Sei sulla pagina 1di 16

Giulia Angelini

L’isola di Filottete

Introduzione

Senza nemmeno aver bisogno di abbozzare degli esempi che, solo per con-
venzione, partirebbero dall’Odissea di Omero per poi perdersi in innumerevoli
direzioni, una delle immagini che ricorre da millenni in quella che oggigiorno
è diventata la letteratura è l’immagine dell’isola, cioè, di quel piccolo lembo
di terra bagnato dalle acque che rappresenta uno stesso mondo in miniatura:
ora simbolo di partenza, ora di arrivo, ora di perdita, ora di conquista, l’isola è
presente in ogni cultura che si è rapportata con il mare per pensare la sua stessa
esistenza.
Posto che di per sé è un simbolo neutro (al di là della stessa Itaca, si pensi,
sempre all’interno dell’Odissea, al contrasto tra l’isola virtuosa dei Feaci e l’isola
viziosa dei Ciclopi),1 uno dei suoi utilizzi più ricorrenti è quella particolare si-
tuazione che si verifica laddove un uomo si ritrova, da solo, su essa: tralascian-
do le motivazioni che vi soggiacciono, varie testimonianze ci descrivono questa
particolare circostanza in cui un uomo può essere di improvviso catapultato.
Piuttosto che avventurarci nel compito impossibile di esaminarle tutte, in
questo articolo ci si vuole concentrare specificamente su una tragedia che pren-
de le mosse da questa stessa ambientazione, cioè, il Filottete di Sofocle, per il
fatto che, tra le altre considerazioni che vi si possono trarre, la stessa ci offre un
interessante excursus su quella che, per gli antichi Greci, è la natura umana:2
non si tratta ora di discutere di questo tema in generale, ma di analizzare quella
precisa rielaborazione che, soggiacendo a un determinato contesto, immanca-
bilmente lo mette meglio in luce.
Infatti, tenendo conto degli svariati campi metaforici che le appartengono,
se questo suo utilizzo ci permette un lavoro di tal fatta è perché l’isola in cui si
trova ora abbandonato l’uomo rappresenta in negativo la stessa situazione in
1
Oltre a rimandare a Odissea V-VII per la descrizione dell’isola dei Feaci e a Odissea IX per quella
dell’isola dei Ciclopi, ciò che è importante è la radicale diversità da cui sono contraddistinte, che
è il motivo per cui sono due modelli diametralmente opposti della comunità umana: nella prima
i Feaci vivono assieme circondati da mura costruendo case, sono pii di fronte agli dèi, ognuno ha
il suo pezzo di terra da coltivare e onorano l’ospite; all’opposto, nella seconda i Ciclopi vivono
isolati, allo stato brado, non venerano gli dèi, non coltivano campi e si nutrono di qualsiasi ospite
giunga loro.

139
Giulia Angelini

cui egli normalmente vive: nel momento in cui non si ha più quella comunità
(da intendersi letteralmente, cioè, come una vera e propria vita in comune)
che lo costituisce in positivo, sorge una precisa quanto decisiva domanda che
ripropone, indirettamente, l’atavico enigma della Sfinge,3 cioè, che ne è dello
stesso?
Facendoci carico di ciò, è proprio per questo che, nell’estrema paradossalità
che le appartiene, un’ambientazione di questo tipo è sempre stata così densa di
suggestioni a livello collettivo: mette alla prova ciò che l’uomo è, facendo emer-
gere, nell’estrema privazione di questo luogo che, in realtà, è un non-luogo
(cioè, non è un luogo umano), quello che è il suo stesso destino.4
Sempre nel contesto dell’antica Grecia, con il Filottete di Sofocle abbiamo
una risposta molto puntuale alla domanda posta sopra, che poi sta a noi analiz-
zare in tutte le sue conseguenze, che, come spesso succede in questi casi, vanno
al di là dell’opera in esame.

Filottete

Prendendo il titolo dal protagonista, il Filottete di Sofocle è una tragedia rap-


presentata per la prima volta nel 409 a.C. che si ispira alla Piccola Iliade5 appar-
tenente, come altri numerosi poemi andati perduti, al ciclo troiano: narra di
quell’eroe, Filottete, che, pur avendo sempre combattuto a fianco degli Achei,
è stato abbandonato dagli stessi sull’isola di Lemno a causa di un’ulcera al
piede inflittagli da una vipera, che gli provocava, oltre che lamenti infiniti, un
insostenibile olezzo, rendendogli impossibile qualsiasi convivenza con gli altri
uomini.
A essere più precisi, quando lo scenario si apre dando inizio alla tragedia,
sono passati ormai dieci lunghi anni da questo abbandono.

2
Per quanto riguarda una trattazione più ampia di questo punto, si rimanda a L. Grecchi, Uomo,
Unicopli, Milano 2019.
3
L’enigma della Sfinge è uno dei primi enigmi che ci è stato tramandato che, al di là delle diver-
sità delle testimonianze, ha come soluzione proprio l’uomo, su cui da sempre ci si è interrogati.
4
Allo stesso modo, questa stessa ambientazione ci permette di ragionare indirettamente sull’an-
noso problema della tecnica, che si impone sempre interrogandosi sulla natura umana.
5
Per quanta riguarda i frammenti di questo poema, che fortunatamente possediamo in misura
maggiore rispetto ad altri andati totalmente perduti, cfr. M. Davies, Epicorum Graecorum fragmen-
ta, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1988. Rimandando a P. Pucci, Introduzione, in Sofocle,
Filottete, a cura di G. Avezzù, P. Pucci, trad. di G. Cerri, Mondadori, Milano 2003, pp. XII-XIV per
un maggiore approfondimento, segnaliamo che, oltre che nell’Odissea, riferimenti a questa vicen-
da sono presenti anche nel secondo libro dell’Iliade all’interno del famoso “catalogo delle navi”.

140
L’isola di Filottete

Avendo saputo da un oracolo di aver bisogno, oltre che di Filottete, del suo
arco per riuscire a vincere i nemici, i suoi compagni ritornano da lui: si diceva
infatti che l’arco fosse magico, rendendo il suo possessore pressoché invincibi-
le.
Temendo che, a causa del risentimento per quanto accadutogli, lui non
avrebbe collaborato facilmente, gli Achei elaborano un inganno per raggiun-
gere il loro scopo, a ideare il quale non è nientepopodimeno che Odisseo in
persona (qui, come altrove,6 rappresentato come un eroe meschino, crudele e
freddo), che convince il figlio del deceduto Achille, Neottolemo, a raccontare
una menzogna allo stesso Filottete: se i vari protagonisti cambiano posizione
durante il dramma mostrando pentimento per le loro stesse azioni, a risolvere
definitivamente la situazione sarà solo l’intervento di Eracle, vero e proprio
deux ex machina, che riuscirà a riportare tutti alla ragione.
Sicuramente, al di là di qualsiasi sottotesto politico di un possibile ritorno di
Alcibiade ad Atene per risollevare le sorti della guerra del Peloponneso (su tut-
ti, L. Canfora),7 così al di là di qualsiasi riferimento all’istituto dell’efebia (allo
stesso modo, P. Vidal-Nacquet),8 il Filottete di Sofocle è una tragedia particolare
all’interno della produzione del suo autore:9 oltre all’assenza di un finale tipica-
mente tragico (l’Edipo re qui docet) che è quasi sicuramente il frutto del contatto
con Euripide, a dominare incontrastato è il conflitto tra l’utile e il giusto, ma
anche tra il mezzo e il fine e tra il male necessario e il bene superiore.
Se queste tematiche erano al centro delle vivacissime discussioni sofistiche
dell’epoca (si possono ricordare le stesse riprese successive da parte di Platone,
che nella Repubblica ce ne restituisce un quadro alquanto vivace),10 ci teniamo
a dire che la nostra lettura sarà assolutamente parziale, dato che noi ci con-

6
Oltre a quanto ci è restituito dalle varie testimonianze su Palamede (su cui è caduta una vera e
propria damnatio memoriae in Omero, a cui soprattutto Gorgia cercherà di porre rimedio), si può
pensare anche all’Ecuba di Euripide, che contiene un giudizio abbastanza simile.
7
Ricordandoci come Alcibiade torni ad Atene esattamente l’anno dopo la sua messa in scena,
si sostiene questo: «È in questo clima, caratterizzato dalla restaurazione democratica, dalle rin-
novate vittorie navali, dalle speranze tutte puntate su Alcibiade ancora esule ma da più parti
invocato, che si colloca il Filottete, l’unica tragedia superstite di Sofocle per la quale sia attestata
con esattezza la data di rappresentazione: le Dionisie del 409» (L. Canfora, Storia della letteratura
greca, Laterza, Roma-Bari, 2013 p. 184).
8
Tenendo conto di come in questo caso il focus del ragionamento si sposti su Neottolemo, che
diventa adulto proprio in questa vicenda, ciò che si è sottolineato è la corrispondenza tra «la
“mutation” du jeune Néoptolème et l’initiation éphébique» (P. Vidal-Nacquet, Le Philoctète de
Sophocle et l’éphébie, «Annales ESC», 26, 1971, p. 628).
Per una pesante critica a questa ipotesi, che, più della precedente, spezza l’autonomia della stes-
sa tragedia per legarla potentemente a problemi a essa estrinseci, cfr. V. Di Benedetto, Il Filottete
e l’Efebia secondo P. Vidal-Nacquet, «Belfagor», 33, 1979, pp. 191-207.
9
Per un’introduzione all’opera di Sofocle, rimandiamo a K. Reinhardt, Sophokles, Klostermann,
Frankfurt a. M. 1933, che, sebbene un po’ datato, è un testo tutt’ora validissimo.
10
Si sta ovviamente pensando al personaggio di Trasimaco.

141
Giulia Angelini

centreremo solo sull’ambientazione, cioè, quell’isola di Lemno che, essendo di


nuovo11 l’isola dell’abbandono totale, ci permette di mettere meglio in luce per
questa sua caratteristica l’enigma della natura umana.
Tenendo conto di questo nostro intento, ciò che è importante è che al centro
di questa tragedia viene posto fin da subito il dolore di Filottete, che, solo in
prima battuta, è un dolore fisico, dato che l’ulcera al piede non si è mai rimar-
ginata: il suo corpo è martoriato, stanco e provato, così tanto che gli lascia po-
chissimi momenti di lucidità.
Dal punto di vista stilistico (come sottolinea V. Di Benedetto,12 oltre alla
mancanza di molti schemi metrici, la paratassi domina incontrastata), è sicu-
ramente innovativo che un intero verso della tragedia sia stato dedicato al suo
lamento straziante, che serve anche per spezzare la stessa imperturbabilità mi-
tica dell’eroe che ora è descritto in termini estremamente realistici: «Ah, ah, ah,
ah, ahi! Ah, ah, ah, ah, ahi!».13
Tuttavia, al di là del suo dolore (umano, troppo umano, verrebbe da dire), ciò
che è più significativo è come Filottete stesso descriva la sua esistenza su quel
lembo di terra, che, tenendo a mente il contrasto tra l’isola dei Feaci e l’isola
dei Ciclopi, si distacca dalla prima per avvicinarsi alla seconda, proprio perché
sull’isola non si ha la ricostruzione di nessuna comunità umana:

L’antro che mi fa da casa mi offre, con il fuoco, tutto il necessario, tranne la


guarigione dal mio male. E ora, figlio, voglio anche parlarti di quest’isola.
Nessun navigante vi si accosta di sua volontà: non c’è approdo, non c’è
possibilità, per chi vi sbarchi, di vendere e guadagnare, e nemmeno di
trovare ospitalità.14

In questo senso, tenendo conto di come sia totalmente dominata dalla na-
tura selvaggia (i prati, le rocce, i monti, le sorgenti, le pianure, etc.), l’isola non
11
Infatti, c’è anche da dire che l’isola di Lemno non è assolutamente una scelta casuale, dato che
nell’immaginario degli antichi Greci era già stato il simbolo di un altro terribile destino: come
ci ricorda magistralmente M. Detienne (M. Detienne, I giardini di Adone. La mitologia dei profumi
e degli aromi in Grecia, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 108-116), secondo un mito altrettanto arcaico
esso è il luogo in cui si sono ritrovate sole le Lemniadi, cioè, quelle donne che avevano ucciso i
loro mariti per il fatto che gli stessi, a loro volta, le avevano tradite per l’odore ripugnante a cui,
in questo caso, Afrodite le aveva condannate per aver trascurato il suo culto.
12
Cfr. V. Di Benedetto, Introduzione, in Sofocle, Trachinie, Filottete, introduzione di V. Di Benedet-
to, premessa al testo e note di M. S. Mirto, traduzione di M. P. Pattoni, Rizzoli, Milano 2017, p.
33: «Un dato espressivo [...] è lo scavare, da parte di Sofocle, nella dimensione della sofferenza
fisica, con un rinnovamento del linguaggio tragico tradizionale [...]. Colpisce in particolare l’uso
esasperato della paratassi, per cui le singole frasi interiettive si collocano l’una accanto all’altra,
in una successione che si pone al di qua di una effettiva articolazione sintattica. E saltano anche
gli schemi metrici: le forti incisioni che staccano una frase dall’altra rompono i versi in sequenze
di frasi che anche a livello metrico sono tendenzialmente autonome».
13
Sofocle, Filottete, v. 746, in Id., Trachinie, Filottete, cit., pp. 169-287.
14
Ivi, vv. 298-303.

142
L’isola di Filottete

presenta nessuna attrattiva per un uomo che solca le acque, dato che su di essa
non solo non c’è possibilità di commerciare (mercanti), ma nemmeno di trova-
re aiuto in caso di bisogno (profughi): nonostante il tempo passato lì, lo stesso
Filottete non è riuscito a costruirvi niente, superando le giornate solo grazie a
espedienti.
Lo stesso arco, emblema della tecnica che l’eroe è riuscito a portarsi con sé,
gli permette esclusivamente di nutrirsi, ma non lo rende minimamente in gra-
do di ricreare l’ambiente precedente, che sembra ormai perduto.
Infatti, quella che noi abbiamo chiamato la natura selvaggia non può pa-
ragonarsi alla natura umana: per quanto il vocabolo greco sia lo stesso, cioè,
“φύσις”, la natura umana si costituisce come qualcosa di ulteriore rispetto
all’altra natura che pure circonda gli uomini, dato che va a indicare la stessa
destinazione del singolo, che, inevitabilmente, oltrepassa qualsiasi datità.
Tenendo conto di come il suffisso -ις serva per indicare il movimento che le
è intrinseco,15 “φύσις” è un vero e proprio nomen actionis,16 che indica l’essere
stesso dell’ente a cui si riferisce: come cercheremo di dimostrare, in questo caso
indica come la natura umana si dia solo in un contesto relazionale.
Per capire meglio questa situazione, che comunque deve essere assunta
in senso forte, Filottete stesso poi si presenta in questo modo, dove i termi-
ni greci sono sicuramente più importanti di qualsiasi traduzione se ne possa
dare:

Ed ora tu, sciagurato, pensi di portarmi in catene via da questa casa, sulla
quale m’abbandonasti un giorno senza compagni (ἄφιλον), solo (ἔρημον),
in una zona deserta (ἄπολιν), morto vivente (ἐν ζῶσιν νεκρόν)? Maledizio-
ne!17

Cominciando la nostra analisi, l’espressione “ἐν ζῶσιν νεκρόν” (che, letteral-
mente, non è solo un “morto vivente”, ma “un corpo morto tra i vivi”) è molto
evocativa, così tanto che merita una premessa: innanzitutto, è bene ribadire che
nell’isola Filottete ha tutto il necessario per sopravvivere.
Tuttavia, il punto è che, pur continuando a sussistere a livello biologico, a
Filottete mancano quelle condizioni che, sole, permettono a un uomo di di-
stinguersi dal mero σῶμα (quel “corpo” che, pur essendo il contrario del “ca-
davere”, non è ancora quello umano),18 dove i termini greci del testo sono così
15
Come ricorda P. Chantraine sulla scorta di É. Benveniste, “φύσις” significa «accomplissement
(effectue) d’un devenir; nature en tant qu’elle est réalisée, avec toutes ses propriétés» (P. Chan-
traine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1968, p.
1234).
16
Cfr. L. Grecchi, Natura, Unicopli, Milano 2018, p. 19.
17
Sofocle, Filottete, vv. 1016-1019.
18
Per una terminologia simile, cfr. Senofonte, Ciropedia VII 5, 73, traduzione mia: «È una legge
eterna tra tutti gli uomini che, se una città viene conquistata in guerra, i corpi (τὰ σώματα) di

143
Giulia Angelini

decisivi che, metricamente, sono sottolineati anche da una coppia di tribrachi:


Filottete in persona si dichiara essere ἄφιλον, ἔρημον e ἄπολιν, cioè, con una tra-
duzione più letterale, senza amici, solo e senza città, all’interno di un ragio-
namento per cui l’essere solo è una sorta di endiadi che fa da rafforzativo a
entrambi.
Posto che gli amici e la città sono costitutivi per il darsi dell’uomo (l’alfa
privativo non fa altro che sottolineare la condizione sottrattiva in cui ora ver-
sa), proprio per questo Filottete si ritrova come un corpo morto tra i vivi: il
suo mero sopravvivere non può assolutamente paragonarsi a una vita in senso
proprio, la cui φύσις, per gli antichi Greci, trova la sua condizione di possibilità
solo in quel contesto relazionale a cui abbiamo fatto prima riferimento.19
In altri termini, giocando sulla differenza tra ζωή e βίος,20 si può dire anche
così: per quanto la ζωή sia quella vita qua vivimus, che, come tale, appartiene
a tutti gli animali, è il βίος che determina la vita quam vivimus, che, per la sua
specificità, qualifica l’esistenza umana.21
In questo senso, non è assolutamente un caso che nel testo pullulino i termi-
ni legati, anche per derivazione, a “ζωή” (la stessa espressione “ἐν ζῶσιν νεκρόν”
si riconnette a questa sfera), ma che manchi qualsiasi riferimento alla gamma
lessicale di “βίος”: sempre riferendoci alla φύσις greca, la natura umana non è
da ricercarsi in un dato biologico, ma nella stessa esistenza in comune degli
uomini. Senza quest’ultima, non si può parlare di una natura umana, proprio
perché rimane solo quel sostrato biologico che, di per sé, non è sufficiente a
caratterizzarla.
È per questo motivo che, di fronte all’inganno escogitato dai suoi amici e
dalla sua città, Filottete pensa al suicidio,22 da cui riuscirà a distoglierlo definiti-
vamente Eracle che, facendolo riconciliare con i suoi compagni, gli prefigurerà
la futura guarigione permettendogli così di imbarcarsi sulle navi achee alla
volta di Troia: il suicidio non è nel suo caso un mettere fine alla vita, ma rico-
noscere come quella vita che sta vivendo non ha più senso. Con il suicidio si

quelli nella città (τῶν ἐν τῇ πόλει) e i loro beni (τὰ χρήματα) appartengano ai conquistatori». Anche
se velocemente, è importante segnalare che, anche in questo caso, quando non si trovano più in
un contesto relazionale, gli uomini non si possono definire più tali, dato che sono solo corpi, cioè,
identificabili con la mera materia da cui sono formati.
19
Per quanto questa tragedia sia stata analizzata sovente a partire dalla dicotomia natura/cultu-
ra, che, in questi termini, è una dicotomia sicuramente successiva, in realtà essa qui vien meno,
proprio perché per Filottete natura e cultura sono la medesima cosa.
20
Per quanto l’analisi travalichi il Filottete di Sofocle, un’interpretazione simile l’abbiamo avan-
zata in G. Angelini, La “nuda vita” in Aristotele. A partire da Giorgio Agamben, «Consecutio rerum»,
3, 6 (2019), pp. 323-346.
21
Per un approfondimento di questo scenario, cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della filoso-
fia aristotelica, Adelphi, Milano 2017, p. 77.
22
Cfr. Sofocle, Filottete, vv. 797-798: «O morte, morte, perché ti invoco così, sempre giorno dopo
giorno, e tu non puoi mai venire?».

144
L’isola di Filottete

definirebbe finalmente la condizione che gli appartiene, proprio perché la sua


non è assolutamente una vita che si può chiamare con questo nome.
Tuttavia, per capire meglio questa situazione, è necessario fare un ulteriore
passo in avanti.

L’Anti-Filottete: Robinson Crusoe

Come abbiamo già avuto modo di ricordare, non solo l’immagine dell’isola
è molto feconda nella letteratura, ma lo è ogni utilizzo della stessa nel senso
che noi stiamo ricordando: se ognuna di queste rielaborazioni è importante,
è perché ogni volta mette in luce un aspetto diverso della natura umana, che
racchiude quello che, con un termine successivo, è lo stesso Zeitgeist dell’epoca.
Un caso celebre è Havy Ibn Yaqzan23 scritto nel XII secolo da Abu Bakr Mu-
hammad Ibn ‘Abd al-Malik Ibn Muhammad Ibn Tufaylal-Qaysi, noto più sem-
plicemente all’Occidente con il nome di Abubacer.
In quest’opera (tradotta sia con Il figlio vivente del vigilante sia con Il filosofo
autodidatta), Abubacer non parla solo di un uomo che si è ritrovato da solo
su un’isola, ma di un bambino che, senza essere generato né da padre né da
madre, è nato nella stessa, riuscendo comunque ad arrivare alla conoscenza
tramite l’osservazione di quella natura che, infine, si mostrerà coincidente con
la religione del profeta: tra i due piani, infatti, c’è totale corrispondenza.24
Se quest’opera è fondamentale per capire la filosofia musulmana del secolo
d’oro, per i nostri intenti è sicuramente più importante The Life and Strange Sur-
prising Adventures of Robinson Crusoe di D. Defoe: uscito per la prima volta nel
1719, questo romanzo si colloca nel pieno sviluppo di quell’Inghilterra capita-
lista25 che, tra predestinazione divina e iniziativa personale, sta elaborando più
compiutamente il suo stesso rapporto con il protestantesimo.26

23
Per quanto riguarda una delle migliori edizioni con testo critico a nostra disposizione, riman-
diamo a Ibn Tufayl, Hayy Ibn Yaqzān: a philosophical tale, translated with introduction and notes by
L.E. Goodma, Twayne, New York 1972.
24
Anche se costituisce un fuori testo rispetto al nostro articolo, si può pensare alla stessa somi-
glianza/diversità di questo racconto dal mito del bon sauvage, che, di nuovo, non è nient’altro che
l’indice della differenza tra i mondi che, rispettivamente, li hanno partoriti.
25
Per questa questione, rimandiamo a G. Sertoli, I due Robinson, in D. Defoe, Le avventure di
Robinson Crusoe, Le ulteriori avventure e Serie riflessioni, a cura di G. Sertoli, Einaudi, Torino 2008,
pp. V-XX.
26
Per quanto sia successivo, un altro riferimento obbligato è M. Weber, L’etica protestante e lo
spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991, che permette di approfondire la stessa concettualità
sottesa a questo romanzo.

145
Giulia Angelini

In questa direzione, facendoci suggestionare da istanze esterne a questo stes-


so discorso,27 si può fare un rapido confronto tra Filottete e Robinson Crusoe
per rimarcare così la differenza tra la concezione antica dell’uomo e quella mo-
derna, che, nel loro cambiamento radicale, ci permette di spostare quest’analisi
su quel piano diacronico che finora si è lasciato ai margini.
Nonostante i millenni che le separano, la vicenda di Robinson è molto simile
a quella da noi ricordata, tant’è che, con una finalità radicalmente diversa dalla
nostra, a partire almeno da G. E. Lessing28 si è insistito tanto sul sovrapporre
i due personaggi: figlio di un mercante di Brema emigrato in Inghilterra, a di-
ciannove anni Robinson decide di salpare per il mare alla volta dell’Atlantico,
delle Canarie e, infine, della Guinea.
Durante uno dei suoi viaggi, la sua nave, imbattendosi in una tempesta, fa
naufragio: salvandosi, Robinson finirà per ritrovarsi solo su un’isola, in cui tra-
scorrerà ventisette anni (?),29 che annoterà giorno per giorno su un diario fino a
quando non esaurirà l’inchiostro.
Anche tenendo conto della continuazione (The Farther Adventures of Robinson
Crusoe), la vicenda dell’isola è solo un episodio della lunga vita del personaggio
emblema di quelle magnifiche sorti e progressive di questa novella middle class
borghese,30 ma ciò che a noi interessa, nella stessa riduzione che, non a caso, ne
farà J.-J. Rousseau,31 è proprio il periodo che Robinson trascorre sulla stessa.
Infatti, a differenza di Filottete, Robinson può dirsi un vero uomo perché,
nonostante tutto, riesce a sopravvivere, cioè, a provvedere a ogni suo bisogno
grazie anche alla stessa tecnica che, proprio in quel periodo, entra in manie-
ra decisiva per determinare l’esistenza umana: se Filottete però non è più un
uomo, è perché, lontano dagli amici e dalla città, perde quelle connotazioni che,
sole, lo definiscono come tale. Per Robinson tutto ciò non è necessario, dato che
il piano su cui si muove è un altro. La mancanza degli amici e della città, che
è così decisiva per Filottete, non è un problema per Robinson ed è per questo
che, per i principi diversi da cui muovono, Robinson è a buon titolo un uomo,
essendo che la sopravvivenza per lui è l’unica condizione necessaria per carat-
terizzare la sua esistenza.
In questo caso, la sua natura costituisce la sua stessa biologia, che poi l’uo-
mo è chiamato a sviluppare in tutte le sue possibilità: derivando da quel “na-
scor” che, a differenza di “φύσις”, indica solo la venuta al mondo, la naturalità

27
Per approfondire questa questione, si veda A. Macintyre, Giustizia e razionalità. 1. Dai greci a
Tommaso d’Aquino, trad. it. di C. Calabi, Anabasi, Milano 1995, pp. 64-88.
28
Si sta pensando al quarto capitolo del Laocoonte, dove è argomentato questo parallelismo.
29
Il punto di domanda è obbligatorio date le incongruenze tra i conteggi degli anni che sono
presenti nello stesso testo.
30
Per un’analisi complessiva della sua vicenda, rimandiamo a G. Sertoli, I due Robinson, cit., pp.
V-XL.
31
Stiamo pensando al terzo capitolo di L’Emilio o dell’educazione.

146
L’isola di Filottete

di Robinson è ben lungi dal darsi in un contesto relazionale per il fatto che
deriva dal solo Robinson, che è anche il motivo per cui la stessa non viene,
potenzialmente, mai meno.
Per questo motivo, pur essendo da solo, Robinson riesce a ricostruire la sua
precedente vita, che è anche rappresentata dalle seminagioni più ampie che
riesce a coltivare, così come dal pane che produce: per Robinson l’isola non è
la negazione della sua precedente vita, ma semplicemente l’inizio di una nuo-
va vita, dove questa rinascita è simbolicamente rappresentata dal fatto che lui
stesso vi è giunto il giorno del suo compleanno, cioè, il 30 settembre.
Proprio a partire da questo scenario, si sviluppano una serie di interessanti
cortocircuiti tra Filottete e Robinson, che per noi presentano la massima diva-
ricazione in questi due punti: da una parte, se Filottete non si considera più
un uomo, Robinson non solo lo rimane, ma si attribuisce varie volte il titolo di
king, che ha potuto assumere proprio perché, nella sua situazione, è l’assolu-
to padrone di ciò che c’è sull’isola. Non si tratta semplicemente di ribadire la
sua umanità, ma di svilupparla fino alle estreme conseguenze ed è per questo
che, non essendoci nessun tipo di opposizione sull’isola, Robinson ne è il king
legittimo.
Sullo sfondo delle lotte del tempo tra Re e Parlamento32 che inevitabilmente
hanno influenzato lo stesso linguaggio di Defoe, Robinson afferma:

Discesi un po’ la costa di questa deliziosa valle, osservandola con una


specie di gioia segreta... al pensiero che essa era tutta mia; che io ero re
e signore incontrastato di tutto questo paese e ne avevo pieno diritto di
possesso; e, se avessi potuto lasciarlo in eredità, ne avrei disposto così
completamente come può fare il signore di un maniero in Inghilterra.33

Dall’altra, se nella tragedia sofoclea la natura selvaggia domina incontrasta-


ta proprio perché Filottete subisce questa condizione aliena alla vita umana,
nel romanzo di Defoe ha ragione V. Woolf nel dire che questo tipo di natura
“non esiste”:34 tutte le descrizioni che si trovano riguardano ciò che questo no-
vello homo faber riesce a costruire sull’isola, proprio perché questa stessa isola
diventa il banco di prova del suo essere uomo, che lo stesso, sempre grazie alla
tecnica, trasforma a seconda delle sue necessità.
In altri termini, non c’è bisogno di altri uomini per avere un mondo umano,
ma basta un solo essere vivente per ricrearlo, anche in maniera migliore di
quello che è abitato da più umani.
32
Per quanto riguarda l’immagine del sovrano assoluto qui tratteggiato, rimandiamo a M.
Schonhorn, Defoe’s Politics: Parliament, Power, Kingship and ‘Robinson Crusoe’, Cambridge Univer-
sity Press, Cambridge 2006 che, in riferimento agli stessi contrasti tra il Re e il Parlamento, ha
dimostrato come Defoe non guardi alla concezione lockiana di sovranità ma a quella hobbesiana.
33
D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe, Le ulteriori avventure e Serie riflessioni, cit., p. 94.
34
Cfr. V. Woolf, Common Reader, The Hogarth Press, London 1932, pp. 54-55.

147
Giulia Angelini

In questo senso, alle stesse identiche condizioni, Filottete si riconferma un


“ἐν ζῶσιν νεκρόν”, mentre Robinson diventa il modello del self-made man,35 che,
pur essendo un termine dalla potente carica ideologica coniato solo secoli dopo,
trova proprio qui il suo archetipo: quest’uomo può considerarsi ancora uomo
proprio perché, ciò che conta, è eccellere nelle varie situazioni che ci si trova di
fronte, indipendentemente dalle condizioni.
Alla luce di ciò, non è nemmeno importante che a un certo punto Robinson
incontri un selvaggio, che chiama Venerdì proprio ricalcando la smania appro-
priatrice di qualsiasi colonizzazione che nomina, biblicamente, ciò che crede un
suo legittimo possesso.
Anzi, quando Robinson si accorge della presenza di altri uomini sull’isola,
questa non è l’occasione per restaurare un legame umano, ma per riaffermare il
senso del suo essere uomo di fronte a questi barbari che non possono dirsi tali
proprio perché non appartengono a quella civiltà che lui incarna perfettamente
nella sua assoluta solitudine.
Di nuovo, proprio per il retroterra diverso da cui muove, Robinson non ri-
mane solo un uomo, ma è il canone stesso dell’Uomo.

L’uomo come ζῷον πολιτικόν vs l’uomo come individuum

Per quanto un’opera letteraria non sia assolutamente un trattato filosofico,


essa tuttavia si presta a un’indagine sui presupposti che, in maniera diretta
o indiretta, la animano: in questo senso, anche se abbiamo già introdotto dei
termini che vanno al di là delle singole narrazioni, ci azzardiamo ora a esporre
una tesi un po’ particolare, anche perché, nel ribaltamento che qui è in corso,
le vicende di Filottete e di Robinson si offrono facilmente a un esercizio di tal
fatta.
Cominciando con ordine, il Filottete di Sofocle sottende potentemente, nella
negazione che è in atto, un’idea molto cara alla Grecia classica, che, per quan-
to sia stata formulata originariamente da Platone,36 ha ricevuto la sua più im-
portante teorizzazione solo con Aristotele,37 cioè, l’idea dell’uomo come ζῷον
πολιτικόν.38

35
Per questa questione, cfr. I. G. Wyllie, The Self-Made Man in America: The Myth of Rags to Riches,
Rutgers University Press, New Brunswick 1954.
36
Cfr. Platone, Fedone, 82 a-c.
37
Per quanto riguarda l’occorrenza più famosa di questa espressione, cfr. Aristotele, Politica, I,
2, 1253 a 3-10.
38
Per una nostra interpretazione più dettagliata a riguardo, rimandiamo a G. Angelini, L’uomo
come ζῷον πολιτικόν. Un’ipotesi interpretativa di un lemma fondamentale del pensiero aristotelico, in
«Scienza&Politica. Per una storia delle dottrine», 30, 58, 2018, pp. 131-154.

148
L’isola di Filottete

Anche se questa espressione è successiva alla stessa produzione sofoclea,


ciò che la rende così rilevante ai fini del nostro discorso è che grazie a essa si ha
finalmente la concettualità precisa con cui spiegare l’intero episodio sopra ana-
lizzato, dato che l’uomo come ζῷον πολιτικόν non è un uomo generico, ma è un
uomo che ha bisogno strutturalmente degli altri uomini per vivere: la comunità
è necessaria per il suo darsi, proprio perché senza di essa, egli stesso non si può
chiamare tale. Quando si fa riferimento allo ζῷον πολιτικόν, si pensa a un uomo
che si costruisce grazie a questo rapporto. Proprio per questo la comunità non
è un’opzione, ma una stessa necessità. Senza la comunità non può esserci nes-
suno ζῷον πολιτικόν per il fatto che è la stessa che lo costituisce.
In questo senso, è proprio perché non c’è più questo contesto relazionale (di
nuovo, egli è ἄφιλον, ἔρημον e ἄπολιν) che Filottete non può più essere uomo:
tenendo conto di come molti parlino oggi di transindividualità,39 il punto è che
Filottete non ha solo bisogno degli altri uomini per vivere, ma, a un livello più
profondo, sono questi stessi uomini, con la comunità di cui fanno parte, a porlo
in quanto uomo, cioè, a farlo emergere dalla mera biologia.
In altri termini, le relazioni non si aggiungono all’uomo, ma lo costituiscono
dall’interno, proprio perché un uomo è uomo solo grazie agli altri uomini: in
caso contrario, è solo un “ἐν ζῶσιν νεκρόν”.
Utilizzando sempre quel linguaggio successivo che lo stesso Aristotele ha
contribuito a formare, si può leggere questo:

È quindi chiaro che la città è per natura e che è anteriore a ciascun singolo
(ὅτι μὲν οὖν ἡ πόλις καὶ φύσει πρότερον ἢ ἕκαστος, δῆλον); se infatti il singolo,
preso da solo, non è autosufficiente, sarà rispetto alla totalità nella stessa
relazione in cui stanno le altre parti (εἰ γὰρ μὴ αὐτάρκης ἕκαστος χωρισθείς,
ὁμοίως τοῖς ἄλλοις μέρεσιν ἕξει πρὸς τὸ ὅλον), e chi non ha una capacità per
esser membro di una comunità o chi non ne ha bisogno perché è comple-
tamente autosufficiente, non è parte della città, sicché è una bestia o un
dio (ὁ δὲ μὴ δυνάμενος κοινωνεῖν ἢ μηδὲν δεόμενος δι’ αὐτάρκειαν οὐθὲν μέρος
πόλεως, ὥστε ἢ θηρίον ἢ θεός).40

Mereologicamente,41 l’uomo è solo una parte del tutto, dove è proprio que-
sto che lo fa emergere dalla mera vita biologica,42 che è ciò che lo rende esclusi-
vamente un animale: infatti, quando si dice che solo una bestia (subumano) o

39
Cfr. E. Balibar, V. Morfino (a cura di), Il transindividuale, Mimesis, Milano-Udine 2014.
40
Aristotele, Politica, I, 2, 1253 a 27-29, tr. it. Id., La Politica. Libro I, direzione di L. Bertelli, M. Mog-
gi, a cura di G. Besso, M. Curnis, «L’erma» di Bretschneider, Roma 2011 (traduzione leggermente
modificata).
41
Per un approfondimento, rimandiamo sempre a G. Angelini, L’uomo come ζῷον πολιτικόν.
Un’ipotesi interpretativa di un lemma fondamentale del pensiero aristotelico, cit.
42
Il riferimento è allo scarto tra ζωή e βίος che abbiamo trattato in precedenza, scarto che, non a
caso, trova in Politica I di Aristotele una delle sue massime teorizzazioni.

149
Giulia Angelini

un dio (sovrumano) può vivere fuori da questo contesto, si rimarca proprio il


fatto che l’uomo arriva a costituirsi come tale solo in questo modo.
Proprio qui si trova la sua natura, che, sempre nel senso di “φύσις”, è da
intendersi in maniera eminentemente teleologica:43 lo stesso Aristotele ci ricor-
da che «la natura è il fine (ἡ δὲ φύσις τέλος ἐστίν)»,44 che, in questo caso, indica
proprio come l’uomo possa essere tale solo grazie al suo inserimento nella co-
munità, che, di nuovo, è differente da qualsiasi senso di natura legato alla mera
nascita, cioè, a ciò che si dà immediatamente.45
Nonostante le controversie a riguardo, la stessa realizzazione umana
(l’εὐδαιμονία) trova qui la sua possibilità, dato che, volente o nolente, senza la
stessa stabilità permessa da una comunità nessun uomo potrebbe dirsi felice:46
se gli uomini hanno costituzionalmente bisogno degli altri uomini per potersi
dire tali, allora anche le condizioni della buona vita sono da ricercare in questo
stesso orizzonte. 
Di nuovo, per quanto l’idea dell’uomo come ζῷον πολιτικόν sia successiva,
è evidente come ci si muova sugli stessi presupposti, che sono ciò che, sempre
nella negazione, rendono Filottete un “ἐν ζῶσιν νεκρόν”: tenendo conto di come
l’uomo si dia grazie a questo meccanismo, allora lo stesso uomo non è più
quando esso viene meno, dato che si distruggono dall’interno le condizioni del
suo posizionamento.
Proprio in questo senso, emerge potentemente il contrasto con l’individuum
moderno, che, non a caso, è il riferimento di The Life and Strange Surprising
Adventures of Robinson Crusoe di Defoe: ricalcando il termine antico “ἄτομος”
(letteralmente, l’indivisibile), l’individuo è un uomo che è già compiuto in se
stesso e che non ha bisogno degli altri uomini. Trova dentro di sé tutto quello
di cui necessita per vivere, proprio perché con l’individuo l’uomo si concepisce
bastevole a se stesso.
Anzi, gli altri uomini vengono percepiti come estranei, cioè, non come ele-
menti costitutivi al suo darsi, ma come quell’Alterità di cui bisogna aver pau-
ra:47 sulla scia dell’homo homini lupus, lo stesso Robinson ha paura di chiunque
si potrebbe avventurare sulla sua isola, dove questa paura, ancor prima di es-
43
Cfr. E. Berti, La finalità in Aristotele, in Id., Nuovi studi aristotelici. II - Fisica, antropologia e metafi-
sica, Morcelliana, Brescia 2005, p. 53: «Il concetto di natura include il movimento dalla possibilità
alla realtà e quindi la determinatezza della fine operante come scopo in cui essa giunge a compi-
mento; essa è definita da Aristotele come la configurazione di un ente al termine del suo divenire
ed è quindi identica allo “scopo”».
44
Aristotele, Politica, I, 2, 1252 b 31.
45
Per un approfondimento di questa questione da un punto di vista linguistico, cfr. É. Benveni-
ste, Due modelli linguistici di città, in Id., Essere di parola: semantica, soggettività, cultura, a cura di P.
Fabbri, Mondadori, Milano 2009, pp. 147-154.
46
Cfr. E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-
Bari 2007, pp. 266-287.
47
Per approfondire questa situazione, cfr. A. Biral, Per una storia del concetto di politica. Lezioni su
Aristotele e Hobbes, presentazione di G. Duso, a cura di M. Bernardi, Il Prato, Padova 2012.

150
L’isola di Filottete

sere legittimata dalla sua situazione precaria, è quella paura ontologica che si
basa sul presupposto che l’uomo è, per natura, una monade, la cui vita è messa
a rischio dalle altre monadi che si trovano attorno a lui.
Per quanto la genesi dell’individuo sia complessa (si possono distinguere al
suo interno almeno tre grandi filoni: la linea boeziano/tommasiana, l’interpre-
tazione francescana e la rielaborazione giusnaturalistica),48 ciò che è importan-
te è che, a livello politico, l’individuo ha iniziato a essere posto come quell’ele-
mento autosussistente che si dà a prescindere dalla stessa associazione: rifa-
cendoci a T. Hobbes, gli individui precedono qualsiasi aggregazione, dato che
dànno vita alla stessa solo per riuscire a salvare la loro vita, che è il loro bene
più prezioso.
Fin dall’incipit del Leviatano, Hobbes è chiarissimo su questo punto:
La Natura (l’arte con la quale Dio ha fatto e governa il mondo) è imitata
dall’arte dell’uomo, come in molte altre cose, così anche in questo, nel po-
ter fare un animale artificiale. Infatti, dato che la vita non è altro che un
movimento di membra il cui inizio è in qualche principale parte interna,
perché non possiamo dire che tutti gli automi (macchine che si muovono
da sé mediante molle e ruote, come un orologio) hanno una vita artifi-
ciale? Che cos’è infatti il cuore se non una molla e che cosa sono i nervi se
non altrettanti fili e che cosa le giunture se non altrettante ruote che danno
movimento all’intero corpo, così come fu designato dall’artefice? L’arte va
ancora più lontano, imitando quella razionale e più eccellente opera della
natura che è l’uomo.49

Anche se è un termine che emergerà solo più avanti nel discorso hobbesia-
no, la natura umana è interpretata in maniera meccanicistica, che è ciò che è
permesso dall’identificazione con il suo corpo: qualsiasi scopo ulteriore è va-
cuo rispetto a quest’unico assunto, che viene utilizzato per spiegare il compor-
tamento complessivo dello stesso uomo.
In questo senso, al di là delle conseguenze (così come delle incongruenze,
dei cortocircuiti e delle frizioni) che ciò porta con sé,50 lo ζῷον πολιτικόν e l’in-
dividuum si dànno su due piani totalmente diversi, che, altresì, delineano due
concezioni di umanità totalmente opposte.
48
Per questa questione, a cui purtroppo qui non possiamo che fare un veloce riferimento, cfr. A.
Vernacotola Gualtieri D’Ocre, L’uomo «virtuale». Il paradigma antropologico della teoria politico-
giuridico moderna, in «L’Ircocervo» (2010), pp. 3-10. Per quanto riguarda più in particolare l’indi-
viduo nel giusnaturalismo, il rimando principale è A. Biral, Hobbes: la società senza governo, in G.
Duso, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 51-108 e A.
Biral, Rousseau: la società senza sovrano, in G. Duso, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna,
cit., pp. 191-235: in entrambi gli articoli si mostra la genesi dell’individuo moderno, così come la
logica che gli soggiace. Al di là delle differenze che i due testi presentano, ciò che conta è proprio
il meccanismo che sostiene questa inedita posizione dell’uomo.
49
T. Hobbes, Leviatano, saggio introduttivo di C. Galli, traduzione di G. Micheli, Rizzoli, Milano
2001, p. 5.

151
Giulia Angelini

Conclusione

Lasciandoci alle spalle questa parentesi filosofica per tornare al tema del no-
stro articolo, che il Filottete di Sofocle non abbia vinto a livello storico, è sicura-
mente probabile, che è ciò che, d’altra parte, abbiamo suggerito analizzando la
rielaborazione successiva di questa stessa vicenda che si ha in quell’Occidente
che ora sta definendo la sua stessa fisionomia: nelle diverse concezioni a cui è
stato sottoposto, l’uomo sull’isola ha iniziato a credersi autosufficiente, cioè,
bastevole a se stesso per tutte le necessità che vi rinviene.
Tuttavia, guardando alle sue riprese novecentesche, ciò non vuol dire che
quanto questa tragedia ci dice sulla natura umana non sia vero, ma che, sem-
plicemente, la sua verità è più difficile da scorgersi.
In questo senso, concedendoci quella libertà che ogni conclusione permette,
sono molto interessanti queste parole di S. Weil, che, nel contesto di una serie di
interventi sull’antica Grecia da pubblicare sul giornalino aziendale degli ope-
rai,51 si pongono il problema del Filottete oggi:

Il Filottete è il dramma dell’abbandono. Un uomo è stato abbandonato con


deliberato proposito da altri uomini, lasciato completamente solo, malato
e senza risorse, su un’isola deserta.52

Solo in maniera apparentemente anacronistica, la stessa poi prosegue in


questa direzione:

Questo dramma è molto vicino a noi. Certo dopo così tanto tempo, non si
abbandonano più le persone su un’isola deserta. Ma non c’è bisogno d’es-
sere su un’isola deserta per essere abbandonati. Ai giorni nostri, quanti
esseri umani muoiono in modo oscuro di miseria e di umiliazione, tal-
volta nel bel mezzo di una grande città. Le loro morti sono contate nelle
statistiche; qualche volta, se si sono suicidati, si accorda loro qualche riga
tra le altre notizie. Ma ciò che ha potuto attraversare le loro menti e i loro
cuori, nessuno se lo domanda. Si preferisce non pensarci.53

Ribaltando le carte in tavola, con Weil si esce potentemente dalla finzione


narrativa per capire l’identità di Filottete, in cui lei stessa ritrovava i volti degli
operai con cui proprio in quel periodo aveva iniziato a lavorare in fabbrica:
50
Dato che fuoriesce dagli intenti di questo articolo, per un approfondimento di questo punto
rimandiamo a G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Polimetrica,
Milano 2007.
51
Per precisione, ci teniamo a dire che dell’articolo sul Filottete di Sofocle noi possediamo solo
degli appunti, dato che non è stato mai concluso. Oltre agli stessi, che citeremo tra poco, altri
riferimenti a questa tragedia si trovano in S. Weil, Quaderni, vol. 1, Adelphi, Milano 2004, p. 143.
52
S. Weil, La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala, G. Gaeta, Adelphi, Milano 2004, p. 29.
53
Ibidem.

152
L’isola di Filottete

rimanendo un non-luogo che, però, ora è abitato da tutti noi, l’isola di Lemno
diventa così il mondo umano, in cui gli stessi uomini sono abbandonati in mez-
zo ad altri uomini.
In altri termini, il Filottete di oggi non è riuscito a salvarsi dall’isola di Lem-
no per ritornare nella sua comunità, ma non perché non è intervenuto Eracle
ad aiutarlo, ma per il fatto che ormai non c’è più nessuna comunità dove fare
ritorno: essendosi distrutta qualsiasi rete relazionale, ormai gli uomini sono
completamente soli, sradicati.54
Tuttavia, andando solo apparentemente al di là della tragedia sofoclea, oggi
Filottete non è solo il proletario, ma, più in generale, Filottete è l’emarginato, il
condannato, il diseredato, l’appestato, il matto, l’anormale, cioè, colui che, per
una colpa non sua, è lasciato indietro.55
Si potrebbe anche dire che la stessa identità di Filottete cambia a seconda del
tempo, dato che è proprio lo scorrere del tempo che permette l’emersione di
quelle diversità che, di volta in volta, si vogliono lasciare ai margini.
Ad ogni modo, recuperando altre suggestioni di Weil, è obbligatorio che ciò
succeda, dato che la stessa logica che soggiace alla posizione dell’individuo,
che è un prodotto squisitamente moderno,56 si è ormai sviluppata fino alle sue
estreme conseguenze, creando così tanti Filottete che, pur vivendo sulla stessa
isola, sono estranei l’uno all’altro: l’atomizzazione della società porta esatta-
mente a questo scenario, che, se all’inizio colpisce i più deboli (cioè, quelli che
la stessa società esclude), in realtà abbraccia tutti, dato che lo stesso eccellere in
questo mondo implica accettarne queste stesse logiche.
In questo senso, non è un caso che l’ideale della sopravvivenza, che sempre
per Filottete non bastava a qualificare l’uomo, sia la condanna di questi novelli
Filottete, dato che per la stessa Weil che qui inizia a elaborare le sue critiche al
capitalismo, essi sono ormai inseriti in un sistema che, non appartenendo più a
loro, ne distrugge qualsiasi autentica esistenza.
Non è nemmeno un caso che qui ritorni l’idea del suicidio, che, come abbia-
mo visto, è ventilata esplicitamente dalla tragedia sofoclea.
Tuttavia, bloccando subito qualsiasi altra considerazione per rimanere nella
suggestione testé suggerita, in questo caso sta a noi, cioè, al lettore, decidere se
54
Questo termine lo riprendiamo liberamente da S. Weil, La prima radice, trad. di F. Fortini, Adel-
phi, Milano 2013.
55
Questo viene anche ricordato nell’introduzione all’edizione italiana: «Filottete ci può ricordare
anche i fenomeni dell’emarginazione del malato e del diverso, propri della civiltà atomizzata dei
nostri giorni» (V. Di Benedetto, Introduzione, in Sofocle, Filottete, cit., p. 6).
56
Non è un caso che riecheggi questa celebre affermazione, che riunisce i due piani su cui pre-
cedentemente ci eravamo concentrati: «L’uomo (der Mensch) è nel senso più letterale uno zoon
politikon, non soltanto un animale sociale (ein geselliges Tier), ma un animale che solamente nella
società può isolarsi (sondern ein Tier, das nur in der Gesellschaft sich vereinzeln kann)» (K. Marx, Li-
neamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a cura di E. Grillo, Firenze, La nuova Italia,
1997, p. 124) .

153
Giulia Angelini

accettare il rischio che Filottete porta con sé, tenendo conto che, come farà la
stessa Weil, accettare questo rischio non significa tanto arrendersi passivamen-
te quanto lottare attivamente per riconquistare gli amici e la città.
Di altre tragedie sofoclee che, a ragion veduta, hanno come protagoniste
delle donne (l’Antigone e l’Elettra), Weil57 si concentra su questa carica ribelle,
sovversiva e indomabile delle protagoniste, che rifiutano potentemente l’ab-
bandono in cui sono lasciate per rilanciare un senso più alto della stessa comu-
nità umana, che non può permettersi nessuna isola, tantomeno interna, in sé:
l’esito è tutt’altro che scontato, ma non aver abbassato la testa è senz’altro una
prima vittoria.
Di nuovo, per quanto le carte in tavola siano diverse, questo è il compito che
ci si apre dinnanzi.

57
Rispetto all’Antigone e all’Elettra, S. Weil scrive: «In ciascuna di queste tragedie il personaggio
principale è rappresentato da un essere coraggioso e fiero che lotta in solitudine contro una situa-
zione intollerabilmente dolorosa; è schiacciato dal peso della solitudine, da quello della miseria,
dall’umiliazione, dall’ingiustizia; a tratti il suo coraggio vacilla, ma tiene duro e non si lascia mai
abbattere dalla sventura. Così queste tragedie, per quanto siano dolorose, non provocano mai
una sensazione di tristezza; al contrario ne possiamo trarre un’impressione di serenità» (S. Weil,
Antigone, Elettra, trad. it. di M. Trentadue, Farina Editore, Milano 2020).

154

Potrebbero piacerti anche