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DIVERSITÀ ED INTEGRAZIONE

L’attenzione alla diversità ed alle persone diverse quali persone con diritti e doveri, che esigono rispetto si è andata
sempre più affermando negli ultimi cinquant’anni. In questa prospettiva la stagione dell’attenzione al diverso e ai suoi
diritti che si è aperta a partire dal secondo dopoguerra ha portato oggi ad una concezione della diversità quale risorsa
per tutta la comunità. Parlare di diversità oggi, specialmente all’interno dei contesti socioeducativi, implica la necessità
di prendere in considerazione almeno due dimensioni che spesso sono intrecciate tra loro: la dimensione intersoggettiva
e la dimensione culturale. La dimensione intersoggettiva si riferisce all’ambito della rete formale e informale di relazioni,
dove entrano in comunicazione differenti corpi, sensibilità e bisogni, differenti intelligenze, deficit, handicap e talenti.
D’altro canto, la dimensione culturale si riferisce all’ intreccio più ampio e anche invisibile di rapporti, sistemi di segni,
gestualità, lingua, riti, cerimoniali, usi, costumi, valori che permeano i contesti di appartenenza, condizionando azioni e
comportamenti. In questa prospettiva l’istruzione e la formazione sono i luoghi principali per l’inserimento e
l’integrazione del diverso nella società. Nell'opinione corrente è pervasiva una visione strettamente scolastica, di natura
burocratica e tecnicistica, del concetto di integrazione nell’ambito scolastico, inteso quale diritto affermato per alcune
categorie di persone di frequentare le scuole comuni. Questa concezione impoverisce fortemente il reale significato del
termine integrazione che nel senso più autentico del termine si riferisce ad un processo per cui due o più elementi si
compenetrano o si compensano reciprocamente: si rendono quindi integri, interi e completi.
Il processo di integrazione è intrinsecamente intersoggettivo e presuppone che l'essere umano non sia completo in sé,
non sia autosufficiente, ovvero non sia un sistema chiuso, ma si realizzi nel rapporto con gli altri. Pertanto, il processo di
integrazione non si riferisce al soggetto individuato come svantaggiato o diverso ma all’intera comunità. La buona
integrazione è quella che permette di capire che non stiamo vivendo in presenza di una diversità ma come una realtà, e
pertanto implica l’attivazione di una comunità nella direzione di una modifica del proprio status in favore del diverso.
Il processo di integrazione è intrinsecamente intersoggettivo e presuppone che l'essere umano non sia completo in sé,
non sia autosufficiente, ovvero non sia un sistema chiuso, ma si realizzi nel rapporto con gli altri. Pertanto, il processo di
integrazione non si riferisce al soggetto individuato come svantaggiato o diverso ma all’intera comunità. La buona
integrazione è quella che permette di capire che non stiamo vivendo in presenza di una diversità ma come una realtà, e
pertanto implica l’attivazione di una comunità nella direzione di una modifica del proprio status in favore del diverso.
Da un'analisi superficiale, potrebbe sembrare che il sistema d'integrazione scolastica italiano sia di gran lunga migliore
rispetto agli altri, e sicuramente esso denota caratteristiche di evoluzione rispetto agli altri paesi, sebbene in concreto in
Italia il cammino dell'integrazione sia solo ad una fase iniziale. Se analizziamo le strutture scolastiche sorge lampante agli
occhi che la buona integrazione, a più di venti anni dalla Legge che ne stabiliva l'attuazione, non si è ancora
completamente realizzata, ad esempio le barriere architettoniche nelle scuole hanno spesso uno stato di provvisorietà
tale da far pensare ancora una volta che l’integrazione del diverso sia il frutto di un intervento sull’urgenza e non una
prassi consolidata. Tuttavia, è fuor di dubbio che una persona disabile avrà migliori opportunità laddove esistano oltre
che le basi riabilitative, anche dei setting accoglienti, composti da operatori e strutture decisamente qualificate ed in
grado di operare al fine dell’inserimento sociale. La difficoltà istituzionale e sociale, sopra delineata, nel concepire le
prassi integrative, si riflette molto spesso anche sul piano della dimensione didattica sotto forma di concezione delle
prassi integrative nei termini di prassi di socializzazione.
Le scuole, a partire da quelle dell’infanzia, sono normalmente frequentate da disabili, questo però non vuol dire che essi
siano veramente integrati; in molti casi gli sforzi compiuti per individualizzare l’insegnamento si sono rivelati
controproducenti sul piano della socializzazione e d’altra parte l’eccessiva attenzione alla dimensione di socializzazione
spesso ha prodotto esiti deludenti sul piano dello sviluppo delle abilità cognitive. In questa prospettiva la buona prassi
integrativa nel gruppo classe e nella società si realizza alla luce di un equilibrio tra il principio didattico con quello della
dell’individualizzazione.

Diversità ed integrazione
Cominciamo col far chiarezza sui termini individualizzazione e integrazione, oggi così frequentemente utilizzati e spesso
equivocati. L’istruzione individualizzata non è un’istruzione individuale, realizzata semplicemente in un rapporto uno a
uno. Essa consiste nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali degli alunni (ai loro ritmi di
apprendimento, alle loro capacità linguistiche, alle loro modalità di apprendimento ed ai loro prerequisiti cognitivi),
cercando di conseguire individualmente obiettivi di apprendimento comuni al resto della classe. Bisogna attraversare
strade diverse, più corte, più lunghe, più attente ai bisogni di concretezza o più astratte, ma sempre orientate al
raggiungimento di traguardi formativi comuni (Baldacci, 1993).
Il dibattito sui piani di studio personalizzati
Il dibattito sui piani di studio personalizzati previsti dalle indicazioni delegate al D.M. n. 59/04 applicativo della legge
53/03 ha riproposto la questione individualizzazione e/o personalizzazione. La personalizzazione indica la necessità di
modificare curricula, obiettivi contenuti e attività didattica in sintonia con i bisogni propri di ciascuna persona (Resico,
2005). In altri termini, l’individualizzazione da sola non basta perché non prende in considerazione una dimensione
personale di attitudini, interessi, bisogni, motivazioni, non riconducibile a quella degli altri, e d’altra parte la sola
personalizzazione si propone come un limite in quanto causa di isolamento dell’individuo dal resto della classe. La
didattica individualizzata in tal senso è propedeutica all’integrazione e pertanto non mette i contenuti scolastici al centro
del processo di insegnamento-apprendimento ma li riporta al loro giusto ruolo di stimolo percepibile e utilizzabile
dall’alunno. Il ricorso ad una didattica integrata, in questa accezione, si fa sempre più urgente se si considera che nella
nostra scuola, oggi, accanto agli alunni disabili sono presenti alunni stranieri, alunni deprivati culturalmente, alunni con
problemi famigliari (genitori tossicodipendenti, disoccupati, alcoolisti, etc.). L’alunno in difficoltà diventa una occasione
per la scuola per ripensarsi come strumento di successo formativo per tutti e per le discipline di insegnamento per
proporsi come mezzo per promuovere la personalità dell’allievo in tutte le sue dimensioni. L’integrazione dunque nasce
e si sviluppa a partire dalla relazione dialettica tra personalizzazione ed individuazione; la persona adeguatamente
integrata conserva una propria identità diversa dalle altre, pur mantenendo un ruolo nel gruppo. L’integrazione è
dunque un processo in continuo divenire in cui sia il gruppo ricevente sia i nuovi soggetti tendono a cambiamenti atti a
consentire loro occasioni di condivisione di comuni conoscenze, di aiuto reciproco, di collaborazione in funzione dello
sviluppo di tutte le potenzialità dei singoli soggetti e per lo sviluppo del massimo grado di autonomia di ciascuno.

Il percorso per l'integrazione nella scuola


L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisce un fiore all’occhiello per il sistema educativo. Il sistema
educativo in generale e scolastico nello specifico si configura quale comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a
prescindere dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale. La piena
inclusione degli alunni con disabilità è un obiettivo che la scuola dell’autonomia persegue attraverso una intensa e
articolata progettualità, valorizzando le professionalità interne e le risorse offerte dal territorio. Tale ottica di
integrazione è indubbiamente stata favorita dalla legge 517/77 che ha segnato una svolta importante nella cultura
pedagogica del nostro Paese, anche con riguardo alle politiche di integrazione scolastica dei disabili. Grazie a questa
legge, infatti, la scuola è passata da un approccio assistenzialistico nei confronti degli alunni in situazione di handicap ad
un approccio di sistema. Questo ha connotato la scuola come comunità educativa accogliente e, al tempo stesso, come
comunità professionale competente, capace di ristrutturarsi per consentire anche agli alunni disabili, e a tutti quelli che
oggi definiamo portatori di bisogni educativi speciali, di condividere la loro esperienza di apprendimento in situazione
non emarginante. È attraverso tale legge infatti che viene affrontata per la prima volta la questione del recupero del
bambino “diversamente abile”, nell’ambito di una programmazione curriculare fortemente individualizzata, attraverso
qul’organizzazione di tempi, spazi, gruppi di alunni e l’apporto di insegnanti specializzati e specialisti del settore e del
servizio socio-pedagogico.

Legge quadro
Nel febbraio 1992, l’approvazione della Legge Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate, sottolinea la necessità di una continuità educativa tra i diversi gradi di scuola con forme di consultazione
tra gli insegnanti e la stipula di accordi tra gli Enti Locali, finalizzati all’attuazione e alla verifica di progetti educativi,
riabilitativi e di socializzazione individualizzati. L’attuale quadro normativo sottolinea la possibilità di realizzare
l’integrazione attraverso un preciso percorso che a partire dalla certificazione dell’Handicap fornisca elementi conoscitivi
e progettuali per l’integrazione scolastica. Ciò è reso possibile attraverso la stesura di alcuni documenti quali la Diagnosi
Funzionale, il Profilo Dinamico Funzionale ed il Piano Educativo Individualizzato.

La diagnosi funzionale
"Per diagnosi funzionale si intende la descrizione analitica della compromissione funzionale dello stato psico-fisico
dell’alunno in situazione di handicap, al momento in cui accede alla struttura sanitaria per conseguire gli interventi
previsti dagli artt. 12 e 13 della legge n. 104/92”, essa è un atto sanitario medico legale, che descrive analiticamente la
compromissione funzionale dello stato psicofisico dell'alunno in situazione di handicap, essa viene redatta dal
neuropsichiatra infantile, dal terapista della riabilitazione e dall’assistente sociale, e descrive analiticamente la
compromissione dello stato psico – fisico dell’alunno in situazione di handicap.
Il Profilo Dinamico Funzionale.
La stesura del Profilo Dinamico Funzionale è finalizzata alla stesura del Piano Educativo Individualizzato. Il Profilo
Dinamico Funzionale è atto successivo alla diagnosi funzionale e indica le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed
affettive dell'alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le
possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente rafforzate
e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona disabile. Il Profilo Dinamico Funzionale è frutto di un lavoro
di equipe cui partecipano congiuntamente gli operatori delle ASL, i genitori, il personale docente curriculare e
specializzato e il dirigente scolastico, al fine di stabilire oltre alle difficoltà di apprendimento conseguenti l’handicap, le
possibilità di recupero e le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e potenziate. Infatti, solo un
intervento a livello di equipe permette una conoscenza puntuale, estesa e approfondita della situazione individuale in
grado di individuare indicazioni operative per poter sviluppare le capacità dell'individuo.
Il Profilo Dinamico Funzionale comprende la descrizione funzionale dell'alunno in relazione alle difficoltà che l'alunno
dimostra di incontrare in settori di attività, e l'analisi dello sviluppo potenziale dell'alunno a breve e medio termine,
desunto dall'esame dei seguenti parametri: - cognitivo, esaminato nelle potenzialità esprimibili in relazione al livello di
sviluppo raggiunto (normodotazione; ritardo lieve, medio, grave; disarmonia medio grave; fase di sviluppo controllata;
età mentale, ecc.) alle strategie utilizzate per la soluzione dei compiti propri della fascia di età, allo stile cognitivo, alla
capacità di usare, in modo integrato, competenze diverse; affettivo-relazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili
rispetto all'area del sé, al rapporto con gli altri, alle motivazioni dei rapporti e dell'atteggiamento rispetto
all'apprendimento scolastico, con i suoi diversi interlocutori; - comunicazionale, esaminato nelle potenzialità esprimibili
in relazione alle modalità di interazione, ai contenuti prevalenti, ai mezzi privilegiati; - linguistico, esaminato nelle
potenzialità esprimibili in relazione alla comprensione del linguaggio orale, alla produzione verbale, all'uso comunicativo
del linguaggio verbale, all'uso del pensiero verbale, all'uso di linguaggi alternativi o integrativi; sensoriale, esaminato,
soprattutto, in riferimento alle potenzialità riferibili alla funzionalità visiva, uditiva e tattile; - motorio-prassico,
esaminato in riferimento alle potenzialità esprimibili in ordine alla motricità globale, alla motricità fine, alle prassie
semplici e complesse e alle capacità di programmazione motorie interiorizzate; - neuropsicologico, esaminato in
riferimento alle potenzialità esprimibili riguardo alle capacità mnesiche, alla capacità intellettiva e all'organizzazione
spazio- temporale; - autonomia, esaminata con riferimento alle potenzialità esprimibili in relazione all'autonomia della
persona e all'autonomia sociale; - apprendimento, esaminato in relazione alle potenzialità esprimibili in relazione all'età
prescolare, scolare (lettura, scrittura, calcolo, lettura di messaggi, lettura di istruzioni pratiche, ecc.).
Nell’elaborazione del Profilo Dinamico Funzionale iniziale seguono, con il concorso degli operatori delle unità sanitarie
locali, della scuola e delle famiglie, verifiche per controllare gli effetti dei diversi interventi e l'influenza esercitata
dall'ambiente scolastico. Il Profilo Dinamico Funzionale è aggiornato a conclusione della scuola materna, della scuola
elementare e della scuola media e durante il corso di istruzione secondaria superiore.

Piano Educativo Individualizzato


È il documento nel quale si descrivono dettagliatamente il progetto operativo interistituzionale tra operatori della
scuola, dei servizi sanitari e sociali, in collaborazione con i familiari ed il progetto educativo e didattico personalizzato
riguardante la dimensione dell'apprendimento correlata agli aspetti riabilitativi e sociali. A redigere il PEI, provvedono
congiuntamente: gli operatori delle ASL, gli insegnanti curriculari, il docente di sostegno, l’operatore psico – pedagogico
in collaborazione con i genitori. Il PEI tiene presenti i progetti didattico- educativi, riabilitativi e di socializzazione
individualizzati, nonché le forme di integrazione tra attività scolastiche ed extrascolastiche. Nella definizione del PEI
ciascuna figura coinvolta propone, in base alla propria esperienza pedagogica, medico- scientifica e di contatto, e sulla
base dei dati derivanti dalla diagnosi funzionale e dal profilo dinamico funzionale, gli interventi finalizzati alla piena
realizzazione del diritto all'educazione, all'istruzione e l’integrazione scolastica dell'alunno in situazione di handicap. In
sintesi, il PEI permette innanzitutto l’identificazione della situazione al momento di ingresso del soggetto nella scuola,
contiene la valutazione approfondita degli aspetti generali, dei livelli di capacità, dei livelli di apprendimento, delle
abilità pratiche e operative ottenute anche attraverso l’uso di strumenti di osservazione come griglie, schede, etc. Il PEI
individua, inoltre, gli obiettivi didattici contenenti ciascuno il materiale didattico, i luoghi e i tempi, la collaborazione tra i
vari docenti; “in corrispondenza” la definizione di interventi terapeutico-riabilitativi da parte degli operatori
sociosanitari; e permette la verifica da parte del gruppo del “programma svolto” anche attraverso una valutazione
complessiva volta all’eventuale riformulazione del “programma per obiettivi”.
Per un intervento integrativo: lavorare sulla classe
La programmazione individualizzata deve necessariamente tenere conto della programmazione della classe per poter
permettere un’adeguata integrazione del disabile, in altro modo si configurerà come elemento di separazione, di
segregazione e di lavoro individuale condotto dall’insegnante di sostegno, dentro e fuori la classe. Affinché si instauri un
circolo virtuoso tra programmazione individualizzata e programmazione di classe è necessario che i docenti di sostegno
e i docenti curricolari lavorino insieme in maniera da poter selezionare obiettivi, contenuti e attività che possono essere
scanditi secondo diversi livelli di difficoltà. Per raggiungere tale scopo sono individuabili alcune semplici strategie in
grado di realizzare una buona integrazione salvaguardando sia i diritti dei disabili che i diritti dei suoi compagni di classe.
A tal fine infatti è necessario costruire un clima classe inclusivo, che funga da ambiente adattivo per il superamento della
disabilità e che permetta da un lato l’adeguamento degli obiettivi del disabile agli obiettivi della classe e dall’altro di
adeguare gli obiettivi della classe a quelli del disabile.

Creare un clima inclusivo


La realizzazione dell’integrazione degli alunni disabili all’interno del contesto classe passa e si sviluppa attraverso la
definizione di un clima di accoglienza nella classe, che sia da preludio per l’adeguamento di obiettivi e di materiali ai
bisogni del disabile. Tale operazione infatti sarebbe vana qualora non si fosse creato un clima di accettazione reciproca
nel rispetto delle differenze individuali. Il concetto di inclusione, ovvero, l’appartenenza ad un gruppo pur conservando
la propria peculiarità e sperimentando l’interdipendenza da esso, si fonda sul riconoscimento di altri due concetti: quello
di normalità e quello di specialità. La normalità risponde al bisogno di sentirsi considerati e trattati alla stessa stregua
degli altri. La specialità risponde al bisogno di sentirsi diversi dagli altri, tale riconoscimento potrebbe passare ad
esempio attraverso l’offerta fatta ad un alunno di poter scegliere tra diverse attività che sono svolte all’interno di un
laboratorio, in tal modo la possibilità di scegliere offerta a tutti (normalità) e la specializzazione dell’attività (specialità) si
coniugano. Pragmaticamente, in un loro studio sull’inclusività delle classi, Andrich e Miato, focalizzano alcune
coordinate che fungono da mediatori e moderatori dell’integrazione dell’alunno disabile:
1) l’alunno disabile deve rimanere in classe per il maggior tempo possibile;
2) l’alunno disabile deve fare il più possibile le stesse cose che fanno i suoi compagni;
3) l’alunno disabile deve il più possibile essere posto nelle stesse condizioni formative degli altri studenti;
4) i migliori insegnanti di sostegno sono i suoi compagni;
5) gli spazi di un’aula inclusiva devono essere ampi.
Queste indicazioni sostengono d’altra parte la tesi per cui la cura per la qualità relazionale e l’allestimento di un setting
educativo adeguato diventano assolute priorità per lo sviluppo di buone prassi di integrazione per studenti disabili, che
sentendosi accolti ed incoraggiati hanno una percezione di valorizzazione della loro diversità, e tale sensazione funge da
volano per l’integrazione nel gruppo classe, condizione necessaria per sviluppare al meglio anche la propria dimensione
cognitiva.

Adeguare gli obiettivi del disabile agli obiettivi della classe


Sul piano strettamente didattico l’integrazione dell’alunno disabile nella classe può avvenire attraverso la strutturazione
e la messa in opera di un percorso didattico specifico ed adeguato che avrà il vantaggio secondario di favorire ed
accelerare il processo di integrazione. Inoltre, l’adozione di strategie didattiche specifiche, come ad esempio il modello
didattico per problemi, o il modello didattico per concetti, o ancora il modello della didattica breve o per obiettivi, si
sono dimostrati vettori particolarmente efficaci per l’integrazione. Nello specifico il modello per obiettivi, sicuramente
per le sue implicazioni positive rispetto ai processi di individualizzazione (la scansione degli obiettivi, degli argomenti, il
rispetto dei tempi e delle caratteristiche del soggetto, la preoccupazione circa la verificabilità dei risultati) ha dimostrato
una maggiore efficacia come strategie didattica integratoria del deficit, procedendo dal meno grave al più grave.
L’adeguamento degli obiettivi del disabile in relazione agli obiettivi della classe è definito dal docente sulla base del
modello didattico adottato, e, in linea con questa prospettiva Ianes (2005) individua cinque livelli di adeguamento degli
obiettivi in relazione alla gravità:
- La sostituzione. L’obiettivo non si semplifica, ma viene curata solo l’accessibilità dei codici linguistici (lingua dei segni,
materiale in Braille, registrazioni audio dei testi).
- La facilitazione. Per garantire il raggiungimento dell’obiettivo è sufficiente utilizzare tecnologie più motivanti (ad
esempio software didattici) e contesti didattici fortemente interattivi e operativi (tutoring, gruppi di apprendimento
cooperativo, laboratori, simulazioni etc.).
- La semplificazione. Si modifica il lessico, si riduce la complessità concettuale, si eseguono le operazioni di calcolo
utilizzando la calcolatrice, si modificano i criteri di corretta esecuzione di un compito (consentendo più errori e
imprecisioni).
- Scomposizione nei nuclei fondanti. Nell’epistemologia di un sapere disciplinare si identificano delle attività fondanti e
accessibili al livello di difficoltà di cui abbiamo bisogno.
- La partecipazione alla cultura del compito. Si cerca di trovare occasioni perché l’alunno sperimenti, anche se soltanto
da spettatore, la “cultura del compito” (il clima emotivo, la tensione cognitiva, i prodotti elaborati, etc.). Nella vita di
ogni giorno noi partecipiamo ad una infinità di situazioni, pur non avendo in esse particolari competenze. Ci sono settori
dei quali non sappiamo molto, ma non per questo ci esoneriamo dal partecipare all’atmosfera culturale ricavandone
sollecitazioni importanti sul piano personale. In una classe che attua l’integrazione si verificano dinamiche analoghe. In
base alla gravità del deficit, i docenti possono scegliere il livello di semplificazione degli obiettivi che reputano più
idoneo per l’alunno disabile.
D’altra parte, essendo il processo di integrazione fondamentalmente un processo dialogico che implica la
compartecipazione dell’alunno disabile e del contesto classe, gli sforzi di adeguamento dell’alunno alle attività della
classe devono essere compensati da uno sforzo di integrazione da parte della classe, solo in tal modo infatti potremmo
parlare di una vera integrazione. La realizzazione del processo di integrazione infatti si realizza richiedendo, sia al gruppo
accogliente sia all’allievo inserito, una serie di cambiamenti capaci di consentire loro occasioni di collaborazione e aiuto
reciproco. Ciò implica per la classe un generale adeguamento degli obiettivi perseguiti alle esigenze del disabile, con la
consapevolezza che questo adeguamento possa giovare ad entrambi. Questo concetto non si traduce in una
programmazione “al ribasso” in cui viene richiesto agli studenti di una classe di tornare a ripetere programmi già
affrontati, ma di cercare tutte le occasioni possibili per avvicinarsi al lavoro del disabile. Se, per esempio, un bambino sta
lavorando sulla discriminazione dei colori, si possono programmare delle lezioni sullo spettro solare e i colori dell’iride;
se sta imparando la successione dei numeri servendosi della retta numerica, la classe può lavorare sugli assi cartesiani
che, in fondo, non sono altro che due rette numeriche perpendicolari. Tuttavia, è auspicabile la messa in atto di un
approccio didattico sistematico volto ad avvicinare le esigenze della classe alle esigenze del disabile, a tal fine alcune
semplici operazioni sembrano supportare tale prospettiva didattica. Ad esempio, il ripasso frequente degli argomenti
rappresenta un primo tentativo di andare incontro alle esigenze del compagno più debole e non è detto che rappresenti
una perdita di tempo per la classe.
Un altro esempio può essere un approccio operativo verso tutte le discipline, e non solo a quelle tecniche o artistiche,
che sembra essere in grado di sostenere l’apprendimento del disabile facendo leva sul suo bisogno di pragmatismo e di
concretezza, ed allo stesso tempo si configura come occasione preziosa per tutti quegli alunni che vivendo l’esperienza
scolastica come un male necessario, possono trarre dalle attività pratiche (costruire cartelloni, fare esperimenti,
utilizzare il mezzo informatico ai fini didattici, etc.) e nuova motivazione. Un altro esempio può essere la concentrazione
dell’attività didattica a supporto dello sviluppo di abilità di studio intesa nei termini di individuazione dei concetti chiave
di un brano di lettura, nel sottolineare le parti più importanti e nello schematizzare in maniera gerarchica i concetti, tale
attività infatti si configura come occasione per abbandonare una concezione esclusivamente nozionistica dello studio e
intraprendere un percorso attento ai processi di studio e non solo ai contenuti.

Per un intervento integrativo: lavorare sulla didattica


Come evidenziato nelle lezioni precedenti la realizzazione dell’integrazione si realizza non solo sul piano della relazione
tra individuo disabile e classe ma anche, e soprattutto attraverso la relazione didattica che assume il ruolo di mediatore
del processo integrativo. Infatti, la programmazione educativa individualizzata deve prevedere, a livello massimo
possibile, tutte le materie della programmazione di classe, differenziandole solo nel livello di complessità. Tale
differenziazione si realizza attraverso pratiche di rielaborazione ed adattamento delle unità di contenuto e ciò è
auspicabile per almeno due valide ragioni che rendono l’adattamento dei materiali di studio una buona pratica per
l’integrazione: da un lato permette all’alunno disabile di sperimentare il piacere del successo incrementando la
motivazione e predisponendo a nuove esperienze di apprendimento con i compagni; dall’altro evita la frustrazione
generata dalla consapevolezza di aver bisogno di libri di testo di un ordine di scuola inferiore. Tale operazione di
semplificazione ed organizzazione dei materiali della classe si realizza attraverso l’uso di materiali didattici strutturati e
non strutturati. Il materiale strutturato è rappresentato da testi specializzati, schede, giochi didattici, etc. che hanno il
vantaggio di essere costruiti nel rispetto dei principi psico-pedagogici, sebbene in genere siano molto frammentari e
portino alla perdita del significato globale della esperienza di apprendimento. I materiali non strutturati sono, invece,
quei materiali che i docenti e a volte gli allievi più capaci, costruiscono per mettere l’alunno disabile nelle condizioni di
poter seguire gli stessi lavori della classe. Due esempi classici di materiali non strutturati sono i cartelloni e gli
adattamenti dei libri di testo. Il cartellone ha il vantaggio di organizzare idee principali di un’unità di apprendimento, e la
sua elaborazione in tramite parole-chiave permette un uso collettivo volto ad agevolare la comprensione dei concetti e a
potenziare le capacità di organizzazione degli stessi. D’altra parte, l’adattamento dei libri di testo, in linea con quanto
espresso da Scataglini e Giustini (2004) richiede preliminarmente le seguenti operazioni: l’analisi della modalità
percettive del disabile, dello stile cognitivo, del grado di motivazione e degli interessi e l’analisi del testo da semplificare
o organizzare.
Sulla base di queste due analisi la semplificazione dei testi si snoda in diversi livelli di semplificazione: un primo livello
consiste nell’ estrapolare dal testo i concetti chiave, ingrandirli graficamente e aggiungere a questi un supporto iconico
che sia particolarmente motivante. L’alunno così potrà lavorare sullo stesso libro dei compagni. Questo tipo di
semplificazione si rivolge a quegli alunni che, pur essendo in grado di seguire gli stessi ritmi della classe, hanno difficoltà
percettive nell’approccio dei testi.
Un livello più avanzato di semplificazione consiste nella ristrutturazione del testo eliminando le parti non essenziali e
riportando solo le idee più importanti espresse con parole semplici e aspetti grafici in grado di risaltare le parole chiave.
Da ultimo si rende necessario ridurre al massimo la parte linguistica per lasciare spazio ad una sequenza di immagini in
grado di stimolare l’interesse dell’alunno e facilitargli la comprensione e la memorizzazione delle nozioni presentate.
Accanto alle forme di semplificazione dei testi è necessario ricordare che l’apprendimento migliora se a monte della
lettura dei testi vengono applicate e strutturate in grado di organizzare le informazioni: in questo senso si rimanda
all’utilità di utilizzare organizzatori anticipati, ovvero mezzi di rappresentazione visiva della conoscenza ossia un modo di
strutturare l’informazione o di organizzare gli aspetti più importanti di un argomento in uno schema che utilizza le
definizioni, in grado di selezionare le idee principali, individuare i nessi causa-effetto, stabilire analogie e differenze, a
supporto della complessa operazione di organizzazione delle informazioni.

I principali tipi di organizzatori anticipati


I principali tipi di organizzatori anticipati sono: - Diagrammi causa-effetto. Sono usati per evidenziare i nessi causali nelle
azioni di un personaggio di una storia, nelle manifestazioni di un fenomeno, negli eventi che hanno segnato la Storia. -
Grafici di sequenze. Servono ad evidenziare gli elementi chiave secondo una linea temporale, oppure nelle Scienze o in
Fisica per visualizzare le procedure di un esperimento scientifico. - Diagrammi di confronto. Sono un eccellente
strumento per evidenziare visivamente le somiglianze e le differenze tra le idee principali, per costruire la scaletta di
testi comparativi e, in matematica, per trovare il massimo comun divisore ed il minimo comune multiplo fra più numeri.
- Grafici dell’idea principale e dei dettagli . Sono utilizzati per individuare l’idea principale ed elencare una serie di dati
minori che servono ad illustrarla. Da una prospettiva didattica il processo di integrazione e di ottimizzazione
dell’apprendimento per gli alunni disabili può avvenire non solo attraverso la rielaborazione delle unità didattiche da
parte degli insegnanti, ma anche attraverso l’uso di modalità diverse di presentazione dei contenuti. Queste diverse
modalità vengono denominate in letteratura “mediatori didattici”, ovvero azioni messe in atto dagli insegnanti per
favorire l’apprendimento degli alunni. Damiano (1993) identifica quattro tipi di mediatori:
- I mediatori attivi che fanno ricorso alla esperienza diretta. Un esempio di mediatore attivo è rappresentato
dall’esperimento che si realizza in laboratorio. Il limite principale di questo mediatore è costituito dal fatto che esso
richiede tempi lunghi di esecuzione, ma se si considerano i vantaggi che derivano dal contatto fisico con il reale, dalla
densità emotiva che si viene a produrre, quello della lungaggine dei tempi diventa un limite del tutto irrisorio.
- I mediatori iconici che si basano sulla rappresentazione del linguaggio grafico e spaziale (immagini, schematizzazione di
concetti, fotografie, filmati, carte geografiche etc.). L’apprendimento mediante immagini si fonda sulle abilità percettive
del soggetto. Nonostante siano presenti numerose qualità in termini di sollecitazione di interessi e di motivazione, il
mediatore iconico non può essere considerato del tutto autosufficiente, ma richiede l’intervento del mediatore
simbolico. Il linguaggio grafico spesso non riesce a riprodurre adeguatamente l’estensione di un concetto e sul piano
mnestico, poi, è ingombrante e poco persistente.
- I mediatori analogici cercano di rifarsi alle possibilità di apprendimento insite nel gioco e nella simulazione. Si tratta di
attività ludiche di gruppo in cui i partecipanti ricreano particolari situazioni e interpretano personaggi. Il tasso di
realismo conseguito con i giochi di ruolo è sicuramente maggiore di altre forme tradizionali di insegnamento ma bisogna
stare attenti ad evitare il rischio di scambiare la simulazione con la realtà, creando l’illusione di aver fatto veramente
esperienze dirette.
- I mediatori simbolici sono quelli che si allontanano di più dalla realtà di riferimento e sono considerati i meno validi
soprattutto dai sostenitori del principio dell’apprendimento diretto. La lezione frontale costituisce un esempio di
mediatore simbolico. In termini di risultati di apprendimento è uno degli approcci meno efficaci soprattutto per la
passività che induce presso chi ascolta. In termini di tempo è, invece, il più economico dei mediatori e questo
rappresenta uno dei principali motivi per cui è preferito dalla gran parte dei docenti

L’insegnamento mediato
Accanto alle tecniche mediazionali realizzate dagli insegnanti nell’ultimo trentennio sono state realizzate molte ricerche,
italiane e straniere, che dimostrano l’utilità dell’insegnamento mediato da pari con studenti con capacità e interessi
diversi. Si tratta di una serie di modalità alternative di insegnamento nelle quali gli studenti rivestono il ruolo di
facilitatori dell’apprendimento dei compagni. L’insegnamento mediato da pari costituisce un ottimo modo per
coinvolgere attivamente gli studenti nel loro apprendimento, cosa che spesso, con le modalità tradizionali e soprattutto
nel caso di studenti disabili, non accade.
I tipi di insegnamento mediati da pari più noti e utilizzati con maggiore frequenza sono i seguenti: Il cooperative learning
che è centrato su gruppi di lavoro eterogenei, sulla effettiva interdipendenza dei ruoli e sull’uguaglianza di opportunità
di successo per tutti; il tutoring che consiste nell’affidare ad un alunno specifiche responsabilità di tipo educativo e
didattico; il peer teaching che consiste nell’affidare la realizzazione di compiti a studenti che sono alla pari come
capacità cognitive. Per facilitare un processo di reale integrazione del soggetto con disabilità, i metodi collaborativi
rappresentano una potenzialità di grande rilievo, ma la loro attivazione richiede un lungo lavoro di preparazione da
parte degli insegnanti. È necessario che essi creino le condizioni migliori perché il gruppo che lavora con il compagno
disabile possa dare risultati soddisfacenti. A fronte del generale consenso sull’efficacia dell’insegnamento mediato da
pari, vi è una scarsa concordanza di opinioni rispetto alle basi teoriche (Slavin, 2007): l’approccio motivazionale sostiene
che l’insegnamento mediato da pari fornisce agli alunni la motivazione ad aiutarsi reciprocamente aumentando così il
loro rendimento. I teorici della coesione sociale ritengono che nei gruppi cooperativi gli studenti sono sollecitati
nell’aiutarsi perché hanno più cura l’uno dell’altro (ossia più coesione sociale) e vogliono che gli altri abbiano risultati
positivi. Gli approcci cognitivisti suggeriscono che le interazioni verbali e non verbali tra gli alunni migliorano le loro
abilità di elaborazione mentale e di conseguenza le loro prestazioni. Insegnando ai compagni contenuti e strategie, gli
studenti sviluppano una comprensione più approfondita dei contenuti stessi (imparare insegnando).
Le prospettive evolutive affermano che le attività collaborative promuovono lo sviluppo perché gli alunni lavorano nella
loro zona di sviluppo prossimale e imitano comportamenti di collaborazione leggermente più sofisticati dei loro. Per
quanto tutte e quattro le prospettive possano essere valide: Mahed, Yharper e Mallette (2001), propongono una
prospettiva sinottica che utilizza tutte e quattro le ipotesi per esaminare gli effetti sul piano cognitivo e relazionale dei
vari metodi di insegnamento mediato da pari. In tale prospettiva i metodi collaborativi rappresentano una potenzialità
di grande rilievo, ma la loro attivazione richiede un lungo lavoro di preparazione da parte degli insegnanti. È necessario
che essi creino le condizioni migliori perché il gruppo che lavora con il compagno disabile possa dare risultati
soddisfacenti. La condizione più importante è che la classe conosca il deficit del compagno più sfortunato.

NOTE PER UNA DIDATTICA INTEGRATIVA


La presenza di alunni in situazione di handicap nelle classi, piuttosto che essere un ostacolo alla realizzazione delle
normali attività didattiche, costituisce, in definitiva, una preziosa occasione perché la scuola cambi e si ripensi come
strumento di successo formativo per tutti. Il cambiamento, gestito con competenza, può produrre notevoli vantaggi per
gli alunni disabili, per tutti gli alunni della classe e per l’intera comunità scolastica. Occorre precisare, comunque, che
l’integrazione dei disabili è compito specifico della scuola, ma non esclusivo. È un compito che investe numerose altre
agenzie: famigliari, sanitarie, lavorative, sociali e ricreative. La scuola, in quanto agenzia formativa per eccellenza, può
dare, però, un contributo decisivo perché si realizzino alcune condizioni fondamentali per l’integrazione, come la
costruzione di un itinerario didattico integrato con quello della classe e condotto in maniera da rappresentare un
vantaggio per tutti; l’attivazione di un’opera di sensibilizzazione e di coinvolgimento di tutte le agenzie che a vario titolo
si interessano dell’alunno disabile; la creazione di un nuovo concetto di diversità che superi la distinzione tra abili e
disabili, tra uguali e diversi.
La possibilità di perseguire un’azione integrativa ed inclusiva in una classe o in una scuola passa necessariamente dalla
valorizzazione delle originalità e diversità attraverso la costruzione di un ambiente classe, di un ambiente gruppo di pari,
e di un ambiente - scuola positivo, affettivamente sicuro, che crea appartenenza, che è basato sull’istituzione negoziata
e condivisa delle regole della vita quotidiana, che “nutre” l’identità e l’autostima, che mette a punto le condizioni
affinché differenti intelligenze, sensibilità e bisogni, sistemi di segni, climi relazionali e appartenenze culturali
s’incontrino. D’altra parte, l’adozione di misure integrative eleva il livello potenziale del gruppo classe soprattutto se il
lavoro individuale viene affiancato da approcci di tipo collaborativo tra alunni.
L’apprendimento dalla differenza implica l’attivazione di importanti processi metacognitivi realizzati attraverso un
duplice processo di elaborazione cognitiva e affettiva basato su confronto e riflessione, solo l’attivazione di tali processi
infatti permette di riconoscere e di elaborare l’ambivalente, complesso, sentimento di attrazione/repulsione per tutto
ciò che viene vissuto come differente e dissimile da sé. I processi di integrazione implicano per tutto il gruppo classe un
confronto con la differenza che richiede sia il riconoscimento della diversità altrui, ovvero la differenza dell’altro, sia il
riconoscimento della propria diversità, ovvero la propria differenza dall’altro. Questo complesso sistema relazionale che
si viene a creare sottende un meta-apprendimento importante in cui il riconoscimento delle reciproche diversità funge
da volano per l’attivazione di un processo di decentramento in cui è possibile guardarsi con gli occhi dell’altro.
Tale decentramento è ancora più evidente nel confronto con le differenze culturali poiché chiama in causa significati
spesso remoti e profondi, che si sono storicamente sedimentati, e che richiedono uno sforzo di avvicinamento e
comprensione lento e graduale: la scoperta e l’incontro con culture differenti si accompagna ad una maggiore
acquisizione di “forza” e di fiducia nelle proprie personali capacità di avvicinarsi e scoprire il nuovo. D’altra parte,
accanto a questa funzione assolta dall’interazione del contesto classe deve essere preso in considerazione il ruolo di
strategie individualizzate, che possono prevedere compiti, materiali, ruoli, percorsi diversificati, facilitati o arricchiti e
accelerati nello sviluppo delle competenze individuali, le specifiche attitudini e talenti personali. Le ricerche più recenti
d’approccio interattivo-costruttivista e contestualista evidenziano come i gruppi fra coetanei, impegnati in attività di
laboratorio offrano preziose occasioni di confronto di idee e concezioni, di processi di pensiero (metodo induttivo,
deduttivo, messa a punto schemi di sintesi, di strategie argomentative e di intervento), di co-costruzione e scoperta, di
socializzazione di differenti modi per reagire a situazioni o per esprimere/controllare affetti e sentimenti.
Il gruppo classe e l’ambiente scolastico, quindi, in virtù della loro natura di contesti di interazioni e relazioni
(simmetriche e asimmetriche), di gioco e di lavoro, di proiezioni e di identificazioni, hanno il privilegio di poter essere
una vera e propria fabbrica di competenze e di umanità: attraverso l’esempio e l’esperienza di essere ascoltati e di
ascoltare le figure adulte di riferimento ed i compagni, di confrontarsi con il modo di vedere e di percepire degli altri la
relazione interpersonale e interculturale può divenire una ineliminabile fonte di apprendimento per sé. Il massimo
potenziale di apprendimento di un gruppo - classe/sezione, di una scuola sta nel fatto di essere un contesto sociale
“quasi naturale” in cui si possono costruire reti sociali tra pari e si può attivare e coltivare quel delicato, prezioso
processo di elaborazione cognitivo/affettiva e di attribuzione di valore e di significato che rende la diversità una risorsa
Alla luce di quanto affermato finora, la presenza in classe dell’alunno disabile può diventare una opportunità positiva
per tutti. Purtroppo, però, i docenti curricolari, nel programmare le attività per la classe, generalmente non prestano la
dovuta attenzione alle esigenze del disabile e questo avviene soprattutto per alcuni motivi: il rallentamento dei lavori
della classe (i programmi sono ampi e non si può modificare il percorso o tornare indietro per aspettare il compagno più
lento); la convinzione che i diritti della maggioranza a svolgere il proprio programma siano maggiori dei diritti del
disabile che è solo; la consapevolezza da parte della classe di non avere nulla da guadagnare nel tornare indietro nel
programma, nell’utilizzare modalità operative per la comprensione di concetti astratti e nell’aiutare un compagno in
difficoltà. Logiche di questo tipo difficilmente portano ad una reale integrazione, infatti le ricerche portate avanti in
ambito di didattica integrativa hanno messo in luce come metodologie didattiche volte a favorire l’integrazione e che
seguono le linee direzionali descritte permettono agli studenti – disabili e non – di ottenere migliori risultati, rispetto
all’insegnamento tradizionale: dal punto di vista cognitivo infatti gli alunni memorizzano meglio, sviluppano una
maggiore motivazione e livelli superiori di ragionamento; sul piano relazionale si creano rapporti di amicizia e la diversità
viene rispettata e da punto di vista psicologico migliorano l’immagine di sé e il senso di autoefficacia e di affrontare le
difficoltà e lo stress (Johnson, Johnson, 2007).
La condizione più importante è che la classe conosca il deficit del compagno più sfortunato, infatti se il deficit diventa
oggetto di discussione le incertezze diminuiscono e la diversità assume sempre più la valenza di condizione che non
inficia la dignità della persona. Secondo Ianes (2001), le informazioni sulla disabilità possono essere integrate nel
curricolo in diversi modi: invitando in classe i genitori dei disabili, i medici e i terapisti; presentando e discutendo filmati
sulla disabilità; svolgendo ricerche su personaggi celebri con disabilità; informandosi sulle tecnologie che riducono
l’handicap. Se viene realizzato questo processo di sensibilizzazione della classe, sarà più facile che la presenza del
disabile non costituisca un ostacolo ai lavori del gruppo bensì una preziosa occasione per i compagni per sperimentare la
solidarietà. Imparare ad aiutare gli altri è una componente molto rilevante nella formazione di una persona e può avere
molti vantaggi.
Per rendere ancora più tangibile quanto descritto fin ora di seguito riportiamo qualche esempio di intervento integrativo
riferito ai diversi ordini di scuola. Attraverso tali esempi infatti si intende rendere più chiaro come declinare la pratica
della didattica individualizzata. Per la scuola elementare, prendiamo il caso di un bambino inserito in una prima classe
impegnata nell’apprendimento della lettura e della scrittura con il metodo fonetico. Il bambino non è ancora pronto per
questo obiettivo perché non ha ancora acquisito la capacità di discriminare. Se si considerano solo i bisogni cognitivi
dell’allievo si è tentati di lavorare sulla discriminazione di colori o forme geometriche, ignorando quello che fa il resto
della classe; se invece ci sta a cuore che il bambino partecipi ai lavori dei compagni, potremmo sollecitarlo ad acquisire
l’abilità di discriminare utilizzando grandi lettere dell’alfabeto in stampatello maiuscolo. Nell’ambito linguistico, obiettivi
come saper ascoltare e saper comunicare, sono quasi sempre alla portata degli allievi disabili.
Altri obiettivi come saper leggere, saper comprendere, saper produrre testi scritti si prestano ad essere utilizzati come
punto di partenza di una programmazione individualizzata che tenga conto di quello che fanno i compagni. Nella scuola
media la situazione si fa più complessa perché la distanza fra gli obiettivi della classe e le effettive potenzialità del
disabile tende ad aumentare. Tuttavia, si possono ancora individuare obiettivi comuni: in una prima media vengono
programmate attività per insegnare ai ragazzi a comunicare verbalmente in modo adeguato. È una buona occasione per
lavorare anche con l’allievo disabile individuando obiettivi specifici al suo livello: dire il proprio nome in risposta ad una
domanda, chiedere in prestito una matita oppure esprimere il proprio punto di vista, accettare il punto di vista
dell’altro. Nell’ambito storico, un obiettivo adatto anche ai disabili che non sanno leggere può essere ordinare
cronologicamente fatti ed eventi. Questo obiettivo permette di sistemare su di una tabella fatti ed eventi secondo un
ordine cronologico e insegnare il concetto di prima e dopo anche ad un allievo con difficoltà di apprendimento. In
ambito geografico, troviamo l’obiettivo di leggere mappe e carte. Anche questo obiettivo può essere raggiunto a diversi
livelli di complessità: alcuni leggeranno le carte per programmare un viaggio, altri impareranno a guardare le carte per
conoscere il tragitto da casa a scuola. Per la scuola media superiore il discorso è analogo. Certamente le difficoltà
aumentano e diventa più difficile realizzare una didattica integrata, ma non impossibile. Le occasioni in cui si possono
realizzare lavori più concreti e vicini alla realtà dell’alunno con problemi diventano più sporadiche, ma l’importanza di
fargli sperimentare un lavoro simile a quello dei compagni di classe, giustifica anche il lavoro su contenuti poco
funzionali. Lo scopo principale di tutto questo lavoro sull’adattamento degli obiettivi è quello di cercare di evitare
incresciose situazioni di emarginazione.

I BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI


La legge n. 517 del 1977 ha dato avvio al processo di integrazione scolastica per i disabili, definendo i principi di base per
la messa in atto di un processo di integrazione nel mondo scolastico, e si è configurata come punto di riferimento
imprescindibile per lo sviluppo di adeguate politiche di inclusione a livello Europeo e non solo. Secondo la prospettiva
delineata dal nostro sistema legislativo per l’inclusione scolastica, infatti il sistema scolastico si viene a configurare non
solo quale un luogo di conoscenza e di istruzione, ma quale luogo di sviluppo e socializzazione per tutti, sottolineandone
gli aspetti inclusivi piuttosto che quelli selettivi. Forte di questa esperienza, il nostro Paese è ora in grado, passati più di
trent’anni dalla legge n. 517 del 1977 che diede avvio all’integrazione scolastica, di considerare le criticità emerse e di
valutare, con maggiore cognizione, la necessità di ripensare alcuni aspetti dell’intero sistema.
Oggi giorno, l’esperienza scolastica mette in risalto come gli alunni con disabilità si trovano inseriti all’interno di un
contesto sempre più variegato, dove la discriminante tradizionale - alunni con disabilità/alunni senza disabilità - non
rispecchia pienamente la complessa realtà delle nostre classi. In questa direzione, infatti, si fa sempre più forte la
necessità di assumere un approccio educativo, per il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avvenga solo,
o esclusivamente, base della procedura certificativa; se da un lato, infatti la procedura certificativa mantiene utilità per
una serie di benefici e di garanzie per gli alunni disabili, d’altra parte corre il rischio di relegare gli alunni stessi in una
cornice pregiudiziale e didattica ristretta e definita aprioristicamente. A questo riguardo, sia sul piano diagnostico che
sul piano del modello culturale che veicola la dimensione diagnostica, appare rilevante l’apporto del modello
diagnostico ICF (International Classification of Functioning) proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che
considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psicosociale. Il modello ICF, infatti, piuttosto che
focalizzare la dimensione di deficit dell’individuo, presta attenzione al profilo di funzionamento e all’analisi dei contesti
in cui l’individuo è inscritto, in questo modo il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES)
dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. L’ICF si configura pertanto come modello concettuale finalizzato allo
sviluppo di una Diagnosi Funzionale Educativa.
La rivoluzione culturale dell’ICF sta principalmente nel trasmettere un’idea di “trasversalità” della disabilità, per cui ogni
alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali; o per motivi fisici, biologici,
fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e
personalizzata risposta. La prospettiva dell’ICF potenzia quindi l’aspetto inclusivo piuttosto che esclusivo anche
mediante un approfondimento delle relative competenze degli insegnanti curricolari, finalizzata ad una più stretta
interazione tra tutte le componenti della comunità educante. L’ICF assume la prospettiva per cui la situazione di una
persona va letta e compresa in modo olistico e complesso, da diverse prospettive, e in modo interconnesso e
reciprocamente causale, pertanto tale modello è utile per una lettura dei Bisogni Educativi Speciali in un’ottica di salute
globale, in grado di offrire una comprensione qualitativa delle difficoltà di un alunno e una definizione delle risorse. La
situazione di salute di una persona è la risultante globale delle reciproche influenze tra diversi fattori; da un lato la
dotazione biologica e dall’altro l’ambiente di crescita dove accanto a fattori esterni (relazioni, culture, ambienti, ecc.) e
fattori contestuali personali e le dimensioni psicologiche fanno da sfondo interno alle azioni (autostima, identità,
motivazioni, ecc.).
È quindi nella grande dialettica tra le dimensioni biologico contestuali, intese come luogo entro cui l’individuo si sviluppa
ed agisce nelle sue dimensioni biologico- culturali, in base alle proprie reali capacità performative che va letto e colto
l’alunno; se questi aspetti si sviluppano attraverso un approccio sinergico lo sviluppo si configurerà in modo adattivo,
altrimenti lo sviluppo necessiterà di Bisogni Educativi Sociali. L’alunno che viene conosciuto e compreso, nella
complessità dei suoi bisogni, attraverso il modello ICF, necessita di un’analisi approfondita in grado di focalizzarsi su vari
e specifici ambiti:
- Condizioni fisiche: malattie varie, acute o croniche, fragilità, situazioni cromosomiche particolari, lesioni, ecc.;
- Strutture corporee: mancanza di un arto, di una parte della corteccia cerebrale, ecc.; - Funzioni corporee: deficit visivi,
deficit motori, deficit attentivi, di memoria, ecc.;
- Attività personali: scarse capacità di apprendimento, di applicazione delle conoscenze, di pianificazione delle azioni, di
comunicazione e di linguaggio, di autoregolazione metacognitiva, di interazione sociale, di autonomia personale e
sociale, di cura del proprio luogo di vita, ecc.;
- Partecipazione sociale: difficoltà a rivestire in modo integrato i ruoli sociali di alunno, a partecipare alle situazioni
sociali più tipiche, nei vari ambienti e contesti;
- Fattori contestuali ambientali: famiglia problematica, cultura diversa, situazione sociale difficile, culture e
atteggiamenti ostili, scarsità di servizi e risorse, ecc.;
- Fattori contestuali personali: scarsa autostima, reazioni emozionali eccessive, scarsa motivazione, ecc.
Il Bisogno Educativo Speciale si manifesta in uno, o più, degli ambiti su descritti, e la situazione generale dell’alunno, va
letta alla luce della peculiare interazione che avrà ciascuno di questi ambiti specifici con tutti gli altri; ovviamente, il peso
dei singoli ambiti varierà da alunno ad alunno, anche all’interno di una stessa condizione biologica originaria o
contestuale ambientale. Il modello ICF si configura quindi come un valido supporto per conoscere in modo più
approfondito e le diverse situazioni di difficoltà degli alunni, sottolineando di volta in volta il ruolo delle componenti
biologiche, corporee, contestuali, ambientali, e così via.
Gli alunni con Bisogni Educativi Speciali vivono una situazione particolare, che li ostacola nell’apprendimento e nello
sviluppo: questa situazione negativa può essere a livello organico, biologico, oppure familiare, sociale, ambientale,
contestuale o in combinazioni di queste. Un alunno con Bisogni Educativi Speciali può avere una lesione cerebrale grave,
o la sindrome di Down, o una lieve disfunzionalità cerebrale e percettiva, o gravi conflitti familiari, o background sociale
e culturale diverso o deprivato, reazioni emotive e/o comportamentali disturbate, ecc. Queste (e altre) situazioni
causano direttamente o indirettamente - grazie all’opera mediatrice di altri fattori (personali e/o contestuali: si veda poi
la concettualizzazione del funzionamento umano dell’ICF) - difficoltà, ostacoli o rallentamenti nei processi di
apprendimento che dovrebbero svolgersi nei vari contesti. Queste difficoltà possono essere globali e pervasive (si pensi
all’autismo) oppure più specifiche (ad esempio nella dislessia), settoriali (disturbi del linguaggio, disturbi psicologici
d’ansia, ad esempio); gravi o leggere, permanenti o (speriamo) transitorie. In questi casi i normali bisogni educativi che
tutti gli alunni hanno (bisogno di sviluppare competenze, bisogno di appartenenza, di identità, di valorizzazione, di
accettazione, solo per citarne alcuni) si «arricchiscono» di qualcosa di particolare, di «speciale» nel loro funzionamento.
Il loro bisogno normale di sviluppare competenze di autonomia, ad esempio, è complicato dal fatto che possono esserci
deficit motori, cognitivi, oppure difficoltà familiari nel vivere positivamente l’autonomia e la crescita, e così via
Riconoscere i Bisogni Educativi Speciali significa rendere conto delle varie difficoltà, grandi e piccole, per sapervi
rispondere in modo adeguato. L’idea del Bisogno Educativo Speciale rifugge quindi una cultura medico nosografia
aprendo all’idea di disabilità transitoria: si potrebbe dire che ogni bambino può incontrare nella sua vita una situazione
che gli crea Bisogni Educativi Speciali; dunque è una condizione che ci riguarda tutti e a cui siamo tenuti,
deontologicamente e politicamente, a rispondere in modo adeguato e individualizzato. Gli alunni con Bisogni Educativi
Speciali hanno infatti necessità di interventi tagliati accuratamente su misura della loro situazione di difficoltà e dei
fattori che la originano e/o mantengono. Questi interventi possono essere ovviamente i più vari nelle modalità (molto
tecnici o molto informali), nelle professionalità coinvolte, nella durata, nel grado di «mimetizzazione» all’interno delle
normali attività scolastiche: una normalità educativa-didattica resa più ricca, più efficace attraverso le misure prese per
rispondere ai Bisogni Educativi Speciali. In alcuni casi questa individualizzazione prenderà la forma di un formale Piano
educativo individualizzato-Progetto di vita, in altri sarà, ad esempio, una «semplice» e informale serie di delicatezze e
attenzioni psicologiche rispetto a una situazione familiare difficile, in altri ancora potrà essere uno specifico intervento
psicoeducativo nel caso di comportamenti problema, e così via. I Bisogni Educativi Speciali sono dunque molti e diversi;
una scuola davvero inclusiva dovrebbe essere in grado di leggerli tutti (individuando così il reale «fabbisogno» di risorse
aggiuntive) e su questa base generare la dotazione di risorse adeguata a dare le risposte necessarie.

STRATEGIE DI INTERVENTO PER ALUNNI CON BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI


Riconoscere i Bisogni educativi Speciali (BES) di alcuni alunni implica la necessità di elaborare un percorso
individualizzato e personalizzato, individuato sulla base della redazione di un Piano Didattico Personalizzato, individuale
o anche riferito a tutti i bambini della classe con BES. Sono infatti le scuole – con determinazioni assunte dai Consigli di
classe, risultanti dall’esame della documentazione clinica presentata dalle famiglie e sulla base di considerazioni di
carattere psicopedagogico e didattico – ad avere la possibilità di avvalersi per tutti gli alunni con bisogni educativi
speciali di strumenti compensativi e di misure dispensative previste dalle disposizioni legislative, in grado di porsi allo
stesso tempo come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti e come documentazione per le famiglie delle
strategie di intervento messe in atto dalla scuola. L’elaborazione e la progettazione di tali percorsi per bambini con
bisogni educativi speciali si sviluppa alla luce di una attività progettuale e di intervento che riguarda tutti gli insegnanti
perché l’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i curricoli in funzione dei diversi stili o delle diverse
attitudini cognitive, a gestire in modo alternativo le attività d’aula, a favorire e potenziare gli apprendimenti e ad
adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni. Infatti, non si può dare vita ad una scuola
inclusiva se al suo interno non si avvera una corresponsabilità educativa diffusa e non si possiede una competenza
didattica adeguata ad impostare una fruttuosa relazione educativa anche con alunni con disabilità. Non in altro modo
sarebbe infatti possibile che gli alunni esercitino il proprio diritto allo studio inteso come successo formativo, e la
predisposizione di interventi didattici differenziati evidenzia immediatamente una attenzione del servizio di istruzione
verso gli alunni al di là delle loro differenze.
Diviene compito del Collegio dei docenti provvedere a mettere in atto azioni volte a promuovere l’inclusione scolastica e
sociale degli alunni con disabilità, inserendo nel Piano dell’Offerta Formativa la scelta inclusiva dell’Istituzione scolastica
e indicando le prassi didattiche che promuovono effettivamente l’inclusione (gruppi di livello eterogenei,
apprendimento cooperativo, ecc.). I Consigli di classe/interclasse hanno pertanto l’importante funzione di coordinarsi in
merito ad attività didattiche, di preparazione dei materiali, di definizione delle attività in grado di consentire all’alunno
con disabilità la partecipazione allo svolgimento della vita scolastica. A ben vedere tale ruolo coordinativo e di
definizione di adeguate strategie di intervento, sebbene sia portato avanti a livello di consigli di classe, assume la sua
valenza pragmatica all’interno del contesto classe dove diviene compito dell’insegnante assumere comportamenti non
discriminatori, essere attento ai bisogni di ciascuno, accettare le diversità presentate dagli alunni disabili valorizzandole
come arricchimento per l’intera classe in modo da favorire la strutturazione di un senso di appartenenza. quindi
particolare rilevanza l’adozione di strategie didattiche e di strumenti in grado di favorire l’inclusione di alunni con
Bisogni Educativi Speciali. Alcuni esempi potrebbero essere:
- l’apprendimento cooperativo;
- il lavoro di gruppo e/o a coppie;
- il tutoring;
- l’apprendimento per scoperta;
- la suddivisione del tempo in tempi;
- l’utilizzo di mediatori didattici;
- l’avvalersi di attrezzature e ausili informatici.
Le strategie sono solo alcuni artifizi in grado di trasformare l’ambiente scuola in un sistema inclusivo in grado di
considerare l’alunno come il protagonista dell’apprendimento qualunque siano le sue capacità, le sue potenzialità e i
suoi limiti. E ciò a nostro avviso è potenziato da pratiche di costruzione attiva della conoscenza, che attivino personali
strategie di approccio al “sapere”, rispettando i ritmi e gli stili di apprendimento e “assecondando” i meccanismi di
autoregolazione. È dunque solo all’interno di tale logica che assume senso parlare di pratiche di
insegnamento/apprendimento individualizzate e/o personalizzate. Infatti, se ciò che caratterizza gli alunni con Bisogni
Educativi Speciali non è una diagnosi medica o psicologica, ma una qualche situazione di difficoltà specifica per ciascun
alunno, allora è necessaria la messa a punto di strategie di intervento individualizzate, o meglio personalizzate:
individualizzazione si riferisce alle strategie didattiche che mirano ad assicurare a tutti gli studenti il raggiungimento
delle competenze fondamentali del curricolo, quindi obiettivi comuni, attraverso una diversificazione dei percorsi di
insegnamento; personalizzazione indica, invece, la messa in atto di strategie didattiche finalizzate a garantire ad ogni
studente una propria forma di eccellenza cognitiva, attraverso possibilità elettive di coltivare le proprie potenzialità
intellettive.
Alla luce di questa distinzione “individualizzato” è l’intervento calibrato sul singolo, anziché sull’intera classe o sul
piccolo gruppo, che diviene “personalizzato” quando è rivolto ad un particolare alunno. Se contestualizziamo tale
differenza all’interno del contesto di insegnamento alla classe l’azione formativa individualizzata pone obiettivi comuni
per tutti i componenti del gruppo-classe, sebbene tale azione sia sviluppata attraverso l’uso e l’adattamento delle
diverse metodologia alle caratteristiche individuali degli alunni, per poter permettere a tutti gli studenti, in modo
trasversale la possibilità di conseguire le competenze fondamentali previste dal curriculo formativo nel pieno rispetto
delle differenze individuali. L’azione formativa personalizzata ha, in più, l’obiettivo di dare a ciascun alunno l’opportunità
di sviluppare al meglio le proprie potenzialità e, quindi, può porsi obiettivi diversi per ciascun discente, essendo
strettamente legata a quella specifica ed unica persona dello studente a cui ci rivolgiamo.
Alla luce di questa differenziazione possiamo definire la didattica individualizzata come l’attività di recupero individuale
svolta dall’alunno per potenziare alcune aree o affinare specifiche competenze attraverso la messa in atto di strategie
compensative realizzate all’interno del contesto classe o in momenti specifici secondo tutte le forme di flessibilità del
lavoro scolastico consentite dalla normativa. D’altra parte potremmo definire la didattica personalizzata, anche sulla
base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel Decreto legislativo 59/2004, come la possibilità di sviluppare una
adeguata offerta didattica, sulla base della specificità ed unicità dell’alunno, ovvero a partire dal livello personale dei
bisogni educativi che lo caratterizzano, considerando le differenze individuali dal punto di vista qualitativo, in modo da
favorire lo sviluppo e l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno. Dal punto di vista della metodologia didattica,
la personalizzazione concepisce l’apprendimento come un processo aperto e problematico, in cui ogni soggetto può
sviluppare una propria forma di eccellenza cognitiva attraverso il perseguimento e conseguimento di obiettivi diversi. Le
pratiche didattiche in tale direzione si diversificano nei termini di elaborazione e realizzazione di plurimi progetti
didattici ed attivazione di una didattica diversificata. Ecco che allora la didattica individualizzata si arricchisce sempre più
di procedure metodologiche innovative che vanno dalla lezione frontale al mastery learning, alle tecniche di problem
solving, alla didattica per soluzione di problemi, che offrono opportunità per sviluppare la collaborazione, la discussione
e la riflessione al fine di far acquisire ad ogni allievo un’adeguata autonomia nei processi acquisitivi e nella costruzione
delle competenze disciplinari e trasversali. Dal punto di vista della metodologia la didattica l’individualizzazione trova
maggiori possibilità di felicità nella messa in atto di metodologie e strategie didattiche tali da promuovere le potenzialità
e il successo formativo in ogni alunno; l’uso dei mediatori didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli
stili di apprendimento, la calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un
apprendimento significativo. Tuttavia, la strategia didattica individualizzata non deve essere vista come un’antitesi alla
strategia didattica personalizzata, infatti è nel loro lavoro sinergico che l’alunno con BES trova le condizioni più
favorevoli per il raggiungimento degli obiettivi di apprendimento. Concepire il lavoro con alunni portatori di BES in
termini di messa in atto di strategie didattiche personalizzate ed individualizzate nei termini di progettazione didattica
liquida, ovvero di messa in opera di azioni didattiche finalizzate allo sviluppo di percorsi appropriati e motivati in modo
da contribuire alla crescita delle potenzialità e dei talenti individuali. Se, infatti la procedura individualizzata mira a far
acquisire le competenze essenziali di base, tenendo nella giusta considerazione la storia relazionale e formativa, d’altra
parte la personalizzazione della didattica con la conseguente diversificazione dei traguardi e dei livelli di apprendimento
favorisce lo sviluppo dell’eccellenza individuale favorendo una comparazione intraindividuale ed interindividuale in
grado di verificare in quale capacità un soggetto mostra maggiore attitudine e propensione. Il lavoro sinergico di
didattica individualizzata e personalizzata consente ad ognuno, partendo dalle conoscenze e dalle competenze acquisite,
di aspirare all’eccellenza una volta acquisiti, ma anche mentre si acquisiscono gli obiettivi di base comuni a tutti, infatti la
conoscenza in sé non ha alcun valore sufficiente se non riesce ad essere parte integrante e stabile delle acquisizioni del
soggetto fino a divenire promotrice di ulteriori conoscenze e competenze. Lo scopo ultimo della formazione, in tal senso
si propone come opportunità per sviluppare competenze personali attraverso forme di eccellenza che l’alunno deve
salvaguardare ed arricchire e favorire durante tutto l’arco della vita. In questa accezione si delinea tra l’altro un’idea di
cultura non cumulativa ma frutto di conoscenze integrate ed interagenti fortemente personalizzate, frutto della
valorizzazione del talento e dell’eccellenza personale in un contesto di assoluta uguaglianza delle opportunità e degli
esiti.

LA PROF. DOCENTE COME VETTORE PER UNA SCUOLA INCLUSIVA


La realizzazione di una buona prassi didattica inclusiva si sviluppa a partire da una concezione dei docenti in termini di
“gruppo docente” in grado di porsi come una risorsa finalizzata al sostegno ed allo sviluppo di competenze di ciascun
alunno. Seguendo questa direttiva la possibilità di mettere in atto buone prassi didattiche nasce e si sviluppa attraverso
una concezione della professionalità del docente basata su alcuni elementi fondamentali che consentano ad ognuno di
realizzare una scuola inclusiva e favorevole all’integrazione e che, al contempo, favorisce il superamento della
concezione dell’apprendimento come trasmissione di nozioni. Troppo a lungo, a purtroppo ancor oggi, la didattica è
stata concepita nei termini di trasmissione di saperi, in cui l’alunno rappresenta il destinatario dell’azione
d’insegnamento, relegato al ruolo di memorizzare le nozioni apprese onde poterle eventualmente applicare in un futuro
più o meno prossimo. Tuttavia, negli ultimi anni, si sta sempre più affermando la consapevolezza del ruolo attivo e
partecipe da parte dell’alunno nei termini di nodo cruciale per lo sviluppo di un corretto processo d’insegnamento
apprendimento; il riconoscimento delle discipline di studio come strumenti di pensiero che come tali costituiscono non
solo la componente contenutistica, ma anche quella metodologica.
La comprensione del ruolo strumentale delle discipline rispetto alla formazione della persona e la concezione di
apprendimento non ristretta solamente alla dimensione del sapere, ma anche a quella della promozione di competenze
relative al saper fare, a quelle relazionali, comunicative e al saper essere, hanno portato ad un superamento di tale
concezione approdando ad un’idea di didattica in cui non è più sufficiente la conoscenza della propria disciplina, ma
l’associazione tra la passione per essa e la conoscenza degli alunni per attivarne le potenzialità e per poterne adeguare
le proprie proposte. Tale spostamento dal punto di vista del modello didattico che sottende le prassi di insegnamento si
rende ancor più necessario nel momento in cui le diversità ed i bisogni specifici degli alunni costituiscono una, più o
meno forte, resistenza alla riduzione di asimmetria tra essere e dover essere, attivata nel processo didattico. In questi
casi l’analisi delle disposizioni raggiunte e la prognosi disposizionale relative a tutte le dimensioni della personalità,
anche con l’aiuto di esperti, consente di individuare gli obiettivi sui quali appoggiare la programmazione educativa e
didattica che guida il processo d’integrazione.
L’organizzazione della programmazione didattica deve assumere come punto di partenza i livelli di competenza
effettivamente posseduti dagli allievi ed i loro potenziali di apprendimento e, a tal fine, la conoscenza approfondita degli
allievi, e nei casi necessari la stesura del loro profilo dinamico funzionale, accanto ad una preparazione specifica dei
docenti per moderare e far crescere gli intrecci relazionali che si realizzano nella vita di gruppo; la conoscenza e la
capacità di attuazione di più metodologie e più tecniche didattiche si configura quale approccio imprescindibile per la
didattica di oggi. In questa direzione la realizzazione della professione docente per lo sviluppo di una didattica inclusiva
necessita il superamento della lezione frontale e collettiva come unica modalità didattica: la classe è infatti una realtà
eterogenea e considerarla come un insieme omogeneo non consente di promuovere la crescita delle individualità di
ciascuno: prendere atto delle diversità significa sostenere i singoli nello sviluppo dei loro potenziali di apprendimento
superando la frustrante situazione di impossibilità e limitatezza: sull’insegnamento individualizzato ci sono stati e ci sono
tuttora vari fraintendimenti, a volte fino a crederlo coincidente con quello fatto ad un solo alunno. Al contrario garantire
la simultaneità del diverso, cioè la coeducazione di alunni con diversi livelli di formazione e diverse competenze
trasformano l’eterogeneità in risorsa per il successo formativo di ciascuno, e ciò è ancor più efficace se tale approccio
viene ampliato attraverso l’utilizzo di diversi mediatori didattici; nella scuola si utilizzano prevalentemente mediatori
simbolici con scarso ricorso invece ai mediatori di esperienza, iconici e analogici. Si tratta di diversificare le esperienze di
apprendimento offerte agli allievi superando la prassi prevalente, e quasi esclusiva, dell’uso della parola del docente o
del libro. D’altra parte, si rende necessario considerare nella propria prassi didattica i diversi stili cognitivi degli alunni in
riferimento alla realtà della propria classe, tale operazione infatti consente all’insegnante di non proiettare e riconoscere
come adeguato solamente il proprio stile cognitivo, ma di valorizzare i diversi stili proponendo esperienze diversificate
che nella loro “pluralità” offrano più possibilità di apprendimento per tutti gli allievi. Tale operazione ha forti
implicazioni nelle prassi valutative degli alunni, trasformandola da prassi classificatoria, che fa riferimento al paragonare
la situazione di un alunno con un modello prescelto o con la media della classe, ad una prassi comparativa, in cui
valutare significa attribuire il valore a quanto verificato rapportandolo alla crescita personale dell’allievo.
La valutazione ha una valenza propriamente formativa poiché permette di evidenziare il collegamento di quanto
realizzato dall’alunno con il proprio personale processo di crescita. Tuttavia, i cambiamenti suggeriti nella prassi
didattica necessitano di cambiamenti nel paradigma organizzativo all’interno del gruppo docente attraverso lo sviluppo
di un’integrazione tra i docenti; da consiglio di classe a gruppo docente. La prima condizione di una scuola capace di
integrare i propri alunni è che si realizzi un’integrazione di progettazione e di azione tra i docenti di una stessa classe.
Come non si può dare per scontato che una classe sviluppi delle dinamiche relazionali positive, così non basta ritrovarsi
insieme in un consiglio di classe perché questo operi come un gruppo docente. Servono consapevolezza dell’importanza
di operare in tal senso, condizioni istituzionali che lo favoriscano e capacità relazionali che promuovano la crescita di un
gruppo di lavoro.
Certamente, accanto a queste dimensioni di sistema che abbiamo delineato, devono essere prese in considerazione
ulteriori dimensioni legate alla professione docente che si configurano quali vettori di una didattica volta all’integrazione
ed allo stesso tempo attenta alla formazione degli alunni che meriterebbero spazi appositi per essere approfondite,
quali: la capacità di riconoscere, moderare, promuovere per il meglio le dinamiche relazionali che compaiono nel gruppo
classe, e nelle relazioni tra docenti e famiglie; il possesso di più tecniche didattiche, che di volta in volta rendano più
agevole l’acquisizione di nozioni diverse; la capacità di organizzare in più modi il lavoro scolastico, per essere in grado fra
l’altro di salvare la produttività complessiva nelle diverse situazioni.
Quanto messo in luce evidenzia come lo sviluppo di una didattica inclusiva ed attenta tanto al bisogno dei singoli quanto
al raggiungimento di adeguati standard formativi trasversali nasce primariamente dallo sviluppo di una professionalità
competente nel corpo docente nel senso di capace di adeguarsi e modellarsi sulla base del contesto classe in cui si trova
ad operare. È dunque l’insegnante che si configura quale primo mediatore del rapporto didattico, e pertanto la
competenza della professione docente deve svilupparsi anche nella direzione di riconoscere il mediatore didattico più
idoneo alle diverse situazioni classe in cui è inserito. Il mediatore si interpone tra il soggetto e la realtà interpretandola e
dando modo agli allievi di apprendere. L’insegnante mediatore offre agli allievi la possibilità di imparare a interpretare,
organizzare e strutturare le informazioni provenienti dall’ambiente.
Il mediatore non elimina le difficoltà ma propone difficoltà graduate, esplicita gli obiettivi, cerca di indurre autonomia
negli apprendimenti stimolando il superamento degli ostacoli. È proprio all’interno di una azione di mediazione che si
può costruire, creare un contesto nel quale le persone e le loro idee si evolvono continuamente, si modificano, si
incontrano, interagiscono. Il docente si pone in un ascolto continuo delle esigenze dell’allievo e stimola in lui
l’attivazione di schemi elaborativi attraverso i quali poi orienta l’attività cognitiva dell’allievo determinando un
cambiamento che porta ad un apprendimento costruttivo e non nozionistico. L’insegnante è chiamato a “trasformare” il
saper da insegnare affinché sia possibile apprenderlo. Strutture, concetti, contenuti vengono tradotti e rielaborati
secondo il livello di sviluppo del discendente. Un buon mediatore crea un ambiente favorevole, pertanto nelle situazioni
scolastiche, il docente deve essere in grado di affiancare alla parola altre modalità, capaci di stimolare le diverse forme
di intelligenze ed attivare diversi canali di comunicazione, in modo da coinvolgere tutti gli alunni e da stimolarne la
partecipazione al processo di apprendimento. A tale scopo la metodologia didattica deve comprendere il maggior
numero possibile di tecniche, al fine di rendere vario, flessibile, ricco ed efficace l’insegnamento. In tal direzione
assumono particolare rilevanza l’utilizzo di strumenti tecnologici quali ad esempio gli ipertesti che consentono di fare
dell’allievo il protagonista del suo sapere poiché non solo permettono di rendere possibile la ripetizione e quindi la
chiarificazione dei concetti, ma anche offrono la possibilità di autovalutazione da parte dell’utente offrendo la possibilità
di imparare dagli errori. Infine, permettono di fare leva sull’aspetto ludico-motivazionale. Oltre alla conoscenza di
differenti tecniche utili all’insegnamento, occorre che il docente sappia variarne anche, a seconda delle situazioni, gli
stili, scegliendo di volta in volta diversi mediatori: attivi (attraverso visite guidate, esplorazione su campo), simbolici (con
l’uso e la manipolazione del linguaggio), iconici (da impiegare soprattutto nel metodo di studio, per stimolare l’analisi
degli oggetti visualizzati), analogici (come i giochi di simulazione), tecnologici (che racchiudono in sé tutti gli altri tipi di
mediatori). Tale prospettiva si rende necessaria anche alla luce delle attuali condizioni di forte accessibilità alle fonti di
sapere che ridefiniscono il ruolo del docente da detentore del sapere a veicolo per agli alunni per l’apprendimento di
metodi di fruizione culturale e strumenti che li rendano autonomi nella ricerca e nell’acquisizione di nuove conoscenze.
Il sapere dell’insegnante da oggetto di conoscenza si configura quindi come punto di partenza per un ulteriore
arricchimento culturale e autonomo da parte dello studente.

COOPERATIVE LEARNING COME METODOLOGIA PER I BES


Tra le numerose metodologie didattiche offerte oggi agli insegnanti quali metodologie per lo sviluppo di una didattica
integrativa, e rispettosa al contempo sia delle esigenze di insegnamento apprendimento degli studenti sia delle loro
individualità e dei loro bisogni educativi speciali, viene citato il Cooperative Learning. Il Cooperative Learning o
Apprendimento cooperativo, è definito come una metodologia didattica che sviluppa l’apprendimento del singolo
attraverso una cooperazione attiva tra i compagni di classe. Tuttavia, il Cooperative Learning non coincide con la pratica
di lavoro di gruppo, già adottata da molto tempo nella scuola italiana. Nel lavoro di gruppo, infatti, al di là della
situazione gruppale, ciascun allievo si preoccupa di imparare per se stesso senza sentirsi responsabile
dell’apprendimento altrui, vi è un solo leader che di solito guida il gruppo, l’attenzione dei docenti è rivolta
maggiormente ai livelli di apprendimento conseguiti e non alle relazioni instauratesi fra i membri del gruppo, e la
valutazione stessa del lavoro che ricade sul gruppo disincentiva la partecipazione adeguata di alcuni membri. Vengono
dunque a mancare quegli elementi di organizzazione strutturale che rappresentano le caratteristiche fondamentali
proprie del Cooperative Learning quali l’interdipendenza positiva fra i membri del gruppo, la responsabilità della
leadership condivisa fra tutti i suoi membri, l’instaurarsi di un’interrelazione positiva (o interazione costruttiva diretta),
l’insegnamento diretto delle abilità sociali (in particolare quelle relazionali) necessarie a instaurare dei rapporti di
collaborazione all’interno del gruppo e la valutazione non solo individuale ma anche di gruppo.
I gruppi di Cooperative Learning differiscono dai gruppi di lavoro tradizionali anche per altri aspetti: la formazione del
gruppo secondo criteri di eterogeneità anziché in maniera omogenea o causale come avviene invece nel gruppo
tradizionale; la possibilità per l’insegnante di intervenire, dando dei feedback rispetto al modo di relazionarsi dei
membri del gruppo vs interventi di mero recupero o pacificazione delle tensioni; l’autonomia del gruppo vs i continui
interventi dell’insegnante. Il Cooperative Learning grazie alla sua peculiarità rappresenta un metodo ed un modello
didattico fondamentale per gli studenti con bisogni educativi speciali, infatti se da un punto di vista metodologico
rafforza la motivazione degli studenti e si adatta maggiormente a coloro i quali hanno necessità particolari, da un punto
di vista sociale migliora e rinforza le relazioni interpersonali fra studenti “diversamente abili” e “normali.
L’atteggiamento cooperativo del gruppo classe contribuisce al successo del gruppo ed è più probabile che in questo
contesto di successo anche gli studenti con disabilità o bisogni educativi speciali siano accettati. Mettere insieme delle
diversità, dal momento che ognuno è portatore di una diversità, offre la possibilità a tutti di arricchirsi. In definitiva la
strategia di apprendimento cooperativo si offre come la possibilità di risposta personalizzata ai bisogni educativi di
ciascuno e a maggior ragione a chi è portatore di bisogni educativi speciali.
La personalizzazione, che si contrappone all’individualismo, e l’integrazione delle diversità sono occasioni di conoscenza
e rispetto delle differenze, di lavoro comune e modalità di trovare il proprio percorso individualizzato e personalizzato in
un contesto di cooperazione finalizzata al raggiungimento di obiettivi specifici sia di gruppo che individuali. Di seguito
proveremo a mettere in evidenza alcune caratteristiche dei Cooperative Learning delineando quali aspetti si configurano
come elementi di efficacia di questa metodologia.
Il primo elemento che caratterizza i Cooperative Learning è la presenza di un’interrelazione fra i membri del gruppo che,
da un lato è finalizzata a raggiungere l’obiettivo della conoscenza, e dall’altro persegue il superamento dei conflitti
all’interno delle relazioni instauratesi nel gruppo. L’interazione che si sviluppa all’interno di tali gruppi pertanto non è
fine a sé stessa ma è volta a sviluppare un senso di fiducia reciproca e di accettazione dell’altro. Tale senso di fiducia
passa dal riconoscimento della diversità delle idee dall’altro e dalla condivisione di risorse e delle paure all’interno del
gruppo, nell’ottica di un reciproco sostegno. Tale prospettiva infatti si offre quale volano per lavorare non solo sugli
obiettivi dell’apprendimento in sé legati alle diverse discipline di studio, ma anche quale momento per sperimentare
relazioni positive, che potranno rivelarsi preziose nei momenti di difficoltà che potrebbero essere incontrate nel
percorso scolastico.
Il secondo elemento imprescindibile per il Cooperative Learning è il riconoscimento del bisogno dell’altro quale
componente competente per il raggiungimento del risultato del gruppo. Tale prospettiva di interdipendenza positiva
offre una prospettiva del successo come frutto di un lavoro di squadra in cui ognuno ha specifiche responsabilità
individuali definite dal ruolo che viene attribuito. Questo comporta che ognuno deve essere messo in grado di
conoscere la finalità generale del lavoro di gruppo, i metodi da utilizzare e gli strumenti da adottare.
Le conoscenze e le abilità sociali relative alla gestione dei rapporti all’interno del gruppo devono essere insegnate allo
stesso modo in cui si insegnano le conoscenze e le abilità disciplinari. Tuttavia, la trasformazione delle abilità sociali in
competenze sociali è un processo piuttosto lungo; si tratta quindi di un risultato di prospettiva ma necessario per lo
sviluppo di un processo di apprendimento cooperativo. L’esperienza dei cooperative learning mette in luce come la
mancanza di abilità sociali è uno degli ostacoli principali, specie all’inizio di un percorso di apprendimento portato avanti
secondo tale metodologia. La capacità di comunicazione, la capacità di prendere decisioni, la funzione di guida, le
strategie di soluzione positiva dei conflitti sono tutte abilità sociali che si possono e si devono apprendere nei gruppi di
lavoro cooperativo.
Un ulteriore caratteristica del Cooperative Learning è la capacità di sviluppare nel gruppo una componente auto
valutativa, capace di prendere in considerazione il proprio processo di formazione e di individuare gli elementi positivi e
negativi delle proprie azioni, al fine di modificare alcuni comportamenti che possono incidere sull’efficacia del lavoro di
gruppo e di conseguenza sull’apprendimento. In questo senso il Cooperative Learning si configura quale metodologia
didattica auto regolativa in grado di offrirsi autonomamente dei feedback e quindi di mettere in atto prospettive di
cambiamento autonome e funzionali. Oggetto di valutazione sono sia i comportamenti individuali che quelli del gruppo
nel suo complesso, anche rispetto ai risultati raggiungibili da un punto di vista didattico. Data la specificità di tale
metodologia il Cooperative Learning si distingue anche da altre forme di approccio collaborativo (ad esempio il
tutoraggio) rappresentandosi allo stesso tempo sia quale ambiente di lavoro sia come strategia didattica specifica. Al di
là delle teorie e delle tecniche alla base del Cooperative Learning, viene riconosciuta in maniera unanime la centralità
dell’effettiva ed efficace cooperazione fra gli alunni per lo sviluppo del processo di apprendimento; la collaborazione tra
alunni risulta l’elemento centrale in tutte le tecniche che si basano sulla mediazione sociale ed ancor più nel caso
dell’apprendimento cooperativo. La dimensione cooperativo-interattiva si configura quale presupposto essenziale per
un’educazione efficace di tutti gli allievi, compresi quelli che sono a rischio di dispersione, quelli che sono portatori di
difficoltà e bisogni speciali e quelli diversamente abili.

LA COSTRUZIONE DEL GRUPPO-CLASSE COME CONDIZIONE PER L’INTEGRAZIONE


Il passaggio dall’inserimento all’integrazione dei soggetti disabili o con bisogni educativi speciali trova nel clima relaziona
interno alla classe un elemento di mediazione essenziale Al di là delle dimensione tecnico metodologiche messe in atto
dagli insegnanti è quindi necessario spendere alcune parole sul ruolo svolto dal clima classe nelle prassi di insegnamento
quale condizione contestuale entro, e per mezzo del quale, si realizza l’integrazione scolastica degli alunni con bisogni
educativi specifici e con disabilità certificate. L’aspetto socioaffettivo all’interno delle relazioni tra scolari e tra scolari ed
insegnanti riveste un ruolo fondamentale nei processi. Questo aspetto, gestito spesso inconsapevolmente dai docenti
all’interno della classe, può contribuire non poco, alla qualità dell’apprendimento e può permettere positive interazioni
tra docenti e discenti creando le basi per l’attuazione della programmazione didattica, rendendone più autentici i
contenuti didattici ed educativi. La relazione è un elemento fondamentale, che veicola e stimola gli apprendimenti. Non
è facile mediare gli aspetti relazionali con quelli cognitivi e solo la consapevolezza, dei docenti, dell’interdipendenza dei
due aspetti, permette l’attuazione di apprendimenti significativi. Siamo consapevoli che all’interno di un gruppo classe,
le dinamiche che vengono a scatenarsi sono molteplici e sono legate a contesti diversi, sempre più vari e questo non
facilita certamente la gestione del gruppo.
La dinamica di gruppo è fondamentale al fine di un buon insegnamento e, soprattutto, di un buon apprendimento.
Senza la creazione di una relazione di classe positiva, si rivela inutile ogni riflessione su come insegnare, su come
costruire situazioni che consentano apprendimento e su come procedere in maniera efficace. È infatti all’interno del
contesto classe che si realizza il processo di integrazione perché costituisce il contesto naturale di sviluppo della
relazione insegnante-alunno.
Il gruppo-classe rappresenta la struttura di base attraverso cui l’organizzazione scolastica persegue gli obiettivi
istituzionali dell’acquisizione sistematica e programmata di conoscenze ma costituisce anche l’ambito entro il quale si
manifestano bisogni di natura individuale, differenti da quelli istituzionali, ad esempio il bisogno di avere amicizia, di
conquistare prestigio o di scaricare aggressività Quest’ultimo aspetto caratterizza profondamente il processo di
socializzazione ed è spesso considerato dagli insegnanti l’ambito all’interno del quale si manifestano problemi di
relazione tra gli alunni e tra gli alunni e il corpo docente.
D’altra parte, non sempre l’insegnante riesce a cogliere correttamente la qualità e la quantità dei rapporti interpersonali
che si instaurano all’interno di una classe. Il gruppo di bambini dà a ciascuno la necessaria sicurezza e costituisce un
insieme funzionale le cui attività si evolvono a partire dagli scambi tra i bambini stessi, dagli scambi tra questi e gli
insegnanti e dai cambiamenti che gli alunni contribuiscono a suscitare nell’ambiente. Considerare in tale direzione il
contesto classe implica riconoscergli un ruolo formativo essenziale, oltre la funzione contenitrice, ma quale luogo entro
e per mezzo del quale è possibile garantire una positiva esperienza scolastica per tutti gli alunni.
Le classi inizialmente si presentano come aggregato di alunni, non come gruppo, che, al contrario rappresenta un
obiettivo da perseguire da parte degli insegnanti, non un punto di partenza. Affinché ciò si realizzi è necessario creare e
mantenere un equilibrio tra la dimensione dell’efficienza e quella dell’affettività, riuscendo così a garantire ai suoi
membri una produttività adeguata alle proprie capacità all’interno di un buon clima sociale. La socializzazione si
configura quindi come principio metodologico alla base delle prassi didattiche, come veicolo affinché ogni alunno viva i
rapporti con i compagni e con l’insegnante in una dimensione dialettica, ovvero una dimensione in cui gli interlocutori
sono in grado di prendere in reciproca considerazione il valore dell’altro.

IL GRUPPO CLASSE
Il clima classe, rappresenta il contesto sociopsicologico in cui avvengono le relazioni, e scaturisce come risultante delle
modalità di svolgimento dei rapporti. La costruzione di un clima umano positivo è un elemento fondamentale per
favorire la formazione in tutti i suoi membri di benessere psicologico e di un’identità positiva; inoltre questo consente al
gruppo di raggiungere una coesione sempre maggiore, fino a maturare un senso di appartenenza alla classe che
consente l’integrazione piena di tutti i suoi membri.

TRASFORMAZIONE DI UN GRUPPO DI ALUNNI IN UN GRUPPO CLASSE


La trasformazione di un gruppo di alunni in un gruppo classe è il risultato di un’attività didattica individualizzata e
personalizzata che permetta all’alunno di fissarsi degli obiettivi da raggiungere di tipo personale e di potersi confrontare
all’interno di questa personalizzazione degli obiettivi con i risultati ottenuti dagli altri; i gruppi-classe i cui insegnanti
“spingono l’acceleratore” solo sulla dimensione dell’efficienza, rischiano di creare dinamiche personali e sociali che
innescano circoli viziosi di insuccesso scolastico. La realizzazione del gruppo classe al contrario si realizza attraverso la
dimensione dell’affettività/socialità, ovvero quegli aspetti della realtà interpersonale che riguardano l’attenzione alla
persona, al suo trovarsi a proprio agio, al suo sentirsi accettata e valorizzata. La costruzione del gruppo classe passa
dall’offerta da parte dell’insegnante di opportunità per l’instaurarsi di relazioni significative che permettano ad ognuno
di introdursi nei rapporti interpersonali come persone autentiche con propri bisogni, aspettative, idee e interessi.
Una scuola ad hoc dovrebbe essere caratterizzata da un buon clima interno impostato al rispetto reciproco e al dialogo,
all’ascolto e ad una collaborazione che non esclude conflitti, ma ha la capacità di riconoscerli ed elaborarli per metterli al
servizio dello sviluppo e non delle forze regressive della mente. La scuola va intesa come un "sistema di rapporti" che
promuova la crescita e lo sviluppo delle persone e non badi solo alle regole esteriori e formali. Le relazioni vanno
improntate allo sforzo di far fronte alle difficoltà piuttosto che a cercare di eluderle in maniera illusoria. Si dovrebbero
formare soggetti e gruppi che si muovano nella prospettiva di lavorare insieme per individuare soluzioni di problemi e
per dialogare. Così facendo, il fine ultimo della scuola non è solo quello di trasmettere sapere e cultura e introdurre gli
individui nella società, ma anche quello di svilupparne le potenzialità a tutti i livelli, quello emotivo-relazione compreso.

IL GRUPPO CLASSE COME RISORSA EDUCATIVA


Il gruppo classe costituisce una risorsa educativa e didattica dove ognuno può attingere l’energia ed il sostegno per
dedicarsi alla propria autorealizzazione; è un luogo in cui è possibile costruire insieme con gli altri la propria mappa
cognitiva e la propria personalità. Coltivando in classe il benessere, l’accoglienza, la solidarietà e la responsabilità, si
rende più piacevole ed efficace il processo di formazione. L’esistenza di un gruppo ed il suo sviluppo psicosociale sono
determinati dalla realizzazione al suo interno delle seguenti componenti essenziali:
1) un’influenza reciproca: affinché un gruppo esista, è necessario che tra i suoi partecipanti ci sia un’influenza reciproca,
che, cioè, i singoli individui interagiscano tra di loro e che il gruppo come tale incida, a sua volta, sul comportamento di
ogni individuo;
2) la percezione di ogni individuo di essere parte di un gruppo; prescinde dall’effettiva partecipazione alle attività sociali
del gruppo classe. Questa componente è necessaria per costruire una unità di gruppo che consenta di ricercare una
coerenza psicologica nei rapporti e nelle azioni, in maniera che ogni individuo interagisca nell’ambiente sociale non più
come singolo, ma come gruppo. Nell’ambiente scolastico, in genere, la percezione soggettiva di far parte di un gruppo-
classe si verifica molto lentamente; è un processo psicologico che matura gradualmente nel tempo e che non raggiunge
gli stessi risultati per tutti gli alunni;
3) una concordanza negli obiettivi da raggiungere; è importante che i partecipanti al gruppo-classe abbiano una meta
comune, perché il raggiungimento di uno scopo dà senso all’esistenza del gruppo. In genere, le finalità che una classe
tende a raggiungere sono di tre tipi: aspetto di conoscenza, ovvero l’interiorizzazione e l’elaborazione di informazioni, lo
sviluppo di capacità di strutturazione logica e di interpretazione dell’esperienza, l’acquisizione di conoscenze specifiche
e dettagliate delle materie di studio; aspetto didattico inteso nei termini di efficacia delle attività disciplinari,
stimolazione delle capacità di ogni alunno e delle sue procedure di intervento, l’acquisizione di competenze tecniche e
operative; aspetto psicologico, nei termini di crescita interpersonale, sviluppo di capacità di collaborazione e di relazione
nel lavoro di gruppo
4) le regole di comportamento accettate da tutti i partecipanti. Le norme scolastiche, esplicitamente oppure
implicitamente stabilite, hanno la funzione di regolare le attività che si svolgono nel gruppo. Per questo è necessario un
certo grado di osservanza di esse (conformità) affinché il gruppo possa esistere e funzionare. Ciascun individuo deve
osservare le regole del gruppo e si aspetta che gli altri facciano altrettanto. Si è rilevato che, in genere, quando l’alunno
rispetta le regole, gli altri componenti del gruppo attuano spontaneamente delle ricompense emotive e didattiche,
mentre, quando ciò non si verifica, essi applicano delle sanzioni a chi viola la norma, con la conseguente emarginazione
dal gruppo stesso. Le regole possono essere esplicite (orario di entrata e di uscita da scuola, giustificazione dopo
un’assenza, ecc.) o implicite (non parlare o non distrarsi durante le lezioni, non uscire dall’aula senza permesso, ecc.).
Comunque esse siano, è stato rilevato che le regole imposte al gruppo da parte di una persona dotata di autorità
(insegnante) vengono osservate soltanto se si effettuano controlli con ricompense o punizioni. Regole concordate in un
rapporto di autorevolezza, vengono interiorizzate spontaneamente, per cui ciascun alunno le considererà come proprie
e sarà intrinsecamente motivato ad osservarle. Sentirsi accettati nel gruppo, valorizzati per le proprie competenze,
oggetto di aspettative positive da parte degli altri e inseriti in una rete di rapporti amichevoli sono bisogni fondamentali
di ogni individuo, il cui soddisfacimento influisce in modo consistente sullo sviluppo del concetto di sé, sul
comportamento sociale, ma anche sul rendimento scolastico. Per questo motivo è importante che il gruppo docente
riconosca le strutture interattive nella concretezza della vita delle proprie classi ed individui gli interventi che
consentano una loro evoluzione favorevole ad una positiva intersoggettività nel gruppo. Nel progettare in modo
innovativo l’organizzazione didattica, la scuola, anziché assegnare alla classe il ruolo di unità amministrativa intorno alla
quale far ruotare rigidamente tutte le attività scolastiche, pone l’attenzione primaria sulla personalizzazione dei loro
apprendimenti. Al docente è richiesto di salvaguardare il gruppo classe come comunità, quando gli alunni sono chiamati
a svolgere prevalentemente attività omogenee ed unitarie. Il gruppo classe rimane quindi uno spazio irrinunciabile
quando contribuisce a ridurre gli scarti di partenza dei bambini, quando la sistematicità del lavoro offre stimoli a tutti i
livelli e quando è possibile organizzare l’attività in modo che gli alunni più competenti supportino efficacemente gli
alunni meno competenti.

SCUOLA E TEORIA GENERALE DEI SISTEMI


Lo studioso a cui viene attribuita la Teoria Generale dei Sistemi è von Bertalanffy il quale descrisse una serie di principi e
di modelli interdisciplinari applicabili a tutti i sistemi. Secondo l’autore, per comprendere un fenomeno, è necessario
studiarne gli elementi che lo compongono non solo nelle loro peculiarità ma anche e soprattutto nella loro interazione.
La Teoria Generale dei Sistemi nacque come risposta alle nuove conoscenze che la biologia cominciò a sviluppare nei
primi anni del secolo XX. Storicamente la si può ritenere scaturita da due diversi fattori quali l’esigenza di riconoscere
“scientificità” alle scienze del comportamento - psicopedagogiche e sociali -, e il bisogno delle scienze dei sistemi di
elaborare una teoria più ampia che superasse la divisione e l’isolamento tra le varie discipline. Tra gli anni 80 e 90 venne
estesa alla psicologia dello sviluppo e venne considerata in relazione al contesto scolastico, in particolare alla relazione
bambino-insegnante. Approcciare la scuola e la didattica secondo l’ottica sistemica significa guardarla
contemporaneamente come sovra sistema, ovvero come apparato burocratico, differenze gerarchiche e generazionali, e
come sottosistema, cioè come rete di relazioni che crea “la realtà di quella specifica scuola”; significa riconoscerla come
un vasto ed ampio sistema aperto allo scambio con l’esterno e allo stesso tempo chiuso al suo interno.
L’ individuo - insegnante, allievo, genitore - quindi, non considerato più come monade, può essere osservato, nel
contesto scolastico, come membro di uno o più sistemi relazionali (es. la relazione insegnante-allievo/i; insegnante-
colleghi; insegnante/i-genitore/i degli allievi ecc.). La pragmatica della comunicazione umana e gli ulteriori sviluppi
dell’approccio promosso dalla prospettiva della Teoria Generale dei Sistemi possono offrire strumenti utili alla
comprensione e allo studio dei comportamenti comunicativi e relazionali a scuola e ai differenti significati che essi
possono assumere per i differenti soggetti che entrano in relazione. Condizione necessaria perché si stabilisca un
sistema, e che sia mantenuto come tale, è che i diversi elementi che lo compongono possano interagire tra loro
scambiandosi informazioni; le parti agiscono in maniera organizzata e interdipendente al fine dell’adattamento e della
sopravvivenza delle unità nel complesso. Un intervento sistemico non è sugli elementi, ma sulle relazioni e sulle
interazioni tra di essi; nessun individuo può essere compreso al di fuori del contesto in cui vive.

LA TEORIA GENERALE DEI SISTEMI


La Teoria Generale dei Sistemi fornisce agli insegnanti non solo utili suggerimenti per impostare, in modo proficuo
relazioni tali da promuovere sviluppo e, nell’ambito di situazioni di rischio, realizzare percorsi favorenti un
miglioramento del comportamento dei bambini in difficoltà, ma offre anche una serie di principi per penetrare e
comprendere la complessa natura dei percorsi evolutivi del bambino e dei sistemi nei quali è immerso. I principi della
Teoria Generale dei Sistemi mettono in evidenza la necessità di comprendere il comportamento delle parti in relazione
al tutto e la comprensione delle dinamiche del tutto in relazioni alle parti. Come dire che le modalità di relazione
dell’insegnante, nel contesto della classe, permettono di comprendere il comportamento sociale del bambino e possono
prevederne il miglioramento. I sistemi sono unità composte di diverse parti interconnesse che agiscono in modo
organizzato e interdipendente per promuovere l’adattamento o la sopravvivenza dell’unità intera. Ogni contesto come
comunità, scuola, classe, gruppi, famiglie e ogni procedura come pratiche disciplinari o linguistiche, relazioni bambino-
insegnante, situazioni di apprendimento, regole di gioco ecc. sono sistemi che implicano differenti livelli di interazione e
differenti attori interagenti e che quindi non possono essere considerati isolatamente e/o indipendentemente uno
dall’altro. L’analisi dei sistemi evolutivi permette, quindi, di comprendere la loro influenza reciproca nei contesti
scolastici.
In modo notevolmente diverso da quello proprio di altre organizzazioni, il sistema scolastico vive naturalmente in una
condizione di continua instabilità, generato dal cambiamento continuo di una parte dei suoi membri, e dalla la rapidità
con cui i membri che si succedono agli altri introducono, al suo interno, aspettative, idee, orientamenti e valori di un
sistema sociale in continuo movimento.

L’ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA
tipo di situazione risulta notevolmente interessante. Costituendosi nella zona di confine tra l’organizzazione propria
della scuola e il resto della società, il sistema scolastico- come anche il sistema familiare- richiede, per essere studiato e
conosciuto, concetti dinamici ed evolutivi quali quelli richiesti dai sistemi lontani dall’equilibrio. Nonostante il
cambiamento costante dei suoi membri, il sistema scolastico ancora la sua stabilità organizzativa alla legge della
distribuzione del potere al suo interno. La distribuzione del potere all’interno di un sistema interpersonale è questione
assai complessa anche se volessimo occuparci di relazioni tra due soli soggetti. Riguardo alla distribuzione del potere nel
sistema scolastico, ci limiteremo qui a ricordare:
a) i membri di un sistema relazionale sono ordinati in una gerarchia che permette di distinguere le diverse generazioni:
nel caso della famiglia i genitori e i figli; in quello della classe il maestro e gli allievi e così via; dal punto di vista del
potere e della sua distribuzione, la divisione in generazioni dei membri di un sistema ha spesso importanza decisiva;
b) i membri di un sistema relazionale possono contrarre fra loro alleanze e/o coalizioni di vario tipo: si tratta di alleanze
e/o coalizioni che possono avere conseguenze importanti in termini di potere;
c) i membri di un sistema relazionale aperto hanno la possibilità di ottenere l’appoggio di figure autoritarie o di regole
istituzionali che si trovano fuori al sistema e che hanno tuttavia influenza su di esso (sistema sanitario, giudiziario ecc.).
La distribuzione del potere comunque non crea solo vincoli ma introduce anche possibilità.
È all’interno di questo complesso sistema di relazioni e nell’incontro con l’insegnante che il bambino prende coscienza
del come relazionarsi con gli altri, regolando la propria esperienza all’interno della classe. Tuttavia, non è da
sottovalutare l’influenza esercitata dalla cultura locale e dalla comunità, anche se in modo indiretto, sull’educazione dei
bambini. Esse indicano i momenti importanti della vita; l’apprendimento della cura della persona, l’entrata nella scuola,
con tappe prestabilite per età, quando imparare a leggere e a scrivere con la conseguente accettazione della verifica e
della valutazione sui percorsi educativi e di apprendimento. Le tappe sono istituzionalizzate, l’assegnazione alle classi
per età e per numero sono dettate dall’amministrazione scolastica

I CODICI COMPORTAMENTALI DEI PICCOLI GRUPPI


Anche i piccoli gruppi, come famiglia, scuola, classe hanno i loro codici che influenzano i comportamenti, indirizzandoli a
uno scopo. In questa prospettiva gli insegnanti potrebbero adottare un sistema di gestione del comportamento che
preveda conseguenze costanti per un certo comportamento (sia positivo che negativo) in modo tale che le reazioni
dell’adulto siano prevedibili e nel bambino si formi una valida struttura che gli indichi quanto sia importante valutare le
conseguenze del proprio comportamento. Nelle interazioni tra due persone, specialmente bambino-insegnante, c’è
bisogno di tempo, di assiduità nei contatti per conoscersi a fondo e le aspettative vengono esplicitate sulla base della
fiducia reciproca. Il meccanismo di regolazione nei rapporti spesso avviene per prove ed errori . La regolazione della
diade insegnante allievo si realizza tramite codici individuali. Questi codici coinvolgono i sentimenti e le credenze che gli
adulti hanno riguardo al come ci si debba comportare con i bambini; ciò che ci si può attendere da essi e in che modo.
Tali sentimenti e tali credenze si manifestano nell’interazione quotidiana che possiamo definire microregolazione; la
reciprocità, la sensibilità, la coordinazione e la sincronia ne costituiscono gli aspetti più importanti. La prospettiva
sistemica considera importante la relazione bambino-insegnante, ne evidenzia le qualità dinamiche e interattive perché
dà valore anche a quello che i bambini si aspettano dall’adulto. Le credenze del bambino nei confronti dell’insegnante
possono influenzare il rapporto e provocare, con il loro comportamento, nell’insegnante stesso reazioni positive o
negative dal punto di vista emotivo e comportamentale. Anche il bambino costituisce un sistema strutturato secondo
unità interdipendenti e organizzate tra loro che non possono essere studiate separatamente; l’unità biologica con
potenzialità funzionamento e, qualche volta, deficit, lo sviluppo motorio e linguistico, gli aspetti cognitivi ed emozionali
un tutto espresso nella singola personalità con le sue peculiari caratteristiche.
Quando le pratiche educative si concentrano esclusivamente su uno di questi ambiti (es. la lettura ad alta voce di un
soggetto insicuro non raggiunge livelli di prestazione ottimali), si può verificare che nell’insegnante si rafforzi l’idea che il
bambino possa essere valutato su ciascuno dei singoli comportamenti e non su una gamma di aspetti che riflettono
funzioni integrate scaturite anche dalle situazioni in cui si manifestano. Dalla concettualizzazione del bambino e del suo
funzionamento derivano implicazioni nel contesto scolastico. Le previsioni sul rendimento, gli indicatori di progresso, gli
obiettivi educativi sono tutti influenzati dall’immagine del bambino come sistema educativo nel contesto delle relazioni
sociali. Ovviamente, come il bambino è considerato facente parte di un sistema globalmente strutturato a cerchi
concentrici, così è da considerare l’insegnante che interagisce con lui; anche quest’ultimo instaura relazioni diadiche,
che, di volta in volta, hanno come riferimento l’alunno, il partner, i figli, o i propri genitori; fa parte di piccoli gruppi. È
inserito, infine, in gruppi più ampi in seno alla comunità in cui vive. Tutto ciò può influenzare il singolo rapporto in modo
del tutto inconsapevole, ma non senza effetti sui meccanismi di regolazione dell’esperienza che il bambino fa nel
contesto classe, sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista relazionale con l’insegnante e con i pari, fornendo
occasioni utili per modellare i propri processi di autoregolazione in via di sviluppo. La teoria presentata non considera il
cambiamento di ciascun sistema in termini di acquisizione di nuove competenze, ma è visto come una riorganizzazione o
trasformazione, in termini discontinui, che interessa il sistema considerato. La complessità della relazione in
trasformazione tra i sistemi va oltre il comportamento del singolo bambino; alla base dei processi di cambiamento
nell’organizzazione dei sistemi proposti dalla Teoria Generale dei Sistemi vi sono i concetti di auto-stabilizzazione e di
autorganizzazione.
L’auto- stabilizzazione consente al sistema di rispondere ai mutamenti richiesti dall’esterno senza che sia necessario
riorganizzare le caratteristiche interne. Le richieste di cambiamento consentono l’adattamento attraverso il riequilibrio
delle dinamiche interne senza la necessità di modificare la struttura di base o del sistema. L’autorganizzazione richiede,
invece, un processo di completa ristrutturazione di sé quando alcune richieste sono costanti e intense. Le caratteristiche
del sistema non garantiscono una risposta adeguata alla richiesta e, quindi, vengono progressivamente riadattate. I
cambiamenti previsti dalla Teoria Generale dei Sistemi necessitano di tempo per potersi verificare e realizzarsi
pienamente data la complessità del singolo sistema e dei sistemi dei quali fa parte.
La Teoria Generale dei Sistemi, all’interno delle prassi didattiche si propone quindi come radicale cambiamento nei
termini di sviluppo di visioni sintetiche di situazioni molto complesse, ricche di dati interdipendenti l’una dall’altra, che
presuppone che si costruisca all’interno della mente uno scenario globale, che rappresenti il sistema di riferimento su
cui si debba lavorare localmente. Pertanto, sembra configurarsi quale modello teorico ed epistemologico su cui poggiare
le nuove concezioni e metodologie didattiche in grado di concepire gli alunni nella loro totalità e specificità all’interno
del sistema scolastico, e quindi di favorire l’adozione di prassi a sostegno dell’integrazione educativa e didattica.

LA TEORIA DELLA MENTE NEI CONTESTI DI INSEGNAMENTO APPRENDIMENTO


La Teoria della Mente consente di capire non solo gli stati mentali, (ossia, emozioni, desideri, credenze) di chi entra in
relazione con noi, ma anche intuire o prevedere il suo comportamento, poiché solo se siamo in grado di prendere in
considerazione ciò che l’altro “ha in mente”, saremo in grado di interagire con lui, entrare in relazione e capire quello
che dice, perché reagisce o si comporta in quel modo. La Teoria della Mente può essere concepita come la capacità
meta-rappresentativa di stati mentali complessi che si sviluppa in relazione ai contesti socioculturali a partire dal
possesso innato di capacità di regolazione delle attività a capacità di fare inferenze. È un processo concettuale che
permette di elaborare le informazioni e di produrre costrutti teorici sugli stati mentali. Tale processo viene affinato nel
tempo ed in questo processo assume un ruolo chiave la figura del docente che nel rapporto col bambino, può giocare un
ruolo importante, per lo sviluppo della capacità di quest’ultimo di saper cogliere e gestire i propri e gli altrui stati
cognitivi, emotivi e comportamentali. Capire che cosa c’è dietro uno stato di agitazione o di apparente disinteresse per
le attività che si svolgono in classe, un’aggressione o, ancora, un isolamento, considerandoli linguaggi non verbali,
permette di offrire un contenimento a tali situazioni attraverso la vicinanza, la comprensione e il dialogo.
La teoria della mente può essere definita come l’abilità di assumere la propria e l’altrui prospettiva. La capacità di
interagire in modo adattivo, con le persone con le quali si viene a contatto, può essere raggiunta solo se si sviluppa e si
rende sempre più funzionale la capacità di comprendere il loro comportamento attraverso un’inferenza sui loro stati
mentali (intenzioni, desideri, credenze, sentimenti) ad essi sottostanti. Essa si sviluppa sin dai primissimi anni di vita, si
matura durante l’età prescolare, e il suo sviluppo continua anche in età adulta. Ogni persona nel rapporto con gli altri
quotidianamente utilizza questa abilità. Per questo, la Teoria della Mente è stata anche definita come psicologia del
senso comune, essa, infatti, permette di comprendere anche il contesto sociale nel quale si vive e adattarsi ad esso. La
Teoria della Mente ha una funzione sociale che va al di là della comprensione degli altri basata sull’osservazione dei
movimenti del corpo o sul significato letterale delle singole parole. Essa ci permette, infatti, di attribuire stati mentali per
spiegare, predire e agire sul comportamento proprio e altrui.

LE ATTIVITÀ COMUNICATIVE
In ogni attività comunicativa è necessario, per una corretta e reciproca comprensione, immergerci nel concreto uso del
linguaggio, conoscere il significato che gli interlocutori impongono ai termini usati, cogliere i segnali e i feedback,
assicurarsi che quanto è stato detto sia stato compreso correttamente specialmente quando viene usato un linguaggio
figurato. Mentre interagisce con gli altri, il bambino che mentalizza, impara a dare senso al loro comportamento, in un
certo senso lo prevede e riesce, a mettere in atto comportamenti adattivi più consoni alla situazione che vive, per cui
questa abilità esercita, non solo una funzione sociale, ma anche una funzione adattiva. Inoltre, è proprio grazie allo
sviluppo di un pensiero sul proprio pensiero che il bambino comincia a riflettere sui propri processi mentali, cerca di
capire che cosa lo spinge ad agire in un certo modo, pensa prima di agire, mettendo in atto, tra le possibili alternative,
esaminate mentalmente, la soluzione meno problematica. Da una prospettiva più legata alla psicologia la competenza
alla mentalizzazione fa parte dell’organizzazione del Sé, essendo essa una delle caratteristiche che definiscono il Sé
insieme alla coscienza del Sé, l’autonomia e la funzione riflessiva.

IL CONTESTO PRIMARIO DELLA FAMIGLIA


Se nel contesto primario della famiglia il bambino impara a relazionarsi con gli adulti attraverso il primo sviluppo della
teoria della mente, è nella scuola che egli trova uno spazio protetto, un tempo, con i suoi ritmi ai quali adattarsi, e
rapporti costanti con persone che gli forniscono gli aiuti di cui ha bisogno per migliorare le sue già acquisite abilità di
mentalizzazione. Questo aspetto, molto importante, è sotteso al fatto che la scuola, per istituzione, rappresenta il
contesto privilegiato per la crescita cognitiva, affettiva e sociale. La scuola, quindi, esercita un’influenza decisiva sul
bambino, in una fase in cui in lui si aprono nuovi orizzonti, mette alla prova sé stesso e gli altri, può soddisfare il
desiderio di acquisizione di nuove conoscenze, per aiutarlo a sviluppare e potenziare la teoria della mente. Quando egli
entra nella scuola, comincia a confrontarsi con i propri pensieri e quelli degli altri e, quindi, ad affrontare più
agevolmente il processo di scolarizzazione. Tale processo richiede che il bambino trovi le modalità per inserirsi nel
gruppo dei pari, valuti se e quando partecipare ai giochi con i compagni, se e quando rispondere alle domande che gli
vengono rivolte o prendere la parola durante le lezioni. Questo tipo di decisioni vengono prese dal bambino in base ai
criteri suggeriti dalle abilità metacognitive.

Lo sviluppo della competenza metacognitiva


Lo sviluppo della competenza metacognitiva negli alunni è universalmente riconosciuto come necessaria per migliorare
le prestazioni in compiti cognitivi; quanto più una persona è cosciente di ciò che fa e di come la propria mente lavora,
tanto più ottiene risultati positivi nelle attività che esegue. In questa prospettiva, pertanto, le difficoltà evidenziate da
alcuni studenti nel lavoro scolastico possono dipendere non da una carenza nelle abilità metacognitive di base, che di
conseguenza non permettono ad un alunno di ottenere scarsi risultati perché organizza il proprio lavoro in modo poco
funzionale agli obiettivi che si prefigge. L’obiettivo del lavoro didattico sulla componente metacognitiva è quello di
offrire agli alunni l’opportunità di imparare ad interpretare, organizzare e strutturare le informazioni ricevute
dall’ambiente, riflettere su questi processi e divenire sempre più autonomi.
L’avvicinamento dell’alunno alle dimensioni metacognitive passa da operazioni semplici relative al pensiero proprio e
altrui; imparare a distinguere tra il significato di un’affermazione (contenuto proposizionale), individuare, nei diversi
brani letti, il punto di vista dell’autore, le sue intenzioni, le sue credenze, qualche volta è anche richiesto di pensare una
conclusione diversa da quella offerta dall’autore. In questo modo il bambino è incoraggiato a sviluppare un pensiero
critico che può facilmente essere collegato alla comprensione della falsa credenza; può, cioè, riflettere sulle proprie e
altrui credenze, riconoscere i propri errori e valutare i punti di vista degli altri.
La scuola, nel favorire le attività di scolarizzazione, richiede al bambino, nello stesso tempo, capacità di mentalizzazione,
considerandola indispensabile per vivere nei diversi contesti in modo adattivo, ma va anche tenuto conto
dell’importanza dell’interpretazione del pensiero dell’altro, di chi, cioè, è nella fase di apprendimento, quando si
vogliano studiare i processi di insegnamento-apprendimento. L’insegnante assolve il suo mandato se comprende ciò che
il bambino già sa, ciò che vuole sapere, il suo stato emotivo, utilizzando la teoria della mente per regolare il proprio
comportamento sulla base degli stati mentali di chi deve apprendere. D’altra parte, già all’età di cinque anni, il bambino
è in grado di mettere in relazione quello che l’educatore insegna con le credenze (vere o false) che egli ha sul suo conto
come discente. Pertanto, non si può considerare il rapporto tra teoria della mente e interazione educativa solo dal
punto di vista del docente, ma tale interazione dovrebbe essere osservata anche nel discente quando la utilizza nel
momento in cui fruisce dell’intervento educativo. Si apprende, infatti, non tanto quando l’altro agisce su di noi, quanto
attraverso l’altro. In questo modo si costruisce la propria conoscenza in maniera intersoggettiva attraverso la
comprensione della mente altrui.

I MODI DI APPRENDERE
Sostanzialmente si possono individuare tre modi di apprendere: per imitazione, mediante istruzione, e utilizzando la
collaborazione. Queste modalità di apprendimento possono essere correlate ai tre concetti base della teoria della mente
cioè la comprensione delle intenzioni, la falsa credenza di primo ordine e la falsa credenza di secondo ordine.
L’apprendimento per imitazione avviene quando il bambino inferisce correttamente, osservando il comportamento
dell’insegnante, le intenzioni di questo finalizzate al conseguimento del risultato. Gli autori definiscono in questo caso
l’altro come “agente intenzionale” (x tenta di... ). Si apprende tramite istruzione attraverso il confronto comunicativo dei
diversi punti di vista che possono essere esposti, spiegati, confrontati tra docente e discente nella relazione educativa.
L’apprendimento tramite istruzione è reso possibile dal possesso del concetto dell’altro come “agente mentale” (x
pensa che …). L’apprendimento collaborativo (l’idea di base è che x pensa che y pensi che z...) è connesso con la capacità
di pensiero ricorsivo complesso.
Se l’insegnante considera l’alunno come agente mentale che impara attraverso il riconoscimento e il confronto delle
proprie e delle altrui credenze, ci troviamo di fronte al modello che gli autori definiscono “scambio intersoggettivo”, in
cui l’alunno è considerato lui stesso costruttore di conoscenza e cultura. Il dialogo e la collaborazione portano
necessariamente ad utilizzare forme linguistiche basate sul possesso di credenze che permettono ai partner di
riconoscere gli stati mentali propri e altrui e di riflettere su di essi.

IL RUOLO DELLA METACOGNIZIONE


Dal punto di vista educativo, il ruolo della metacognizione consiste nel rilevare che il processo educativo non deve
incidere soltanto sulle abilità di base possedute o acquisite o sulle nozioni via via apprese, ma soprattutto sulle modalità
di comprensione e di utilizzazione delle stesse. L’approccio metacognitivo tende a formare le capacità di essere gestori
diretti dei propri processi cognitivi dirigendoli attivamente con proprie valutazioni e indicazioni operative. Dal punto di
vista educativo il ruolo della metacognizione consiste nel rilevare che il processo educativo non deve incidere soltanto
sulle abilità di base possedute o acquisite o sulle nozioni via via apprese, ma soprattutto sulle modalità di comprensione
e di utilizzazione delle stesse. Per favorire questo tipo di didattica il corpo docente ha a disposizione diverse e semplici
metodologie, quali:
- sollecitare momenti di meta cognizione;
- favorire l’autoregolazione;
- percepire stati mentali;
- orientare il locus of control;
- analizzare il linguaggio, le espressioni del viso e i linguaggi non verbali;
- favorire la lettura di testi narrativi, l’attività autobiografica, la riflessione sulle proprie emozioni;
- discriminare tra eventi e intenzioni, credenze ed eventi;
- usare predicati mentalisti: intuire, volere, desiderare, sperare, credere,

UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’APPRENDIMENTO: IL SOCIOCOSTRUTTIVISMO


Negli ultimi due decenni si è sviluppata una rinnovata attenzione intorno ai processi di apprendimento. Attualmente,
anche alla luce della spinta delle proposte concettuali della psicologia culturale e del sociocostruttivismo, vi è una
pluralità di approcci e di teorie sull’apprendimento che vanno oltre il modello cognitivista, in tal senso è indicativo
quanto scrive Pontecorvo, nel capitolo introduttivo al diffuso e citato Manuale di Psicologia dell’educazione da lei
curato: “Un lettore avveduto si potrà chiedere come mai né in questo né in altro capitolo si trovi una esposizione
sistematica della prospettiva cognitivista al di là di molti accenni. Le teorie cognitiviste, nelle loro applicazioni specifiche
secondo il principio della specificità di dominio, sono presenti come riferimento rilevante in alcuni dei capitoli che
seguono (…). Tuttavia, ne manca una presentazione generale e soprattutto non vengono riconosciute come guida per
impostare un discorso psicoeducativo che vuole avere una valenza sociale e una spendibilità formativa. La ragione
profonda è che chi scrive, insieme a molti che hanno contribuito a questa opera, non ritengono di poterla considerare
come teoria generale di riferimento, come era sembrato possibile tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, quando si era pensato
che il cognitivismo potesse essere la guida per innovare profondamente l’educazione e la psicologia dell’educazione fino
ad allora, almeno nella vulgata angloamericana prevalente, completamente dominata dal comportamentismo. (…) La
motivazione più profonda di questa scelta è che si è preferito un approccio psicologico quale quello esposto in questo
capitolo che fosse capace di interpretare e guidare i processi educativi complessi, tenendo conto delle dimensioni di
contesto, cultura, contenuto e metodo, e che non trascurasse la costruzione dell’identità dell’individuo e le sue valenze
etico-sociali.”
In questa direzione, l’approccio socio-costruttivista si viene a delineare quale innovativo quadro teorico di riferimento
pedagogico che vede il soggetto che apprende quale reale protagonista di un processo di costruzione della propria
conoscenza, tale concezione sottolinea il carattere costruttivo, dialogico e quindi dominio- specifico dei processi di
apprendimento.

NOZIONE DI CARATTERE COSTRUTTIVO DELL’APPRENDIMENTO


Per quanto concerne la nozione di carattere costruttivo dell’apprendimento, esso non è il risultato immediato delle
informazioni proposte dall’insegnante e più in generale veicolate dal contesto bensì l’alunno costruisce il proprio
conoscere elaborando le informazioni nei termini ed in funzione dei propri modelli mentali e di conoscenza (schemi,
conoscenze, sistemi di credenze, categorie). Non sono dunque i dati in sé stessi ad avere potere informativo; il ruolo
preminente lo hanno i modelli che presidiano il modo con cui tali dati sono elaborati. Tale approccio si pone come
modello alternativo ad un approccio d’istruzione tradizionale, dove il fulcro dell’attività didattica è rappresentato
dall’insegnante; è l’alunno che, spinto dai propri interessi e situato in uno specifico contesto educativo, apprende
attraverso un processo di elaborazione ed integrazione di molteplici prospettive, informazioni ed esperienze, offerte dal
confronto e dalla collaborazione con i pari o con un gruppo di esperti.
Il modello di progettazione didattica proposto dal costruttivismo è centrato quindi sugli allievi, sui loro bisogni e sulle
loro risorse, ed in senso lato la formazione diviene interiorizzazione di una metodologia d’apprendimento che rende
progressivamente il soggetto autonomo nei propri processi conoscitivi. In linea con questa prospettiva l’informazione,
ovvero la conoscenza, non sta nella stimolazione ambientale, ma nel sistema di categorie e più in generale nei dispositivi
interni al soggetto attraverso cui e nei termini dei quali la stimolazione stessa è trattata e organizzata. Il che in altri
termini significa che il soggetto costruisce l’ambiente, attribuendogli significato in funzione delle categorie che possiede.
Nell’ambito di questa concezione epistemologica, la conoscenza si sviluppa nei termini di adeguatezza, piuttosto che di
una rappresentazione che tenda ad avvicinarsi sempre più al vero. L’altro aspetto caratterizzante l’impostazione della
didattica da una prospettiva socio costruttivista è la nozione dialogica dell’apprendimento. Tale prospettiva sottolinea il
ruolo intrinsecamente sociale della mente; la mente è strutturalmente sociale in quanto è il prodotto dell’esperienza
interpersonale. Il che in altri termini significa che pensare è un atto sociale, finalizzato, strumentale e subordinato alle
esigenze di regolazione della relazione sociale. Le opinioni, i giudizi, i significati che le persone producono nella
quotidianità non sono, dunque, proiezioni epifenomeniche di un funzionamento cognitivo, basato su procedure
incapsulate, rispondente a regole date. Al contrario, il pensiero è intrinsecamente argomentativo e retorico, orientato
dall’esigenza degli attori di proporre e sollecitare l’adesione alle visioni del mondo proposte.

IL MODO DI CONCEPIRE I PROCESSI DI APPRENDIMENTO


L’apprendimento avviene entro ed attraverso lo scambio dialogico che si instaura nel gruppo degli allievi e nella
relazione con l’adulto/docente. Esso, inoltre, si realizza per il tramite delle risorse cognitive e di senso proprie del
gruppo sociale. Inoltre, ancora, non esiste in sé, ma in quanto processo (luogo ed insieme strumento) di partecipazione
e di appartenenza del singolo ad una comunità di pratiche. Il costruttivismo di matrice socioculturale propone una
visione del processo di apprendimento entro la quale l’accento è posto non tanto sull’acquisizione di informazioni
predefinite, quanto sulla costruzione dialogica di nuove conoscenze. Lo stesso termine di apprendimento viene in
questa prospettiva messo in discussione. Al suo posto si propone la nozione di apprendistato, che dà l’immagine
dell’apprendimento come processo di inscrizione entro una comunità attraverso la socializzazione alle pratiche - sociali,
di ruolo, discorsive, cognitive - caratteristiche di tale comunità. L’impostazione socio costruttivista ha avuto un’influenza
notevole dal punto di vista della didattica; quanto messo in luce implica che lo sviluppo delle conoscenze avviene
attraverso traiettorie e percorsi multipli interagenti sotto l’influenza dei contesti sociali di riferimento, pertanto gli
studenti sono forieri di “teorie ingenue” sulla realtà, cornici interpretative, modelli mentali anche fortemente strutturati
che tendono a modificarsi a fatica. L’apprendimento, allora si configura come un’attività di ristrutturazione di questi
schemi rappresentativi, un adeguamento delle strutture cognitive inadeguate alle nuove esigenze. La didattica pertanto
deve volgere alla costruzione piuttosto che alla riproduzione di conoscenza, finalizzata a rendere invece visibile la
complessità della realtà e della sua poliedricità rappresentativa.
L’ attenzione si posiziona non solo sui contenuti ma sui processi attraverso i quali essi vengono elaborati e costruiti. In
questo senso, occorre progettare percorsi di apprendimento che consentano la formazione e la ristrutturazione
dell’identità personale in una logica orientativa, attraverso l’esplorazione, come esperienza di nuove possibilità, e la
riflessione come autoconsapevolezza delle modalità di interpretazione della realtà. Il costruttivismo non ha al momento
una didattica “forte” da proporre piuttosto coagula esigenze quali da un lato un “esigenza di rifiuto d’una figura di
insegnante come fornitore di informazioni, dall’altro di rifiuto del distacco della scuola dalla vita e del carattere “inerte”
della conoscenza, associato ad una carica oppositiva al modello corrente di scuola. Alcuni orientamenti generali
ricorrenti si possono sintetizzare nell’enfasi alla costruzione della conoscenza e non alla sua riproduzione, nell’evitare
eccessive semplificazioni rappresentando la naturale complessità del mondo reale, nell’offerta di ambienti di
apprendimento assunti dal mondo reale nell’alimentazione di pratiche riflessive e nella contestualizzazione delle
conoscenze.

LA DIDATTICA AD IMPRONTA SOCIO COSTRUTTIVISTA


Per certi versi la didattica ad impronta socio costruttivista rappresenta una miscela di elementi e di prassi che però non
sono lasciate all’attivismo del singolo insegnate, piuttosto sono realizzate alla luce di una impostazione epistemologica
che taglia radicalmente i ponti con l’idea di apprendimento - e di didattica - di impostazione cognitivista; in ogni
progetto costruito su tale impronta, la costruzione di uno scaffolding, in particolare il complesso di regole
comportamentali e sociali, è molto forte e strutturato. Si dà spazio allo studente agendo più pesantemente sul contesto
(norme cooperative molto precise, forte intervento di responsabilizzazione, presenza ed impiego analitico di dispositivi e
strumentazioni, ecc.). L’approccio didattico costruttivista, in questa direzione, si propone quindi come elemento
aggregatore e integratore di metodologie preesistenti, ricollocandole e riqualificandole all’interno di una visione
epistemica ne valorizza ulteriormente l’uso e ne costituisce la legittimazione e il fondamento.

DALLA PROGRAMMAZIONE ALLA PROGETTAZIONE


Oggi giorno all’interno del panorama scolastico e didattico parlare di programmazione didattica e di progettazione
didattica significa parlare di curriculo scolastico. Tale concetto può essere visto da una duplice, ed alternativa
prospettiva. Da un lato il curricolo può essere considerato il programma di studi (le materie scolastiche), ovvero, una
sequenza di corsi all’interno dei quali vengono definiti una serie di obiettivi in termini di risultati e che definiscono il
complesso degli apprendimenti e delle esperienze degli studenti, al contrario può essere concepito come l’insieme degli
aspetti che caratterizzano l’istruzione, e l’orientamento e i rapporti interpersonali, e che definisce il prodotto di un
processo, che coinvolge l’alunno, l’insegnate ed il contesto scolastico. Al di là delle diverse definizioni che possiamo dare
al curriculo esso è indissolubilmente legato ad una concezione in senso progettuale della funzione docente. Il concetto
stesso nasce entro il contesto pedagogico anglosassone caratterizzato dalla mancanza di dimensioni uniformi di
programma. Lo sviluppo della interpretazione in senso progettuale dell’insegnamento risponde a diversi ordini di
sollecitazioni teoriche e culturali. Il curricolo indica quindi la progettazione di una situazione educativa, ovvero l’insieme
organicamente progettato e realizzato per far conseguire agli alunni i traguardi di istruzione e formazione previsti. Tale
concezione, d’altra parte, pone in primo piano la capacità di progettazione che devono avere i docenti ed i traguardi di
formazione previsti dai programmi in vigore. Il curricolo si snoda quindi tra le prescrizioni ministeriali e l’autonomia
locale sostenuta dalle competenze didattico- metodologiche dei docenti. In questa prospettiva, il programma non copre
l’intero spettro delle dimensioni che intervengono a definire l’azione dell’insegnamento. L’orientamento a definire
saperi essenziali, in riferimento alle competenze, e la ricerca di forme di rappresentazione della conoscenza
maggiormente coerenti sia con lo statuto epistemologico delle discipline, sia con le caratteristiche dei processi di
apprendimento, costituiscono una parte essenziale della programmazione.
Tuttavia, l’innovazione nel campo dei modelli di programmazione è condizione necessaria ma non sufficiente per
pensare alla funzione docente come progettualità. Per assumere un carattere progettuale il docente deve definire sia il
che cosa che il come della pratica di insegnamento-apprendimento, facendosi carico della messa a punto delle
dimensioni del contesto curricolare che determina le condizioni di felicità della scelta didattica. In questa direzione
l’insegnamento si qualifica come progettuale in quanto, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, si fonda su una
opzione strategica e valoriale circa la definizione dei fini dell’agire educativo.

DI COMUNICAZIONE TRA INSEGNANTE ED ALLIEVO


Come abbiamo osservato nelle lezioni precedenti, grazi anche alla svolta socio costruttiva della pedagogia, le pratiche di
insegnamento-apprendimento sono sempre più concepite nella loro dimensione di processo dialogico e contingente.
Qualsiasi contenuto di comunicazione tra insegnante ed allievo non ha valore informativo in sé stesso, ma si traduce in
senso - e quindi in informazione - in ragione di come esso viene interpretato, pertanto per quanto un programma possa
proporsi come vincolante, è sempre e comunque l’interpretazione che di esso fa il docente (il gruppo dei docenti) a
funzionare in ultima istanza da vettore dell’insegnamento. È la dimensione interpretativa, operata dall’insegnante, che
permette di concepire l’insegnamento come una funzione teorico-pratica, e come una professionalità di carattere
riflessivo, cioè capace di incorporare al suo interno una competenza metalinguistica volta a rintracciare le categorie che
organizzano l’azione professionale stessa. Il curricolo pertanto diviene criterio, luogo, e momento di costruzione
collettiva di senso dell’agire didattico. Il nesso curricolo-progettualità emerge dalla constatazione dell’illusorietà dei
diversi tentativi, normativi e concettuali, di risolvere/saturare in termini di razionalità tecnica la dimensione progettuale
dell’insegnamento. La letteratura ha ampiamente registrato il fallimento dei vari tentativi di innovazione curricolare
basati sulla logica top-down dei due tempi; prima la progettazione razionale, scientificamente fondata (in genere
operata in ambiti separati dalla scuola), poi l’attuazione (da parte dei docenti). Pontecorvo e Fusè a tal proposito hanno
sostenuto: “la presenza di materiale didattico nuovo, di libri di testo adeguati alle innovazioni, di sussidi diversi, non è
bastata a garantire un reale cambiamento del lavoro didattico nelle classi, dove spesso gli insegnanti continuano a
insegnare quello che sanno meglio e che ritengono più importante. (…). Anche quando non si è cercato di proposito di
costruire dei curricoli “a prova di insegnante”, cioè indipendenti dall’insegnante, e ci si è seriamente preoccupati della
riqualificazione dei docenti, non si è data adeguata importanza a quelle modalità di conduzione del lavoro didattico già
acquisito dai migliori insegnanti e non si è cercato di coinvolgerli a sufficienza in una ricerca che - pur richiedendo il
contributo di diverse competenze disciplinari - non può fare a meno della partecipazione di coloro che insegnano e deve
essere strettamente collegata alle concrete situazioni di insegnamento.”

RIELABORAZIONE DI UNA LEZIONE


L’implicazione dei docenti nei processi di trasformazione non va intesa come mera esigenza tattica, finalizzata
all’acquisizione di consenso. Il punto è più profondo, riguardando l’impossibilità di dare fondamento universale alle
scelte curricolari. La riflessione epistemologica ha infatti chiarito che l’agire educativo non può essere pensato come una
risposta conseguente ad un’analisi razionale e neutrale dei suoi compiti e dei suoi oggetti. Ciò in quanto l’oggetto
dell’agire educativo non precede l’agire stesso, ma è da questo costruito; la pedagogia non può assumere come proprio
ancoraggio il discente, i suoi bisogni, in quanto questi sono comunque definiti dalla pedagogia pur non fondandola.
Tuttavia, non è sufficiente affermare che la progettazione formativa oggi è importante perché incidere concretamente
sul buon funzionamento delle scuole; i modelli progettuali, infatti devono essere valutati alla luce dei risultati di
apprendimento che essi sono in grado di garantire. Oggi la scuola ha il compito di fornire a tutti i soggetti gli strumenti
necessari per l’esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole, ed è in questa prospettiva che progettazione
curricolare e formativa devono interagire quali dimensioni in grado di offrire sia la possibilità di permettere ad ogni
individuo una autonoma costruzione di conoscenze e competenze sia di formarsi come persona in tutte le molteplici
articolazioni. La prospettiva di sviluppo progettuale delle pratiche di insegnamento apprendimento diviene pertanto una
metodologia di lavoro per perseguire il fine didattico in chiave integrativa poiché l’attuazione di un’attività progettuale
sugli alunni da parte dell’insegnante implica lo sviluppo di un pensiero riflessivo sugli alunni e sulla classe stessa, che
funga da base per l’attuazione di prassi didattica in grado di permettere l’interazione tra di ogni individualità nella
propria peculiarità e specificità.
In questa direzione ogni attività didattica intesa in una prospettiva progettuale diviene intrinsecamente integrativa, volta
cioè a permettere contemporaneamente la realizzazione del singolo ed il raggiungimento di specifici standard formativi
predefiniti in sede programmatica. L’azione progettuale viene inserita nel contesto della decisionalità e, quindi,
declinata attraverso la possibilità di scegliere tra più condotte possibili quelle modalità capaci di rendere efficace
l’intervento della formazione in rapporto alle caratteristiche degli alunni, al materiale d’apprendimento, al contesto ai
mezzi e alle risorse didattiche e agli obiettivi del processo. Pertanto, la prospettiva progettuale passa necessariamente
dall’attivazione di procedure logiche intenzionali precedentemente pianificate dall’insegnante che predispongano una
condizione di razionalizzazione del processo di insegnamento/apprendimento, e che siano coadiuvate da un
controllo/gestione sistematica sulla complessità dell’intervento formativo.

LA PROGRAMMAZIONE
Le opportunità offerte dalla flessibilità organizzativa e didattica previste dall’autonomia delle istituzioni scolastiche
consentono di articolare l'attività di insegnamento secondo le più idonee modalità per il raggiungimento del successo
formativo di tutti gli alunni e per il raggiungimento del diritto allo studio degli alunni con disabilità. Al fine dell’inclusione
scolastica degli alunni con disabilità l’obiettivo fondamentale della Legge 104/92, art. 12, c. 3, è lo sviluppo degli
apprendimenti mediante la comunicazione, la socializzazione e la relazione interpersonale “L’integrazione scolastica ha
come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell'apprendimento, nella comunicazione, nelle
relazioni e nella socializzazione”. Il comma 4 stabilisce inoltre che “l'esercizio del diritto all'educazione e all'istruzione
non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse
all'handicap”.
La progettazione educativa per gli alunni con disabilità deve, dunque, essere costruita tenendo ben presente questa
priorità. Qualora, per specifiche condizioni di salute dell’alunno o per particolari situazioni di contesto, non fosse
realmente possibile la frequenza scolastica per tutto l’orario, è necessario che sia programmato un intervento educativo
e didattico rispettoso delle peculiari esigenze dell’alunno e, contemporaneamente, finalizzato al miglioramento delle
abilità sociali, al loro potenziamento e allo sviluppo degli apprendimenti anche nei periodi in cui non è prevista la
presenza in classe. Sulla base di tale assunto, è contraria alle disposizioni della Legge 104/92, la costituzione di laboratori
che accolgano più alunni con disabilità per quote orarie anche minime e per prolungati e reiterati periodi dell’anno
scolastico.
La socializzazione è uno strumento di crescita da integrare attraverso il miglioramento degli apprendimenti con buone
pratiche didattiche individualizzate e di gruppo. Fondamentale è la centralità della progettazione educativa
individualizzata che, sulla base del caso concreto e delle sue esigenze, individua interventi equilibrati fra apprendimento
e socializzazione e realizza l’apprendimento nell'ambito della classe e nel contesto del programma in essa attuato. Dal
punto di vista concettuale e metodologico è opportuno distinguere fra la programmazione personalizzata che
caratterizza il percorso dell’alunno con disabilità nella scuola dell’obbligo e la programmazione differenziata che, nel II
ciclo di istruzione, può condurre l’alunno al conseguimento dell’attestato di frequenza.
Una progettazione educativa che scaturisce dal principio del diritto allo studio e allo sviluppo, nella logica anche della
costruzione di un progetto di vita che consente all'alunno di “avere un futuro”, va definito all'interno dei Gruppi di
lavoro deputati a tale fine per legge. L'istituzione di tali Gruppi in ogni istituzione scolastica è obbligatoria. Si è
integrati/inclusi in un contesto, infatti, quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri,
quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altri. Tale
integrazione sostanziale (e non formale), non può essere lasciata al caso, o all'iniziativa degli insegnanti per le attività di
sostegno, che operano come organi separati dal contesto complessivo della classe e della comunità educante.

LA PROGETTAZIONE EDUCATIVA
È necessario invece procedere secondo disposizioni che coinvolgano tutto il personale docente, curricolare e per le
attività di sostegno, così come indicato nella nota ministeriale prot. n. 4798 del 25 luglio 2005, di cui si ribadisce la
necessità di concreta e piena attuazione. Per non disattendere mai gli obiettivi dell’apprendimento e della condivisione,
è indispensabile che la programmazione delle attività sia realizzata da tutti i docenti curricolari, i quali, insieme
all’insegnante per le attività di sostegno e definiscono gli obiettivi di apprendimento per gli alunni con disabilità in
correlazione con quelli previsti per l’intera classe. Le finalità della programmazione comune fra docenti curricolari e per
le attività di sostegno per la definizione del Piano educativo dell'alunno con disabilità vedono nella programmazione
comune una garanzia di tutela del diritto allo studio. La cooperazione e la corresponsabilità del team docenti sono
essenziali per le finalità previste dalla legge. La documentazione relativa alla programmazione deve essere resa
disponibile alle famiglie, al fine di consentire loro la conoscenza del percorso educativo concordato e formativo
pianificato. A questo riguardo è importante sottolineare l'importanza, in particolare nel momento del passaggio fra un
grado e l’altro d’istruzione, del fascicolo individuale dell'alunno con disabilità, che dovrà essere previsto a partire dalla
Scuola dell’Infanzia e comunque all’inizio del percorso di scolarizzazione, al fine di documentare il percorso formativo
compiuto nell'iter scolastico.

LE CONSULTAZIONI TRA INSEGNANTI


Relativamente al passaggio da un ciclo all’altro è obbligatoria la consultazione fra gli insegnanti della classe frequentata
dall’alunno con disabilità e gli inseganti impegnati nel passaggio in questione, consentano che il docente del grado
scolastico già frequentato partecipi alle fasi di accoglienza e di inserimento nel grado successivo. Particolare importanza
ha in tale ambito la consegna della documentazione riguardante l'alunno con disabilità al personale del ciclo o grado
successivo. Tale documentazione dovrà essere completa e sufficientemente articolata per consentire all'istituzione
scolastica che prende in carico l'alunno di progettare adeguatamente i propri interventi. Talvolta, semplicemente la
carenza documentale può rallentare il raggiungimento del successo formativo richiesto dalle disposizioni legislative. È
inoltre opportuno valutare attentamente se il principio tutelato costituzionalmente del diritto allo studio e interpretato
dalla Legge 59/97 come diritto al successo formativo per tutti gli alunni, possa realizzarsi, fermo restando le deroghe
previste dalla normativa vigente, attraverso la permanenza nel sistema di istruzione e formazione fino all'età adulta (21
anni) o attraverso rallentamenti eccessivi in determinati gradi scolastici. Il sistema di istruzione, infatti, risponde ai
bisogni educativi e formativi dei giovani cittadini, rendendosi alla fine necessario, anche attraverso la piena attuazione di
norme che garantiscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, il passaggio della presa in carico ad altri soggetti
pubblici. A questo scopo, per quanto di competenza del sistema nazionale di istruzione è fondamentale l'organizzazione
puntuale del passaggio al mondo del lavoro e dell'attuazione del progetto di vita.

IL PATTO EDUCATIVO DI CORRESPONSABILITÀ


Il Patto educativo di corresponsabilità coinvolge docenti e genitori, è un documento, diviso in due parti: prevede le
norme che regolamentano il comportamento dei docenti e le norme per il comportamento degli studenti, e si conclude
con una tabella interna definitiva che serve alla valutazione del comportamento del discente.
OGNI DOCENTE, PER SÉ E COLLEGIALMENTE:
•prende visione della certificazione diagnostica rilasciata dagli organismi preposti;
• procede, in collaborazione dei colleghi della classe, alla documentazione dei percorsi didattici individualizzati e
personalizzati previsti;
•attua strategie educativo-didattiche di potenziamento e di aiuto compensativo;
•adotta misure dispensative;
•attua modalità di verifica e valutazione adeguate e coerenti;
•realizza incontri di continuità con i colleghi del precedente e successivo ordine o grado di scuola al fine di condividere i
percorsi educativi e didattici effettuati dagli alunni, in particolare quelli con DSA, e non disperdere il lavoro svolto.
LA FAMIGLIA:
•consegna alla scuola la diagnosi di cui all’art. 3 della Legge 170/2010;
•condivide le linee elaborate nella documentazione dei percorsi didattici individualizzati e personalizzati
•è chiamata a formalizzare con la scuola un patto educativo/formativo che preveda l’autorizzazione a tutti i docenti del
Team - nel rispetto della privacy e della riservatezza del caso – ad applicare ogni strumento compensativo e le strategie
dispensative ritenute idonee, previste dalla normativa vigente, tenuto conto delle risorse disponibili;
•sostiene la motivazione e l’impegno dell’alunno o studente nel lavoro scolastico e domestico;
•verifica regolarmente lo svolgimento dei compiti assegnati;
•verifica che vengano portati a scuola i materiali richiesti;
•incoraggia l’acquisizione graduale dell’autonomia nella gestione dei tempi di studio, nell’impegno scolastico e nelle
relazioni con i docenti;
•considera non soltanto il significato valutativo, ma anche formativo delle singole discipline.

IL CLIMA DELLA CLASSE


Nel processo di inclusione, il clima della classe è fondamentale. Tutti gli insegnanti sono chiamati a: - essere attenti ai
bisogni di ciascuno; - accettare le diversità presentate dagli alunni disabili; - valorizzare le diversità come arricchimento
per l’intera classe; - favorire la strutturazione del senso di appartenenza; - costruire relazioni socioaffettive positive.
L'inclusione richiede la realizzazione di una cultura di solidarietà, che riesce a dimostrare che gli alunni disabili sono
risorse per i compagni (gli insegnanti personalizzano tutti gli interventi didattici) e che i compagni non disabili sono una
risorsa per i disabili (li aiutano a crescere in autonomia e socializzazione). Tutto ciò avviene se gli insegnanti sanno
costruire rapporti di comunicazione reciproca.

LA CORRESPONSABILITÀ EDUCATIVA E FORMATIVA DEI DOCENTI


Una scuola è inclusiva se al suo interno si avvera una corresponsabilità educativa diffusa e se si possiede una
competenza didattica adeguata ad impostare una fruttuosa relazione educativa anche con alunni con disabilità. Tutti gli
inseganti dell’intera comunità scolastica sono chiamati a progettare gli interventi da adottare, ad organizzare i curricoli
in funzione dei diversi stili o delle diverse attitudini cognitive, a gestire in modo alternativo le attività d’aula, a favorire e
potenziare gli apprendimenti e ad adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni. Solo in
questo modo gli alunni esercitano il proprio diritto allo studio inteso come successo formativo per tutti.

IL COLLEGIO DOCENTI E I CONSIGLI DI CLASSE


Il Collegio dei docenti provvede ad attuare tutte le azioni volte a promuovere l’inclusione scolastica e sociale degli alunni
con disabilità, inserendo nel Piano dell'Offerta Formativa (P.T.O.F.) la scelta inclusiva dell’Istituzione scolastica e
indicando le prassi didattiche che promuovono effettivamente l’inclusione (gruppi di livello eterogenei, apprendimento
cooperativo, ecc.). I Consigli di classe si adoperano al coordinamento delle attività didattiche, alla preparazione dei
materiali e a quanto può consentire all'alunno con disabilità, sulla base dei suoi bisogni e delle sue necessità, la piena
partecipazione allo svolgimento della vita scolastica nella sua classe.

LA COLLABORAZIONE CON LE FAMIGLIE


Ai sensi dell’art 12 comma 5 della L. n. 104/92, la famiglia ha diritto di partecipare alla formulazione del Profilo Dinamico
Funzionale e del PEI, nonché alle loro verifiche. Gli orientamenti normativi degli ultimi anni evidenziano una sempre più
ampia partecipazione delle famiglie al sistema di istruzione: dall’istituzione del Forum Nazionale delle Associazioni dei
Genitori della Scuola, previsto dal D.P.R. 567/96, al rilievo posto dalla Legge di riforma n. 53/2003, Art. 1, alla
collaborazione fra scuola e famiglia. La famiglia rappresenta un punto di riferimento essenziale per la corretta inclusione
scolastica dell’alunno con disabilità, sia in quanto fonte di informazioni preziose sia in quanto luogo in cui avviene la
continuità fra educazione formale ed educazione informale. É allora necessario che i rapporti fra istituzione scolastica e
famiglia avvengano, per quanto possibile, nella logica del supporto alle famiglie medesime in relazione alle attività
scolastiche e al processo di sviluppo dell'alunno con disabilità. La documentazione relativa all'alunno con disabilità deve
essere sempre disponibile per la famiglia e consegnata dall'istituzione scolastica quando richiesta. Di particolare
importanza è l’attività rivolta ad informare la famiglia sul percorso educativo che consente all’alunno con disabilità
l’acquisizione dell’attestato di frequenza piuttosto che del diploma di scuola secondaria superiore.

PROSPETTIVE DI INNOVAZIONE PER LA DIDATTICA


Il sistema scolastico negli ultimi anni è stato oggetto di numerosi cambiamenti sia dal nelle concezioni della conoscenza
e dei processi di apprendimento sia dal punto di vista epistemico che dal punto di vista delle prassi professionali In
particolare la concezione didattica modulare sembra configurarsi quale punto di riferimento rappresentativo del quadro
culturale e metodologico che caratterizza il campo della riflessione pedagogica, e che possono essere intese come
altrettante strategie per una nuova concezione dei setting di apprendimento in chiave integrativa e che supera la
concezione tradizionale dell’insegnamento come trasmissione lineare di conoscenze aprendo verso una concezione di
didattica integrante ed integrativa, capace di rispondere alle esigenze di progettualità per ciascun alunno. Il docente oggi
è chiamato a una progettualità nuova all’interno del quadro di riferimento generale dell’ordinamento, una progettualità
che ha la sua massima rappresentatività nella strutturazione di moduli originali. Il modulo non deve presentarsi come un
nucleo chiuso ma come un nodo di una rete di relazione e interferenze interdisciplinari o tecnico-professionale. Esso
rappresenta una parte significativa, altamente omogenea e unitaria rispetto al suo impianto concettuale, di un più
ampio percorso formativo, facilmente suddivisibile in ulteriori segmenti unitari; le unità didattiche.
Il principio fondamentale della didattica modulare è la flessibilità del curricolo. Si rompe l’assetto rigido, determinato
dall’accoppiamento gruppo classe/corpo docente/insegnamenti disciplinari incapsulati, operanti in parallelo lungo tutto
l’arco dell’anno. Le attività didattiche vengono ricomposte in unità temporali e spaziali di forma e periodizzazione
variabile, secondo le esigenze, le caratteristiche e possibilmente le preferenze degli allievi (…) la modularità - che
rappresenta una particolare forma di adattamento dell’azione didattica ai contesti educativi - è una strategia formativa
flessibile, ma altamente strutturata, in cui l’organizzazione del curricolo, delle risorse materiali, del tempo e dello spazio
prevede l’impiego opportunamente modellabile di segmenti di itinerari non lineari di insegnamento-apprendimento - i
moduli - che hanno struttura, funzioni ed estensione variabili, ma formalmente e unitariamente definite. Ciascun
modulo viene a costituire una parte significativa, altamente omogenea ed unitaria (in termini di contenuti informativi
offerti, di categorie e schemi concettuali proposti, nonché di processi cognitivi attivabili) di un più esteso percorso
formativo, disciplinare o pluri, multi, interdisciplinare programmato o programmabile, una parte del tutto, ma in grado
di assolvere ben specifiche funzioni educative e didattiche, e di far perseguire ben precisi obiettivi cognitivi verificabili,
documentabili (quando necessario certificabili) e capitalizzabili (cumulabili).”

LA DIMENSIONE MODULARE NELLA PRASSI PEDAGOGICA


La dimensione modulare nella prassi pedagogica ridefinisce la pratica didattica sia da punto di vista temporale
permettendo di definire il monte ore sulla base degli obiettivi formativi sia dal punto di vista spaziale. I moduli non
essendo vincolati al gruppo classe permettono una logica innovativa di cooperazione tra docenti, non solo gli insegnanti
sono chiamati ad aggregarsi in team sulla base delle discipline implicate nel modulo ma soprattutto, essi si ritrovano a
dover orientare la propria azione non più sulla base dei contenuti di competenza e di conoscenza disciplinari di cui sono
individualmente portatori e insieme garanti, ma in ragione dell’obiettivo sovraordinato e negoziato posto a scopo del
modulo. L’idea di modulo quindi si propone da un lato come rottura dell‟autoreferzialità dell’insegnamento , e dall’altro
come possibilità di progettazione di interventi integrativi verso studenti con bisogni educativi speciali o certificati in
grado di considerare le reali esigenze del singolo in ragione delle diverse domande e necessità di istruzione, in concerto
con le esigenze formative dell’intera classe; l’agire educativo diviene pertanto una azione collettiva organizzata.
Complementarmente la didattica modulare permette di differenziare l’offerta didattica, articolandola in termini di
contenuti e/o obiettivi e/o metodi di insegnamento. È bene ricordare, però, che la realizzazione di una didattica
modulare non si realizza in termini di un “calderone” formativo, al contrario la sua realizzazione esige il costante
monitoraggio delle variabili in gioco (contenuti culturali, funzioni e dispositivi didattici, risorse didattiche; caratteristiche
degli allievi).
I moduli sono appositamente studiati in luce di una logica di programmazione curricolare centrata sulle competenze,
che non prescrive percorsi, contenuti e modalità rigide ed uniformi, ma individua il bagaglio essenziale di saperi e abilità,
attese come risultato in uscita. L’apprendimento modulare si realizza pertanto nei termini di nuclei di conoscenze in
grado di organizzare le conoscenze, configurandosi come una strategia didattica che propone al contempo un metodo di
progettazione e di organizzazione dei contesti di insegnamento- apprendimento. Tale prospettiva risponde, d’altra parte
all’esigenza delle prassi didattiche integrative di individuare una sintesi entro la dialettica tra il riconoscimento del
carattere scarso e vincolato delle risorse e l’esigenza di diversificare l’offerta formativa, in modo da renderla appropriata
alle esigenze, alle attitudini e agli interessi dell’utenza, anzi delle utenze ed impegna la scuola a favorire un’integrazione
che non poggi sull’omogeneizzazione coatta o sulla perdita di identità, ma che trovi basi comuni e valori condivisi per
rispondere alle esigenze formative di allievi provenienti da esperienze e culture molto diversificate.

I PRINCIPI ALLA BASE DELLA DIDATTICA MODULARE


Se i principi alla base della didattica modulare hanno trovato grossi favori tra i riformisti della pedagogia e della didattica
tuttavia trovano difficoltà a innervarsi pragmaticamente all’interno dell’istituzione scolastica italiana per svariati motivi,
alcuni, infatti, ritengono che l’organizzazione modulare della didattica implichi, in ragione della sua formalizzazione, un
carico di lavoro non sostenibile piuttosto che di potenziamento dell’azione didattica. Un’ulteriore critica a questo
modello didattico, che assume una prospettiva epistemologica forte, viene da chi sostiene che una didattica fortemente
modulare condivide un’idea di formazione che rinuncia a porsi come obiettivo l’apprendimento di conoscenze, per
puntare sulla promozione di abilità funzionali; la didattica modulare parte dalla premessa fondamentale che i contenuti
non sono il fine del processo educativo, e da questo deriva che i moduli devono servire allo scopo non di approfondire la
conoscenza, ma di sviluppare delle competenze. Al di là dell’acceso dibattito, nel quale per ovvie ragioni di spazio non ci
dilungheremo, la rottura dell’assetto univoco dei percorsi di apprendimento, con la conseguente trasformazione dei
percorsi didattici in una sorta di reticolo, apre ad una riflessione sul ruolo della didattica modulare nel contesto
formativo ed integrativo odierno. Infatti, la pluralizzazione dei percorsi modulari, la loro costruzione e segmentazione,
trova la sua ragion d’essere, ed insieme il suo vincolo, nel riferimento al fruitore. Si provi ad immaginare cosa possa
essere la modularità priva di questo criterio di ancoraggio; un gioco potenzialmente infinito di composizione e
scomposizione dei saperi, in percorsi che rispondono di volta in volta alle dinamiche interne di organizzazione delle
discipline, così come possono venir interpretate e veicolate entro i processi di negoziazione del gruppo docente. D’altra
parte, il curricolo modulare quando svuota il momento didattico dalla sua uniformità prescrittiva, implica per definizione
un allievo che si faccia almeno in parte compartecipe della costruzione del percorso. In altri termini, la modularità non è
compatibile con una posizione di assoluta adempitività da parte del discente. Questi è chiamato a scegliere, ad operare
una selezione, sia tra i nodi del reticolo, sia all’interno del singolo nodo, tra la massa di informazioni e di potenziali
connessioni che gli si apre dinanzi. Insomma: il modulo implica un allievo che in qualche modo, naturalmente dalla
posizione di discente, interviene come co-costruttore del curricolo.
L‟Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) indica la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, tale disturbo
si manifesta fin dall’infanzia poiché legato a un’origine neurobiologica. Tale sindrome identifica un disturbo dello
sviluppo che colpisce primariamente le aree dell’attenzione e della concentrazione, sebbene tutte le sfere del vivere; i
bambini che ne sono affetti non riescono a controllare le loro risposte all’ambiente, sono disattenti, iperattivi e
impulsivi, fino a compromettere la loro vita di relazione e scolastica.

PROSPETTIVE PER L’INTEGRAZIONE DEGLI ALUNNI CON ADHD


L’ADHD è un disturbo pervasivo di tutto l’arco di vita della persona. Non è solamente pediatrico, sebbene sia proprio la
fase scolastica che mette in luce chiaramente le sue diverse manifestazioni poiché le difficoltà comportamentali e di
concentrazione, insite nella malattia, si traducono in scarso rendimento scolastico, intollerabilità verso i compagni,
aggressività e impulsività. Tutte manifestazioni che vengono percepite dai genitori e dagli insegnanti ma che sono spesso
misconosciute o diagnosticate tardivamente dai clinici. È invece importante diagnosticare quanto prima possibile
l‟ADHD e iniziare tempestivamente una terapia poiché solo con l’ausilio di adeguati supporti i bambini e le loro famiglie
potranno finalmente cogliere la bellezza di una vita “normale”. Secondo i criteri diagnosti internazionali (DSM-IV),
l‟ADHD è caratterizzato da due gruppi di sintomi o dimensioni; l’inattenzione e l’impulsività/iperattività. La dimensione
inattentiva si manifesta molto precocemente nel contesto scolastico attraverso alcuni chiari indicatori quali la scarsa
cura per i dettagli, la difficoltà a mantenere l’attenzione a lungo. I bambini con ADHD, infatti, appaiono distratti, hanno
forti difficoltà a svolgere attività che richiedano attenzione, perdono frequentemente gli oggetti e dimenticano attività
importanti. É importante che tali dimensioni non vengano attribuite semplicemente ad aspetti di sbadataggine,
piuttosto essi sono connessi a un rapido raggiungimento del livello di “stanchezza” che spingono il bambino a frequenti
spostamenti da un’attività, non completata, ad un’altra per poter ricostruire la dimensione attentiva. L’ impulsività si
manifesta attraverso un controllo inadeguato della componente impulsiva; questi bambini faticano a fermarsi a pensare
prima di agire, hanno difficoltà ad aspettare il proprio turno, a lavorare per un premio consistente ma lontano nel
tempo. É questa dimensione che nella maggior parte delle situazioni viene associata all’iperattività descritta nei termini
di agitazione irrequietezza ecc.
Compito essenziale dell’insegnante è quello di gestire, controllare e incanalare le doti del bambino, per far emergere
tutte le sue straordinarie potenzialità. La gravità e la persistenza dei sintomi dell’ADHD sono fortemente influenzate
dalle variabili ambientali. L’accettazione del bambino da parte degli altri, l’incoraggiamento e l’aiuto di fronte alle
difficoltà sono determinanti nel miglioramento delle sue condizioni, tenendo presente che la sensibilità dei bambini con
ADHD può essere particolarmente sviluppata, e che d’altra parte la loro irruenza rischia di allontanarli dalle amicizie;
questi bambini avvertono in modo particolarmente accentuato l’emarginazione sociale e scolastica a cui spesso sono
costretti dal loro carattere impetuoso e prepotente.
Uno dei compiti principali dell’insegnante consiste nel favorire l’accettazione e l’integrazione del bambino con ADHD tra
i compagni e permettere che s’instaurino rapporti di cooperazione e amicizie; la partecipazione attiva dell’alunno con
ADHD può aumentare gli scambi relazionali e la condivisione delle esperienze didattiche ed emotive nonché
determinare un clima ottimale per l’impegno e la motivazione. Alcuni accorgimenti che possono essere di aiuto in
questa direzione sono non creare situazioni di competizione, incoraggiare il bambino a esprimere le sue abilità di leader
e non fraintendete la sua incapacità di attendere come impazienza o prepotenza, insegnare ai bambini che
interrompono con frequenza come riconoscere le pause nella conversazione e a non rendersi elementi di disturbo per i
propri compagni, mantenere le convenzioni sociali (ad esempio, buongiorno, ciao, per favore, grazie), permettere al
bambino di dimostrare, ogni giorno o ogni settimana, le proprie capacità, insegnare a prevedere le conseguenze del
proprio comportamento.
È utile invitarlo a riflettere in anticipo sugli eventi futuri e a immaginare quali conseguenze il suo comportamento
potrebbe generare. L’intervento nei casi di alunni affetti da ADHD non può prescindere da un approccio sistemico in
grado di implicare nell’intervento educativo i genitori, gli insegnanti e lo stesso bambino. Indubbiamente bambini con
ADHD all’interno di un sistema come quello scolastico necessitano di una programmazione individualizzata sulla base
dei sintomi più severi e dei punti di forza identificabili. Se da un lato i sintomi cardine di impulsività e inattenzione sono
gestibili anche alla luce di un’accurata terapia farmacologica, i disturbi della condotta, di apprendimento e di interazione
sociale richiedono invece interventi psicosociali ambientali e psicoeducativi centrati sulla famiglia, sulla scuola e sulla
collaborazione attiva con i compagni di classe. Dato che i bambini con ADHD traggono beneficio da una programmazione
abituale e di routine, la gestione del comportamento può essere parte integrante di una strategia globale che consideri
l’intera giornata in modo adeguato e finalizzato all’integrazione del bambino nel contesto classe. Occorre puntare
sull’integrazione di interventi tesi a fare leva sulle componenti comportamentali, cognitive e metacognitive, messe in
atto sia in situazioni di gioco che in attività di insegnamento-apprendimento e in questa prospettiva sembrano molto
utili le attività di:
- problem solving: riconoscere il problema, generare soluzioni alternative, pianificare la procedura per risolvere il
problema, etc.;
- autoistruzioni verbali al fine di acquisire un dialogo interno che guidi alla soluzione delle situazioni problematiche;
- stress inoculation training: indurre il ragazzino ad auto-osservare le proprie esperienze e le proprie emozioni,
soprattutto in coincidenza di eventi stressanti e, successivamente, aiutarlo ad esprimere una serie di risposte alternative
adeguate al contesto.
In generale bisogna tenere presente che i bambini con ADHD sono bambini con i quali è necessario avere pazienza,
ovvero riconoscere che ci vorrà tempo prima che il comportamento cambi e ottenere risultati richiede molto impegno.
Le scuole di norma usano già dei sistemi di ricompensa nelle varie attività di classe per tutti i bambini, tuttavia
l’inserimento di bambini con ADHD si rivela sempre difficile a causa della difficoltà a permettere al bambino con ADHD di
partecipare al sistema di tutta la classe. A tal fine si è dimostrato molto utile un atteggiamento da parte dell’insegnante
teso a non confrontare i comportamenti con quelli degli altri, combinato all’uso di un sistema di ricompensa differente.
L’insegnante dovrebbe fare attenzione a non farlo sentire diverso dagli altri bambini, evitando di dare attenzione
eccessiva ai comportamenti. I bambini con ADHD possono essere aiutati strutturando e organizzando l’ambiente in cui
vivono. Genitori e insegnanti possono anticipare gli eventi al posto loro, scomponendo i compiti futuri in azioni semplici
e offrendo piccoli premi e incentivi, a tal fine il lavoro sinergico scuola-famiglia deve essere teso a sostenere il bambino
nell’analizzare ciò che accade intorno a lui prima, durante e dopo il loro comportamento inadeguato o disturbante e a
rendere comprensibili al bambino il tempo, le regole e le conseguenze delle azioni, questo lavoro sembra, infatti,
indispensabile per permettere ai bambini iperattivi di ampliare il proprio repertorio interno di informazioni, regole e
motivazioni. A volte la comunicazione tra scuola e famiglia non risulta efficace perché i genitori si sentono sotto accusa
dagli insegnanti e difendono il figlio giustificando alcuni comportamenti come normale vivacità che si manifesta anche in
ambienti extrascolastici. I docenti da parte loro tendono ad accusare i genitori di non fornire al figlio una corretta
educazione, non comprendendo la giusta causa del fenomeno.
Per creare dunque un clima favorevole compito della scuola non deve perciò essere quello di ipotizzare le cause di tali
manifestazioni, ma dev’essere quello di ricercare strumenti adeguati al fine di recuperare la motivazione degli alunni
ADHD. L’ampia mole di studi in letteratura scientifica hanno messo alcune linee guida che nel lavoro con i bambini con
ADHD si sono dimostrate fortemente efficaci. Per migliorare l’apprendimento e il comportamento in classe occorre:
cercare di individuare i problemi e le esigenze specifiche di ciascun alunno; definire con tutti gli studenti poche e chiare
regole di comportamento da mantenere all’interno della classe e fissate attività di routine, orari e tempi; concordare
con l’alunno piccoli e realistici obiettivi comportamentali e didattici da raggiungere in tempi brevi, nel corso di qualche
settimana; mostrare al bambino come organizzare il proprio banco, in modo da avere solo il materiale necessario per la
lezione del momento; insegnare qualche strategia che gli consenta di migliorare gli apprendimenti gratificandolo
regolarmente quando metterà in atto i comportamenti desiderati; mantenere un contatto costante con i genitori del
bambino, anche quotidiano, per comunicare progressi o difficoltà a scuola e per confrontarsi sull’andamento del piano
educativo individualizzato che è stato concordato insieme in base alle esigenze del bambino.
Partendo dal presupposto che il comportamento dei bambini con iperattività peggiora notevolmente nelle situazioni
poco motivanti e ripetitive, può essere utile creare una certa aspettativa nei confronti della lezione successiva e quindi,
rendere poi la lezione più stimolante portando un oggetto che rappresenti concretamente il tema della lezione e che
possa incuriosire. Per lo stesso motivo durante la lezione può essere utile usare alcuni accorgimenti come variare il tono
di voce, porre frequentemente domande che richiedono risposte aperte e muoversi all’interno della classe. Queste linee
d’intervento se portate avanti sia all’interno sia all’esterno dell’ambiente scolastico si sono dimostrate in grado di:
migliorare le relazioni interpersonali con genitori, fratelli, insegnanti e coetanei; diminuire i comportamenti dirompenti
e inadeguati aumentando la capacità di autocontrollo verbale e motorio; migliorare le capacità di apprendimento
scolastico e recuperare i prerequisiti necessari a un buon percorso scolastico (quantità di nozioni, accuratezza e
completezza delle nozioni apprese, efficienza delle metodologie di studio); aumentare l’autonomia di lavoro individuale
potenziando la capacità di mantenere costante nel tempo l’attenzione selettiva; favorire il consolidarsi di una buona
autostima personale; migliorare l’accettabilità sociale del disturbo e la qualità della vita dei bambini con deficit di
attenzione/iperattività. Tuttavia, queste modalità d’intervento generalmente risultano meno utili nel ridurre i sintomi
cardine dell‟ADHD quali inattenzione, iperattività o impulsività. Il maggiore limite dei diversi programmi oggi disponibili
consiste nel fatto che, in molti bambini, si assiste alla progressiva scomparsa del miglioramento comportamentale e alla
mancata generalizzazione nei diversi contesti.
La scuola è il primo luogo in cui è possibile individuare il manifestarsi di Disturbi Specifici dell’apprendimento nei
bambini, ovvero disturbi nei quali le normali modalità di acquisizione delle abilità scolastiche, ovvero la capacità a
eseguire una sequenza di azioni connesse con la prassi didattica in modo rapido e corretto, sono alterate già nelle prime
fasi dello sviluppo. Il docente è tenuto a conoscere la normativa (la Legge 170 dell‟8 ottobre 2010 e le Linee Guida del
12 luglio 2011) e a identificare gli alunni nel gruppo classe; deve intervenire in modo corretto, suggerendo – per ogni
studente provvisto di diagnosi – le misure dispensative e gli strumenti compensativi più adatti. Ai primi livelli scolastici
spetta un lavoro di prevenzione.
La scuola dell’infanzia studierà i disturbi del linguaggio, la scuola primaria, oltre a questo, potrà attuare il
riconoscimento, segnalare il caso, indirizzare al diagnosta il bambino con sospetto DSA, accompagnandolo durante il suo
cammino formativo, mentre, la scuola secondaria di primo e secondo grado prenderà atto di quanto svolto
precedentemente e a sua volta si adopererà per l’invio ai Servizi Sanitari dei casi sospetti di dislessia, per l’eventuale
ottenimento di una diagnosi.
L’individuazione precoce dei DSA è assolutamente d’interesse primario non solo perché oggigiorno è possibile definire
percorsi adeguati al recupero del bambino ma soprattutto perché tali disturbi incidono notevolmente anche sulle scelte
future scolastiche, universitarie e lavorative. Com’è noto, la diagnosi di DSA può essere formulata con certezza alla fine
della seconda classe della scuola primaria. Dunque, il disturbo di apprendimento è conclamato quando già il bambino ha
superato il periodo d’insegnamento della letto-scrittura e dei primi elementi del calcolo. Ma è questo il periodo cruciale
e più delicato tanto per il dislessico, che per il disgrafico, il disortografico e il discalculico. Inoltre, l’alta incidenza dei DSA
nella popolazione scolastica, e l’incidenza sulla vita futura, deve sollecitare l’insegnante già nel primo biennio della
scuola primaria a riconoscere l’eventuale o possibile presenza del disturbo, qualora la famiglia non lo abbia ancora fatto,
si rischia, infatti, di creare una catena di insuccessi e frustrazioni in ambito scolastico che, inevitabilmente, si riverberano
in modo insanabile sul futuro personale e sociale dell’individuo.
Lezione 42
I PROBLEMI DEI BAMBINI CON DSA
Un bambino DSA non riconosciuto può sviluppare problemi nelle aree dell’autostima, e molto spesso la difficoltà o il
ritardo a riconoscere e diagnosticare il disturbo DSA è legato al soffermarsi d’insegnanti e genitori a leggere la difficoltà
del bambino in termini di causa psicologiche inerenti un presunto conflitto con il sistema scolastico, al contrario molto
spesso la difficoltà a entrare in contatto con il mondo scolastico, osservabile in termini di mancanza di interesse,
frequenti e inattesi mal di pancia, oppure attraverso l’esternazione di emozioni inusuali per un bambino nei riguardi
della possibilità di stare con i propri compagni (aggressività, apatia, inadeguatezza, ansia ecc.), si configurano quali
dimensioni psicologiche sintomatiche non come causa di DSA, ma al contrario, come la conseguenza e quindi
dovrebbero spingere l’insegnante, e ovviamente la famiglia del bambino, a sospettare la presenza di un DSA.
Accanto a queste dimensioni psicologiche e comportamentali gli insegnanti, all’interno del loro agire didattico, devono
tenere presente essenzialmente tre criteri utili per l’individuazione dei DSA quali la correttezza nell’eseguire il compito
assegnato, intesa come numero e tipo di errori, la rapidità di esecuzione del compito, ovvero il tempo impiegato e la
comprensione, intesa come conseguenza accessoria. Esistono tuttavia ulteriori segnali che si manifestano nella scrittura
quali la disgrafia, l’omissione di lettere o la loro sostituzione con lettere dai suoni simili, la disortografia o la difficoltà a
utilizzare correttamente lo spazio del foglio, la difficoltà a memorizzare o ricordare ecc. Una volta acquisite certe
conoscenze e che rappresentano il substrato necessario a qualsiasi azione educativa, l’insegnante deve capire, in un
tempo ragionevolmente breve se ha davanti un bambino con DSA o se, invece, il suo allievo ha difficoltà scolastiche
derivanti da un insieme di fattori diversi. Solitamente è proprio l’insegnante a formulare una prima ipotesi sulla
presenza di DSA, indirizzando la famiglia verso le necessarie verifiche in sede specialistica. Tale decisione richiede
un’osservazione non condizionata da pregiudizi ma basata su un’analisi sistematica, diacronica e sincronica, della
situazione dell’alunno.
Alla diagnosi clinica deve affiancarsi la funzionale multidisciplinare che, escludendo la presenza di patologie o anomalie
sensoriali, neurologiche, cognitive e di gravi psicopatologie, approfondisca le altre abilità complementari nonché la
presenza dei prerequisiti, generali e specifici, all’apprendimento. Una volta confermata la diagnosi, l’insegnante può
definire percorsi individualizzati e/o personalizzati che prevedano l’utilizzo di aiuti specifici e tecniche riabilitavo-
compensative per favorire lo svolgimento dei compiti. Altro importantissimo elemento da non dimenticare e che incide
profondamente nella pratica didattica quotidiana è il fatto che, per l’allievo con DSA non è prevista la presenza
dell’insegnante specializzato per il sostegno, quindi l’insegnante di classe si trova solo nella gestione dell’alunno.
Pertanto, una vota verificata l’effettiva presenza di un DSA in maniera commisurata alle necessità individuali, stabilite
dagli specialisti che seguono il bambino, e all’entità del disturbo di apprendimento, è importante che gli insegnanti
permettano l’uso di alcuni strumenti dispensativi e compensativi nella prassi didattica, quali:
- dispensa dalla lettura a voce alta e dalla scrittura veloce sotto dettatura;
ù- garantire l’uso del vocabolario digitale di italiano, inglese, greco, latino, ecc.;
- dispensa dallo studio mnemonico delle tabelline;
- dispensa dallo studio delle lingue straniere in forma scritta;
- garantire tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio;
- organizzazione di interrogazioni programmate;
- assegnazione di compiti a casa in misura ridotta;
- possibilità d’uso di testi ridotti non per contenuto, ma per quantità di pagine.

REALIZZAZIONE DI FORME DI INTERVENTO


Per la realizzazione di queste forme di intervento compensativo l’autonomia scolastica si prefigura come possibilità per
agevolare e sperimentare questi percorsi individualizzati, che si configurano quali opportunità per il riconoscimento dei
bisogni specifici dell’alunno. Al di là degli strumenti compensativi tesi a permettere il recupero dell’alunno con DSA è
assolutamente di primaria importanza sviluppare un processo di integrazione dell’alunno all’interno del gruppo classe;
nonostante siano dotati di creatività e di intuito, i dislessici appaiono in classe lenti, svagati e poco concentrati. Inoltre,
non scrivono i compiti sul diario, dimenticano facilmente libri e quaderni, non prendono appunti, e quindi bisogna
prestare particolare attenzione a come presentare il problema nel gruppo classe, in modo che venga confermato,
nell’ambito delle relazioni all’interno della classe, il valore dell’alunno DSA come persona, a tal fine si suggerisce la
possibilità di mettere in atto strategie di tutoraggio tra pari, ad esempio per quanto riguarda gli appunti, è consigliabile
che si affidi a un compagno, o comunque si agevoli la messa in atto di atteggiamenti tra compagni di classe tesi a
favorire le dimensioni di comunicazione nonostante la difficoltà. In questo processo è di basilare importanza
l’atteggiamento del docente che sostenga tutta la classe nel promuovere un atteggiamento costruttivo e di
collaborazione. Accanto alla dimensione scolastica, tuttavia anche il ruolo della famiglia è fondamentale. Genitori, figli e
scuola devono stipulare un’alleanza basata sulla consapevolezza, sulla considerazione delle abilità e caratteristiche del
bambino/ragazzo e sul rispetto dei tempi e delle modalità di studio e apprendimento. È bene precisare che è importante
che la famiglia sia informata sui DSA ma ciò non significa che per prendersi cura del proprio figlio occorra sapere tutto
riguardo ai disturbi specifici dell’apprendimento. Al contrario, è fondamentale trasmettere al proprio figlio fiducia in sé e
nelle proprie potenzialità, nonostante le difficoltà che può incontrare nel suo percorso scolastico. Genitori e insegnanti
devono consentire al ragazzo di sperimentare come affrontare lo studio, la scuola e l’apprendimento in generale
fornendo gli strumenti necessari e il supporto quando occorre, ma allo stesso tempo incentivando l’autonomia. Per
aiutare e affiancare i genitori nel loro ruolo educativo, forniamo informazioni su come supportare l’alunno a casa nello
studio e nei compiti.

IL RUOLO DELLE NUOVE TECNOLOGIE NELLA DIDATTICA


Le nuove tecnologie sono uno strumento fondamentale per facilitare l’integrazione a scuola degli alunni con disabilità e
con disturbi specifici dell’apprendimento e in generale rappresentano uno strumento utile a favorire la didattica e a
potenziare le possibilità di imparare. La prima utilizzazione sistematica del computer in campo educativo è legata
all’istruzione programmata. I software di istruzione programmata scandiscono percorsi didattici lineari, articolati in fasi,
ciascuna corrispondente a un sottobiettivo, il cui raggiungimento, verificato tramite test, è propedeutico al passaggio
alla fase successiva. Sono dunque predisposti da un lato per strutturare le sequenze didattiche dall’altro per verificare i
sotto apprendimenti. Inoltre, vengono utilizzati per rinforzare la risposta corretta dell’allievo (elogio e/o possibilità di
proseguire nel percorso). Questo tipo di programmi è concepito come strumento che supporta e potenzia l’attività
didattica, permettendone un’organizzazione più efficiente (ad esempio, velocità nella correzione delle risposte,
possibilità di operare in parallelo con diversi allievi simultaneamente) e rigorosa (ad esempio, aumento della precisione
e riproducibilità delle sequenze risposte).
Il modello di attività didattica in gioco è quello di una relazione di insegnamento apprendimento di tipo asimmetrico e
prescrittiva, entro la quale non vi è spazio per l’iniziativa autonoma dell’allievo, che è chiamato a seguire il percorso di
apprendimento prefissato, di volta in volta rispondendo alle richieste di prestazione del software. Lo sviluppo del
cognitivismo e degli studi nel campo dell’intelligenza Artificiale ha favorito l’affermarsi di un altro tipo di software
didattico i cosiddetti programmi ITS (Intelligente Tutoring System). A differenza dei programmi dell’istruzione
programmata, i software ITS sono maggiormente dinamici, in grado di evolversi, di apprendere in ragione delle
informazioni raccolte durante il loro funzionamento, dunque di differenziare le loro prestazioni in relazione alle
caratteristiche degli allievi utilizzatori. Essi, tuttavia, condividono con le applicazioni di matrice comportamentista
dell’istruzione programmatica sia la funzione di tipo tutoriale (fungono cioè da guide per l’allievo impegnato nel compito
di istruzione), sia la concezione dell’apprendimento come processo lineare e individuale.

IL PROGRAMMA LOGO
Il programma LOGO, elaborato verso la fine degli anni „70 da Seymour Papert, già collaboratore di Piaget, rappresentò
la prima svolta nel campo, segnando in questo senso il passaggio alle Nuove Tecnologie (NT). Il programma LOGO è un
linguaggio di programmazione di facile utilizzabilità, che offre al gruppo degli allievi un ambiente di apprendimento
suscettibile di essere da essi sviluppato. Questo programma rovescia la logica d’uso educativo della tecnologia non è più
il computer che programma il bambino, ma il bambino che programma il computer. Programmi quali LOGO sono pensati
per favorire l’apprendimento di abilità metacognitive e metalinguistiche; impegnare l’allievo nel compito di
programmare la macchina, ad esempio per insegnarle a produrre frasi corrette, significa proiettarlo sul piano di
riflessione relativo alle regole che sovrintendono il ragionamento e il linguaggio.
Le NT possono essere considerate lo sviluppo di questa logica; dispositivi progettati per creare ambienti di
apprendimento che permettano ai discenti di attivare percorsi di esplorazione, di ricerca di informazione, di
autoapprendimento, di costruzione negoziata di conoscenza. In questo senso, essi s’inscrivono in modo naturale entro
una prospettiva psicopedagogica di matrice socio ostruzionista, secondo la quale la conoscenza non si realizza per mera
trasmissione, in quanto passaggio di saperi già definiti da una persona esperta al novizio, ma in quanto prodotto
conseguente dell’attività dell’allievo (del gruppo di allievi) impegnato nell’attribuzione di significato, insieme personale e
negoziato, alle informazioni.
Entro questa epistemologia, le tecnologie hanno trovato una diversa concettualizzazione. Esse non sono strumenti con i
quali gli allievi operano, ma contesti di apprendimento entro i quali lavorano. In altri termini, esse si propongono non
solo e non tanto come dispositivi che potenziano - senza tuttavia modificarle nella loro logica interna - le attività di
insegnamento, ma come forme nuove di insegnamento apprendimento (attivanti le valenze distribuite, situate,
collaborative, costruttive delle dinamiche di conoscenza), in quanto tali - secondo la prospettiva vygotskiana - capaci di
promuovere peculiari modalità di funzionamento mentale.
All’interno di questa prospettiva, trovano posto e si intrecciano due linee di lettura, in definitiva tra loro più
complementari che antagoniste. Una chiave interpretativa, che riflette un orientamento di tipo cognitivista
costruttivista, evidenzia il significato delle NT nella costruzione della conoscenza e della metaconoscenza. L’allievo
esplora dati e situazioni, elabora significati, manipola e costruisce la realtà (ovviamente quella mediata dal supporto
tecnologico) e i saperi che a essa attengono. Inoltre, l’allievo ha l’opportunità di confrontarsi con i prodotti ostensibili di
questo suo fare-pensare e nel far ciò, ha modo di sperimentare il “farsi” della conoscenza, in questo modo accedendo al
piano metacognitivo della riflessione, sulle regole di funzionamento dei processi cognitivi e semantici, sulla natura delle
conoscenze e sui metodi richiesti per acquisirle.

LE NT
In modo complementare, si sottolinea come le NT offrano la possibilità di istituire contesti di apprendimento variabili,
capaci in questo senso di valorizzare didatticamente la diversità interna al gruppo degli allievi, inerente alle diverse
forme del modo di essere della mente. Un’altra possibilità che viene offerta da un uso consapevole e meditato della
multimedialità richiama la distinzione bruneriana fra pensiero narrativo e pensiero paradigmatico. J. Bruner afferma che
possiamo ordinare e costruire la realtà attraverso due metodi, due modi di pensare quali il pensiero narrativo e il
pensiero paradigmatico (logico scientifico). Ognuno di questi tipi di pensiero opera e determina criteri di validità e di
verifica profondamente diversi e “qualsiasi tentativo di ricondurli l’uno all’altro o di ignorare l’uno a vantaggio dell’altro
produce inevitabilmente l’effetto di farci perdere di vista la ricchezza e la varietà del pensiero”. Come superare questa
contrapposizione a scuola dove generalmente la prevalenza del pensiero paradigmatico impoverisce gli aspetti e affettivi
e cognitivi dell’apprendimento? È dimostrato che la costruzione di un prodotto multimediale prevede momenti di lavoro
in cui si privilegia ciò che è figurativo, sintetico, intuitivo, fantasioso, unificante e concreto (pensiero narrativo), ma
anche altri in cui si agisce attraverso operazioni logiche, analitiche, simboliche e astratte (pensiero paradigmatico).
L’altra ottica esprime la sensibilità sociocostruzionista per il nesso tra pratiche di scambio sociale e apprendimento. Essa
individua la funzione psicopedagogica delle NT nella definizione di contesti di comunicazione e di collaborazione tra i
discenti; gli spazi di discorso e di pratica condivisa entro i quali si realizza la costruzione negoziata degli apprendimenti.
In quest’ottica, le NT attualizzano il carattere distribuito dell’apprendimento; la partecipazione a un contesto di
apprendimento mediato dalle NT, infatti, permette all’allievo di sperimentare come la costruzione del sapere, la
risoluzione di problemi, la realizzazione di un artefatto risieda nella capacità di integrare il bagaglio di competenze
possedute con ciò che gli altri fanno, sanno e dicono. In questo modo, gli allievi accedono a un contesto entro il quale
trova tendenziale ricomposizione la tradizionale divaricazione, propria nel mondo scolastico, tra i percorsi individuali e
formalizzati di apprendimento e il possesso condiviso di competenze non codificate, legate alla partecipazione dei
soggetti ai contesti informali di vita quotidiana. Entro questa prospettiva, come evidenzia Caravita (2003), le NT sono
interpretate e utilizzate entro una visione dell’apprendimento come attività collettiva, portata avanti da un gruppo che
ripropone le caratteristiche del funzionamento distribuito proprio delle comunità scientifiche. La riflessione teorica sulle
NT e sulle sue funzioni in campo educativo ha messo dunque bene in evidenza la densità di implicazioni didattiche in
gioco.

LA DISCONTINUITA’ DEL PARADIGMA


Allo stesso tempo, tuttavia, va detto che lo stato di avanzamento del dibattito permette più di comprendere la
discontinuità del paradigma didattico implicato nell’uso delle NT che di qualificarne in modo sistematico i contenuti. Non
si è infatti ancora coagulato un modello formativo unitario capace di precisare analiticamente (e di connettere) da un
lato le dinamiche psicopedagogiche implicate nell’uso delle NT (le modalità microsociali di lavoro, le caratteristiche dei
processi sociocognitivi implicati…), dall’altro le variabili metodologiche implicate nella costruzione e finalizzazione dei
setting di apprendimento mediati da tali dispositivi (i fattori di successo e critici a essi connessi). Allo stato attuale,
questa indisponibilità di un modello metodologico di interfaccia tra la teoria e le pratiche d’uso didattico delle NT
costituisce un ostacolo significativo per il radicamento e la diffusione sistemica dell’innovazione entro il mondo
scolastico. Lo scollamento tra la teoria psicopedagogica e la pratica didattica impedisce lo sviluppo entro il mondo
scolastico di una cultura d’uso delle NT capace di cogliere e valorizzare la carica trasformativa, le valenze di rottura
epistemologica e le potenzialità metodologiche che le NT posseggono. Di conseguenza, la proposta innovativa subisce,
senza possibilità di dialettizzarlo, il processo - tipico di ogni grande struttura, soprattutto - di assimilazione del
nuovo/ignoto alle pratiche istituzionali consolidate. Il che si traduce nella semplificazione, spesso di sapore tecnicistico,
e nella neutralizzazione dell’innovazione.
“A nostro giudizio si è spesso fornita una distorta interpretazione del contributo formativo delle tecnologie
informatiche, distorsione che ha enfatizzato e, per molti aspetti falsato, l’effettivo risultato dell’innovazione, soprattutto
se considerato sotto l’aspetto della possibile ristrutturazione del sapere e del mutamento culturale che i media possono
produrre in quanto elementi fortemente significativi della contemporaneità. Benché la ricerca nel campo delle
tecnologie didattiche vanti ormai qualche decennio di storia ed abbia prodotto significativi cambiamenti, tanto nel modo
di intendere, quanto nella modalità di offerta e d’uso degli strumenti tecnologici, raramente sul piano operativo si è
raggiunto un risultato qualitativo atteso. Se è vero che un rilevante cambiamento di paradigma ha segnato la riflessione
psico-pedagogica del ventesimo secolo con il passaggio da un approccio alla realtà e alla conoscenza di tipo
comportamentista ad uno di tipo costruttivista, è anche vero che al variare del paradigma di riferimento sono cambiati
gli obiettivi dell’apprendimento e la concezione della progettazione didattica. La qual cosa avrebbe richiesto, sul piano
della prassi, corrispondenti mutamenti effettivi dell’azione didattica, in coerenza con i cambiamenti della prospettiva
epistemologica”.
In definitiva, è difficile evitare l’impressione che le NT, più che cambiare la scuola, siano state da questa “cambiate”. Non
che siano mancate esperienze significative di utilizzo. Tuttavia, esse rappresentano casi specifici, frutto della particolare
(e idiosincratica) competenza e dell’investimento del docente e dei ricercatori, in quanto tali difficilmente generalizzabili
sul piano del sistema, dove nella maggior parte dei casi i media quando hanno consolidato la loro presenza, lo hanno
fatto in termini di nicchia, come attività di laboratorio e/o di tipo extra o para didattico. La crescente consapevolezza di
questo scenario ha nei tempi più recenti portato i ricercatori a relativizzare la fiducia assoluta inizialmente riposta nella
capacità delle NT di funzionare da fattore trasformativo, da volano del cambiamento di paradigma epistemologico, in
favore di una posizione più prudente e articolata che se da un lato continua a evidenziare la carica innovativa delle NT,
dall’altro si interroga sulle condizioni istituzionali, culturali e metodologiche che il contesto educativo e organizzativo
deve preventivamente possedere per rendere possibile, entro la scuola, la prospettiva di un loro utilizzo.

IL RUOLO DELLA DIMENSIONE EMOZIONALE NELLA DIDATTICA


I nuovi approcci didattici e le diverse forme di didattica integrativa hanno spinto il pensiero pedagogico contemporaneo
a ripensare la funzione e il ruolo del docente all’interno dei contesti di apprendimento, di insegnamenti nei termini di
diatriba contenuti vs competenze. La discussione intorno alla definizione dei programmi accompagna come una
costante la storia della scuola italiana, muovendosi in ragione di due interrogativi di fondo, tra loro strettamente
connessi. Da un lato, la riflessione investe la definizione dello scopo dell’istruzione, se si vuole il progetto di allievo
assunto come obiettivo terminale (e fonte di senso) del processo di insegnamento apprendimento. Dall’altro, un tale
progetto implica un modello della conoscenza, un’idea, cioè, del sapere.
La dialettica contenuti-competenze costituisce un primo fondamentale asse del dibattito. Come si sa, il tradizionale
approccio “enciclopedico” ai curricoli vede le discipline come repertori di nozioni e dati discreti che l’insegnante è
chiamato a trasmettere agli allievi. Rispetto a questa impostazione, il riferimento alle competenze implica lo
spostamento di attenzione dai contenuti proposti in quanto obiettivi dell’insegnamento, all’uso che gli allievi fanno di
tali conoscenze. In quest’ottica, che risente significativamente della proposta culturalista di matrice vygotskiana e
bruneriana, le competenze sono intese come capacità di utilizzare gli strumenti simbolici, le conoscenze procedurali, i
codici, i linguaggi che ogni cultura mette a disposizione dei suoi membri. Il possesso di tali capacità implica processi
costruttivi di elaborazione e si traduce in forme di organizzazione del pensiero e di attribuzione di significato
all’esperienza, sostanzianti il senso critico e la capacità da parte dei soggetti di orientarsi entro i contesti. La disaffezione
per il carattere enciclopedico e per certi versi astratto-nozionistico dei programmi, il riconoscimento della rapida
obsolescenza che molti contenuti subiscono nel loro impatto con la variabilità crescente dei contesti socio-culturali,
hanno accreditato l’idea della necessità, non solo nella scuola superiore, di ridefinire i curricoli nel senso della
formulazione dell’essenziale; i saperi “irrinunciabili”, i nuclei culturali di base, tali in quanto fondamento dell’identità
sociale e civica del discente. Pensiamo ad esempio alla riflessione che ha attivato in ambito pedagogico in merito ai
mediatori più significativi e incisivi sull’allievo e al riconoscimento del ruolo principale del clima, del tono educativo e
della qualità dei rapporti interpersonali nella pratica didattica. La prima e fondamentale mediazione è quella offerta
dalla relazione perché essa crea il contesto di accettazione che consente di fruire positivamente anche delle strategie
didattiche attivate.
Tale riflessione si sviluppa parallelamente alla consapevolezza che un’idea trasmissiva di didattica, centrata
sull’insegnamento dell’insegnante e la restituzione di quanto recepito da parte dell’alunno, non corrisponda alla
dinamica dell’apprendimento dell’alunno. La ricerca didattica si sposta perciò dal focalizzare il solo atto
dell’insegnamento all’allargare la sua attenzione all’intero processo d’insegnamento/ apprendimento ponendo la
centratura sull’alunno non solo in termini di individuali sue modalità e strategie di apprendimento ma anche in termini
di dimensioni emozionali attivate nella pratica didattica.

L’OBIETTIVO DELLA FORMAZIONE


Se l’obiettivo ultimo della formazione è di produrre dei cambiamenti nei comportamenti organizzativi delle persone e il
ruolo del docente diventa quello di un mediatore tra saperi, valori, emozioni, di qualità e di tipi diversi, come regista di
scenari cognitivi, come creatore di contesti, allora la pratica formativa dal punto di vista del docente deve evolversi nei
termini di messa in atto di azioni competenti, iterative e metodologicamente fondate, volte a promuovere tale
cambiamento. Il passaggio dalla prospettiva di didattica come trasmissione di contenuti a una nozione di didattica nei
termini di sviluppo di competenze si fonda sull’attuazione di un contatto continuo e di un dialogo riflessivo dell’alunno
con le situazioni e con gli strumenti a disposizione, e che con la sua azione sia in grado di fornire risposte adeguate ai
bisogni/desideri di ciascuno, per uno sviluppo personale/professionale armonico e orientato. Nella scuola, infatti, non si
può non orientare in modo indiretto, involontario, casuale e spesso eccezionale attraverso l’attrazione (docente
significativo che trasfonde la sua passione per la disciplina e la rende intelligibile e interessante, anche se astrusa),
oppure attraverso la repulsione (docente che non facilita l’approccio alla disciplina, non stimola curiosità e non induce la
motivazione all’apprendimento), oppure in modo diretto e consapevole, attraverso un’attività mirata di attribuzione di
senso a ciò che si fa nell’attività didattica.
Occorre, perciò, riflettere su questo, chiedendosi in che modo sia possibile per i docenti giocare in positivo il loro ruolo
significativo in termini professionali, usando le loro competenze intenzionalmente per individuare come operare nel
lavoro in classe per dotare i giovani della capacità di auto- orientarsi e come realizzare attività che, se costruite
consapevolmente, possono essere di grande potenza ed evitare il rischio di produrre, magari in buona fede, risultati
anche devastanti o di lasciare spazio all’orientamento quotidiano silenzioso, pervasivo e suadente, che può essere anche
molto deviante.

PROGETTARE LA DIDATTICA
Progettare la didattica vuol dire, infatti, predisporre alcune operazioni basilari e indispensabili perché i percorsi formativi
siano adeguati e ben costruiti, guidati da intenzionalità consapevole. In questa prospettiva Rosati afferma: “In primo
luogo occorre individuare, con le potenzialità individuali, le risorse di cui ognuno dispone; in secondo luogo occorre
stabilire dei traguardi, immediatamente raggiungibili a conclusione dell’intervento, perché certe domande abbiano una
risposta congruente e i bisogni emersi siano soddisfatti; in terzo luogo occorre un piano programmato d’intervento che
aiuti la persona a prendere coscienza di certe necessità in modo che possano tramutarsi in esperienze solide di
comportamento e di vita; in quarto luogo occorre valutare i cambiamenti registrati a conclusione dell’azione formativa
al fine di accreditare la valenza del mutato atteggiamento davanti ai problemi e alle attività da compiere” .
Analizzando in profondità la sequenza delle operazioni e le implicazioni che ciascuna di esse ha nello sviluppo della
persona e nel considerarla al centro del processo, ecco che ci torna facile accreditare ancora una volta quanto possa
essere deleterio non considerare le emozioni nella progettualità didattica, che vorrebbe dire non considerare quella
dimensione umana che ci mette in relazione con gli altri e con il mondo, e quindi anche con i contenuti, le attività, gli
interventi, le persone della formazione.

IL RUOLO DELLE EMOZIONI


Nel concepire un utilizzo delle emozioni nella formazione l’equilibrio è la cosa più importante, ovvero mettere insieme
da una parte il fatto che occorre logica, occorre struttura, e anche finalizzazione dell’apprendimento, ma dall’altra parte
bisogna fare in modo di operare con le competenze metodologiche che lavorano sull‟esperienzialità; pertanto la
principale competenza non è tanto l’uso delle attività, quanto lo sviluppo del pensiero critico, cioè il riuscire ad esempio,
a vedere le contraddizioni, le domande implicite dietro le domande evidenti. Lo sviluppo del pensiero critico, la
comprensione della complessità ci rammentano che non si possono mai dare risposte semplici e lineari a problemi
complessi e quando ci sono di mezzo le emozioni questo è ancor più vero.
La didattica come sviluppo di competenze individuali in grado di favorire un reale processo di integrazione passa dunque
dall’individuazione di percorsi didattici trasversali in cui le competenze apprese si generalizzano in contesti e tempi
sempre più ampi, incidendo profondamente sul clima emotivo di classe e favorendo azioni orientate all’integrazione e
alla più ampia inclusione sociale dei bambini con bisogni speciali. L’alfabetizzazione emotiva contribuisce a potenziare
negli allievi processi metacognitivi e di problem solving interpersonale che facilitano la costruzione di interazioni sociali
positive anche nel contatto con la “diversità”, spesso, purtroppo, percepita e vissuta come elemento di rifiuto,
esclusione ed emarginazione sociale. La programmazione didattica, pertanto, al fine di favorire la dimensione integrativa
dovrebbe riuscire a integrare in un’unica strategia sistemica educativa la componente didattica con quella emozionale in
un percorso formativo integrato, in una correlazione dialettica perché non c’è alcuna conoscenza, alcuna esperienza
nella vita che non sia accompagnata da una tensione emozionale premessa a ogni utilizzazione della conoscenza
acquisita razionalmente. Tale prospettiva educazione in grado di farsi carico della componente emotiva favorisce una
crescita affettiva armonica nel bambino, mettendolo in grado di realizzare in pieno le proprie potenzialità e il proprio
benessere.
La prospettiva delineata assume la centralità dell’educazione sociale ed emotiva come compito doveroso, oltre che
necessario, se vogliamo dare alle politiche della scuola e dell’educazione una svolta che vada con consapevolezza e
sistematicità nella direzione dell’innovazione “possibile” e insieme promuovere lo sviluppo di un percorso integrato di
formazione a scuola per alunni capaci di costruire un sé in grado di auto-orientarsi. Abbattere la tradizionale barriera fra
i processi cognitivi e le emozioni, facendo emergere un’idea di persona come sistema integrato, alla cui formazione e al
cui equilibrio dinamico concorrono la componente percettivo-motoria, quella logico-razionale e quella affettivo-sociale
comporta un’impostazione della didattica volta a favorire l’integrazione tra le diverse matrici di cui si compone
l’esperienza quotidiana, riconoscendo pari dignità al segno di scrittura, all’immagine, al suono, al colore, all’animazione.
7La realizzazione del progetto educativo comporta dunque una particolare attenzione al contesto in cui provengono gli
apprendimenti, e quindi una particolare cura va rivolta ad alcuni elementi quali: lo spazio relazionale, il tempo vissuto, la
strutturazione flessibile e funzionale degli spazi scolastici, l’organizzazione dei gruppi, il gioco nelle sue varie forme, la
cultura della comunicazione, la capacità di utilizzare mediatori non solo verbali, l’attenzione a non separare gli aspetti
cognitivi da quelli socio-affettivi o corporei, l’importanza attribuita al fare, l’apprendimento cooperativo, il “ricorso“ ai
saperi per conferire significato alle molteplici attività che caratterizzano la vita quotidiana della scuola dell’infanzia.

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