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nuova informazione bibliografica 2/15

Manlio Graziano

La guerra santa

Le forze e le forme politiche cui


1. Il tempo della desecolarizzazione. – 2. Le
siamo stati abituati nel Nove-
«civiltà» come armi. – 3. L’alleanza cattolica. – 4.
cento stanno subendo una vera
Crisi della democrazia e trionfo della religione.
– 5. I libri. e propria metamorfosi ontolo-
gica; alcuni dei vuoti lasciati da
quelle forze e da quelle forme sono riempiti dalla religione.
In realtà, le forme politiche sono in perenne trasformazione. Anche quelle
che appaiono più stabili, come la Costituzione degli Stati Uniti, ad esempio,
o il sistema parlamentare britannico, in realtà si modificano costantemente,
si adattano (anche se in modo sempre imperfetto) a dinamiche sociali che
non finiscono mai di dar vita a nuove realtà. A volte si tratta di adeguamenti
quasi impercettibili, come negli Stati Uniti o nel Regno Unito; a volte trau-
matici, come in Francia nel 1958 o in Russia nel 1991. La ragione di queste
differenze sta proprio nel rapporto tra forme politiche e dinamiche sociali:
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più le prime fanno difficoltà ad adattarsi alle seconde, più la loro trasforma-
zione sarà brutale.
È sotto gli occhi di tutti che, negli ultimi decenni, le dinamiche sociali
hanno conosciuto un’accelerazione straordinaria. Il caso della Cina è impres-
sionante: decima potenza economica mondiale nel 1990, sarà la prima tra una
manciata d’anni, a meno di una catastrofe. Questa fulminea ascesa al rango
di superpotenza solleva tanta meraviglia quanta preoccupazione; ma il caso
della Cina è solo il più clamoroso ed emblematico di uno sconvolgimento
degli equilibri internazionali talora paragonato a quello del Cinquecento.
Le grandi scoperte avevano allora contribuito a spostare l’asse geopolitico
mondiale dal Mediterraneo agli oceani; un movimento che si è concluso nella
seconda metà dell’Ottocento quando, con la conquista del Pacifico, gli Stati

Nuova informazione bibliografica, anno XII, n. 2 / Aprile-Giugno 2015


manlio graziano

Uniti hanno infine realizzato l’ambizione di Cristoforo Colombo di «buscar


el levante por el poniente».
Il tempo compreso in quel movimento – che inizia dall’America nel 1492
e si conclude in America nei primi anni del XXI secolo – è stato il tempo
della nascita e del consolidamento della forma politica dello Stato-nazione.
Il tempo durante il quale la politica ha progressivamente abbandonato il suo
fondamento religioso e ha trovato la propria giustificazione in se stessa, fino
ad adottare una «religione civile» e a sacralizzare lo Stato. È stato il tempo
della secolarizzazione.
Come tutti gli altri fenomeni, lo Stato che abbiamo conosciuto ha vissuto
una fase di ascesa, una di apogeo, e vive oggi una fase di declino: è la base
stessa su cui poggia – il principio di sovranità – che si sta sgretolando. Molte
delle istituzioni che ne hanno accompagnato le fortune – dalla leva di massa
alla centralizzazione fiscale, dalla moneta nazionale al Welfare, dal monopolio
del commercio alla democrazia parlamentare – lo stanno accompagnando
anche nel declino. La secolarizzazione è una di esse.
Alla fine del secolo scorso, un piccolo gruppo di specialisti ha notato che la
religione stava riconquistando una visibilità pubblica perduta da lunga pezza;
il mondo, hanno detto, si sta «desecolarizzando». Un’inversione di tendenza,
rispetto a quello che era successo negli ultimi quattro secoli, che è stata stu-
diata più sotto il profilo sociologico, psicologico e, ovviamente, teologico che
sotto il profilo politico. Da quest’ultimo punto di vista, la «desecolarizzazione»
è una parente prossima della «destatizzazione».
Naturalmente, il percorso che abbiamo appena descritto in modo som-
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mario è stato ed è molto più ricco e complesso. Le dinamiche sociali non


sono mai lineari: esse differiscono anche molto profondamente nello spazio
e nel tempo. Alcuni fenomeni tramontano in certe parti del mondo, mentre
stanno appena cominciando a sorgere in altre. Possiamo cogliere una ten-
denza generale, dominante, ma non dobbiamo mai dimenticare che essa si
compone di una pluralità di microtendenze particolari, che vanno in tutte le
direzioni, compreso nella direzione opposta.
È vero, per esempio, che la forma politica dello Stato-nazione si è de-
finitivamente affermata alla fine dell’Ottocento; ma è altresì vero che, a
quell’epoca, solo un esiguo numero di paesi era politicamente organizzato
in quella forma. Nel corso del secolo successivo, lo Stato-nazione è diventato
il modello imprescindibile; tuttavia, l’enorme maggioranza dei paesi che se
ne sono ispirati si è limitata ad adottarne talune istituzioni e forme esteriori

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senza riuscire a dar vita ad una vera e propria nazione, senza riuscire a in-
dividuare (né, a maggior ragione, a promuovere) un vero e proprio interesse
nazionale. Nel tentativo di fornire una legittimità nazionale allo Stato, certe
nazioni sono state inventate (e non necessariamente su base etnica), e molte
altre soppresse, con il risultato di partorire spesso ibridi mostruosi. Ancora
oggi, alcuni paesi stanno appena muovendo i primi passi sulla via della loro
omogeneizzazione e purificazione nazionale, mentre la tendenza generale è
al melting pot, alla denazionalizzazione e, infine, alla destatizzazione.
La stessa osservazione deve essere fatta per molti altri fenomeni, tra cui
quello che qui ci interessa. Secolarizzazione e desecolarizzazione sono due
processi che coesistono e si intrecciano poiché le dinamiche sociali e politiche
che ne sono all’origine coesistono e confliggono. In modo molto generale e
schematico: i processi massicci e traumatici di esodo rurale impregnano le
città moderne di tradizione religiosa; la vita urbana, a sua volta, crea e molti-
plica le pratiche di vita secolarizzate; ma quando nella vita urbana dominano
la crisi e il disorientamento, la religione torna spesso ad essere un’ancora di
salvezza. Di nuovo, quello che viene qui presentato come un percorso lineare,
non lo è affatto: non c’è un punto di partenza e uno di arrivo, ma un movi-
mento che è disordinato e contradditorio perché determinato dall’anarchia
dello sviluppo e delle sue crisi.
Gli specialisti cui abbiamo accennato in precedenza hanno scoperto che
la cosiddetta «modernizzazione» ha determinato sia la secolarizzazione che,
in ultima istanza, il suo opposto – la desecolarizzazione. Si tratta di un’os-
servazione acuta, che ha avuto il merito, quando è stata formulata, di andare
al di là degli stereotipi allora in corso. Ma non bisogna mai dimenticare che
quell’idra a sette teste che è la «modernizzazione» sta facendo spuntare, in
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certe parti del mondo, nuovi episodi di secolarizzazione.

1. Il tempo della desecolarizzazione

Dopo lunghe esitazioni, improvvise accelerazioni e burrascose retromarce,


verso la fine dell’Ottocento e per buona parte del Novecento, la gran maggio-
ranza degli intellettuali ha finito per assimilare gli esiti del lungo processo di
creazione dello Stato-nazione secolarizzato. Le scienze positive, la letteratura,
la sociologia, la psicologia e la filosofia hanno cominciato a considerare la
religione come un ostacolo, un retaggio del passato, e perfino una malattia,
e si sono talvolta spinte fino a postulare la sua inevitabile scomparsa. La

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possibilità che la religione potesse tornare un giorno ad occupare lo spazio


pubblico non era dunque neppure presa in considerazione.
I paesi più arretrati, man mano che si emancipavano, sembravano dar
loro ragione. Le loro nuove classi dirigenti, ansiose di non turbare gli equilibri
sociali da cui erano sorte, si persuadevano facilmente che la superiorità del
mondo «avanzato» risiedeva solo nel suo pensiero e nelle sue istituzioni, e
speravano di accedere alla «modernità» semplicemente adottando l’uno e le
altre, a volte copiandoli tali e quali. Tra le loro misure faro, la laicizzazione
dello Stato, la confisca dei beni del clero e il confinamento della religione
alla sfera privata. Dall’Italia al Messico, dall’Iran alla Spagna, gli esempi di
paesi che hanno seguito questo canovaccio sono legione: il più famoso e il
più compiuto di tutti resta, a tutt’oggi, quello della Turchia di Mustafa Kemal
Atatürk.
Negli anni Cinquanta e, soprattutto, Sessanta, l’incompatibilità tra reli-
gione e politica era ormai considerata un dato di fatto incontrovertibile, non
foss’altro che per la sproporzione tra i due campi: mentre l’interesse per la
politica coinvolgeva fasce di popolazione sempre più ampie, quello per la
religione sembrava scemare inesorabilmente. Si assisteva – condensata in
pochi anni – alla democratizzazione dell’incompatibilità plurisecolare tra
Stato-nazione e religione, a un’epoca in cui la popolarità dello Stato toccava
i suoi vertici, in quanto attore economico principale e procacciatore di posti
di lavoro, di servizi sociali e di sicurezza. Le preghiere che le generazioni
precedenti potevano solo indirizzare agli dei, ora era lo Stato che sembrava
in grado di esaudirle. Simbolo di questa evoluzione, una famosa copertina
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della rivista «Time» del 1966, che evocava fragorosamente la possibilità


dell’avvenuta «morte di Dio».
Salvo rarissime eccezioni, bisognerà quindi aspettare fino agli anni No-
vanta prima che qualcuno si accorga, timidamente, che Dio «era tornato».
Un fenomeno che però aveva cominciato a mostrare le sue implicazioni
politiche da almeno un ventennio. Gli anni Settanta furono disseminati di
episodi di confusione tra religione e politica – in Egitto, Sri Lanka, India,
Guatemala, Israele, Stati Uniti, Pakistan, Nicaragua, solo per citarne alcuni
– che passarono quasi inosservati. In almeno due casi, però, la mancanza di
strumenti teorici in grado di analizzare il fenomeno ebbe pesanti e durevoli
conseguenze: il caso dell’Iran e quello dell’Afghanistan.
Nel 1978, i liberali e i democratici iraniani giocarono fino all’ultimo la
partita degli ayatollah, nell’illusione di poterli scalzare al momento venuto.

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La sottovalutazione del fattore religioso nella rivolta contro lo scià compor-


tò anche errori di calcolo fatali da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica;
errori le cui conseguenze influenzano ancora oggi l’insieme delle relazioni
internazionali.
Un altro caso di sottovalutazione, ma questa volta venato di arroganza
imperiale, fu all’origine della guerra per procura che gli Stati Uniti e l’Unio-
ne Sovietica si fecero in Afghanistan a partire da quello stesso 1978. Mosca,
fomentando un colpo di Stato che non teneva in debito conto la capacità di
reazione e la forza di mobilitazione dei mullah; Washington, sollecitando e
sostenendo senza riserve la jihad contro i russi e i loro alleati locali, nella con-
vinzione di poterla dirigere e controllare in qualsiasi momento e in qualsiasi
circostanza. Un errore di prospettiva che richiama alla memoria il sostegno
di Israele ai Fratelli musulmani palestinesi allo scopo di indebolire l’OLP.
Sempre nel 1978, un altro evento di carattere religioso avrebbe avuto un
impatto duraturo sugli anni a venire e fino ai giorni nostri: l’elezione di Karol
Wojtyła alla testa della Chiesa cattolica con il nome di Giovanni Paolo II. La
maggior parte degli osservatori gli hanno attribuito, a posteriori, un ruolo
più o meno decisivo nella caduta del muro di Berlino; in realtà, la svolta
impressa dal papa polacco alla Chiesa dopo la sua crisi post-conciliare ha
lasciato sul panorama politico mondiale una traccia molto più profonda, le
cui conseguenze potrebbero ridisegnare radicalmente il rapporto futuro tra
politica e religione.
L’eventualità che la Chiesa cattolica possa diventare la protagonista di un
nuovo rapporto tra religione e politica è, naturalmente, solo un’ipotesi. Ma
è un’eventualità che è esclusa a priori dall’opinione dominante, per la quale
la Chiesa sarebbe in uno stato di crisi, più o meno profonda, ma comunque
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sufficiente a ridurne sempre più la capacità di influenzare i destini del mon-
do. Questa opinione dominante rischia di trovarsi disarmata di fronte agli
avvenimenti futuri esattamente come lo fu l’opinione dominante alla fine
degli anni Settanta di fronte agli eventi in Iran e in Afghanistan.

2. Le «civiltà» come armi

Dopo l’11 settembre 2001, è maturata una nuova consapevolezza circa il


rapporto tra politica e religione: la tesi secondo cui i due campi sarebbero
indipendenti e incompatibili è invecchiata di colpo. Pochi, tuttavia, hanno
cercato di proporre nuove ipotesi riguardo a quella relazione.

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Immediatamente dopo gli attentati, il mondo è stato aspirato in una spi-


rale ideologica che ha complicato le cose invece di chiarirle. Nel tentativo di
ristabilire una balance of power a loro favorevole dopo il crollo dell’Unione
Sovietica e l’inquietante ascesa del Giappone, gli Stati Uniti avevano lanciato
negli anni Novanta una serie di operazioni militari; gli attacchi dell’11 set-
tembre hanno costituito l’occasione ideale per far compiere un passo decisivo
a quella strategia, con l’avvio di una global war on terror che è apparsa, agli
occhi di molti, come una guerra globale contro l’islam.
Tale rappresentazione conflittuale del rapporto tra islam e «Occidente»
(gli uni sentendosi vittime di un’aggressione da parte degli altri, e viceversa)
ha trovato il suo fondamento intellettuale nella teoria dello «scontro di ci-
viltà», formulata da Samuel Huntington a metà degli anni Novanta. Secondo
Huntington, dopo la fine della «guerra fredda» il mondo si sarebbe dovuto
preoccupare della possibilità di un conflitto globale tra, da una parte, la «civiltà
islamica» e la «civiltà cinese» alleate tra loro contro, dall’altra parte, la «civiltà
occidentale» o «Western Christianity» (presentate come sinonimi).
Non tutti hanno accettato la tesi dello scontro di civiltà, anzi; e d’altronde
lo stesso governo degli Stati Uniti se ne è sempre dichiarato estraneo. Ma è
innegabile che, dopo l’11 settembre e le guerre in Afghanistan e in Irak, il
rapporto tra religione e politica è stato visto quasi esclusivamente in termini
di rapporto tra islam e politica. Improvvisamente è scoppiata un’epidemia
di esperti di islam, e termini fino ad allora sconosciuti, come jihad o sharia,
sono entrati nel linguaggio di tutti i giorni – anche se ognuno ha continuato a
attribuir loro i significati più disparati. Una lunga serie di stereotipi sull’islam
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sono diventati quasi assiomatici: la sua incapacità a distinguere tra fede e


politica, la sua violenza intrinseca, le sue tendenze autoritarie, il suo carattere
reazionario e oscurantista, la sua subdola determinazione a conquistare e
dominare il mondo (iniziando dalle cittadelle dell’Europa in crisi), fino alla
sua proliferazione per via demografica.
È normale che, in tempi di confusione e di crisi, la gente avverta più che
mai il bisogno di idee semplici e immediate. La descrizione fornita da Samuel
Huntington rispondeva bene a questa esigenza, separando le diverse civiltà
con confini ben delineati. Spesso, la pedagogia ha bisogno di astrazioni; ma,
volendo rappresentare con nettezza i contorni dell’islam, l’astrazione corrente
– quella che parla di islam al singolare – fonde in un unico calderone una
serie di oggetti molto disparati: testi sacri, giurisprudenza, pratiche, tradizioni,
culture, movimenti e, soprattutto, epoche molto diverse tra loro.

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Di astrazione in astrazione, di semplificazione in semplificazione, si è


arrivati ad un esito paradossale: sulla presunta natura dell’islam, i suoi più
fieri nemici e i fondamentalisti musulmani condividono concezioni tutto
sommato abbastanza simili. Se la politica seguisse delle regole matemati-
che, si potrebbe dire che gli opposti si elidono a vicenda; ma non è così. In
politica, sono gli eventi vistosi, impressionanti, feroci che lasciano il segno;
quelli che permettono di vendere giornali in tempi normali, di raccattare
voti in tempo di elezioni e di mobilitare le masse in tempo di guerra. Le ide-
ologie finiscono così per diventare esse stesse parte essenziale della realtà.
In termini di geopolitica delle religioni, questo significa che anche un islam
che non è mai esistito prima comincia ad esistere grazie a quest’effetto di
contagio ideologico.
Negli anni che sono seguiti all’11 settembre, l’islam – o almeno questa
particolare rappresentazione dell’islam – ha permesso di vendere giornali, di
raccattare voti e anche di combattere delle guerre; ecco perché è così tenace.
Ma non ha aiutato a capire le relazioni politiche a livello mondiale, anzi, le ha
complicate. Visti attraverso la lente deformante di questo concetto di islam,
fenomeni quali le migrazioni internazionali, le periferie difficili, le guerre
in Irak e in Afghanistan, le «rivoluzioni arabe», il nuovo ruolo della Turchia
e del Qatar, l’Iran degli ayatollah, alcune guerre in Africa, e certe forme di
terrorismo sono tutti ridotti al minimo comune denominatore di un islam
ostile (o refrattario) ai cosiddetti «valori occidentali».
Ridurre il ruolo della religione negli affari politici nazionali e interna-
zionali alle diverse sfumature di una pretesa «guerra santa», significa avere
buone probabilità di sbagliare l’analisi delle (molto profane) cause delle
guerre, di lasciarsi sfuggire le numerose ed eterogenee dimensioni politiche
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dell’islam e, infine, di non riconoscere quale tipo di influenza e di impatto
politico potrebbero in realtà avere le religioni in questa storica fase di dislo-
camento dell’asse geopolitico del mondo.

3. L’alleanza cattolica

Gli attentati dell’11 settembre hanno fornito argomenti a tutti coloro che,
nel mondo, affermano la necessità di arruolarsi risolutamente su uno dei
fronti di una guerra ormai dichiarata. Ma hanno fornito anche argomenti
a coloro per i quali il modo migliore di resistere allo scontro di civiltà è di
promuovere un’alleanza tra di esse. Questi ultimi pensano in termini positivi,

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di addizione, laddove i loro avversari pensano in termini negativi, di sottra-


zione. Ma condividono con i loro avversari la convinzione che il mondo sia
attraversato da linee di faglia basate sulle civiltà, oltre alla convinzione, più o
meno esplicita, che le religioni siano in ultima analisi il cuore stesso di ogni
civiltà. È il fronte di coloro che, alla «guerra santa», vorrebbero contrapporre
una «santa alleanza».
Anche questo fronte è molto eterogeneo. Comprende alcuni leader po-
litici (passati o presenti) di diversa provenienza, come, ad esempio, Tony
Blair, Mohammad Khātamı̄, Recep Erdoğan, Abdullah di Giordania o José
Zapatero; un gran numero di leader spirituali e religiosi; intellettuali; e una
miriade di associazioni, movimenti, organizzazioni non governative, e altri.
In termini molto generali, il loro obiettivo dichiarato è di prevenire i conflitti
concentrandosi sugli aspetti che avvicinano le civiltà tra di esse e mettendo
in ombra gli aspetti che le separano, o che addirittura le oppongono.
L’islam è spesso considerato il polo critico dei conflitti, o addirittura il
loro elemento scatenante; per questo, lo scopo di gran parte dei sostenitori
di un’alleanza tra civiltà è sostanzialmente quello di «riabilitare» la religione
musulmana, di sottrarla alla logica dello scontro. Le loro iniziative hanno
quindi un carattere «difensivo», o, in ogni caso, subordinato, di secondo grado.
Per loro si tratta di evitare, per quanto possibile, che le differenze tra le civiltà
in generale, le religioni in particolare e l’islam in special modo possano diven-
tare il movente, o il pretesto, per conflitti futuri. È possibile ipotizzare che, se
la tesi di uno scontro di civiltà non fosse stata formulata, o se non ci fossero
stati gli attentati dell’11 settembre, le loro iniziative non sarebbero mai nate.
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Molto più significativi, da un punto di vista geopolitico, lo spirito e


l’azione di coloro che, a questo progetto di alleanza tra civiltà, danno un
valore e delle finalità «offensive». Il loro obiettivo prioritario non è quello di
evitare questo o quel rischio, ma di impegnarsi in vista della realizzazione
di un obiettivo chiaro e ambizioso: riportare la religione al centro della vita
pubblica. Il loro modo di vedere le cose è opposto al precedente: per essi, i
conflitti di questo mondo non sono il prodotto di un eccesso di religione ma,
piuttosto, di una carenza di religione; per essi, più la religione è in grado
di «orientare» le grandi scelte politiche, più queste si approssimeranno alla
giustizia e alla pace. Ergo, le religioni hanno il diritto e il dovere di ispirare
e di illuminare la politica.
Per raggiungere questo scopo, sostengono, le grandi religioni del mondo
devono unire le loro forze. Devono allearsi innanzitutto perché condividono

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una convinzione di fondo: che esista una «legge naturale», patrimonio comune
dell’umanità, che trascende tutti gli interessi particolari, e di cui le religioni
sarebbero al tempo stesso custodi e garanti. Ma devono allearsi anche per
vincere gli ostacoli giuridici e culturali che tre secoli di costruzione dello
Stato-nazione hanno frapposto al ruolo pubblico della religione.
Se tra i sostenitori dell’alleanza tra civiltà troviamo i rappresentanti di
tutte le confessioni, non tutte le confessioni hanno la stessa posizione nei
confronti di questa prospettiva. Le religioni prive di struttura formale ge-
rarchica – come l’islam, l’ebraismo o l’induismo – non sono chiaramente
in grado di esprimere un punto di vista unitario, né in questo caso né in
altri. Vi sono musulmani, ebrei e induisti profondamente attaccati a questa
iniziativa, altri che ne sono aspramente ostili e una grande maggioranza
che è indifferente. Le religioni che dispongono di una pluralità di strutture
gerarchiche – come il cristianesimo ortodosso e il buddismo – hanno tante
posizioni, o sfumature, quante gerarchie. Il protestantesimo, per completare
il giro d’orizzonte, è una galassia piuttosto indistinta, dove è possibile trovare
tutto e il contrario di tutto, dal fondamentalismo letteralista di certi gruppi
evangelici al liberalismo radicale di certe correnti luterane.
L’unica struttura religiosa in grado di promuovere l’azione congiunta di
tutte le diverse confessioni a livello internazionale è la Chiesa cattolica. Essa
dispone di una struttura gerarchica rigidamente centralizzata, di una presenza
radicata sui cinque continenti – e in particolare nei due continenti, Europa e
America, che hanno dominato la politica internazionale degli ultimi quattro
secoli –, di un’ampia rete diplomatica, e soprattutto di un’esperienza accumu-
lata che non ha uguali al mondo. Nessun’altra organizzazione o istituzione,
religiosa o laica, può vantare un insieme di caratteristiche così favorevoli.
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La Chiesa cattolica è anche la sola istituzione religiosa in grado di
pianificare una strategia per il suo sviluppo. Altre religioni organizzate su
base gerarchica – ortodossi, anglicani, sciiti, per esempio – hanno un raggio
d’influenza che spesso non travalica i loro confini nazionali. Sul lato opposto,
le religioni che non hanno, o che escludono esplicitamente di avere, un’or-
ganizzazione clericale centralizzata sono nell’impossibilità stessa di pensare
in termini di strategia.
Per elaborare una strategia, sono necessarie alcune condizioni: la cono-
scenza dei rapporti di forza, delle condizioni in cui la battaglia sarà ingaggia-
ta, dei punti forti e dei punti deboli delle forze in campo e, soprattutto, uno
stato maggiore. La Chiesa cattolica è la sola che, potenzialmente, dispone

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di tutti questi requisiti. Ciò non vuol dire che l’elaborazione avvenga senza
divergenze, senza conflitti e senza interferenze. E naturalmente non signi-
fica neppure che questa strategia, una volta elaborata, sarà inevitabilmente
vincente. Ma se le difficoltà che la Chiesa cattolica incontra sulla sua strada
sono, in media, le stesse di qualsiasi altra istituzione umana, la sua capacità
di superarle è, grazie alla sua esperienza e alla sua organizzazione, incom-
parabilmente superiore.
La strategia di un’alleanza tra le grandi religioni del mondo è stata for-
malizzata dal Concilio Vaticano II, mezzo secolo fa. Essa si compone di due
parti: quella «ecumenica», finalizzata alla conciliazione e, a più lungo termine,
alla ricomposizione del mondo cristiano; quella «interconfessionale», che si
occupa del rapporto con le religioni non cristiane. Dopo il Concilio, furono
create delle strutture e stabiliti dei contatti; in un momento storico in cui non
esisteva neppure il fondamento concettuale di un’ipotesi di conflitto tra civiltà
diverse, visto che l’idea stessa di «civiltà» era in larga misura confinata agli
ambiti della storia e dell’antropologia.
La volontà cattolica di avvicinarsi alle altre confessioni cristiane e alle al-
tre grandi religioni mondiali costituisce il lato obiettivo di questa alleanza. La
trasformazione delle relazioni internazionali cominciata negli anni Settanta
avrebbe fornito, a questa strategia, la sua base oggettiva. Anche se vissuta in
modo molto diverso nel mondo sviluppato e in quello in via di sviluppo, la
«crisi della modernità» avrebbe restituito a tutte le religioni la loro funzione
di ancora di conforto e consolazione quando le soluzioni esclusivamente
umane rivelano i loro limiti.
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A partire dagli anni Settanta, le religioni hanno iniziato a offrire di nuovo


quel senso di appartenenza, quell’illusione di forza collettiva, quell’identità
che gli Stati-nazione offrivano sempre meno e che le ideologie secolari hanno
smesso di offrire. L’insistenza nell’indossare segni distintivi – la kippah, il
velo, il jilbab, il turbante e altri – rappresenta l’elemento esteriore di questa
ricerca identitaria. Le forme «globalizzate» di certe religioni – il salafismo, il
fondamentalismo cristiano, l’ebraismo ultraortodosso, ma anche il cattolice-
simo romano – rappresentano il suo lato «teologico».
L’ipotesi di un’alleanza tra civiltà – o «santa alleanza» tra le grandi reli-
gioni sotto la direzione di fatto della Chiesa cattolica – fornisce un quadro
istituzionale e una prospettiva politica a questa ricerca identitaria. Secondo
i suoi sostenitori, il mondo avrebbe bisogno di tornare a quel «fondamento
sacro» da cui si è progressivamente allontanato nel corso degli ultimi quattro

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secoli. Non allo scopo di eliminare la separazione tra religione e politica –


una separazione di cui la Chiesa cattolica ha sperimentato i benefici; ma allo
scopo di stabilire una sorta di complementarietà istituzionale che dovrebbe
riconoscere alle religioni il diritto di orientare i comportamenti pubblici e
sociali e di stabilirne la conformità morale.

4. Crisi della democrazia e trionfo della religione

Nella nostra epoca di transizione storica, è lo stesso «modello occidentale» ad


essere messo in discussione. E questo tocca anche la presunzione di eccel-
lenza della democrazia parlamentare, i cui limiti sono sempre più evidenti,
soprattutto in Europa, e che è sfidata sul proprio terreno da altre forme di
rappresentanza di interessi e di strati sociali.
Alla fine del Settecento, il viaggiatore persiano Mirza Abu Taleb Khan,
giunto a Londra, fu stupito nel vedere che gli inglesi, rinunciando ad appog-
giarsi su una legge divina rivelata, erano costretti a sottoporre le loro deci-
sioni più importanti ai capricci di una maggioranza. La Chiesa cattolica non
ha mai rinunciato a rivendicare la superiorità della legge divina sulla legge
umana, e l’attualità politica internazionale sembra oggi premiare la sua per-
severanza: il rischio che una maggioranza possa essere condotta a scegliere
il «male» anziché il «bene» è in effetti molto più grande oggi di quanto non
lo fosse in Germania nel 1933 (ciò che è «bene» e ciò che è «male» sarebbe
naturalmente di competenza della «legge naturale», e questa di competenza
delle religioni). Anche sul piano degli equilibri tra i poteri, i vuoti lasciati
dalle istituzioni declinanti dello Stato-nazione potrebbero essere colmati
dall’iniziativa sempre più intraprendente delle religioni organizzate.
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Le religioni svolgono già oggi un ruolo nella vita pubblica molto più
importante di quanto non fosse dieci o vent’anni fa. È possibile, e perfino
plausibile, che questo ruolo sarà sempre più ampio in futuro. Di sicuro, esse
saranno sempre più spesso utilizzate come forza mobilizzatrice nei vari
conflitti, armati o meno; le più organizzate tra di esse, invece, cercheranno
di utilizzare i conflitti per accrescere il loro peso e la loro influenza. Ma le
basi di questi conflitti si trovano e si troveranno altrove: nella natura stessa
della nostra organizzazione sociale. Una natura che nessuna religione ha
intenzione di contestare.

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5. I libri

Sulla crisi dello Stato


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Sull’islam
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Su Chiesa cattolica e relazioni internazionali


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