che è
dotato di areté è il portatore di alti valori, e la prova assoluta della sua areté è
la sua prontezza a sacrificarsi per essi. Il suo coraggio esprime la sua
intenzionalità quanto la sua vitalità. È la vitalità spiritualmente formata che lo
dota di areté. Dietro questa terminologia sta il giudizio del mondo antico che
il coraggio è nobile. Modello di uomo coraggioso non è il barbaro, la cui
vitalità non è pienamente umana, ma il raffinato greco che conosce l’angoscia
del non essere perché conosce il valore dell’essere. Si può aggiungere che la
parola latina virtus e i suoi derivati, l’italiano rinascimentale virtù e l’inglese
rinascimentale virtue hanno un significato simile ad areté. Designano la
qualità di quelli che uniscono la forza mascolina (virtus) alla nobiltà morale.
La vitalità e l’intenzionalità trovano la loro sintesi in questo ideale di
perfezione umana che è ugualmente lontana dalla barbarie e dal moralismo.
Alla luce di queste considerazioni si potrebbe rispondere alla tesi
biologista che essa si lascia sfuggire quello che l’antichità classica aveva
chiamato coraggio. Il vitalismo, inteso come una separazione del vitale
dall’intenzionale, ristabilisce necessariamente il barbaro come ideale di
coraggio. Questo, sebbene sia fatto nell’interesse della scienza, esprime – di
solito contro l’intenzione dei suoi sostenitori naturalistici – un atteggiamento
preumanista e può, se usato da demagoghi, dar vita all’ideale barbarico di
coraggio quale apparve nel fascismo e nel nazismo. La “pura” vitalità
nell’uomo non è mai pura, ma sempre distorta, perché la potenza di vita
dell’uomo è la sua libertà e la spiritualità in cui la vitalità e l’intenzionalità
trovano la loro sintesi.
C’è, però, un terzo punto sul quale l’interpretazione biologica del
coraggio esige una valutazione. È la risposta che il biologismo dà al problema
dell’origine del coraggio di esistere. La tesi biologica risponde che esso ha
origine nel potere vitale, che è un dono naturale, una questione di fato
biologico. Questo ricorda molto da vicino le risposte antiche e medievali in
cui una combinazione di fato biologico e storico, cioè la situazione
aristocratica, era ritenuta la condizione favorevole per lo sviluppo del
coraggio. In entrambi i casi il coraggio è una possibilità dipendente non dalla
forza di volontà o dall’intuizione, ma da un dono che precede l’azione. La
visione tragica degli antichi greci e la visione deterministica del naturalismo
moderno concordano su questo punto: il potere di autoaffermazione
“nonostante”, cioè il coraggio di esistere, è questione di fato. Questo non
vieta una valutazione morale, ma una valutazione moralistica del coraggio:
non si può comandare il coraggio di esistere e non si può ottenerlo obbedendo
a un comando. Religiosamente parlando, è questione di grazia. Come spesso
accade nella storia del pensiero, il naturalismo ha aperto la strada a una nuova
comprensione della grazia, mentre l’idealismo l’ha ostacolata. Da questo
punto di vista la tesi biologica è molto importante e deve essere presa sul
serio, specialmente dall’etica, nonostante le distorsioni del concetto di vitalità
tanto nel vitalismo biologico quanto nel vitalismo politico. La verità
dell’interpretazione vitalistica dell’etica è la grazia. Il coraggio come grazia è
un risultato e un problema.
4. Coraggio e partecipazione
Il coraggio di esistere come parte
Coraggio e disperazione
L’esistenzialismo qual è apparso nel ventesimo secolo rappresenta il
significato più vivido e minaccioso dell’”esistenziale”. In esso l’intero
sviluppo giunge a un punto oltre il quale gli è impossibile procedere. È
diventato una realtà in tutti i paesi del mondo occidentale. Trova la sua
espressione in tutti i campi della creatività spirituale dell’uomo, penetra in
tutte le classi colte. Non è l’invenzione di un filosofo bohémien o di un
romanziere nevrotico; non è un iperbole a sensazione per amore di lucro e di
celebrità; non è un morboso giocare alle negatività. Elementi simili vi sono
entrati, ma in sé è qualcosa di diverso. È l’espressione dell’angoscia della
mancanza di significato e del tentativo di assumere quest’angoscia nel
coraggio di esistere come se stessi.
Il recente esistenzialismo dev’essere considerato da questi due punti di
vista. Non è semplice individualismo di tipo razionalistico o romantico o
naturalistico. Diversamente da questi tre movimenti preparatori ha
sperimentato un universale crollo del significato. L’uomo del ventesimo
secolo ha perduto un mondo pieno di significato e un Io avvalorato dai
significati di un centro spirituale. Il mondo degli oggetti creato dall’uomo ha
inghiottito colui che l’ha creato e che ora perde in esso la sua soggettività.
Egli ha sacrificato se stesso ai suoi prodotti. Ma l’uomo è conscio di ciò che
ha perduto o continua a perdere. È ancora sufficientemente uomo per
sperimentare la sua disumanizzazione come disperazione. Non conosce una
via d’uscita, ma tenta di salvare la propria umanità esprimendo la situazione
come “senza uscita”. Reagisce con il coraggio della disperazione, il coraggio
di prendere su di sé la propria disperazione e resistere alla minaccia radicale
del non essere con il coraggio di esistere come se stesso. Chiunque analizzi la
filosofia, l’arte e la letteratura dell’esistenzialismo contemporaneo può
mostrare la loro struttura ambigua: la mancanza di significato che spinge alla
disperazione, un’appassionata denuncia di questa situazione e lo sfortunato o
fortunato tentativo di includere nel coraggio di esistere come se stessi
l’angoscia della mancanza di significato.
Nessuna meraviglia se quelli che sono fermi nel loro coraggio di esistere
come parte, sia nella forma collettivista sia in quella conformista, si sentano
turbati dalle espressioni del coraggio esistenzialista della disperazione. Essi
sono incapaci di capire ciò che sta accadendo nella nostra epoca. Sono
incapaci di distinguere nell’esistenzialismo l’angoscia autentica da quella
nevrotica. Attaccano come morboso desiderio di negatività ciò che in realtà è
coraggiosa accettazione del negativo. Chiamano decadenza ciò che in effetti è
l’espressione creativa della decadenza. Respingono come privo di significato
il sensato tentativo di rivelare la mancanza di significato della nostra
situazione. Non è l’ordinaria difficoltà di capire quelli che aprono nuove
strade nel pensiero e nell’espressione artistica a produrre la diffusa
opposizione al moderno esistenzialismo, ma il desiderio di difendere un
autolimitante coraggio di esistere come parte. In un modo o nell’altro si sente
che questa non è una vera sicurezza; bisogna sopprimere le inclinazioni ad
accettare le visioni esistenzialiste, che si possono gustare in una commedia o
in un romanzo ma non si può prenderle sul serio, quasi fossero rivelazioni
della nostra esistenziale mancanza di significato, della nostra occulta
disperazione. Le violente reazioni contro l’arte moderna nei gruppi
collettivisti (nazisti, comunisti) e conformisti (democratici americani)
mostrano che questi gruppi se ne sentono minacciati. Ma non ci si sente
spiritualmente minacciati da qualcosa che non è un elemento di noi stessi. E
siccome è un sintomo di nevrosi resistere al non essere limitando l’essere,
l’esistenzialista potrebbe rispondere al frequente rimprovero di essere un
nevrotico mostrando i congegni nevrotici di difesa del desiderio
antiesistenzialista di sicurezza tradizionale.
Sarebbe sciocco chiedersi quale parte abbia la teologia cristiana in questa
situazione. Essa dovrebbe pronunciarsi in favore della verità contro la
sicurezza, anche se la sicurezza è consacrata e sostenuta dalle Chiese.
Certamente c’è un conformismo cristiano, fin dagli inizi della Chiesa, e c’è
un collettivismo – o almeno un semicollettivismo – cristiano, in parecchi
periodi della storia della Chiesa. Ma questo non dovrebbe indurre i teologi
cristiani a identificare il coraggio cristiano con il coraggio di esistere come
parte. Essi dovrebbero capire che il coraggio di esistere come se stessi è il
necessario correttivo al coraggio di esistere come parte – anche se
ammettono, giustamente, che nessuna di queste due forme del coraggio di
esistere offre la soluzione finale.
Il coraggio della disperazione nell’arte
e nella letteratura contemporanee
Il coraggio della disperazione, l’esperienza della mancanza di significato
e l’autoaffermazione nonostante la disperazione e la mancanza di significato
sono visibili negli esistenzialisti del ventesimo secolo. Il loro problema è la
mancanza di significato. L’angoscia del dubbio e della mancanza di
significato è, come abbiamo visto, l’angoscia della nostra epoca. L’angoscia
del fato e della morte e l’angoscia della colpa e della condanna sono implicite
ma non decisive. Quando Heidegger parla della previsione della nostra morte
non è la questione dell’immortalità che lo interessa, ma la questione di che
cosa significhi per la situazione umana la previsione della morte. Quando
Kierkegaard si occupa del problema della colpa, non è la questione ideologica
del peccato e del perdono che lo muove, ma la questione di che cosa sia alla
luce della colpa personale la possibilità dell’esistenza personale. Il problema
del significato agita gli esistenzialisti contemporanei anche quando parlano
della finitezza e della colpa.
L’avvenimento decisivo che sta alla base della ricerca e della disperazione
del significato nel ventesimo secolo è la perdita di Dio avvenuta nel
diciannovesimo secolo. Feuerbach spiegava Dio come il desiderio infinito del
cuore umano; Marx come un tentativo ideologico di superare la realtà data;
Nietzsche come un indebolimento della volontà di vivere. Il risultato è la
solenne dichiarazione «Dio è morto», e con lui l’intero sistema di significati e
valori in cui l’uomo viveva. Ciò è sentito come una perdita e insieme come
una liberazione. E può portare o al nichilismo o al coraggio che include in sé
il non essere. Nessuno forse ha influenzato l’esistenzialismo moderno più di
Nietzsche, e nessuno forse ha presentato la volontà di essere se stessi più
coerentemente e più assolutamente. In lui il sentimento della mancanza di
significato diventò disperato e autodistruttivo.
Su questa base la grande arte, la grande letteratura e la grande filosofia del
ventesimo secolo, in una parola l’esistenzialismo, rivelano il coraggio di
affrontare le cose come sono e di esprimere l’angoscia della mancanza di
significato. Il coraggio creativo appare nelle espressioni creative della
disperazione. Sartre chiama una delle sue commedie più potenti
Aportechiuse; una formula classica per la situazione della disperazione. Ma
lui ha un’uscita, può dire: «Nessuna via d’uscita», prendendo così su di sé la
situazione della mancanza di significato. T.S. Eliot chiama la sua prima
grande composizione poetica Laterradesolata. Egli descrive il decomporsi
della civiltà, la mancanza di convinzione e di direzione, la miseria e
l’isterismo della coscienza moderna (come l’ha analizzata uno dei suoi
critici). Ma è il giardino meravigliosamente coltivato di un grande poema che
descrive la mancanza di significato della “terra desolata” ed esprime il
coraggio della disperazione.
Nei romanzi di Kafka Ilcastello e Ilprocesso, l’inattingibile lontananza
della sorgente del significato e l’oscurità della sorgente della giustizia e della
misericordia sono espresse in un linguaggio puro e classico. Il coraggio di
prendere su di sé la solitudine di tale creatività e l’orrore di tali visioni è una
rilevante espressione del coraggio di esistere come se stessi. L’uomo è
separato dalle sorgenti del coraggio – ma non completamente: è ancora in
grado di accettare e affrontare la propria separazione. Nell’Etàdell’ansia di
Auden, il coraggio di prendere su di sé l’angoscia in un mondo che ha
perduto significato è ovvio come l’esperienza profonda di questa perdita: i
due poli che sono uniti nella frase “coraggio della disperazione” ricevono
uguale enfasi. Nell’Etàdellaragione di Sartre, il protagonista affronta una
situazione in cui il suo appassionato desiderio di essere se stesso lo spinge al
rifiuto di ogni impegno umano. Egli si rifiuta di accettare tutto ciò che
potrebbe limitare la sua libertà. Nulla ha significato assoluto per lui, né
l’amore, né l’amicizia, né la politica. La sola cosa immutabile è l’illimitata
libertà di mutare, di preservare la libertà senza contenuto. Egli rappresenta
una delle più estreme forme del coraggio di esistere come se stessi, il
coraggio di essere un Io che sia libero da ogni ceppo e che paghi il prezzo del
vuoto totale. Nel creare questo personaggio Sartre dimostra il suo coraggio
della disperazione. Dalla parte opposta, lo stesso problema è affrontato, nel
romanzo Lostraniero, da Camus, che sta sul confine dell’esistenzialismo ma
vede il problema della mancanza di significato con la stessa acutezza degli
esistenzialisti. Il suo protagonista è un uomo senza soggettività. Non è
straordinario sotto nessun aspetto. Agisce come qualunque funzionario di
bassa forza agirebbe. È uno straniero perché in nessun luogo stabilisce un
rapporto esistenziale con se stesso o con il proprio mondo. Tutto ciò che gli
accade non ha realtà e significato per lui: un amore che non è un amore reale,
un processo che non è un processo reale, un’esecuzione che non ha
giustificazione nella realtà. In lui non ci sono né colpa né perdono, né
disperazione né coraggio. Che lavori, ami, uccida, mangi o dorma, egli è
descritto non come una persona, ma come un processo psicologico totalmente
condizionato. È un oggetto fra gli oggetti, senza significato per sé e quindi
incapace di trovare significato nel suo mondo. Rappresenta quel destino
dell’oggettivazione assoluta contro cui lottano tutti gli esistenzialisti. Lo
rappresenta nel modo più radicale, senza riconciliazione. Il coraggio di creare
questa figura è pari al coraggio con cui Kafka ha creato la figura del signor K.
Uno sguardo al teatro conferma questo quadro. Il teatro, specie negli Stati
Uniti, è popolato di immagini che esprimono mancanza di significato e
disperazione. In alcuni drammi non si rappresenta che questo (come nella
Mortediuncommessoviaggiatore di Miller); in altri la negatività è meno
assoluta (come in Untramchesichiamadesiderio di Williams). Ma raramente
diventa positività: anche soluzioni relativamente positive sono minate dal
dubbio e dalla consapevolezza dell’ambiguità di tutte le soluzioni.
È sorprendente che a questi drammi partecipino grandi folle, in un paese
in cui il coraggio predominante è il coraggio di esistere come parte di un
sistema di conformismo democratico. Che cosa significa questo per la
situazione dell’America e con essa dell’umanità tutta? Si può facilmente
minimizzare l’importanza di questo fenomeno. Si può richiamare l’attenzione
sull’indubitabile fatto che anche le più grandi folle di frequentatori abituali
del teatro sono una percentuale infinitamente piccola della popolazione
americana. Si può respingere l’importanza del fascino che il teatro
esistenzialista ha per molti, definendolo una moda d’importazione destinata a
sparire molto presto. Forse è così, ma non necessariamente. Può darsi che
quei relativamente pochi (pochi anche se si aggiungono tutti i cinici e i
disperati di alta cultura) siano un’avanguardia che precede un gran
cambiamento nella situazione spirituale e psico-sociale. Può darsi che i limiti
del coraggio di esistere come parte siano diventati visibili a più persone di
quante non mostri il crescente conformismo. Se questo è il significato
dell’attrazione che l’esistenzialismo esercita sulla scena, lo si osservi
attentamente e gli si impedisca di diventare il precursore di forme
collettivistiche del coraggio di esistere come parte – una minaccia
incombente, come la storia ha abbondantemente dimostrato.
L’associazione dell’esperienza della mancanza di significato e del
coraggio di esistere come se stessi è la chiave per capire l’evoluzione
dell’arte figurativa fin dall’inizio del secolo. Nell’espressionismo e nel
surrealismo le strutture superficiali della realtà si rompono. Le categorie che
costituiscono l’ordinaria esperienza perdono il loro potere. La categoria di
sostanza si perde, gli oggetti solidi sono contorti come funi; si ignora
l’interdipendenza causale delle cose, che appaiono in una totale contingenza;
le successioni temporali perdono ogni significato, non importa se un
avvenimento è accaduto prima o dopo un altro avvenimento; le dimensioni
spaziali sono ridotte o trasformate in una terrificante infinità. Le strutture
organiche della vita sono tagliate a pezzi, e i pezzi arbitrariamente (dal punto
di vista biologico, non da quello artistico) ricomposti: le membra vengono
disseminate, i colori vengono separati dai loro naturali portatori. Il processo
psicologico (questo si riferisce alla letteratura più che all’arte) è rovesciato: si
vive dal futuro al passato, e questo avviene senza ritmo, senza alcuna sorta di
logica organizzazione. Il mondo dell’angoscia è un mondo in cui le categorie,
le strutture della realtà, hanno perso la loro validità. Che capogiro generale se
tutto a un tratto la causalità cessasse di essere valida! Nell’arte esistenzialista
(come mi piace chiamarla) la causalità ha perso la sua validità.
L’arte moderna è stata attaccata in quanto presagio di sistemi totalitari. La
risposta che tutti i sistemi totalitari hanno iniziato la loro carriera attaccando
l’arte moderna è insufficiente, perché si potrebbe dire che i sistemi totalitari
abbiano combattuto l’arte moderna proprio perché cercavano di opporsi alla
mancanza di significato in essa espressa. La vera risposta ha radici più
profonde. L’arte moderna non è propaganda, ma rivelazione. Mostra qual è la
realtà della nostra esistenza. Non nasconde la realtà in cui viviamo. La
domanda è perciò questa: rivelare una situazione significa propagandarla? Se
fosse vero, dovremmo considerare tutta l’arte disonesta idealizzazione. L’arte
diffusa sia dal totalitarismo che dal conformismo democratico sarebbe
disonesta idealizzazione. Viene preferito un naturalismo idealizzato perché
elimina il pericolo che l’arte diventi critica e rivoluzionaria. I creatori
dell’arte moderna hanno saputo vedere la mancanza di significato della nostra
esistenza; partecipavano alla sua disperazione. Nello stesso tempo hanno
avuto il coraggio di affrontarla ed esprimerla nei loro dipinti e nelle loro
sculture. Avevano il coraggio di esistere come se stessi.
Il teismo trasceso
Il coraggio di prendere in sé la mancanza di significato presuppone un
rapporto col fondamento dell’essere che abbiamo chiamato “fede assoluta”.
La fede assoluta non ha un contenuto speciale, pure non è priva di contenuto.
Il suo contenuto è il “Dio al di sopra di Dio”. La fede assoluta e la sua
conseguenza, il coraggio che include il dubbio radicale, il dubbio su Dio,
trascendono l’idea teistica di Dio.
Il teismo può significare l’affermazione non specificata di Dio. In questo
senso il teismo non dice quello che intende dire col nome di Dio. Per le
implicazioni tradizionali e psicologiche della parola “Dio” il teismo può
generare, quando parla di Dio, un sentimento di religioso timore. Politicanti,
dittatori e altri, quando ricorrono alla retorica per impressionare il loro
pubblico, usano con piacere la parola “Dio” in questo senso. Essa fa pensare
ai loro ascoltatori che l’oratore è serio e moralmente degno di fede. La cosa
riesce specialmente se possono marchiare i loro nemici come atei. A un
livello superiore, coloro che non hanno un impegno religioso definito amano
chiamarsi teisti, non per fini particolari ma perché non possono sopportare un
mondo senza Dio, qualsiasi cosa questo Dio possa essere. Costoro hanno
bisogno delle implicazioni secondarie della parola “Dio” e hanno paura di
quello che chiamano “ateismo”. Al più alto livello di questo tipo di teismo il
nome di Dio è usato come un simbolo poetico o pratico, esprimente un
profondo stato emozionale o la suprema idea etica. È un teismo che sta sul
confine tra il secondo tipo di teismo e quello che chiamiamo “teismo
trasceso”. Ma è ancora troppo indefinito per poter attraversare questa linea di
confine. La negazione atea di questo tipo di teismo è vaga come quel teismo
stesso. Può generare l’irriverenza e un’irosa reazione di coloro che prendono
sul serio la propria affermazione teistica. Può sembrare perfino legittima
contro l’abuso retorico-politico del nome di Dio, ma fondamentalmente è
priva di pertinenza come il teismo che nega. Non giunge alla disperazione più
di quanto il teismo, contro il quale lotta, giunga alla fede.
Il teismo può avere un altro significato, totalmente contrario al primo: può
denominare ciò che abbiamo chiamato l’incontro umano-divino. In questo
caso richiama l’attenzione su quegli elementi della tradizione giudaico-
cristiana che esaltano il rapporto personale con Dio. Il teismo così inteso
esalta i passi personalistici della Bibbia e del credo protestante, l’immagine
personalistica di Dio, la parola come strumento di creazione e rivelazione, il
carattere etico e sociale del regno di Dio, la natura personale della fede
umana e del perdono divino, la visione storica dell’universo, l’idea di uno
scopo divino, l’infinita distanza fra il creatore e la creatura, la separazione
assoluta fra Dio e il mondo, il conflitto fra Dio, santo, e l’uomo,
peccaminoso, il carattere personale della preghiera e della devozione pratica.
Il teismo così inteso è l’aspetto non mistico della religione biblica e del
cristianesimo storico. L’ateismo, dal punto di vista di questo teismo, è il
tentativo umano di evitare l’incontro umano-divino. È un problema
esistenziale, non teoretico.
Il teismo ha un terzo significato strettamente teologico. Il teismo teologico
dipende, come ogni teologia, dalla sostanza religiosa che concettualizza.
Dipende dal teismo inteso nel primo senso in quanto tenta di dimostrare di
affermare in qualche modo Dio; di solito sviluppa i cosiddetti “argomenti” a
favore dell’esistenza di Dio. Ma dipende di più dal teismo inteso nel secondo
senso in quanto tenta di stabilire una dottrina di Dio che trasformi l’incontro
personale con Dio in una dottrina su due persone che possono, come non
possono, incontrarsi, ma che hanno ciascuna una propria realtà indipendente.
Ora, il teismo inteso nel primo senso va trasceso perché non è pertinente e
il teismo inteso nel secondo senso va trasceso perché è unilaterale. Ma il
teismo inteso nel terzo senso va trasceso perché è erroneo. È pessima
teologia. Questo può mostrarlo un’analisi più penetrante. Il Dio del teismo
teologico è un essere fra gli altri e, come tale, parte della realtà totale.
Certamente la parte più importante, ma pur sempre una parte, e perciò
soggetto alla struttura della totalità. Si crede che trascenda gli elementi
ontologici e le categorie che costituiscono la realtà, ma ogni proposizione lo
soggioga a essi. È visto come un essere che ha un mondo, come un Io che è in
rapporto con un Tu, come una causa che è separata dal suo effetto, come
quello che ha uno spazio definito e un tempo senza fine. È un essere, non
l’essere in sé. Come tale è legato alla struttura soggetto-oggetto della realtà, è
un oggetto per noi soggetti, che contemporaneamente siamo oggetti per lui
soggetto. E questo è decisivo per la necessità di trascendere il teismo
teologico. Infatti Dio soggetto mi trasforma in un oggetto che non è altro che
un oggetto. Mi priva della mia soggettività perché è onnipotente e
onnisciente. Io mi ribello e tento di trasformare lui in un oggetto, ma la
ribellione fallisce e diventa disperata. Dio appare come il tiranno invincibile,
l’essere di fronte al quale tutti gli altri esseri sono senza libertà e soggettività.
È fatto uguale ai recenti tiranni che con l’aiuto del terrore cercano di
trasformare tutto in un mero oggetto, una cosa fra le cose, un ingranaggio
della macchina che controllano. Diventa il modello di tutto ciò contro cui si
rivoltò l’esistenzialismo. Questo è il Dio che, come dice Nietzsche,
dev’essere ucciso, perché nessuno può tollerare di essere trasformato in un
mero oggetto di assoluta conoscenza e di assoluto controllo. Questa è la
radice più profonda dell’ateismo, un ateismo legittimo come reazione contro
il teismo teologico e le sue sconcertanti implicazioni. È anche la radice più
profonda della disperazione esistenzialista e della diffusa angoscia della
mancanza di significato nella nostra epoca.
Il teismo in tutte le sue forme viene trasceso in quella esperienza a cui
abbiamo dato il nome di fede assoluta. Essa consiste nell’accettare senza
niente o nessuno che accetti. È il potere dell’essere in sé che accetta e dà il
coraggio di esistere. Questo è il punto più alto a cui ci ha portati la nostra
analisi. Esso non può essere descritto allo stesso modo del Dio di tutte le
forme di teismo. Non può essere descritto nemmeno in termini mistici.
Trascende il misticismo e l’incontro personale, così come trascende il
coraggio di esistere come parte e il coraggio di esistere come se stessi.