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SEZIONE II

LA TUTELA DELL’AMBIENTE, DEL PAESAGGIO E DEI BENI CULTURALI

1. Il "diritto nel governo del territorio" ossia i valori, gli interessi e le tutele che si intrecciano
nel governo del territorio

Il diritto del governo del territorio è quello strumento giuridico che regola e ordina gli usi di un
determinato ambito spaziale. Il territorio non è più visto semplicemente come l'insieme di parti urbane e
costruite, ma come il luogo in cui si intrecciano valori differenti quali: l'utilizzo del suolo, la localizzazione
di opere pubbliche, l'edilizia, l'ambiente, il paesaggio e i beni culturali I soggetti legittimati a tutelarli sono:
lo Stato e la Regione, e la ripartizione del potere legislativo tra i due enti è riportata nell'articolo 117 della
Costituzione. Allo Stato viene riconosciuto un ruolo a proposito della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema
e dei beni culturali; allo stesso tempo si affidano alle Regioni il governo del territorio, la valorizzazione dei
beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali. Quindi non è facile capire
come differenziare l’intervento legislativo dello stato rispetto a quello delle regioni e su quali oggetti si
può concentrare il primo e su quali invece il secondo. La Corte Costituzionale è più volte intervenuta in
modo da risolvere i conflitti di competenza; in primo luogo ha registrato il fatto che il territorio
rappresenta un dato spaziale, sede di una pluralità di interessi pubblici: quelli riguardanti la
conservazione ambientale e paesaggistica (la cui cura spetta allo stato) e quelli riguardanti il governo del
territorio e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (affidati allo stato e alle regioni). La corte ha
anche riconosciuto una preferenza della tutela paesaggistica rispetto alla tutela degli interessi pubblici
assegnati alla competenza delle regioni. Questo però non significa che solo lo stato può provvedere alla
disciplina delle procedure e degli strumenti per assicurare la conservazione dei beni ambientali e
paesistici, infatti la competenza dello stato non esclude il concorso di normative regionali, soprattutto se
destinate a contribuire alla tutela dell’ambiente. In pratica, in materia di tutela dell’ambiente e del
paesaggio, la disciplina statale costituisce un limite minimo di tutela non derogabile dalle regioni,
ordinarie o a statuto speciale, e dalle province autonome. Gli “standard minimi di tutela” stabiliti dallo
stato in materia di tutela dell’ambiente vanno intesi nel senso che lo stato assicura una tutela adeguata e
non riducibile dell’ambiente valevole anche nei confronti delle regioni a statuto speciale e delle province
autonome.
La corte costituzionale, si occupa anche, di fare chiarezza nella distinzione tra "tutela" e "valorizzazione",
viste, con particolare riferimento ai beni culturali, come "materie-attività " in cui coesistono più
competenze. Queste vengono analizzate sotto il profilo teleologico e quello dominicale.
 Per quanto riguarda il primo approccio, le due materie-attività si differenziano per le differenti
finalità a cui tendono: la tutela deve essere vista come attività finalizzata alla conservazione del
bene; la valorizzazione invece rappresenta una attività finalizzata all’uso dello stesso.
 Per quanto riguarda il secondo approccio la corte costituzionale ha precisato che la competenza
legislativa in materia di valorizzazione deve tenere in considerazione anche l’aspetto riguardante
la proprietà del bene, nel senso che stato e regioni possono regolare le attività di valorizzazione
sui beni di loro proprietà .

Riguardo l’autonomia e la separazione di interessi che ricadono in uno stesso ambito esistono altri due
fenomeni:
 Il primo riguarda l’urbanistica e l’edilizia da un lato, e paesaggio, ambiente e patrimonio culturale
dall’altro, che fino a qualche anno fa rappresentavano materie autonome e definite nei rispettivi
confini, mentre ora tali confini sembrano meno definiti
 Il secondo è che una volta l’urbanistica si poteva accollare anche la tutela di altri interessi specifici
primari riguardanti il territorio, come l’ambiente e il paesaggio. Si diceva che la tutela dei valori
paesaggistico-ambientali si realizza anche attraverso la pianificazione urbanistica, e di
conseguenza è stata introdotta la possibilità per le regioni di approvare piani urbanistici
territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, al PRG è stato attribuito
il compito di effettuare la ricognizione del patrimonio culturale e ambientale. Oggi invece le cose
sembrano essersi invertite. A ciò ha contribuito il fatto che è stata abbandonata quella concezione
parziale di paesaggio a vantaggio di una visione che vuole tutto riferito al territorio. Le
conseguenze non sono mancate: con riferimento al piano paesistico che si è trasformato da piano
settoriale in piano generale, trasformazione dovuta non solo alla nuova impostazione del Codice
del 2004, ma anche alla ratifica della Convenzione Europea sul Paesaggio del 2000 (legge 9
gennaio 2006, n.14). la Convenzione non solo dà una definizione di paesaggio unitaria e
coincidente con il territorio e non esclusivamente con un valore naturistico o estatico, ma dà anche
una preferenza alla dimensione paesaggistica e alla sua tutela rispetto agli altri interessi e valori
che connotano il territorio.

2. La tutela dell’ambiente

Dato che l’ambiente rappresenta una materia trasversale, consegue che alla regolamentazione e
all’esercizio delle funzioni che attengono alla sua protezione contribuiscono tutte le istituzioni che
compongono a Repubblica. Ma, soprattutto per il fatto che i pericoli per l’ambiente possono derivare da
fattori ultrastatali, la tutela dello stesso è affidata ad una pluralità di fonti appartenenti ad ordinamenti
diversi. La legislazione italiana, infatti, rappresenta a volte la risposta ad eventi verificatisi in altri stati che
hanno messo in discussione il bene ambientale (ad esempio la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente
dell’8 luglio 1986 n.349 è stata approvata come reazione al disastro di Chernobyl). Trovano la loro origine
dell’ordinamento pattizio o consuetudinario internazionale o nell’ordinamento comunitario proprio quei
principi che rafforzano il concetto di ambiente come valore assoluto e primario da tutelare e che
rappresentano i cardini attorno al quale il legislatore nazionale sviluppa la legislazione di tutela. Tali
principi sono: il principio di precauzione (che impone la massima cautela nelle azioni le cui conseguenze
sono ancora scientificamente controverse), di prevenzione (che obbliga l’adozione di misure finalizzate ad
evitare il verificare di rischi certi), di cooperazione (che spinge tutti gli stati a cooperare in via preventiva
e successiva per evitare o contenere danni ambientali), dello sviluppo sostenibile, chi inquina paga (che
impone all’autore del danno ambientale il costo per il ripristino dei luoghi o del risarcimento). Il richiamo
a questi principi apre il recente Codice dell'ambiente, un testo unico con il quale il legislatore ha accorpato
molte discipline che assicurano la tutela giuridica dell'ambiente. L’articolo 3 in particolare stabilisce che
tutti devono garantire la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale
mediante un’adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della
correzione dei danni causati all’ambiente, nonché al principio “chi inquina paga”. Il Codice dell’ambiente
racchiude alcune discipline che sono finalizzate alla protezione del suolo, dell’aria e dell’acqua
dall’inquinamento e da altri fattori dannosi. In particolare vengono regolate la difesa del suolo, la lotta alla
desertificazione, la tutela delle acque dall’inquinamento e la gestione delle risorse idriche, la gestione dei
rifiuti e le bonifiche, la tutela dell’aria e la riduzione delle emissioni in atmosfera. Il codice disciplina gli
strumenti e procedure amministrative, la cui funzione è quella di tendere alla tutela preventiva del bene
ambientale. Si tratta delle procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione
d’impatto ambientale (VIA) e per l’autorizzazione ambientale integrata (AIA).
Riguardo gli strumenti pianificatori al fine di assicurare la tutela dell’ambiente, di particolare importanza
è il piano di bacino distrettuale. Si tratta di un piano previsto dal Codice dell’ambiente che ha valore di
piano territoriale settoriale ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il
quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa
e alla valorizzazione del suolo e al corretto utilizzo delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed
ambientali del territorio interessato. Alla sua realizzazione contribuiscono diversi livelli di governo: il
piano viene redatto dall’autorità di bacino, successivamente è adottato da una conferenza istituzionale
permanente, infine deve essere approvato con decreto dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Non sempre però è possibile pianificare le azioni di tutela e di conservazione dell'ambiente o prevenire
eventuali danni attraverso una verifica di compatibilità ; per tali ragioni l’ordinamento mette a
disposizione delle autorità pubbliche alcuni rimedi per far fronte a rischi seri per l’ambiente o reagire di
fronte ad un danno ambientale. Innanzitutto il legislatore attribuisce al Ministero dell'ambiente
importanti poteri di ordinanza per esempio, quello di adottare misure cautelari in caso di mancata
attuazione o di inosservanza da parte delle Regioni, delle Province o dei Comuni, ed il potere di adottare
ordinanze per la tutela dell'ambiente, qualora non si verifichino situazioni di grave pericolo di danno
ambientale. Il codice del 2006 estende l'obbligo di reazione in presenza di rischio ambientale a tutti gli
operatori interessati. Infatti quando un danno ambientale non si è ancora verificato l'operatore
interessato adopera le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza. Innanzitutto in caso di
un danno ambientale l'autorità competente è obbligata ad adottare delle misure di contenimento e di
ripristino; successivamente il Ministero decide come reagire all'evento, e può intraprendere due strade:
agire esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale, o adottare
un'ordinanza esecutiva con la quale ingiunge agli autori del danno il ripristino ambientale a titolo di
risarcimento.

3. La tutela del paesaggio

Paesaggio e patrimonio storico-artistico sono beni il cui regime di protezione è stato dettato dalla legge 29
giugno 1939, n.1497, che si occupa delle bellezze naturali, e della legge 1 giugno 1939, n.1089, che
disciplinava la tutela dei beni d'interesse artistico e storico, mentre la legge 8 agosto 1985 n.431 (c.d.
legge Galasso) ha rafforzato gli strumenti di tutela dei profili naturalistici del nostro territorio. Oggi i due
regimi sono stati accorpati in un unico testo legislativo, il d.lgs. 22 gennaio 2004 n.42, contenente il Codice
dei beni culturali e del paesaggio. Questo ha comportato il superamento della divisione tra paesaggio e
patrimonio storico-artistico unificando l’oggetto di tutela; di contro le competenze amministrative in
maniera di tutela sono state diversamente distribuite in quanto quelle riguardanti i beni culturali sono di
competenza statale, mentre quelle riguardanti i beni paesaggistici sono di competenza delle regioni.
Il nuovo modo di intendere il paesaggio si è affermato anche grazie alla Convenzione europea del
paesaggio. Di tale cambiamento vi è traccia nel Codice dei beni culturali e del paesaggio a partire proprio
dalla definizione che il testo legislativo dà di tali beni: paesaggio non è più solo un valore estetico, ma il
territorio espressivo di identità , il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro
interrelazioni. Il paesaggio forma insieme ai beni culturali il patrimonio culturale della Nazione, ma a sua
volta è composto dai beni paesaggistici, che sono immobili e aree con valori storici, culturali, naturali,
morfologici e estetici del territorio. Per tali beni il Codice assicura un’azione di tutela a tre categorie di
beni paesaggistici:
1. gli immobili e le aree con caratteri di bellezza naturale, memoria storica, giardini e parchi;
2. le aree individuate come beni paesaggistici come alcuni territori costieri, alcuni fiumi e torrenti,
ghiacciai, parchi e riserve nazionali o regionali;
3. le ulteriori aree o immobili sottoposti a tutela da parte sei piani paesaggistici.

Gli strumenti di tutela del paesaggio sono: il piano paesaggistico e l’autorizzazione paesaggistica.
 I piani paesaggistici sono approvati dalle Regioni, anche se per alcuni beni è prevista
un'elaborazione congiunta del piano con il Ministero dei beni culturali. Le Regioni possono
approvare un apposito piano paesaggistico oppure un piano urbanistico-territoriale che tenga
anche conto dei valori paesaggistici. Tali strumenti devono definire alcune specifiche prescrizioni:
mantenimento delle caratteristiche degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni tutelati;
individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio; recupero e riqualificazione degli
immobili e delle aree compromessi o degradati; individuazione di altri interventi di valorizzazione
del paesaggio. L'adozione del piano determina che non sono più ammessi sugli immobili e nelle
aree tutelate interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso. Tuttavia
l’individuazione di un’area o un immobile come bene paesaggistico non determina l’applicazione
di un vincolo assoluto di intervento edilizio; il Codice infatti, ammette sempre alcune tipologie di
interventi come quelli di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di
restauro conservativo. Per tutti gli altri, viene imposto un regime di autorizzazione preventiva, con
lo scopo di verificare che l'intervento avvenga nel rispetto del principio secondo il quale i
proprietari di immobili ed aree di interesse paesaggistico non possono distruggerli, né introdurvi
modifiche che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici protetti.
 L'autorizzazione paesaggistica deve essere richiesta dal titolare del diritto sul bene alla Regione.
L'amministrazione competente verifica la completezza della documentazione e istruisce il
procedimento, successivamente trasmette la documentazione alla Soprintendenza, che entro 45
giorni da il proprio parere. Se la Soprintendenza esprime parere positivo, l'amministrazione
competente decide entro i successivi 20 giorni. Se il parere è negativo l'amministrazione
competente provvederà in conformità al parere nei successivi 20 giorni. Se la Soprintendenza
rimane inerte, l'amministrazione convoca una conferenza di servizi per superare lo stallo
procedurale. Se è l'amministrazione a rimanere inerte l'interessato può richiedere l'autorizzazione
alla Regione.

4. La tutela dei beni culturali

Nella nozione di patrimonio culturale, oltre ai beni paesaggistici, rientrano anche i beni culturali. Si tratta,
come definisce il codice, di «cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico,
archeologico, bibliografico, che possono essere di proprietà pubblica o privata e che sono appartenenti
allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente o istituto pubblico e a
persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che
presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico».
Per giungere all’individuazione del bene culturale e alla sottoposizione dello stesso al regime di tutela, il
Codice dispone di due possibili percorsi: la verifica dell’interesse culturale e la dichiarazione dell’interesse
culturale.
 L’art.12 del Codice precisa che il procedimento di verifica si svolge davanti agli organi competenti
del Ministero per i beni e le attività culturali. Oggetto di tale procedimento possono essere due
categorie di beni:
1. Le cose immobili e mobili purché siano opere di autore non più vivente e la cui esecuzione
risalga a oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili;
2. I beni immobili dello Stato, indicati in appositi elenchi contenenti l’indicazione dei beni e
redatti sulla base di criteri elaborati dal Ministero.
 Gli art. 13 ss. Del Codice disciplinano il procedimento di dichiarazione di interesse culturale, il
quale ha lo scopo di accertare che in alcuni beni vi sia l’interesse culturale. È il Soprintendente
competente ad avviare il procedimento di dichiarazione di interesse culturale, ma è il Ministero ad
adottare la dichiarazione. Il proprietario, possessore o detentore del bene deve essere a
conoscenza del procedimento, in modo tale che esso possa partecipare.
Anche per i beni culturali vale il principio secondo cui non possono essere distrutti, deteriorati,
danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare
pregiudizio alla loro conservazione. Da ciò consegue che gli interventi, qualora fossero consentiti, sono
sottoposti ad un regime di comunicazione o di autorizzazione. Infatti il mutamento della destinazione
d’uso del bene culturale deve essere comunicato al Soprintendente, in modo tale che questo possa
intervenire e garantire la protezione del bene.
Attraverso lo strumento delle prescrizioni di tutela indiretta l’autorità pubblica non si limita alla
protezione del bene culturale, ma si occupa anche del suo valore estetico e del contesto ambientale in cui
esso è collocato. Tali prescrizioni inoltre sono immediatamente prescrittive e obbligano gli enti territoriali
a recepirle nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici.
CAPITOLO III

SEZIONE I

IL MODELLO PIANIFICATORIO TRADIZIONALE: IL PRIMATO DEL PIANO REGOLATORE GENERALE


COMUNALE

1. Il primato del livello comunale ed il ripensamento del PRG

La vicenda urbanistica italiana si caratterizza per il primato del piano regolatore generale, previsto dalla
legge 17 agosto 1942, n. 1150 alla stregua dell’atto di pianificazione volto a tradurre alla scala comunale le
indicazioni espresse dai piani articolati secondo una logica gradualistica. Questo modello, definito come
pianificazione a cascata o a cannocchiale, è rimasto solo sulla carta a causa delle difficoltà incontrate nel
dare corpo alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale.
Il PRG ha rappresentato, dunque, l’unico strumento di regolazione degli usi del territorio e venne
utilizzato per colmare le lacune determinate dai vari settori dell’urbanistica.
Ben presto anche il PRG ha attraversato un periodo di profonda crisi, in quanto rappresentava, con la sua
eccessiva rigidità e atemporalità , un limite troppo vincolante rispetto alle idee innovative e alla possibilità
di intervento in ambiti caratterizzati da particolare criticità.
In particolare, attorno agli anni Ottanta, ha cominciato a delinearsi il grande tema del “riuso” della città ed
è emersa la necessità di favorire processi di rinnovamento urbano, rispetto ai quali sembrava essenziale
garantire maggiore spazio alle dinamiche progettuali, liberate da ogni vincolo pianificatorio.
Sul piano della regolazione delle trasformazioni territoriali, i piani regolatori regionali approvati sino agli
anni Novanta appaiono percorsi da una sorta di contraddizione: da un lato si registra un progressivo
ampliamento dei contenuti, che porta il PRG a divenire l’unico strumento effettivo di salvaguardia del
paesaggio e dei beni culturali e ambientali, dall’altro i piani regolatori generali non riescono ad arginare le
tendenze alla disordinata conurbazione attorno alle principali metropoli.
Tuttavia il PRG rimane il principale strumento attraverso cui si esplica a livello operativo la funzione di
governo del territorio e, nel frattempo, è profondamente mutato. È riuscito ad assorbire le conseguenze
della mancata riforma della legislazione dei suoli ed a ripensare alla propria funzione: da strumento atto
ad assecondare ed ordinare la tendenza alla crescita urbana ed all’espansione edificatoria, a strumento
atto a dare effettività ad un’impostazione improntata alla sostenibilità. In altre parole la funzione e la
struttura del PRG appaiono mutate, ma l’elemento unificante le diverse stagioni continua ad essere
l’urbanistica italiana. La pianificazione urbanistica si occupa di una risorsa multidimensionale come il
territorio, ed occorre quindi tenere distinte due situazioni territoriali: i tessuti consolidati, di cui si
evidenzia il valore d’uso per i proprietari e per gli utilizzatori urbani, e rispetto ai quali occorre regolare le
trasformazioni con il fine della massima efficienza insediativa; le aree agro-alimentari che rivelano il loro
statuto ecologico legato alla duplice valenza di matrice ambientale e di unità di paesaggio.
Entro il procedimento di pianificazione urbanistica, l’istituto della valutazione ambientale strategica (VAS)
costituisce la figura mediante la quale si afferma in concreto il primato della tutela del bene ambientale
sulle esigenze fruitive e di trasformazione. Nella fase di formazione del piano, la VAS costituisce quindi il
principale (se non l’unico) strumento operativo di cui i Comuni dispongono per fissare rigidi valori-soglia
rispetto alle potenzialità espansive dei piani e, soprattutto, rispetto al profilo cruciale del consumo del
suolo.
2. Gli antecedenti e l’evoluzione del PRG nell’urbanistica statale e regionale

Gli antecedenti diretti del PRG sono da identificare nelle “servitù di allineamento” e nelle “ordinanze di
ampliamento” già distintamente presenti nella legislazione preunitaria le cui origini risalgono alla legge
napoleonica 16 settembre 1807. La legge 25 giugno 1865, n. 2359 teneva nettamente distinto il piano
regolatore e il piano di ampliamento.
I piani regolatori, approvati per legge, non furono molti, anche se non mancarono esperienze assai
significative (Firenze, con il piano Poggi del 1865, Roma, con il piano Viviani del 1873 e del 1882, Palermo,
con il piano Giarrusso del 1885, Napoli, con il famoso piano di risanamento del 1885, Milano, con il piano
Beruto del 1884 e con il successivo piano Pavia-Masera del 1912).
La legge n. 1150 del 1942 recuperava la distinzione tra realtà territoriali differenziate, riservando lo
strumento del piano regolatore ai Comuni maggiori e prevedendo per i Comuni minori lo strumento del
programma di fabbricazione. Il piano veniva ad estendersi all’interno del territorio e perdeva il carattere
di dettaglio, sino alla scala architettonica, che era propria dei piani precedenti, venendo ad assumere la
tipica forma “simbolica”, con previsioni sulle destinazioni espresse mediante retinature ed altri segni
grafici.
L’attività di pianificazione ha avuto una diffusione molto difficile, anche dopo l’importante legge 6 agosto
1967, n. 675, la legge ponte, approvata sull’onda dell’indignazione provocata dalla frana di Agrigento e
mediante la quale si bloccarono gli interventi lottizzatori in carenza di piano regolatore.
Uno spartiacque deve essere identificato nell’emanazione, a partire dalla seconda metà degli anni
Settanta, delle leggi urbanistiche regionali di prima generazione, i cui esempi significativi sono la legge
lombarda e la legge piemontese. Queste leggi hanno reso obbligatorio il Piano Regolatore per tutti i
Comuni e hanno rimodellato in molti punti lo schema strutturale della legge del 1942 (prevedendo un
incremento degli spazi destinati alle infrastrutture pubbliche e dettando norme molto significative per la
tutela dei centri storici).
Il piano regolatore comunale, nella prospettiva regionale, costituisce non solo l’oggetto di interventi
legislativi almeno in parte originali, ma anche il principale ambito di intervento amministrativo diretto. Le
Regioni hanno infatti esercitato un ruolo assai incisivo sugli aspetti puntuali del territorio, mediante le
competenze loro riservate in sede di applicazione del PRG.
Il PRG si è rivelato uno strumento inidoneo ad esaltare l’autonomia comunale e ha finito per riflettere un
modello rigido con una tendenza a sbiadire le forti differenze che invece connotano le diverse realtà
territoriali, dal punto di vista morfologico, vocazionale e socio-economico.

3. I contenuti del PRG: la zonizzazione e le localizzazioni

Il piano regolatore generale esprime due ordini di contenuti: la zonizzazione, cioè la ripartizione
dell’intero territorio comunale in zone omogenee, e le localizzazioni, cioè la previsione delle aree
destinate alle dotazioni territoriali.
 La zonizzazione consiste nella ripartizione del territorio in ambiti omogenei, cioè macroaree
morfologicamente o funzionalmente uniformi. La tecnica dello zoning ha trovato una compiuta
definizione nel d.m. n.1444 del 1968, mediante il quale è stato definito un elenco di zone
territoriali omogenee. La zona A corrispondente al nucleo antico; la zona B corrispondente agli
ambiti in parte già saturati; la zona C riservata all’espansione urbana; la zona D destinata agli
insediamenti produttivi; la zona E corrispondente alle aree agricole; la zona F entro la quale
trovano collocazione gli insediamenti pubblici. Il d.m. n.1444 del 1968 fornisce anche delle
indicazioni circa i parametri riferiti alle singole zone. Di fatto tramite lo zoning e la previsione di
parametri quantitativi, il decreto ministeriale ha disegnato la struttura portante del piano.
 Con le localizzazioni si identificano invece le aree destinate a diventare sede di infrastrutture
pubbliche a fruizione collettiva. La previsione localizzativa espressa del piano costituisce l’atto
iniziale di una tendenza a sfociare nella rimozione delle aree gravate da vincolo preespropiativo. I
limiti più evidenti del PRG ricadono infatti sul versante della localizzazione, dove la Corte si è
pronunciata con la preservazione del contenuto minimo del diritto di proprietà , mentre il
legislatore ha stabilito che i vincoli preespropiativi decadono ove l’ablazione non intervenga entro
i 5 anni dalla approvazione del PRG. Il risultato di questo dispositivo, teso a garantire la proprietà
privata, è stata l’inattuazione dei piani localizzativi che ha portato a forti squilibri, risolti in tempi
più recenti con la negoziazione urbana.

4. I contenuti e le funzioni ulteriori

Il PRG contiene anche una completa ricognizione del patrimonio culturale e delle risorse ambientali e
paesaggistiche. Si tratta di una componente cruciale del piano, poiché solo a scala comunale è possibile
cogliere una rilevanza di beni che non sempre ottengono provvedimenti dichiarativi dell’interesse
pubblico.
Sul piano disciplinare, la sottolineatura di una piena meritevolezza di tutela e la sedimentazione di
tecniche sono approdate ad una sintesi nella carta di Gubbio, che contiene un catalogo di indicazioni sulla
conservazione dei nuclei antichi.
Il PRG identifica anche i manufatti degradati da sottoporre a recupero e riporta in apposite carte le fasce e
le zone di rispetto. Il PRG, dunque, dovrebbe rappresentare una sorta di carta unica del territorio, atta a
consentire una lettura di tutte le condizioni di trasformabilità del territorio.
Corredano inoltre il piano delle norme tecniche di attuazione, nelle quali sono espresse regole analitiche
circa le destinazioni, gli indici, i distacchi, le distanze e altezza. Le norme tecniche di attuazione di sono
sovrapposte al regolamento edilizio, strumento mediante il quale vengono fissate prescrizioni di origine
generale riferite all’attività costruttiva e alle caratteristiche dei fabbricati.
Nel tempo il PRG, in quanto unico documento-direttore dello sviluppo comunale, ha assunto contenuti che
travalicano l’urbanistica in senso proprio. Si può fare l’esempio delle previsioni degli spazi destinati al
commercio. Previsione di questo tipo costituiscono lo strumento di cui le amministrazioni si servono per
cercare di arginare la proliferazione di grandi strutture commerciali decontestualizzate. Il piano
urbanistico deve dunque limitarsi alla preventiva definizione delle possibilità di insediamento della
funzione commerciale sulla base di un’analisi delle condizioni di sostenibilità territoriale, priva da
considerazioni di natura economica circa i rapporti tra domanda e offerta.

5. Il procedimento di adozione –approvazione

La procedura di formazione del PRG è molto complessa e si articola in più fasi. Il piano viene redatto dagli
uffici comunali ed adottato dal consiglio comunale. Gli atti preparatori devono essere resi pubblici ai sensi
dell’art. 39. Le leggi regionali più recenti, oltre che alla massima trasparenza, cercano di favorire il
coinvolgimento attivo dei cittadini.
Il piano deve essere adottato con l’estensione obbligatoria dei consiglieri interessati. Dal momento
dell’adozione viene sospeso l’esame delle istanze relative a progetti di trasformazione non compatibili con
le previsioni del PRG adottato: si parla di misure di salvaguardia, la cui funzione è di evitare che
intervengano episodi edificatori non coerenti con l’impostazione di fondo dello strumento urbanistico.
Il piano adottato viene pubblicato per 30 giorni e nei successivi 30 giorni chiunque ha la possibilità di
presentare osservazioni. Questo strumento è inadeguato a garantire una reale partecipazione democratica
in quanto consente ai cittadini di formulare delle osservazioni con un piano ormai consolidato.
Il piano regolatore viene quindi trasmesso alla Regione per l’approvazione definitiva.
Questa regola procedimentale fa del piano un “atto complesso”, risultato della convergenza di volontà
espresse da due amministrazioni, quella comunale e quella regionale. Quest’ultimo può apportare
modifiche “d’ufficio” rivolte alla salvaguardia di interessi ambientali e paesaggistici; la Regione può inoltre
introdurre ogni altra modifica che non incida sui criteri di impostazione del piano e non comporti
innovazioni sostanziali. Il piano è dunque definitivamente approvato e dall’approvazione è data notizia sul
bollettino ufficiale della Regione. A partire dagli anni Ottanta, l’intervento regionale non è più previsto per
alcune varianti ed in tali casi il Comune procede ad un “auto approvazione” della variante.

SEZIONE II

VERSO IL SUPERAMENTO DEL MODELLO PIANIFICATORIO TRADIZIONALE

1. Le tre stagioni del riformismo urbanistico regionale

Anche dopo il passaggio delle competenze legislative in materia urbanistica in capo alle regioni, il modello
di piano prefigurato dalla legge urbanistica del 1942 ha fortemente condizionato l’evoluzione normativa.
Dal punto di vista contenutistico i piani prefigurati da tali leggi seguivano l’impostazione razionalista che
prevedeva un rigido zoning e l’applicazione di parametri rigidi molti a determinare i rapporti tra spazi
privati e dotazioni pubbliche. Questo modello aveva trovato la propria codificazione nel d.m 1 aprile 1968,
n. 1444, nel quale erano stati identificati i limiti da rispettare nei piani comunali con riferimento alle
diverse zone omogenee nelle quali si ripartiva il territorio comunale. Nell’intorno di un decennio quasi
tutte le regioni si sono dotate di un impianto normativo aggiornato e questa è la stagione in cui le
esperienze pianificatorie hanno cominciato a diffondersi a livello comunale. Tali leggi regionali
prefiguravano un sistema pianificatorio ordinato in più livelli; tuttavia lo schema della pianificazione a
cascata ha trovato applicazioni parziali, a parte poche eccezioni i piani sovraccomunali non hanno visto la
luce, quindi il piano regolatore comunale ha finito per diventare l’unico strumento di regolamentazione
dell’attività costruttiva. Inoltre il piano si caratterizzava per la propria natura di atto complesso esito della
co-decisione Comune-Regione. Questo modello decisionale non era ritagliato sulla dimensione degli
interessi ma su una concezione gerarchica dei rapporti tra livelli istituzionali.

Le prime riflessioni critiche attorno ai risultati prodotti dalla pianificazione di livello comunale si
svilupperanno attorno alla fine degli anni ’70 e si appunteranno principalmente sulla scarsa effettività
della componente infrastrutturativa. Questa si risolverà nell’apposizione di vincoli preespropriativi
destinati a decadere per il decorno di un quinquennio in difetto di concrete iniziative acquisite. Tale tema
fu oggetto di accesi dibattiti, si tornò allora a proporre una riforma urbanistica come successo nel
decennio precedente.

La seconda stagione, che possiamo collocare tra l’inizio degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90, vede
la produzione legislativa regionale riflettere il dibattito più generale sulla crisi del piano regolatore e sul
ruolo decisivo da riconoscere al progetto; cominciava a delinearsi il tema del “riuso” della città costruita,
che profilava l’urgenza di strumenti procedurali capaci di favorire processi di rinnovamento urbano. Sono
innumerevoli le leggi regionali grazie alle quali città hanno potuto dare il via ad una importante politica di
recupero e riqualificazione. Valore di variante al P.R.G, deroghe agli standard, concorso finanziario
pubblico, sono questi gli elementi che hanno favorito il decollo di una nuova concezione dell’urbanistica.
È emblematica la vicenda del programma integrato di recupero che, sorto nella legislazione regionale,
costituirà il prototipo che verrà ricalcato dalle leggi nazionali n.179 del 1992 e n.4494 del 1993.
Attraverso questa figura fanno il loro ingresso nel diritto urbanistico:
 i principi dell’integrazione tra diverse funzioni
 i principi dell’integrazione tra diverse tecniche di intervento
 i principi dell’integrazione tra soggetti pubblici e privati
Meno lineare è il percorso seguito della terza stazione che va dalla metà degli anni ’90 ad oggi, che porta
una radicale revisione del paradigma che informa le leggi regionali urbanistiche. In questo periodo,
accanto all’emergere dei principi innovatici, si fa strada l’idea che occorra restituire unitarietà alla
normativa urbanistica nazionale. In questo quadro tornava a riaffacciarsi l’opinione che solo una riforma
più radicale della legislazione urbanistica potesse consentire di ricomporre il sistema di governo del
territorio, nel quale convivevano tradizione e modernità , ma che restava ancora fondamentalmente
fondato su un modello di piano regolatore conforme al modello del 1942. Un passo decisivo di questo
dibattito è identificabile nel XXI Congresso dell’INU dove venne presentato e sottoposto alle forze
politiche un nuovo modello di legge urbanistica fondato sulla scissione del piano comunale in due
strumenti e nella ricerca di effettività mediante il ricorso a tecniche come la perequazione urbanistica. Da
quel momento si è cominciato ad avvertire che le risposte non sarebbero più potute venire da episodiche
deroghe al piano, si è avvertita l’impossibilità di offrire una soluzione alle questioni più ampie, era
cominciata la fase di attesa della riforma.

2. Il paradigma piano strutturale-piano operativo

L’analisi del quadro attuale impone di mettere al centro gli sviluppi del diritto-urbanistico regionalizzato.
Nella seconda metà degli anni ’90 si è registrato un progressivo diversificarsi della legislazione regionale,
che ha espresso un radicale ripensamento dei modelli pianificatori, questo accadde in Toscana, Umbria,
Lazio, Basilicata, Liguria, Emilia Romagna. In queste regioni il piano comunale si scinde in due
componenti:
 un piano strutturale che indica le “invarianti”, i caratteri di lunga durata ed i limiti alla crescita
insediativa
 una componente operativa di durata quinquennale nella quale sono dettagliate le previsioni
attuative
La spinta alla differenziazione a livello regionale del diritto urbanistico si è accentuata in seguito alla
riforma costituzionale del 2001 ed i percorsi seguiti dalle Regione cominciano ormai a distinguersi in
maniera netta tra loro.

3. Due modelli regionali a confronto: Toscana e Lombardia

Possono essere assunte ad esempio di questo processo di differenziazione due tra le più organiche leggi
urbanistiche emanate nel periodo più recente:
 legge della Regione Toscana (legge reg. 12 gennaio 2005 n.1)
 legge della Regione Lombardia (legge reg. 11 marzo 2005 n.12)
Entrambe le leggi si occupano del “governo del territorio”

La legge Toscana dà grande risalto alla pianificazione sovracomunale: sono infatti previsti un piano di
indirizzo territoriale su base ragionale, ed un piano territoriale di coordinamento su base provinciale. Le
legge toscana si mantiene quindi federe all’impostazione tradizionale di fondo secondo cui il sistema di
pianificazione si articola in una pluralità di piani ordinati secondo una sequenza gradualistica, entro la
quale i comandi regolatori divengono sempre più puntuali nel passaggio dal piano di area vasta a quello di
livello comunale. A livello comunale, in Toscana, la pianificazione si esplica nel “piano strutturale”, mentre
la salvaguardia e la regolamentazione degli usi del territorio si esercitano mediante il “regolamento
urbanistico”, i “piani complessi di intervento” ed i “piani attuativi”.

 Il piano strutturale, nella sua parte conoscitiva, identifica e descrive lo statuto del territorio: mette
in evidenza le principali caratteristiche morfologiche, ecologiche e paesaggistiche del territorio.
Inoltre indica i limiti di sostenibilità ambientale, a partire dalla identificazione delle risorse
essenziali non rinunciabili. Nella sua parte prescrittiva detta la strategia dello sviluppo territoriale
comunale. Indica: gli obiettivi del Comune, le unità territoriali organiche elementari da
trasformare, le dimensioni massime sostenibili degli insediamenti, le infrastrutture ed i servizi
necessari per un corretto insediamento degli abitanti e delle funzioni insediabili, con indicazione
delle aree e dei manufatti che dovranno essere successivamente trasferiti al comune. Il piano
strutturale detta poi delle disposizioni di protezione del paesaggio e delle componenti ecologiche
ed ambientali.

 L’attuazione degli obiettivi di sviluppo territoriale trova una compiuta disciplina nel regolamento
urbanistico. Questo documento si divide in:
 una parte dedicata alla gestione degli insediamenti esistenti
 una parte riservata alla disciplina delle nuove trasformazioni
Il regolamento urbanistico descrive in maniera dettagliata il patrimonio edilizio esistenza e le
funzioni che vi sono insediate e della la disciplina per il rinnovamento edilizio degli edifici; si
occupa anche delle trasformazioni non materiali, cioè delle mutazioni nel modello di uso del
sistema urbano che incidono direttamente sulla visibilità . Relativamente alle aree destinate alla
trasformazione il regolamento urbanistico detta precise disposizioni sulla tipologia, ubicazione e
qualità dei nuovi fabbricati, inoltre questo documento dispone i vincoli preespropriativi sulle aree
destinate ad ospitare infrastrutture pubbliche. Il regolamento urbanistica indica gli interventi che
dovranno essere preceduti dall’approvazione di piani attuativi e disciplina organicamente la
perequazione. Ogni cinque anni i comuni toscani effettuano un monitoraggio circa lo stato di
attuazione del regolamento urbanistico finalizzato all’introduzione delle necessarie varianti.

 La pianificazione comunale si articola in un livello ulteriore: il comune, che redige ed adotta un


piano complessi di intervento. Fuori dai casi di rinnovamento urbani il regolamento urbanistico
trova attuazione di dettaglio mediante piani attuativi o interventi singoli.

 I piani attuativi sono strumenti di iniziativa privata, si distinguono in ragione dei diversi obiettivi
in: piani di lottizzazione riservati allo sviluppo prevalentemente residenziale in aree di nuova
trasformazione; piani per l’edilizia economico-popolare, destinati allo sviluppo dell’edilizia sociale,
piani per gli insediamenti produttivi, finalizzati alla promozione dell’imprenditoria, del turismo e
del commercio; piani di recupero tesi alla riqualificazione di edifici in stato di degrado.

La legge toscana si occupa anche della disciplina edilizia; in questa parte assume grande importanza la
distinzione tra interventi sottoposti a permesso di costruire ed interventi sottoposti a denuncia di inizio
attività . Sono sottoposti al permesso di costruire gli interventi di nuova edificazione, cioè quelli che
portano alla formazione di un nuovo edificio. Sono sottoposti al regime dichiarativo della denuncia di
inizio attività gli interventi di natura conservativa (manutenzioni, restauri, e ristrutturazioni sino alla
demolizione-ricostruzione con lo stesso volume e sullo stesso sedime).

Una diversa impostazione, fondata su un principio di coincidenza tra funzioni territoriali e documenti
pianificatori informa invece lo schema a cui si impronta la legge urbanistica della Regione Lombardia. In
primo luogo va detto che questa legge tende a svalutare il ruolo della pianificazione sovracomunale. A
livello comunale il piano di governo del territorio (PGT) si articola in tre diversi documenti che si
integrano dando corpo ad un piano unitario, secondo una logica di specializzazione tematica.
Il primo atto è costituito dal documento di piano che contiene una dettagliata rappresentazione dei
caratteri strutturali, naturali e identitari del territorio comunale. Secondo la legge del 1942, il territorio
comunale veniva suddiviso in zone omogenee, con indicazione tassativa per ciascuna delle funzioni
insediabili. La legge lombarda, al contrario, abbandona questo schema unificante ed impone a ciascun
comune lo sforzo di dotarsi di uno strumento urbanistico sganciato da un paradigma prederminato, da
ritagliare invece sulle particolarità di quel sistema territoriale.

La Toscana rimane fedele alla tradizionale impostazione parametrica mentre la Lombardia se ne distacca
programmaticamente. La prima soluzione garantisce indubbiamente un maggior equilibrio, mediante
l’impostazione di uno schema ordinato a cui i comuni si devono conformare; la seconda soluzione esalta
invece l’autonomia di ciascun comune e ne fa emergere l’identità più autentica. Il piano dei servizi è
redatto ad esito di una scomposizione del corpo sociale in varie coorti di utilizzatori urbani. Le scienze
sociologiche da tempo hanno messo in luce che la città è stabilmente occupata non soltanto dai soggetti
che vi risiedono in senso anagrafico, i residenti, ma anche quelli che si possono definire “utilizzatori
urbani” nel senso che frequentano la città per fare uso delle opportunità che questa offre. Il piano dei
servizi deve identificare con precisione i differenti bisogni che ognuna di queste classi di popolazione
esprime. La rottura rispetto al passato anche in questo caso è molto netta: cioè soprattutto pe due ordini
di ragioni. Secondo la legge del 1942 le aree destinate ad usi collettivi si identificavano secondo un rigido
rapporto abitanti-metri quadrati, al contrario, mediante il piano dei servizi, queste aree si identificano in
corrispondenza ai bisogni effettivi e diversificati ed espressi dalle diverse popolazioni urbane. Il piano dei
servizi supera definitivamente l’idea del vincolo preespopriativo e cerca di promuovere le condizioni per
un impegno dei privati nella realizzazione delle opere di urbanizzazione anche attraverso dispositivi
perequativo-compensativi. Si apre tuttavia una questione di democrazia urbana: ogni comune deve infatti
identificare gli strumenti partecipativi per aprire il dibattito che precede l’adozione del paino dei servizi
alla partecipazione effettiva di soggetti che sono più difficilmente raggiungibili mediante i tradizionali
canali comunicativi dell’amministrazione pubblica. Completa il PGT il piano delle regole nel quale si
affrontano le tematiche della qualità urbana; ha la funzione di dettare le norme applicabili nei territori
consolidati. Il piano delle regole deve quindi garantire massima efficienza insediativa nei tessuti urbani ed
esprimere una azione custodiale rispetto agli ambiti ancora in condizione di irrinunciabile naturalità,
produttivi di servizi ecologici. Il PGT trova attuazione nei distretti della trasformazione mediante piani
attuativi che costituiscono gli strumenti mediante i quali vengono negoziati contenuti puntuali della
pianificazione. Si è quindi passati da una dimensione meramente attuativo-applicativa ad una funzione
integrativa della pianificazione generale che entro gli ambiti della trasformazione assumono il rango di
veri e propri atti pianificatori di iniziativa privata. La parte della legge lombarda riservata all’edilizia
anch’essa densa di novità , consente ai privati di avviare fuori dalle zone agricole ogni tipo di intervento
mediante denuncia di inizio attività , generalizzando un principio di liberalizzazione dell’attività
costruttiva che determina il superamento della tradizionale autorizzatoria limitando i poteri
dell’amministrazione ala sola funzione di controllo.

4. I fondamenti comuni del sistema differenziato: la conoscenza e la partecipazione

Quelli toscano e lombardo sono soltanto due esempi di un dritto urbanistico sempre più diversificato a
livello regionale, anche a causa del ritardo del legislatore nazionale nel dettare una disciplina idonea a
fissare dei principi fondamentali, con la conseguenza che le singole Regioni stanno identificando ciascuna
delle ispiratrici autonome. Ad esempio il Veneto ha recuperato un livello di pianificazione intermedia
attraverso i piani d’ambito territoriale intercomunali (PATI), mentre la Campania ha approvato una legge
che non si discosta apprezzabilmente dal modello 1942. Al di là delle differenze, è possibile cogliere
alcune linee comuni. Entro uno scenario generale le leggi regionali attribuiscono straordinaria rilevanza
alla fase conoscitiva. In passato, al contrario, gli studi e le analisi che precedevano la decisione di piano
rimanevano relegati nell’irrilevante; i piani inoltre venivano dimensionati a partire da parametri empirici,
mentre oggi le grandezze insediabili sono l’esito di una rigorosa analisi degli andamenti demografici
effettivi. Alla base dell’impostazione contenitiva del piano si pone anche la consapevolezza che il suolo
deve essere considerato un bene comune, e in quanto tale necessita di un dispositivo di governo orientato
alla tutela di lungo periodo. Al piano compete quindi identificare i dispositivi conformativi atti ad evitare
che le iniziative del proprietario della singola particella non vadano a collidere con l’agenda collettiva.

Anche in ragione all’introduzione della VAS (valutazione ambientale strategica), vengono messi in rilievo
sulla base di precisi indicatori i caratteri strutturali del territorio e vengono effettuate rigorose verifiche di
sostenibilità . Il tipo di valutazione alla quale hanno fatto riferimento i legislatori regionali ha ad oggetto la
comparazione tra un impatto aggregato e la capacità di carico di un territorio del pari considerato nella
sua consistenza complessiva. A monte la VAS consente un confronto a tutto campo, senza alcun vincolo o
rigidità derivante da decisioni non più rivedibili. A valle, questo strumento consente una maggiore
incidenza della valutazione rispetto all’esito delle scelte pianificatorie. A differenza del passato, l’interesse
ambientale e quello paesaggistico vengono introiettati nel processo di pianificazione e divengono quindi
fattori in grado di orientare ab intrinseco il percorso logico-decisionale, concorrendo in maniera
determinante a definire gli assetti futuri del territorio. Nel 1942 questi interessi venivano invece in rilievo
in termini espliciti solo in sede di approvazione definitiva del piano da parte della Regione. Talune Regioni
affidando invece la funzione di amministrazione competente ad un ufficio specializzato
dell’amministrazione preposta al piano, comunque nettamente distinto dalla struttura che assume le vesti
di amministrazione procedente. La rilevanza del VAS si riflette direttamente anche sulla struttura
sostanziale dei successivi atti deliberativi. La delibera di adozione del piano dovrà infatti contenere
un’articolata motivazione atta a dare conto degli esiti delle consultazioni e dei percorsi che hanno portato,
nell’ambito di un confronto tra prospettazioni e scenari diversi, ad accettare positivamente la maggior
sostenibilità della proposta di piano concretamente assunta. Allo svolgimento ed agli esisti della VAS deve
quindi essere dedicato un apposito capo della motivazione. Dalla VAS e dalle analisi che precedono
l’adozione del piano discendono quindi dei vincoli sostantivi: le soglie di sostenibilità si presentano come
limiti non valicabili da una decisione politica e nella fase conoscitiva lo statuto dei luoghi consente di
stilare una vera e propria gerarchia di trasformabilità dei suoli. La sottolineatura della fase analitica quale
fondamentale passaggio di costruzione del piano e l’introduzione della VAS assumono rilievo anche su un
altro versante. Sin dalle prime battute del procedimento di pianificazione si impone infatti la massima
apertura alla partecipazione attiva dei cittadini singoli ed associali alla circolazione di tutti i dati che
consente una maggior consapevolezza nell’espressione dei contributi partecipativi. Queste nuove forme di
partecipazione si rivelano tanto più efficaci in quanto intervengono in una fase antecedente rispetto
all’assunzione di decisioni e scelte destinate ad orientare il percorso decisionale. In quest’ottica si
prevedono avvisi preventivi (Lombardia), si strutturano sedute istruttorie pubbliche, si designa (in
Toscana) un “Garante per la comunicazione”, si indicono “laboratori urbanistici” (Calabria). Il ridisegno in
senso partecipativo rende il procedimento di pianificazione territoriale uno dei più significativi momenti
di esplicazione di un rapporto cittadino-amministrazione qualitativamente rinnovato che concorre in
maniera determinante alla costruzione di una autentica “democrazia di prossimità ” a livello comunale. Il
procedimento di piano rimane indubbiamente il più complesso tra i procedimenti di competenza
comunale, tradizionalmente momento di tensioni e dibattiti, evento comunque straordinario nella vita
politica ed amministrativa comunale: dunque è da lì che prende forma questo nuovo modello democratico.

CAPITOLO QUARTO

LA PIANIFICAZIONE SOVRACOMUNALE

1. I caratteri fondamentali della pianificazione territoriale

Con il termine pianificazione territoriale si intende l’attività di redazione di piani con funzione di indirizzo
e di controllo dell’uso del territorio. Essa si differenzia dalla pianificazione urbanistica in quanto
quest’ultima è diretta ai proprietari dei suoli ed ha per oggetto il regime dei suoli. La pianificazione
territoriale invece, ha per oggetto l’attività di pianificazione urbanistica, è diretta ai pianificatori, in
particolare ai Comuni, ed è volta principalmente a stabilire gli obiettivi ed i limiti della loro attività di
conformazione del regime dei suoli. Ulteriore differenza sta nel fatto che la pianificazione urbanistica è
attribuita ai Comuni, che la esercitano attraverso il piano regolatore generale comunale, mentre la
pianificazione territoriale è svolta da autorità superiori al Comune, in particolare la Provincia, ed
abbraccia un terreno più ampio, che può arrivare fino alla Regione.
Si differenzia, invece, dalla pianificazione sovracomunale di settore in quanto esprime l’esigenza di
delineare un quadro programmatico generale del territorio e non di tutelare in via prioritaria singoli bene
ed interessi territorialmente rilevanti. Per questa ragione la pianificazione territoriale ha natura
urbanistica, nel senso che disciplina gli usi del territorio, e viene definita generale, mentre quella di
settore viene definita speciale. La natura delle prescrizioni contenute nei piani territoriali è, di regola,
normativa in quanto esse consistono in prescrizioni generali ed astratte, che debbono trovare
applicazione concreta attraverso la pianificazione urbanistica comunale.
Altri aspetti, quali il rapporto con la pianificazione urbanistica e di settore, gli effetti dei piani e le funzioni
ad essi attribuite, sono in continuo movimento, in quanto influenzate dall’evoluzione dei rapporti
istituzionali, soprattutto a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione (legge cost. n.3 del 2001)
che ha esaltato l’autonomia degli enti territoriali. Così in particolare, i rapporti tra i piani urbanistici dei
diversi enti interessanti (Comune, Provincia e Regione) tendenzialmente non sono più ordinati secondo il
principio gerarchico espresso dal sistema a cascata, ma secondo il criterio della competenza, per cui il
ruolo del Comune non può essere confinato nell’ambito della mera attuazione di scelte precostituire in
sede sovraordinata. Anche i rapporti con la pianificazione di settore, cioè quella che tutela singoli
interessi, quali quelli ambientali, sono in evoluzione. Da una relazione di autonomia e separazione si sta
passando a forme di coordinazione degli interessi che si esprimono nel riconoscimento che un piano può
assorbire le previsioni di un altro piano e che sia i piani territoriali che i piani urbanistici comunali
possono contenere norme di tutela ambientale. Il coordinamento in un primo momento fu attribuito
all’urbanistica, oggi invece è attribuito ai piani posti a tutela di interessi superiori, quali l’ambiente e la
cultura, in considerazione della primarietà di questi beni. In particolare l’art. 145, comma2, d.lgs.22
gennaio 2004, n.42 stabilisce che i piani paesaggistici possono prevedere misure di coordinamento con gli
strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con i piani. Programmi e progetti nazionali e
regionali di sviluppo economico.

2. Il piano territoriale di coordinamento secondo la legge urbanistica fondamentale

Il piano territoriale previsto dalla legge urbanistica (legge 17 agosto 1942 n.1550) è il piano territoriale di
coordinamento statale (PTCS). Secondo l’art.5 legge urb, tali piani hanno lo scopo di orientare o
coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale, ed erano redatti
facoltativamente dal Ministero dei lavori pubblici. Il Ministero ha stabilito che tali piani hanno estensione
regionale; la loro approvazione avveniva con decreto del Presidente della Repubblica, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale, mentre un esemplare del piano approvato doveva essere depositato presso ogni
comune. Il contenuto di questi piani era quello di stabilire le direttive da seguire nel territorio
considerato, in rapporto principalmente:
a) Alle zone da riservare a speciali destinazioni ed a quelle soggette a speciali vincoli o limitazioni di
legge;
b) Alle località da scegliere come sedi di nuovi nuclei edilizi od impianti di particolare natura ed
importanza;
c) Alla rete delle principali linee di comunicazioni stradali, ferroviarie, elettriche, navigabili esistenti
e in programma.
Per quanto riguarda gli effetti, il piano territoriale di coordinamento si rivolgeva essenzialmente ai
pianificatori di livello inferiore e svolge una funzione di conformazione del territorio. Non aveva effetti
conformativi della proprietà privata e, quindi, non produceva effetti diretti nei confronti dei privati.
L’art. 6 legge urb. ha risolto il problema dei Comuni stabilendo che essi sono tenuti ad uniformare a questo
il piano regolatore comunale. A sua volta l’art. 3 della legge del 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. legge ponte) ha
stabilito che in sede di approvazione del p.r.g. possono essere apportate d’ufficio le modifiche
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento.
La soluzione data dal legislatore al problema degli effetti del piano territoriale di coordinamento nei
confronti dei piani urbanistici ha permesso di chiarire anche il rapporto esistente tra i vari livelli di
pianificazione. Si tratta di veri e propri rapporti gerarchici, nei quali i piani urbanistici sono chiamati ad
attuare le prescrizioni del piano territoriale di coordinamento e, di conseguenza, la mancata
conformazione dei primi al secondo comporta l’illegittimità delle prescrizioni non conformi. Nasce così il
modello della c.d. “pianificazione a cascata” detto anche a “cannocchiale”, nel quale le prescrizioni dei
piani superiori sono generali, conformative del territorio e non della proprietà e vincolanti per i piani
inferiori, i quali, invece, contengono previsioni di dettaglio, conformative della proprietà e subordinate a
quelle dei piani territoriali sovraordinati.

3. Il trasferimento delle funzioni alle Regioni ed i Piani territoriali regionali

I piani territoriali di coordinamento statali non hanno mai visto la luce; la funzione di approvare tali piani
è stata quindi trasferita alle Regioni con l'art.1, d.P.R. 15 gennaio 1972, n.8. La competenza regionale a
redigere ed approvare piani urbanistici regionali (PTR) si è poi sviluppata nella programmazione
economica e sociale attribuita alle Regioni. Allo Stato è quindi rimasta una competenza legislativa in
materia di identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale e la definizione dei
principi in materia di governo del territorio. Le Regioni hanno quindi previsto con legge l'approvazione di
specifici piani territoriali regionali, che hanno sostituito i piani territoriali di coordinamento statali; e
sempre alle regioni è stata inoltre attribuita la verifica della compatibilità fra gli strumenti della
programmazione socio-economica e della pianificazione territoriale dei comuni e delle province e i
programmi regionali.
Il modello classico del piano territoriale però , è stato spesso modificato dal legislatore regionale, di
conseguenza anche la natura dei piani si è modificata, in quanto da atti a contenuto soltanto normativo
sono diventati atti a contenuto anche provvedimentale. La Corte costituzionale ha però chiarito che la
funzione conformativa del territorio svolta dalla Regione non può sottrarre ai Comuni la funzione di
pianificazione urbanistica. Anche il rapporto di gerarchia tra i piani ed il conseguente modello a cascata è
stato attuato attraverso la previsione del potere di approvare varianti ai piani regolatori senza la necessità
dell'autorizzazione regionale e di approvare piani attuativi in variante ai piani regolatori regionali
mediante procedure semplificate. Con l'art. 1-bis, legge 8 agosto 1985, n. 431, (oggi ripreso dall’art. 135
del d.lgs. 22 gennaio 2004 n.42) il legislatore ha stabilito che i piani urbanistico-territoriali con specifica
considerazione dei valori paesaggistici rientrano nella categoria dei piani paesaggistici.

4. La pianificazione intermedia: i piani territoriali di coordinamento provinciali e gli altri


piani

Oltre al livello statale e regionale, la pianificazione sovracomunale ha conosciuto anche diversi strumenti
intermedi che prevedono la partecipazione alla pianificazione di tutti i livelli di governo interessati.
La pianificazione intermedia era già prevista dalla legge 17 agosto 1942, n.1150, che attribuisce a due o
più Comuni confinanti la facoltà di formare un piano regolatore generale intercomunale. Si tratta di un
piano regolatore esteso al territorio di più Comuni, la cui esatta perimetrazione spetta alla Regione, che
stabilisce il criterio di ripartizione delle spese tra gli enti interessati e designa il Comune che dovrà
provvedere alla redazione del piano.
Altra forma di pianificazione intermedia sono stati i piani comprensoriale che prevedevano una
pianificazione intermedia tra quella comunale e provinciale.
Sono ancora oggi vigenti invece, i piani per le aree e i nuclei di sviluppo industriale, che hanno per oggetto
la pianificazione di alcune aree a vocazione speciale appartenenti a comuni diversi. Si tratta di piani
speciali che attraverso l’effetto di direttiva nei confronti della pianificazione comunale svolgono anche la
funzione di conformazione della proprietà , in quanto possono imporre vincoli di inedificabilità a
contenuto espropriativo.
Attendono di vedere la luce invece i piani urbanistici delle aree metropolitane che, ai sensi dell’art. 26
d.lgs. 18 agosto 2000 n.267 dovranno essere redatti dalle città metropolitane con gli stessi poteri delle
province.
Il principale piano territoriale intermedio è oggi il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP)
introdotto dall’art. 15 legge 8 giugno 1990 n.142 e previsto oggi dall’art.20 d.lgs. 18 agosto 200 n.267.
Dal punto di vista del contenuto, il piano territoriale di coordinamento provinciale determina gli indirizzi
generali di assetto del territorio e indica:
 le diverse destinazioni del territorio;
 la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di
comunicazione;
 le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere
per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
 le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali.

Per quanto riguarda il procedimento di formazione, l’approvazione è di competenza della Provincia,


mentre spetta alla legge regionale dettare le procedure di approvazione, nonché assicurare la
partecipazione dei Comuni alla sua formazione. Dal punto di vista dei rapporti con gli altri livelli della
pianificazione il PTCP è soggetto ai piani regionali, per cui deve essere trasmetto alla regione ai fini di
accettarne la conformità agli indirizzi regionali della programmazione socio-economica e territoriale ed è
sovraordinato ai piani regionali comunali, le Province hanno il compito di accertare la compatibilità degli
strumenti comunali con le previsioni del piano territoriale di coordinamento. Il legislatore statale ha poi
attribuito alle Regioni la facoltà di operare nella pianificazione territoriale generale e speciale stabilendo
che il PTCP assuma il valore e gli effetti dei pini di tutela nei settori della protezione della natura, della
tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali. Così il PTCP è
diventato un piano a forte vocazione ambientale, in considerazione delle importanti competenze svolte
dalle province in materia di rifiuti e tutela dell'ambiente.
La giurisprudenza ha chiarito che il PTCP ha natura di atto di coordinamento e di indirizzo tipico della
programmazione intermedia, pertanto con esso non possono introdursi nel piano regolatore generale
comunale, prescrizioni e vincoli privati di specifica causale legislativa o non riferibili ad un'attribuzione
riservata della Provincia. Si tratta di un piano necessariamente territoriale ed eventualmente urbanistico.
Per quanto riguarda il grado di vincolatività per i comuni, l'art.20, d.lsg. 18 agosto 2000 n.267 afferma che
le previsioni del p.r.g. devono essere compatibili con quelle del piano territoriale di coordinamento.
Questo vincolo di compatibilità è stato diversamente interpretato dalle legislazioni regionali che in alcuni
casi hanno considerato vincolante il PTCP (regione Toscana), altre volte hanno inteso il rapporto nel senso
di non incompatibilità , impostanto il rapporto tra i due livelli in termini di puro coordinamento (regione
Lombardia). La soppressione delle Province, prevista dall'art.1, comma 325 della legge di stabilità 2014 e
dell'art.1, comma 82 della legge 7 aprile 2014, n.56, oltre alla prevista realizzazione delle Città
metropolitane fa presagire un profondo cambiamento delle politiche sovracomunali attraverso la
modificazione dei soggetti che ne sono stati finora i protagonisti.

5. La pianificazione sovracomunale di settore


Oltre alla pianificazione territoriale ed urbanistica esiste anche una pianificazione speciale che è posta a
protezione di peculiari interessi pubblici e/o della collettività aventi una valenza differenziata.
La pianificazione a tutela dell’ambiente, delle acque, del paesaggio, della difesa del suolo costituisce
l’ultima modalità di tutela di questi beni. L’introduzione di discipline di settore a tutela di questi beni da
parte delle autorità pubbliche risponde alla consapevolezza che questi beni sono “scarsi” e che debbano
essere preservati nell’interesse della collettività. Si tratta infatti di beni e di interessi ritenuti di particolare
rilievo dal legislatore e tali da richiedere una disciplina differenziata.
Ciò ha portato al riconoscimento del carattere pubblico o di interesse pubblico di questi beni ed
all’introduzione di una disciplina amministrativa del loro utilizzo. Sono stati così introdotti procedimenti
amministrativi volti ad accertare le qualità ed il valore di questi beni (per esempio la dichiarazione di
notevole interesse pubblico dei beni paesistici, oppure l’inclusione nell’elenco delle acque pubbliche) che
comportano l’imposizione di un vincolo sui beni (come il vincolo idrogeologico, il vincolo paesistico, il
vincolo culturale) e la necessità di ottenere un’autorizzazione per poter utilizzare o modificare il bene.
La pianificazione di settore ha lo scopo di tutelare e valorizzare i beni tutelati o di conservare la qualità
intrinseca del bene, così se il bene è il paesaggio il piano ha la funzione di salvaguardare il suo valore
estetico; se il bene è l’acqua il piano ha lo scopo di difenderne la potabilità e di preservarla dagli
inquinamenti ecc.
Le pianificazioni di settore si differenzino quindi da quella urbanistica in quanto tutelano solo determinati
beni, mentre quella urbanistica ha lo scopo di fare sintesi dei vari interessi pubblici e privati presenti sul
territorio. Poiché la pianificazione speciale viene necessariamente in conflitto con quella urbanistica la
legge si assume il compito di disciplinarne i rapporti. In linea generale la pianificazione speciale prevale su
quella urbanistica. Gli effetti delle disposizioni contenute nei piani speciali possono però essere di diverso
tipo:
 possono essere direttamente precettive nei confronti dell’uso dei suoli e quindi prevalere sulle
disposizioni difformi contenute nei piani urbanistici;
 possono essere norme programmatiche che obbligano l’autorità urbanistica a recepirle nei piani
urbanistici e produrre effetti diretti di disciplina dell’uso dei beni solo dopo la recezione;
 l’esigenza di tutela implica spesso che l’approvazione del piano di settore comporta l’adozione di
misure di salvaguardia.
Sono esempi di piani speciali i piani di tutela ambientale e culturale: i piani paesistici, i piani delle aree
naturali protette e i piani di bacino.

6. I piani paesistici

La pianificazione paesistica è oggi prevista e disciplinata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42) che stabilisce che le Regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il
territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione
dei valori paesaggistici.
Secondo la Convenzione europea del paesaggio, per paesaggio si intende “tutto il territorio delle Parti e
riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque
interne e marine. Da questa nozione si desume che il piano paesistico estende il suo ambito di
applicazione a tutto il territorio regionale.
Il piano è chiamato poi a distinguere i vari paesaggi a seconda delle loro caratteristiche e a distinguerli in
“ambiti” dotati di una propria disciplina. I due caratteri finora evidenziati, cioè la funzione di
pianificazione generale, comprensiva degli aspetti urbanistici, assunta dal piano paesistico, e l’estensione
del suo ambito di applicazione a tutto il territorio regionale, non eliminano la natura di piano di settore
del piano paesistico. Infatti il territorio nella sua interezza è letto alla luce dell’interesse paesaggistico e
l’attività di trasformazione del territorio è disciplinata al fine di tutelare in via principale l’interesse
paesistico. Ne consegue che la sua disciplina concorre con le altre discipline di settore e che, di
conseguenza, per costruire in area disciplinata sia dai piani urbanistici che paesistici occorre munirsi sia
del permesso di costruire che dell’autorizzazione paesistica. Il piano paesaggistico ha il seguente
contenuto obbligatorio:
 la ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, mediante l’analisi delle sue caratteristiche
paesaggistiche, impresse dalla natura, dalla storia e dalle loro interrelazioni;
 La ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico, la loro
delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione delle
specifiche prescrizioni d’uso;
 la ricognizione delle aree, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla
identificazione;
 L’eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree di notevole interesse pubblico;
 L’analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini dell’individuazione dei fattori di
rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio;
 L’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente
compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze
della tutela;
 l’individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico,
degli interventi di trasformazione del territorio;
 L’individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obbiettivi di qualità ;

Per quanto riguarda i rapporti con la pianificazione urbanistica il Codice stabilisce sia i termini di
adeguamento sia gli effetti dei piani paesistici nei confronti di quelli urbanistici.
L’art.145 stabilisce che i comuni, le città metropolitane, le provincie e gli enti gestori delle aree naturali
protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni
dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai
piani medesimi e comunque non oltre i due anni dalla loro approvazione.
Si tratta quindi di un piano che si pone in rapporto gerarchico, sia con la pianificazione statale e regionale
di carattere economico, sia con i piani sovracomunali e comunali urbanistici.
La differenza tra i vincoli paesaggistici e i vincoli urbanistici ambientali sta nel fatto che i vincoli
urbanistici ambientali mantengono caratteristiche proprie e diverse da quelli ambientali in senso proprio.
In primo luogo sono diversi e aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalle leggi e dai provvedimenti a tutela
dei beni culturali, del paesaggio e dell’ambiente. In secondo luogo, mentre i vincoli paesistici possono
indifferentemente riguardare aree vaste o singoli beni come ad esempio ville, parchi o giardini
rispondenti alle caratteristiche estetiche o culturali stabilite dal legislatore, i vincoli urbanistici
riguardano zone omogenee e non singoli edifici. Tale limite è stato però recentemente superato dal
Consiglio di Stato, secondo il quale il piano regolatore generale può imporre vincoli incidenti su singoli
edifici, configurati in sé quali zone, quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia
rivolta non alla tutela autonoma dell’immobile ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate
dal carattere qualificante che il singolo immobile assume dal punto di vista urbanistico nel contesto
dell’assetto territoriale. In passato i vincoli urbanistici e quelli paesistici avevano anche contenuto diverso.
Infatti il vincolo paesaggistico era finalizzato alla tutela di un paesaggio di pregio, non implicava di per sé
un divieto assoluto di edificazione ed aveva contenuto indeterminato in quanto la compatibilità degli
interventi con il vincolo era valutata di volta in volta dalla Sovraintendenza, mentre il vincolo urbanistico
era a contenuto predeterminato, prescrittivo e poteva giungere a sancire l’inedificabilità .
Il rapporto gerarchico tra piani paesistici e piani urbanistici opera quindi nel senso che i piani urbanistici
non possono contenere previsioni di minor tutela rispetto a quelle previste dai piani paesistici, ma
possono contenere disposizioni di maggior tutela. Così determinati interventi edilizi ben potrebbero
essere legittimamente vietati dal piano regolatore. Detto in altri termini: le disposizioni del piano
paesistico o del piano territoriale di coordinamento regionale e di quello provinciale in materia di
ambiente pongono solo un limite “negativo” alla discrezionalità programmatoria del Comune, il quale non
può attenuare la tutela ambientale ampliando le facoltà di edificazione. Qualora invece le previsioni del
piano regolatore generale prevedano una tutela minore rispetto a quelle del piano paesistico, le prime
sono da considerarsi illegittime e saranno annullate dal giudice amministrativo.
Dal punto di vista del contenuto i pini paesistici contengono, oltre a disposizioni conformative del
territorio, anche prescrizioni conformative delle proprietà , costituite da vincoli che gravano sui beni
ambientali e paesaggistici, che debbono essere riportati nei piani regolatori generali comunali. Il Codice,
infatti, all’art.135, stabilisce che i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni: le
prime sono vincoli che riguardano la conservazione dei beni vincolati, le seconde sono direttive volte alla
riqualificazione delle aree compromesse o degradate, alla salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche
e degli altri ambiti territoriali, all’individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio.
Per quanto riguarda la procedura di approvazione, l’art.135 del Codice prevede che l’elaborazione di piani
paesaggistici avvenga congiuntamente tra Ministero e Regioni, limitatamente ai beni paesaggistici cioè agli
immobili ed aree vincolati con provvedimento ministeriale, od individuati per legge o per effetto dei nuovi
piani adeguati: si tratta quindi di un atto complesso. La procedura è disciplinata dalla legge regionale, che
deve assicurare la concentrazione istituzionale, la partecipazione dei soggetti interessati e delle
associazioni portatrici di interessi diffusi. Il piano paesaggistico diviene efficace il giorno successivo a
quello della sua pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione.

7. Il piano dei parchi

Altri piani sovracomunali speciali sono i piani per il parco, previsti dalla legge quadro 6 dicembre 1991,
n.394, che costituiscono strumento di tutela dei valori naturali ed ambientali da parte dell’Ente parco.
Questi piani svolgono anche la funzione di piani urbanistici, in quanto assorbono le funzioni dei piani
regolatori generali dei Comuni compresi nel parco. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri livelli di
pianificazione prevalgono rispetto agli strumenti urbanistici di portata generale quali i piani territoriali
urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione ma non nei confronti dei piani paesistici.
8. I piani di tutela del suolo e delle acque

Altra forma di pianificazione sovracomunale speciale è quella a tutela del suolo e delle acque. Il d.gls.
n.152 del 2006, prevede poi, quali strumenti di pianificazione:
 il piano di bacino distrettuale (art.65)
 il piano di gestione (art.117)
 il piano di ttela delle acque (art.121).

I piani più importanti sono i piani di bacino. La loro istituzione risale all’art.17, legge 18 maggio 1989,
n.183, che prevedeva anche l’approvazione di piani stralcio (PAI). Oggi l’art.65 del Codice dell’Ambiente
prevede il Piano di bacino distrettuale, che ha valore di piano territoriale di settore ed è lo strumento
conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le
norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta
utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato. La
procedura per la loro emanazione consiste che la Conferenza istituzionale permanente stabilisce indirizzi,
metodi e criteri; l’Autorità di bacino redige il piano di bacino; la Conferenza istituzionale permanente lo
adotta ed infine esso è approvato con d.P.C.M. Questi piani contengono:
 l’individuazione e la qualificazione delle situazioni, in atto o potenziali, di degrado del sistema
fisico nonché delle relative cause;
 le direttive alle quali devono uniformarsi la difesa del suolo;
 la sistemazione idrogeologica ed idraulica e l’utilizzazione delle acque e dei suoli;
 l’indicazione delle opere necessarie;
 la programmazione e l’utilizzazione delle risorse idriche, agrarie, forestali ed estrattive;
 l’individuazione delle prescrizioni, dei vincoli e delle opere idrauliche, idrauliche-agrarie,
idrauliche-forestali, di stabilizzazione e consolidamento dei terreni e di ogni altra azione o norma
d’uso o vincolo finalizzati alla conservazione del suolo ed alla tutela dell’ambiente.
Dal punto di vista degli effetti il piano di bacino è un piano di direttive, essendo destinato a indirizzare e
contemperare i provvedimenti comunali, provinciali e regionali di pianificazione o idonei a incidere sulla
conformazione del territorio. Ha anche effetti conformativi della proprietà in quanto alcune delle sue
prescrizioni espressamente indicate vincolano direttamente sia i soggetti pubblici sia quelli privati,
prevalendo anche sulle eventuali previsioni contrastanti degli strumenti urbanistici locali. Altra
caratteristica dei piani di bacino è che i provvedimenti concessori o autorizzativi in attuazione dei vincoli
previsti dal piano non sono competenza dell’Autorità di Bacino ma degli enti locali, a differenza degli altri
piani di settore nei quali l’autorità che ha imposto il vincolo è di regola anche quella competente a valutare
i progetti di attività che coincidono sui beni tutelati.

Il secondo tipo di piani di tutela del suolo e delle acque sono i piani di gestione, definiti dall’art. 117 del
Codice dell’Ambiente come articolazione interna del piano di bacino distrettuale e piano stralcio del piano
di bacino. Sono emanati con la stessa procedura e dalle stesse autorità dei piani di bacino. Essi si pongono
dunque sullo stesso piano giuridico del piano di bacino, concernono lo stesso ambito territoriale e si
distinguono dai piani di bacino perché hanno ad oggetto esclusivamente la tutela delle acque.
Ai piani di bacino devono essere avvicinati per la funzione comune di tutela delle acque, i piani di tutela
delle acque (PTA) redatti dalla regione. Essi contengono l’elenco dei corpi idrici, le misure necessarie alla
tutela qualitativa e quantitativa del sistema idrico, gli interventi di bonifica dei corpi idrici e le risorse
finanziarie previste a legislazione vigente. Sono adottati, dopo un’istruttoria pubblica, dalle Regioni, che si
devono conformare agli obiettivi su scala di distretto definiti dalle Autorità di bacino. I piani adottati sono
trasmessi al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio nonché alle competenti Autorità di bacino,
che esprimono parere vincolante e sono poi definitivamente approvati dalle Regioni. Si differenziano dai
piani di bacino perché hanno ad oggetto esclusivamente la tutela delle acque ed inoltre concernono il
singolo bacino idrografico e non il distretto, per queste ragioni non possono essere considerati piani
stralcio della pianificazione di bacino.

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