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Gli autori

Ugo Biggeri (Firenze 1966), laureato in Fisica, da sempre


impegnato nei movimenti della società civile, è stato fondatore di
Banca Etica. Dal 2009 è docente a contratto in Finanza etica e
microcredito presso l’Università di Firenze. È stato presidente di
Banca popolare Etica e ora lo è di Etica Sgr, inoltre è nel board della
rete internazionale Global Alliance for Banking on Values.
Vive da molti anni sull’Appennino toscano in una comunità di
famiglie che fanno accoglienze varie e praticano allegra sobrietà. È
autore de Il valore dei soldi (San Paolo 2014) e di Non con i miei
soldi! Manuale di autodifesa ed educazione critica alla finanza (con
Andrea Baranes, Andrea Tracanzan, Claudia Vago, Domenico
Villano, Altreconomia 2019).

Cristina Diana Bargu (Bacau, Romania, 1994), laureata in


Economia e Statistica, è stata allieva dell’antropologo economico
Alberto Cacopardo e ha vissuto per alcuni anni nel contesto ricco e
stimolante dell’Aia Santa, la comunità fondata da Ugo Biggeri.
Collabora con Italia che Cambia e scrive nella sezione “ecovillaggi e
cohousing” del mensile “Terra Nuova”. È interprete e studentessa
presso la scuola di Arte del processo e di democrazia profonda.
Attualmente vive in Lunigiana, nella Val Taverone, assieme a un
vivace gruppo di ripopolanti.

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© Chiarelettere editore srl


Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale)
Sandro Parenzo
Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.)
Sede: corso Sempione, 2 - Milano

ISBN 978-88-3296-424-0

Copertina
Art director: Giacomo Callo
Graphic designer: Davide Nasta
Immagine: © pat138241 / 123RF Archivio Fotografico

Il libro è in parte la continuazione e la rielaborazione di contenuti trattati nella


rubrica di Caterpillar I soldi danno la felicità con Ugo Biggeri e a cura di Massimo
Cirri e Sara Zambotti, in onda su Rai Radio 2.

Realizzazione editoriale: Studio editoriale Littera, Rescaldina (MI)

Prima edizione digitale: novembre 2020


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Indice

Gli autori
Pagina di copyright
Frontespizio

Prefazione di Massimo Cirri e Sara Zambotti

Questo libro
Soldi e felicità
Chi scrive il libro?

Un quadro d’insieme
Piccola storia della moneta
Le banche ci servono!

Abbecedario di finanza
Il mercato e le azioni
La finanza pubblica
Il risparmio
Scegliere una banca
Il conto corrente
Gli investimenti
Titoli finanziari
Le obbligazioni
Le obbligazioni bancarie
Titoli di stato, debito pubblico e spread
Le azioni
Il rating, o la misura del rischio
I fondi comuni di investimento
Chiedere un prestito
Mutui

I soldi che non danno la felicità


In banca o attorno ai soldi: le fregature italiche
Le banche armate
Operazioni farlocche

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I soldi che investono il pianeta
Cattive azioni
Vendite allo scoperto
Buy back
Cartolarizzazioni
Il mercato delle divise e dei derivati
I derivati
La finanza è veloce
Se tutto questo non bastasse
Le scommesse della finanza
Il fai da te
Le criptovalute
I fallimenti del sistema finanziario globale
I paradisi fiscali
Finanza e mafia
Disuguaglianze e distribuzione della ricchezza nel mondo
Oroscopo finanziario

I soldi che danno la felicità


L’ha detto perfino il papa!
I soldi che si danno, danno la felicità: mi regala 100 euro?
Dono 2.0. Il crowdfunding
La barchetta in mezzo al mare
Il tempo non è denaro
I soldi consapevoli danno la felicità: percorsi di consapevolezza
economica
Scegliere la sobrietà
I bilanci famigliari
Kakebo
I gas
L’economia circolare, o la riscoperta della parsimonia
Abitare collaborativo
Le monete alternative o complementari
I soldi in finanza etica danno la felicità: coltiva il denaro paziente e
generoso
Finanza mutualistica e solidale
Banca etica
Finanza etica nel mondo: Global Alliance for Banking on Values
Finanza etica in Europa

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Un’impronta (ambientale e sociale) migliore per i nostri
investimenti
Etica Sgr
Azionariato attivo
Microcredito
La finanza digitale
I soldi pubblici danno la felicità: #meglioinsieme
Le tasse

Compiti per fare pratica

Quiz finali

Postfazione di Anna Fasano

Qualche approfondimento bibliografico

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Prefazione

di Massimo Cirri e Sara Zambotti


Conduttori di Caterpillar

Il più importante banchiere italiano è stato sicuramente Enrico


Cuccia. «Una delle figure di spicco della scena economico-finanziaria
italiana del XX secolo» dice Wikipedia. Cuccia aveva fondato e ha
diretto per decenni Mediobanca, il nodo del mondo finanziario e
politico italiano. Era il banchiere dei banchieri, rappresentava una
categoria. Parlava poco. Non ha mai rilasciato un’intervista.
Una volta una trasmissione televisiva piuttosto invasiva manda
un suo inviato a chiedergli qualcosa e lui ci prova, tampinando
Cuccia che cammina spedito per le strade di Milano, impermeabile
chiaro e mani dietro la schiena, verso l’ufficio di via Filodrammatici.
L’inviato gli chiede del suo potere e Cuccia non risponde. Gli chiede
perché un uomo potente come lui viaggi senza scorta e Cuccia resta
in silenzio. Gli chiede perché non abbia mai rilasciato interviste e
Cuccia non rilascia alcuna intervista. Poi gli chiede perché non
risponda e Cuccia non risponde. Sempre continuando a camminare
spedito, in silenzio. Non guarda né l’interlocutore né la telecamera.
Di più: non li vede, ne cancella l’esistenza.
Era una persona molto riservata e perciò non potremo mai sapere
se Enrico Cuccia sapesse insaccare salumi. O se avesse competenze
sufficienti per tirar su un muretto o rifare in pietra il selciato del
cortile di casa. Molto probabilmente no. E molto probabilmente non
ci sono tanti banchieri italiani, anche meno potenti e meno noti di

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Cuccia, che siano in possesso delle conoscenze per costruire una casa
su un albero. E che l’abbiano costruita davvero.
E invece un banchiere c’è, e l’ha costruita davvero, con le sue
mani. Un po’ spartana, certamente, migliorabile nella coibentazione
del pavimento che presenta qualche fessura tra un’asse e l’altra,
probabilmente da mettere a punto quanto all’arredamento: ma è
sempre una casa di 30 metri quadri che sta su una quercia a molti
metri d’altezza. Davanti a un bel pezzo di campagna toscana.
Quel banchiere si chiama Ugo Biggeri. Lui dice che ha solo aiutato
un figlio. Viene da non credergli: è un banchiere, no? Non è che
adesso ci mettiamo a credere a quello che dicono. Ma poi, quando ti
racconta di come hanno tirato su le assi e provato a far spuntare il
camino tra i rami, ti viene da dargli un po’ di fiducia. Allora capisci
che Ugo Biggeri, banchiere che sa fare anche altre cose, non si è
sottratto al desiderio del figlio che voleva vivere un po’ tra i rami, e ci
ha messo del suo. Come quei padri che comprano il plastico del
trenino al figlio, ma lo fanno – anche, molto – per sé. Solo che
Biggeri, quando non fa il banchiere, invece della dimensione del
comprare preferisce quella del fare. Spesso con le mani.
E anche questa è una scelta dirimente. Forse etica: fare, costruire,
provare a fare. Meglio se con gli altri. È un po’ la storia di Banca
Etica. Fare una banca perché una comunità ha bisogno anche di
questo – e Ugo ci spiegherà bene il perché –, e già che ci siamo la
facciamo meglio, la facciamo anche etica.
E siamo davanti a un primo nodo da sciogliere, un ossimoro con il
quale a noi piace spesso tormentare Biggeri quando parliamo con lui
in onda, alla radio, di soldi, di scambi monetari, di scambi sociali, del
valore profondo che si custodisce nei depositi di Banca Etica. Alla
fine si arriva sempre qui: «Com’è possibile?» gli chiediamo noi.
«Una banca è una banca e quindi fa soldi con i soldi degli altri,
stritola, accaparra, incamera, arricchisce i già ricchi, vende
obbligazioni argentine a scadenza quarantennale a pensionate
novantatreenni. Oppure è etica: giusta, equa, buona, decente, con dei
principi morali. Quindi una banca etica non può esistere. Dire banca
etica è come dire convergenze parallele, insensato senso, tacito
tumulto o silenzio eloquente.» Come quello di Enrico Cuccia.
Ugo Biggeri, pazientemente, spiega e rispiega il bel paradosso di
Banca Etica. Risponde. Parla, incontra. Ti porta sulla casa sull’albero

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e ti fa vedere dall’alto, seduto bello comodo, un po’ di quello che c’è
nel panorama dei soldi. Ha fatto questo – spiegare, raccontare,
tessere – da presidente di banca. Tra una potatura delle viti e la
sistemazione del recinto per i maiali.
Raccontare, spiegare, renderti partecipe gli viene naturale e lo fa
con un piacere profondo che già usciva sulle onde della radio ed esce
anche da qui, dalle pagine di questo libro. Anche quando c’è da
dilungarsi un po’ tecnicamente su cos’è un Etf, sulla volatilità di
un’azione o di com’è fatta una plain vanilla, che è l’obbligazione più
semplice che ci sia e si chiama così per via del gelato alla vaniglia,
quello più facile da fare. Ugo Biggeri, già che c’è, fa anche un gelato
alle more di gelso selvatico che è quotato in Borsa. È una delle
persone più intelligentemente divertenti che può capitare di
incontrare.
A lui, forse, anche Enrico Cuccia avrebbe raccontato qualcosa di
sé. Forse lui lo avrebbe conquistato raccontandogli che, da vero
banchiere, ha appena comprato una Lamborghini spider. Non gli
avrebbe detto che è un trattore, vecchio di quarant’anni e ridipinto
(con le sue mani, è chiaro) con un discutibile color rosa fucsia.
Il nostro incontro con Ugo Biggeri nasce dall’ignoranza, più di
Sara Zambotti che di Massimo Cirri. Cos’è un’obbligazione? Da cosa
deriva un derivato? Come faccio a scegliere una banca? I soldi danno
la felicità? Così ci siamo detti: «Chiediamolo a qualcuno». Abbiamo
bussato a Banca Etica, ha risposto Ugo Biggeri, abbiamo pensato che
fosse un tipo simpatico e gli abbiamo chiesto se ci metteva in
contatto con il presidente della banca. «Sono io» ha risposto. Non è
possibile. Non era vestito di grigio e non era serioso, e invece era lui.
Astuto marketing quello di Banca Etica, che dopo Biggeri adesso ha
Anna Fasano come presidente.
Così è cominciata la sfida di raccontare le basi della finanza
proprio dall’inizio, da perché i soldi a come vestirsi per andare a
chiedere un mutuo.
Mai fidarsi dei banchieri. Buona lettura.

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I SOLDI DANNO LA FELICITÀ

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A chi si fa domande,
cerca risposte intransigenti e…
poi le applica con tolleranza e ironia.

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Questo libro

La finanza ha un forte impatto sul mondo in cui viviamo: può


inquinare il nostro pianeta, portare fame, guerra e ingiustizia sociale.
Anche nel piccolo, i soldi determinano buona parte delle nostre vite:
possono costringerci a fare lavori che non ci piacciono, privarci della
possibilità di accedere a cure mediche o ad altri beni e servizi
essenziali per la nostra sussistenza ed essere fonte di grande
infelicità. Ma la finanza può anche anticiparci le risorse economiche
necessarie a realizzare i nostri progetti e i nostri sogni,
sovvenzionare l’innovazione ecologica e la salvaguardia dei beni
comuni.
Come ogni strumento, i soldi non sono né buoni né cattivi, ma
non sono neanche neutrali. Tutto dipende da come, a livello
individuale e collettivo, decidiamo di guadagnarli, spenderli,
risparmiarli o investirli. Tanti o pochi che siano, l’uso che ne
facciamo ha un impatto, oltre che sulle nostre vite, su quelle degli
altri e sul pianeta. Questa affermazione potrebbe risultare un po’ naïf
se guardiamo ai grandi problemi dei nostri tempi: la disuguaglianza
economica in primis, ma anche il precariato, i diritti spesso negati, le
guerre in atto, i cambiamenti climatici. Ed è facile, di fronte a un tale
scenario, sentirsi scoraggiati: cosa ci posso fare io con i pochi soldi
che ho? Non conto niente!
È un po’ come quando si fa una lunga camminata: se si guarda
tutto d’un colpo la strada che manca da fare può coglierci la paura di
non farcela, come diceva Beppo Spazzino in Momo, un bel romanzo
di Michael Ende. Ma se si avanza passo passo, con i propri tempi e
magari approfittandone per ammirare il panorama, allora si

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raggiunge la vetta con più tranquillità. Questo paragone rende l’idea,
ma regge solo in parte, perché nessuno di noi, da solo, può
raggiungere la vetta e portare una risposta ai problemi che investono
le vite di tutti.
Serve, dunque, una risposta tanto individuale quanto collettiva. A
oggi, milioni di persone si impegnano quotidianamente per
migliorare la vita delle comunità a cui appartengono e si dedicano al
volontariato, prendendosi cura delle persone, difendendo i loro
diritti, proteggendo l’ambiente e i territori. Si indignano, si
arrabbiano, vogliono agire e cambiare le cose. Protestano,
boicottano, dissentono, borbottano, a volte anche solo mugugnano.
Tra queste, moltissime propongono economie costruite su basi
diverse, scelgono di lavorare per apportare un cambiamento, di
consumare in modo responsabile e di vivere in modo sostenibile.
Spesso la solidarietà e le buone pratiche passano in ombra, ma,
guardando meglio, scopriremmo che si stanno costruendo, dal basso,
migliaia di possibili alternative. Nella società, come negli ecosistemi,
i momenti di crisi possono essere superati grazie alla «biodiversità»,
alla coabitazione di tante potenziali soluzioni. Se già ci stiamo
prendendo cura dell’ambiente e delle nostre comunità, dobbiamo
ricordarci che non siamo soli. Se invece sentiamo di non partecipare
ancora al cambiamento – perché abbiamo poco tempo a disposizione
o perché, nella nostra quotidianità, siamo sottoposti a grandi
pressioni –, esistono comunque tantissime piccole azioni che
possiamo compiere per prenderci cura del mondo e degli altri, cura
che poi si riverserà anche nella nostra vita personale. In questo
modo ci avvieremo, ognuno secondo le proprie aspirazioni, capacità
e disponibilità, a un cammino sfaccettato e all’insegna della
biodiversità.
Finanza etica, commercio equo e solidale, gruppi di acquisto
solidale, bioedilizia, cooperazione internazionale, accoglienza, diritti
civili, efficienza energetica, energie rinnovabili, vita comunitaria,
consumo responsabile, boicottaggi, azionariato attivo, recupero di
beni usati, agricoltura biologica, filiera corta, cooperazione sociale,
promozione di leggi diverse, petizioni… Fra i tanti volti possibili del
cambiamento qualcuno ci attrarrà di più, mentre altri ci lasceranno
un po’ indifferenti. Ecco, seguiamo quelli che «ci chiamano», con la
rassicurazione che la strada da percorrere è una strada condivisa, e

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non dobbiamo farci carico di tutto nello stesso momento.
Una via trasversale e quotidiana per sostenere il cambiamento è
proprio l’attenzione all’uso del denaro. Molto è stato scritto sul
consumo responsabile, mentre siamo ancora poco coscienti di come
le nostre piccole grandi scelte finanziarie, da quella della banca in cui
aprire un conto corrente a dove fare gli investimenti, possano fare la
differenza. La finanza, tuttavia, ci viene spesso raccontata con un
linguaggio che non siamo preparati a decifrare, e che ai più risulta
tanto difficile quanto noioso.
Non c’è da sorprendersi dunque se, mettendoci a scrivere questo
libro, già dalle prime domande sul tema abbiamo ricavato risposte in
oscuri slang specialistici. Noi per primi ne siamo rimasti confusi.
Tutto da riscrivere. In tutt’altro linguaggio.
Questo libro, infatti, intende essere un corso semiserio di finanza
alla portata di tutti (con la leggerezza, a volte, si può arrivare più
lontano che con la serietà) e, perché no, una piccola guida per un uso
dei soldi che generi felicità.
I soldi danno la felicità era anche il titolo, volutamente
provocatorio, di una rubrica economica nata dalla collaborazione
radiofonica con Massimo Cirri, Sara Zambotti e Laura Troja, in
diretta e con le domande incalzanti dei conduttori. Da quelle
esperienze abbiamo tratto la scelta degli argomenti affrontati
inframezzando al testo domande spesso ironiche per dare un ritmo
nuovo ai temi dell’educazione critica alla finanza.

Soldi e felicità
Partendo dal titolo, I soldi danno la felicità, è necessario fare alcune
considerazioni sul legame tra… soldi e felicità. Di solito lo
affrontiamo in modo scomposto, negandolo o enfatizzandolo, perché
ci costringe a riconoscere che le domande sui soldi sono anche
domande sulla vita e sulle nostre scelte di vita. Quel legame può
essere un vincolo, una costrizione, una minaccia o un’opportunità.
Scoccia ammettere che i soldi sono tanto importanti. Ma danno
davvero la felicità?
Il «sempre di più» ha un costo, e non solo economico, perché
esiste una contabilità che non siamo abituati a tenere. Può voler dire

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rinunciare a belle esperienze, lasciar intorpidire i muscoli della
nostra inventiva, dover lavorare di più sacrificando il tempo libero, o
ancora abbuffarci di stimoli che lasciano una soddisfazione fragile.
Una vita sobria, invece, può essere ricca di relazioni, stimolarci a
sviluppare nuove capacità e fornirci un senso di autorealizzazione.
Non si tratta dunque di fare sacrifici e rinunce, ma di scegliere come
vogliamo impiegare il nostro tempo e di quali risorse intendiamo
nutrirci: c’è una bella differenza!
Sapevate che la felicità si studia? Certo non è come la matematica,
ma negli anni i ricercatori hanno trovato delle approssimazioni e
delle metodologie utili per valutarla, in qualche modo proprio per
misurarla. Questi studi, ovviamente, hanno riguardato anche il suo
rapporto con i soldi, e le conclusioni a cui sono arrivati sono
interessanti:

a. Oltre una certa soglia di reddito, o in generale nei paesi agiati, la


felicità non cresce con la ricchezza.
b. Non vi è una correlazione significativa tra la felicità delle persone
e il benessere del posto in cui vivono. I cittadini dei paesi più
poveri, per esempio, non risultano significativamente meno felici
di quelli dei paesi ricchi.
c. Nel corso di una vita, la felicità sembra dipendere molto poco
dalle variazioni di reddito e di ricchezza.

Queste considerazioni suggeriscono che la relazione fra soldi e


felicità, seppure in qualche modo esista, ha un’importanza relativa e
necessita di essere contestualizzata. La miseria, l’assenza o la carenza
di soldi, può effettivamente intrappolarci in contesti sociali,
lavorativi e relazionali che sono fonte di sofferenza e possono
diventare perfino uno stigma sociale. Allo stesso tempo, anche
guardando alle nostre esperienze dirette, noteremo che sono il
contesto sociale, la cultura, le relazioni, le nostre attitudini e risorse
interiori – innate o acquisite –, volte a far fronte alle piccole e grandi
sfide della vita, a fare la differenza rispetto alla felicità.
Si può dire che esistono due modi per essere «ricchi»: avere tante
risorse o avere bisogno di poco. Il primo ci porta a essere schiavi del
denaro. Il secondo, ovvero la sobrietà – il «quanto basta», come
nelle ricette della nonna –, può offrire di gran lunga più sicurezza e
libertà. Non si tratta di rinunciare in maniera categorica al consumo

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di beni e servizi che non siano strettamente necessari – viviamo
anche di cose non indispensabili – né allo spirito né alla carne. Si
tratta piuttosto di cercare un equilibrio fra i bisogni che vogliamo
soddisfare e il prezzo che ci costa farlo, in termini di tempo e risorse.
In questo senso, quindi, la felicità ha anche una componente
«volontaria», che va cercata, ed è al tempo stesso una
predisposizione mentale. Dunque dipende poco dai soldi.
Come riassume bene Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay:
«Dobbiamo renderci conto che non compriamo con il denaro, ma
con il tempo che abbiamo utilizzato per guadagnare quei soldi. E la
felicità non è poter possedere sempre più beni, ma avere il tempo per
fare quello che ci piace, per coltivare le relazioni umane, per stare
con i nostri figli e con gli amici. Tutti, a questo mondo, abbiamo il
diritto di essere felici».
Se dunque non riteniamo che i soldi, in sé, siano la chiave della
felicità, perché la scelta di questo titolo? Per rispondere alla
domanda è necessario un passaggio dal «quanto» al «come», dalla
quantità alla qualità.
La quantità di soldi che abbiamo influenza la nostra felicità fino a
un certo punto, ma il modo in cui decidiamo di spendere o di
risparmiare ciò che possediamo ha degli impatti reali sui soggetti con
cui interagiamo economicamente e sul mondo. In questo libro
vogliamo spiegarvi un po’ come funziona la finanza, quella che
possiamo incontrare nella vita di tutti i giorni. Raccontarvi in
particolare come le scelte finanziarie, che noi tutti siamo chiamati a
compiere, possono contribuire a costruire il mondo che ci
piacerebbe. Attraverso i soldi possiamo dare il giusto riconoscimento
al lavoro delle persone e far fiorire i progetti che riteniamo virtuosi.
Il valore dei soldi sta nelle relazioni e nel bene comune che aiutano a
generare. In questo senso sì: i soldi danno la felicità.

Chi scrive il libro?


Ho scritto questo libro con l’aiuto di Cristina Diana, che ha avuto il
ruolo essenziale di costringermi a chiarire e spiegare come è
possibile (oppure no) che i soldi diano la felicità. Le sue osservazioni
e ricerche hanno aiutato a dare contenuti alle domande spesso

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puntute e provocatorie, scaturite dalla mia fantasia e dalle
conversazioni radiofoniche, che vengono riassunte nei corsivi che
scandiscono il ritmo del libro. La nostra è una relazione quantomeno
curiosa, iniziata come un rapporto di affidamento genitoriale quando
Cristina aveva diciassette anni e che è poi continuata su altre basi ad
affidamento terminato. Siamo separati da una trentina d’anni d’età e
accomunati da un simile interesse per le domande di senso e per le
pratiche capaci di innescare un cambiamento positivo nella società.
Io ho studiato Fisica e sono giunto, attraverso l’attivismo, a
occuparmi di finanza etica. Lei, come non vi racconterà – perché alla
sua età, dice, è troppo presto per fare «bilanci» –, ha studiato
Economia e Statistica per poi arrivare, sempre sull’onda
dell’attivismo, a fare la giornalista e a studiare e tradurre nella scuola
di Arte del processo e di democrazia profonda, la prima scuola
italiana di psicologia orientata al processo.
Le attitudini che hanno caratterizzato la mia vita dall’infanzia a
oggi sono state la curiosità, la voglia di cambiare il mondo e una forte
motivazione a fare e a rendermi utile.
La curiosità mi ha portato da piccolo a spaccare il frigo di casa nel
tentativo di capire da dove provenisse il freddo, poi, molto più tardi,
a studiare Fisica, una formazione che mi ha trasmesso la voglia di
capire il quadro d’insieme e gli ordini di grandezza, nonché il
desiderio di riportare argomenti complessi a un piano di semplicità.
Ho imparato tante cose rispetto all’agricoltura e alle trasformazioni
alimentari. Inoltre, mi piace cimentarmi nei lavori manuali,
arrangiandomi a fare il muratore, l’idraulico, il falegname e
quant’altro. Il lato oscuro di tutto ciò è che sono talvolta
insopportabilmente attivo, e per giunta in tutti i campi!
L’impegno sociale e la volontà di cambiare il mondo, tuttavia,
hanno avuto la meglio, portandomi a dedicarmi alle attività della
parrocchia e del gruppo Mani Tese di Firenze, anche grazie
all’influenza del pensiero di don Lorenzo Milani. A Mani Tese, in
particolare, devo molto. Si tratta di un’organizzazione non
governativa che si occupa di sviluppo e solidarietà tra i popoli, con
gruppi locali sul territorio che si dividono tra azioni politiche,
campagne di sensibilizzazione e raccolta fondi anche attraverso il
lavoro manuale. È stato all’interno di questa organizzazione che ho
capito l’importanza di mettersi insieme per comprendere cosa non

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va nel mondo ed elaborare strategie teoriche e pratiche d’azione.
Così, a poco più di vent’anni, ho seguito la campagna
dell’associazione contro i «mercanti di morte», che ha portato ad
approvare, nel 1990, la legge 185 per regolamentare il commercio
delle armi.
Nel 1997 sono diventato presidente di Mani Tese e ho seguito
diverse campagne impegnate a promuovere un commercio
internazionale più equo, lo sviluppo sostenibile e la democrazia nelle
istituzioni internazionali.
Sempre tramite Mani Tese, sono entrato in contatto con le prime
idee di finanza etica diventando, nel 1995, uno dei fondatori della
cooperativa da cui ha avuto origine Banca Etica, che ha l’ambizione
di far sapere ai suoi clienti dove investe i loro soldi e di investirli con
forti attenzioni sociali e ambientali, improntando la sua attività alla
massima trasparenza.
La finanza etica è diventata una passione, ma poi anche il mio
lavoro, inizialmente di promozione culturale. Il risultato forse più
noto è stato di aver ideato, promosso e coordinato (ovviamente
insieme a molte altre persone) Terra futura, una mostra-convegno
sulle buone pratiche di solidarietà e di impegno per il cambiamento
che si è svolta a Firenze per dieci anni dal 2004 al 2013.
Negli anni ho acquisito sempre maggiori competenze e nel 2010
sono diventato presidente di Banca Etica (lo sono stato fino al 2019)
e dal 2011 presidente di Etica Sgr, la società del gruppo Banca Etica
che si occupa di gestione del risparmio ed è esclusivamente orientata
alla finanza etica.
La propensione a rendermi utile agli altri ha caratterizzato da
sempre anche la mia vita privata, scelta sostenuta da mia moglie
Mirjam e da altre persone con cui abbiamo scelto di vivere. Quando
si è in due o più a condividere gli ideali e i valori e a farsene carico
insieme è più facile metterli in pratica, custodirli.
Non chiudere la porta di casa, vivere in modo comunitario, è un
esercizio che ha arricchito la mia esistenza e che mi sento di
consigliare. Anche perché pontificare un po’ è un altro mio
difettuccio.

Scusi l’interruzione, ma lei, che ha fatto il banchiere, perché ha


capito male il noto «I care» di don Milani? Dice di averlo studiato,
ma poi chiede interessi sui prestiti.

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Esiste un interesse generale ed esiste un interesse che viene
richiesto per un prestito. Per entrambi in fondo significa che mi sta a
cuore, mi importa. Solo che il primo è un interesse collettivo ed è
generale. Il secondo diciamo che è un po’ più materiale, individuale e
soprattutto legato ai soldi.
Siccome in Banca Etica siamo astuti, siamo convinti che
l’interesse più alto è quello di tutti e così speriamo di salvare capra e
cavoli.

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Un quadro d’insieme

Prima di entrare nello specifico degli strumenti e delle buone


pratiche della finanza, vale la pena gettare uno sguardo su alcuni dei
suoi concetti di base, ovvero il denaro, le banche e il risparmio. Sono
solo causa di problemi, potenziali occasioni per il proprio personale
tornaconto, o invece hanno anche una funzione sociale?
Ci sono tantissime cose che diamo per scontate e sulle quali non
siamo abituati a porci delle domande. Per avere uno sguardo più
fresco, a volte, è utile fare un passo indietro e risalire all’origine
storica di ciò che oggi è diventato «normale». Facciamo quindi un
salto nel passato, così da avere poi una prospettiva più ampia sui
nostri tempi.

Piccola storia della moneta


Cominciamo dalle basi, visto che non siamo neanche tanto sicuri di
sapere che cosa sia il denaro. Perché siamo così fiduciosi, quando
andiamo a fare la spesa, che le nostre banconote verranno
accettate? Dopotutto sono semplici pezzi di carta.
Per comprendere come funziona la moneta vi invito a pensare ai
tempi più antichi che riuscite a immaginare. È un mondo che
conosciamo poco, in cui tutti sapevano fare un po’ di tutto e dove,
per scambiarsi i beni e i servizi necessari, le persone usavano molto
di rado il baratto, contrariamente al pensiero comune, adottando
invece un sistema complesso di debiti e applicando la reciprocità.

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Cerchiamo di essere più chiari: nel baratto, chi aveva una gallina
scambiava le sue uova, per esempio, con un certo quantitativo di
farina; applicando la reciprocità, invece, questo scambio non
avveniva necessariamente nello stesso momento. All’interno delle
comunità, dove vigevano rapporti di fiducia, le persone erano solite
farsi favori e cedere i propri beni sapendo che l’altro, in futuro,
avrebbe ricambiato. Chi uccideva un animale, quindi, poteva
distribuirne la carne e ricevere, in un secondo momento, uova,
scarpe e quant’altro veniva prodotto, senza vincoli di tempo.
La reciprocità, in un certo senso, è una pratica che ancora
adottiamo con le persone di cui ci fidiamo. Un esempio? Quando
facciamo da baby-sitter ai figli dei nostri amici non chiediamo
nessun compenso monetario o immediato, ma stipuliamo un
accordo implicito in virtù del quale ci aspettiamo di ricevere a nostra
volta supporto e favori quando ne avremo bisogno.
Ecco, un tempo i beni e i servizi circolavano così, ma il sistema era
un po’ più complesso, visto che non ne esisteva un altro. Si accettava
il fatto che, in una comunità definita (geograficamente o
relazionalmente chiusa), si poteva ricevere qualcosa in cambio anche
non direttamente dalla persona che aveva ricevuto la merce, ma da
una terza, in una sorta di triangolazione: Gianni dà a Clara che poi
darà a Giorgio che darà a Giulia che poi darà a Gianni, chiudendo il
cerchio (o riaprendolo all’infinito se non si sono scambiati beni
equivalenti).
Un sistema complesso, dicevamo, con ritualità intrecciate nonché
con un’implicita accettazione di relazione «violenta», verso le
comunità straniere (nei confronti delle quali non valeva la
reciprocità, ma i rapporti di forza) ma anche al proprio interno
(schiavitù o servitù per debiti).
Non a caso, in tempi in cui il denaro era ancora marginale, ma le
società iniziavano a svilupparsi, questo sistema accentuava le
differenze sociali e creava distorsioni significative. La reciprocità
diventava impossibile e prevaleva l’idea del debito, con la
conseguente sottomissione delle persone. Per questo sono nati i
cosiddetti «giubilei», che consistevano nella remissione dei debiti. I
regnanti babilonesi, per esempio, preferivano cancellarli tutti e
azzerare il «contatore» anziché rischiare rivolte.
Le ragioni per cui la reciprocità è passata in secondo piano,

23
mentre la moneta ha assunto un ruolo sempre più rilevante nel
regolare gli scambi e le risorse, sono molteplici e complesse. Ci
limiteremo a elencarne tre, collegate alle funzioni costitutive della
moneta: intermediazione, unità di misura, riserva di valore.

1. Scambiare beni dal valore diverso è difficile e richiede tempo,


per questo si è imposta l’esigenza di uno strumento di
intermediazione. Qualcosa di «fisico» da dare e ricevere e che
mantenesse il ricordo del valore permutato nel tempo,
semplificando così le operazioni.
2. Serviva qualcosa che fungesse da unità di misura del valore delle
merci. Nel Medioevo, per esempio, c’era il «bisante», una
moneta di grande valore che proprio per questo la maggior parte
delle persone non vide né toccò mai in vita sua. Veniva tuttavia
ampiamente usata per esprimere il pregio di terreni, mandrie
eccetera. Una sorta di moneta virtuale, insomma!
3. Esistono stagioni e annate più abbondanti di altre. Quando ci si
ritrovava ad avere più del necessario, in previsione del futuro, si
metteva da parte l’eccedenza. La moneta, in questo senso, era
una riserva di valore, una possibilità di risparmio e di
accumulazione semplice.

Le primissime monete erano cereali, conchiglie, sale, tabacco e unità


di bestiame: si prestava all’uso qualunque bene fosse scarso,
facilmente trasportabile e non deperibile. Poco dopo, si è passati a
adoperare i metalli preziosi che, rispondendo a tutte queste
caratteristiche, sono rimasti fino a tempi recenti il bene alla base del
sistema finanziario.
La moneta è stata un’invenzione potente, perché non solo ha reso
più facili gli scambi, ma ha anche consentito di suddividere meglio le
ricchezze e quindi di creare un sistema di redistribuzione basato
sulle tasse, dato che è più semplice raccogliere tasse sotto forma di
moneta rispetto a farsi consegnare dei beni e di conseguenza usarle
per servizi utili a tutti. Inoltre, misurando il prezzo con la moneta è
diventato molto più semplice fare le previsioni economiche.

Biggeri, non è che lei ora mi rifila quattro conchiglie per saldare
quel nostro vecchio debito per far gas in autostrada?
Lo farei volentieri, ma da tempo è il potere statale (o dei regnanti)

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a essersi assunto la prerogativa di stampare monete. Diciamo che
sono gli Stati ad avere il monopolio di soldi e… soldati. Quindi per
quel debito dovrò ricorrere a delle banconote.
La cartamoneta si affermò in Europa durante il Medioevo. Allora
l’Italia era divisa in tanti piccoli stati, ognuno con la propria piccola
moneta. Potete immaginare la confusione! Inoltre, con i briganti e i
pirati a ogni angolo della terra e del mare, il trasporto delle monete
non era certo privo di rischi. È in questo scenario che fecero il loro
ingresso nella storia i cambiavalute, una forma primitiva di banchieri
che si impegnavano a tenere al sicuro i soldi che venivano loro
consegnati promettendo, per iscritto su un foglio di carta, che chi lo
avesse presentato avrebbe ricevuto in cambio l’ammontare di
monete depositato. Le persone abbienti e i commercianti, così,
iniziarono a scambiarsi i pezzi di carta che contenevano tali
promesse.
I primi protobanchieri erano soliti tenere da parte tutte le monete
a loro affidate, sempre pronti a consegnarle a chi venisse a
reclamarle. Poi, dopo qualche tempo, si accorsero che quando le
persone si scambiavano la cartamoneta solo alcune di loro sarebbero
effettivamente andate a riscuotere quanto depositato. Perché allora
non prestarne una parte, ricavandone anche un interesse? Finché il
banchiere restituiva le monete a chi si presentava con il foglio di
carta, questa pratica non era un imbroglio. Così, i protobanchieri più
seri si misero a coordinare diligentemente le scadenze fra i soldi a
loro affidati e quelli prestati. Il processo, tuttavia, non sempre
andava a buon fine, un po’ per incapacità e un po’ perché non tutti i
protobanchieri erano onestissimi. Dopo alcuni casi di insolvenza
bancaria, si approdò dunque alla cartamoneta pubblica.

Cominciamo già a parlar male delle banche? Siamo solo agli


antenati, e già li abbiamo presi con le mani nella marmellata?
No, per carità… È che si sbaglia, e senza regole spesso si degenera.
Per rimediare a questi pastrocchi i governi locali, che già avevano
il controllo delle zecche per le monete, assunsero anche quello della
cartamoneta. Da quel momento le banche centrali sono diventate le
uniche a poter emettere banconote, impegnandosi a garantirne la
convertibilità in oro. Durante il lungo periodo in cui questo sistema è
rimasto in vigore, le persone non erano obbligate ad accettare le
banconote come forma di pagamento, ma erano comunque solite

25
farlo perché sapevano di poter chiedere in qualunque momento alla
banca centrale il corrispettivo in oro, e si fidavano. Questo
meccanismo ha funzionato fino allo scoppio delle due guerre
mondiali, quando le banche centrali non sono più riuscite a far
fronte alla richiesta di conversione perché l’oro era impiegato in
prestiti mirati a sostenere gli sforzi bellici. Dopo un tentativo di
tornare alla convertibilità, con gli accordi di Bretton Woods del 1944,
che introdussero un nuovo sistema monetario internazionale, basato
sul principio di stabilità costituito dai cambi fissi, nel 1971 le monete
cessarono una volta per tutte di essere convertibili. Da allora, le
banconote sono diventate un mezzo di scambio a cui si riconosce un
valore nominale (quello stampato sopra) solo per la fiducia che chi
riceve in pagamento una certa quantità di denaro possa poi cederla a
sua volta ad altri in cambio di beni e servizi. Questo «meccanismo
fiduciario» viene forzato dall’obbligo legale di accettare pagamenti
nella moneta ufficiale del proprio paese e dalla regola, contenuta nei
codici civili, secondo cui una volta effettuato il pagamento
l’obbligazione (e quindi il debito) si estingue, liberando per sempre il
debitore.

Cioè i soldi non sono più solidi e legati ai lingotti di Fort Knox, ma
sono dei dischetti di metallo o pezzi di carta? Possiamo chiedere di
ricevere lo stipendio in dobloni? Così, per stare più tranquilli…
No, non si può. In un certo senso le odierne monete sono il
simbolo concreto di una convenzione universalmente accettata. La
definizione di «denaro» o «moneta», a dire il vero, non è molto
intuitiva e sembra un circolo vizioso:

1. Il valore delle monete è per convenzione pari a quello nominale


(cioè quello scritto sopra).
2. La circolarità della moneta è garantita dalla circolazione legale
forzata: non si può rifiutare un pagamento in moneta.
3. La stabilità del valore è garantita dal controllo sull’emissione da
parte delle banche centrali. Queste devono emettere la moneta
legale (quella «stampata») in linea con la crescita dell’economia
e dell’andamento degli aggregati monetari (pena meccanismi
incontrollati di perdita di valore della moneta come
l’iperinflazione, ossia il fatto che i prezzi aumentino molto
rapidamente e si abbia una rapida perdita di valore rispetto ad

26
altre monete estere).
4. Gli aggregati monetari sono la somma delle monete stampate,
dei depositi in conto corrente (o a vista, cioè che si possono avere
disponibili immediatamente a richiesta) e dei titoli di stato a
breve termine (emessi dai governi). Sono sostanzialmente una
misura della ricchezza quantificata da una moneta (e della
ricchezza dei paesi dove circola).
5. Il valore relativo di una moneta rispetto alle altre dipende dal
mercato libero degli scambi valutari (la compravendita di
monete).

È veramente complesso e sembra di girare in tondo. Quindi l’oro è


sparito tutto?
No, la Banca d’Italia ha ancora delle riserve auree. Da quando i
soldi sono diventati un simbolo, il ruolo di tali riserve è cambiato,
diventando – com’è scritto anche sul sito della Banca d’Italia – uno
strumento che ha la «funzione di rafforzare la fiducia nella stabilità
del sistema finanziario».
Da questa breve storia della moneta possiamo osservare che la
fiducia ha sempre giocato un ruolo importantissimo. E oggi che i
soldi sono diventati qualcosa di astratto, questa correlazione si è
ulteriormente rafforzata. D’altronde noi accettiamo di essere pagati
con i soldi perché ci fidiamo che il fruttivendolo ci consegnerà le
verdure che gli abbiamo chiesto in cambio delle nostre monete e
banconote, o addirittura della modifica di un numerino sul nostro e
sul suo conto corrente.
Anche gli sviluppi recenti dell’economia digitale come i prestiti tra
persone o le nuove criptovalute (monete alternative digitali) paiono
indicare che dietro il denaro ci sia molta più relazione, fiducia e
psicologia di quanto normalmente pensiamo.

Le banche ci servono!
Mi ha incuriosito la storia dei protobanchieri che protofregavano i
protocorrentisti…
In realtà non protofregavano, avevano inventato i prestiti
moderni! Le banche, come abbiamo accennato, servono per tenere i

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soldi al sicuro, per effettuare pagamenti in modo più semplice e – da
quando i protobanchieri si sono resi conto che non era necessario
tenere tutti i soldi fermi nei depositi – gli istituti di credito svolgono
anche un importantissimo ruolo di intermediazione fra chi ha i soldi
e chi non li ha, ma ne vorrebbe prendere in prestito. Quindi i soldi
come entrano nelle banche ne escono per essere prestati o usati…

Faccio fatica a digerire l’idea che i miei soldi non siano in banca,
perché li sta utilizzando qualcun altro.
In effetti questo sarebbe un po’ preoccupante se pensassimo
erroneamente alla banca come a un deposito. Il mestiere del
banchiere, in un certo senso, è quello di amministrare in modo
attento i rischi e i ricavi connessi ai prestiti e il bilancio della banca,
gestendo le differenti scadenze temporali fra chi deposita i propri
risparmi – e li vuole sempre disponibili – e chi li prende in prestito
chiedendo di restituirli «con calma». Questa cosa va sotto il nome di
«equilibrio finanziario», ma di fatto è più semplicemente un
barcamenarsi con destrezza fra le varie scadenze.
Nel 2010, quando sono stato eletto presidente di Banca Etica, ho
avuto conferma della veridicità di questa storia dell’intermediazione
finanziaria: da nessuna parte, nella mia banca, ho trovato depositi
pieni di monete o lingotti d’oro stile Paperon de’ Paperoni. E ho
capito che non succedeva neanche nelle altre… Mannaggia!
Ma torniamo al ruolo delle banche. Raccogliendo i risparmi dei
cittadini e prestandoli a chi ne necessita, e ha capacità di restituirli,
le banche creano denaro. Leggendo questa affermazione alcuni di voi
penseranno che solo le banche centrali stampino moneta. Questo è
vero, ma la moneta prodotta e stampata è solo una piccolissima
parte del denaro in circolazione, circa il 5 per cento. Gli altri soldi
sono nelle scritture contabili degli istituti finanziari e di credito,
vediamo come.
Che le banche «creassero» soldi se n’erano accorte già nel tardo
Medioevo e all’inizio dell’epoca rinascimentale alcune famiglie
fiorentine, come i Pitti, i Peruzzi, i Medici e gli Strozzi. Si vocifera
che la parola «strozzino» derivi proprio da questi ultimi… comunque
sia, forse anche per questo le loro banche rendevano molto bene.
Pettegolezzi a parte, che i soldi fossero nelle banche di queste
importanti famiglie o nei monti di pietà francescani, quando una
banca fa un prestito di fatto crea moneta. Semplificando potremmo

28
dire che se deposito in banca 1000 euro, una parte, per esempio 900
euro, verrà prestata a qualcun altro. I 1000 euro iniziali, in questo
modo, sono diventati 1900, perché io continuerò a possedere il
denaro che ho depositato e il beneficiario del prestito avrà 900 euro
a disposizione. A questo punto il beneficiario, plausibilmente,
spenderà quanto ricevuto, aumentando il valore dei conti in banca
delle persone con cui interagisce. Questi depositi, a loro volta,
saranno la base per effettuare ulteriori prestiti, in un meccanismo di
moltiplicazione del denaro e di accelerazione dell’economia.

Detta più semplice?


Vediamo… Io verso 1000 euro sul mio conto corrente: sono miei e
quando voglio li riprendo. La banca dai soldi che ha in deposito ne
prende 900 e li presta al signor Lapo. Dopo quel prestito sia io sia il
signor Lapo avremo a disposizione i nostri soldi, quindi ci sono 900
euro in più! Ma non è finita qui. Prima o poi qualche lampredottaio
fiorentino verserà 900 euro sul suo conto, perché notoriamente il
signor Lapo, che sta a Firenze, se li spenderà tutti in panini al
lampredotto. Che cosa succede? La banca del lampredottaio, che
riceve i 900 euro di deposito (in origine un prestito della banca del
signor Lapo), a sua volta presterà quei soldi a un altro suo cliente,
creando altro denaro «legato» al prestito originario del signor Lapo.
Quindi in questa maniera si fa circolare l’economia e, letteralmente,
si crea denaro. Il 95 per cento dei soldi si crea così.

Due panini al lampredotto hanno generato tutta questa roba?


Sì, e senza neppure tener conto del cardiologo!

Non facciamo però terrorismo sui costi sociali di un’alimentazione


discutibile, Biggeri. Come se lei mangiasse normale, andiamo
avanti… Quindi questo giro del lampredotto (e non del capitale) fa
sì che le banche siano fondamentali per creare il denaro che
circola…
Questo è il motivo per cui quando una banca rischia di fallire lo
Stato interviene, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Le banche
sono il motore dell’economia, sono quelle che di fatto, anticipando i
nostri guadagni futuri, consentono ad altri di fare impresa. O almeno
dovrebbero…

29
E i soldi si creano all’infinito?
Non proprio. Ci sono due restrizioni: la prima è che le banche
devono mantenere delle riserve in denaro libere, e questo ne limita la
creazione; la seconda, e più importante, è che le banche stesse
cancellano (o distruggono) i soldi creati via via che ogni rata del
prestito viene restituita. Hanno creato soldi nel momento in cui li
hanno anticipati, li «cancellano» quando sono restituiti. Attenzione:
cancellano moneta con la parte di restituzione dei soldi prestati, non
con gli interessi pagati, quelli se li tengono! Dato che le banche fanno
prestiti in continuazione, l’insieme di tutti i soldi che prestano e che
devono ancora essere restituiti si chiama «portafoglio dei crediti in
essere» e, in effetti, è legato alla moneta che viene stabilmente creata
da una banca.
Quando andiamo in banca a depositare i nostri soldi, convinti di
accedere semplicemente a dei servizi, stiamo di fatto immettendo
energia nel motore dell’economia e contribuendo a creare ricchezza
laddove saranno investiti, fornendo un utile alle banche, ma
soprattutto garantendo linfa vitale ai progetti che vengono finanziati.
È per questo che, quando affidiamo i nostri soldi alle banche, è
essenziale interrogare e interrogarci sul tipo di attività che
sovvenzioneranno. Energie rinnovabili? Progetti sociali? O industria
bellica?
Porsi questo tipo di domande, e scegliere di conseguenza, ha un
potere rivoluzionario: possiamo contribuire a far fiorire attorno a noi
un’economia più solidale, attenta all’ambiente e al benessere delle
persone. I nostri soldi hanno tutte le potenzialità per fare
volontariato insieme a noi.

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Abbecedario di finanza

Nel precedente capitolo abbiamo fatto un breve salto indietro nella


storia, guardando all’origine della moneta, delle banche e delle
finalità etiche che insieme a loro possiamo decidere di perseguire. In
questa sezione, invece, adotteremo un approccio più pratico per
introdurre alcuni degli strumenti finanziari di base che tutti, o quasi
tutti, ci ritroviamo a dover conoscere. La finalità di questo capitolo è
fornire al lettore le nozioni di base per fare scelte oculate che
garantiscano una buona tranquillità finanziaria e che
contemporaneamente consentano di fare la felicità propria e altrui,
contribuendo con i nostri risparmi a costruire il tipo di mondo che si
vorrebbe.

Il mercato e le azioni
Andiamo al mercato?
Cos’è il mercato? Mica facile da definire. È quello di quartiere?
Con le mutande alla rinfusa vicino ai carciofi? Il mercatino
dell’usato? Oppure il mercato gestito dai computer, apparentemente
asettico in cui ci si scambiano azioni e titoli finanziari? O forse è
quello nero?
In fondo con la parola «mercato» possiamo indicare tante cose
perché è un luogo di scambi con diversi gradi di libertà e apertura
possibili.

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Scusi, ma un luogo di scambi libero e aperto suona quasi come
un’esperienza per coppie «di larghe vedute» o per altri mercimoni…
Ops, intendevo un’altra cosa, anche se in un certo senso pure
quello può essere un mercato.
Se ci si scambia qualcosa con una transazione economica (ovvero
pagando o usando i soldi come unità di misura), allora si fa mercato.
Se invece ci si regala qualcosa non lo è. Quindi sugli scambisti,
dipende…
Oggi il mercato non è più solo nelle piazze, ma in moltissimi altri
luoghi, anche virtuali, come le piattaforme digitali.
I mercati non sono un’entità neutra, possono anzi avere
connotazioni profondamente diverse a seconda di come vengono
regolamentati. Possono assumere una forma cooperativa, capitalista,
liberista, decentrata, accentrata, democratica, a pianificazione
socialista, civile, incivile, in nero, digitale, irrazionale, virtuale,
fantomatica…
Senza entrare nel merito dei tanti mercati possibili, possiamo dire
che nel complesso si tratta di uno strumento utile, senza il quale gli
scambi sarebbero molto difficili.

Bene, mi sento preparato per acquistare le verdure nel mercato


rionale, ma quello azionario mi resta oscuro…
In finanza il mercato azionario è il luogo dove vengono negoziati i
titoli azionari. Le azioni o i titoli azionari, di cui parleremo nelle
prossime pagine, sono dei piccoli pezzi di proprietà delle società.
Queste imprese, o società, per avere una maggior disponibilità di
denaro, aprono a chiunque lo voglia le sottoscrizioni delle loro quote.
Pagando il valore dell’azione, oltre a diventarne proprietari, si
ottiene il diritto di partecipare alle decisioni nell’assemblea annuale
e sopra una certa soglia anche di poter fare delle proposte. Quindi si
ha il diritto di percepire il dividendo, ovvero una quota dell’utile
della società.
Una delle motivazioni principali che spingono un investitore ad
acquistare un’azione è la possibilità di ricavarne un guadagno.
Sempre più spesso, tuttavia, lo si fa nella speranza di venderle a un
prezzo più alto. Se, per esempio, ho ragione di aspettarmi che il
valore di una determinata società sia destinato ad aumentare, posso
comprarne delle azioni oggi, a un prezzo certo, e rivenderle domani a
un prezzo maggiore, incassando la differenza.

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Il mercato azionario si presta dunque a essere utilizzato in modo
speculativo, ma svolge delle funzioni interessanti: consente di poter
reperire capitali per far crescere le imprese e le loro attività
economiche e lo fa mettendo in teoria tutti i proprietari allo stesso
livello di rischio: ogni azionista, infatti, è proprietario di un
pezzettino della società proporzionale al numero di azioni che
possiede.
Certo una società per azioni ha un’organizzazione tale per cui il
gruppo di soci che possiede la maggioranza, anche relativa, delle
azioni detiene il controllo. Ma i profitti poi si dividono tra tutti allo
stesso modo in base al possesso azionario, ossia a quanto si è deciso
di rischiare nelle quote di proprietà dell’azienda.
In un certo senso una compagnia quotata consente a tutti di
divenire proprietari e il mercato azionario regola come ci si debba
comportare per garantire l’interesse di tutti i soci.

Ma allora il mercato azionario è una meravigliosa democrazia!


Fantastico, mi era sfuggito…
Non esageriamo, non proprio. Perché, per esempio, la
massimizzazione degli interessi degli azionisti misurati solo in
termini di dividendi può creare distorsioni importanti e
potenzialmente negative per il valore dell’azienda. Oppure perché, se
le informazioni non sono disponibili a tutti nello stesso modo, chi ha
più informazioni è avvantaggiato. Infine, bisogna ricordarsi che le
imprese quotate spesso sono multinazionali e hanno potenzialmente
delle criticità importanti per posizioni dominanti o per filiere di
produzione molto lunghe e difficili da controllare rispetto agli
impatti sociali e ambientali…
Una volta parlando con un’amica di come scegliere le compagnie
di cui comprare azioni in base a rigorosi criteri ambientali, sociali e
di buon governo mi ha detto: «Sì, però il migliore dei maiali è pur
sempre un porco…».

È un punto di vista lecito, forse un filino ideologico.


Il mercato azionario e le imprese quotate non sono di per sé
negativi, anzi, svolgono funzioni importanti e possono anche essere
molto efficaci nel generare cambiamenti. A patto di non vedere il
mercato azionario solo come un luogo del profitto, ma anche come
una possibilità di contribuire alle innovazioni, all’economia e alla

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sostenibilità.

Tutti i giornali ci parlano sempre di Borsa, ci dicono del fatto che


va giù, che va su, di che cosa succede. Ma che cos’è la Borsa? E
perché si chiama così?
Nel XV secolo, i mercanti olandesi erano soliti scambiarsi merci e
stabilirne il valore in un posto che si chiamava Hôtel des Bourses,
quindi da lì il nome «Borsa».

Il caso domina i mercati e anche le nostre vite. Il nome, dunque, non


ha niente a che fare con i borseggiatori, né con le borse sotto gli
occhi dei trader cocainomani.
Su quanto quest’ultima immagine sia frutto della produzione
cinematografica, non saprei valutare: non ne ho mai conosciuto uno,
ma si dice che esistano…
Tornando ai mercanti olandesi, dicevamo che all’Hôtel des
Bourses si mettevano d’accordo su quanto valessero le società, i
prodotti coloniali che iniziavano ad arrivare e le merci che si
scambiavano.
Così è nata anche l’idea di suddividere la proprietà delle società in
tante piccole azioni, per poi venderle sulla Borsa. Di tutte le società
quotate, ovvero presenti sul mercato, si possono trovare un sacco di
notizie proprio perché tutti dovrebbero poter accedere alle
informazioni necessarie per valutare se comprarle o meno.
Questo in realtà ci porta ad avere anche più dati sull’impatto
ambientale o sociale delle aziende che vengono quotate, soprattutto
oggi che le informazioni non finanziarie sono stimolate dai
regolatori.
Oggi le Borse sono piattaforme informatiche dove si acquistano e
vendono strumenti finanziari più o meno complessi, come azioni,
obbligazioni e derivati (di cui parleremo più avanti). Ben lontane
dall’essere solo degli aridi calcolatori, le Borse sono al contrario
molto emotive. Crollano quando c’è sfiducia e diventano euforiche
quando c’è fiducia. I mercati possono essere ansiosi e suscettibili, e
hanno il vizio di cercare di scrutare il futuro nella folle ricerca di
guadagnare il più possibile ogni giorno. A differenza di quanto
accadeva ai tempi dei mercanti olandesi, che poi dovevano
trasportare e vendere quel che acquistavano, oggi si vendono e
comprano azioni soprattutto per far fruttare il proprio denaro, non

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per avere in cambio della merce.

E bravi gli olandesi!


In realtà anche gli olandesi dell’Hôtel des Bourses avevano
qualche folcloristica eccezione: pare che una volta, a metà del
Seicento, abbiano iniziato a speculare sul valore dei bulbi dei fiori
olandesi per antonomasia, i tulipani.
Rapidamente i prezzi divennero insostenibili e le persone smisero
di acquistare tulipani. La domanda scese, si diffuse il panico e
scoppiò una bolla che portò a una crisi finanziaria, e poi anche
economica e sociale, in tutto il paese. Negli anni successivi i giudici
incaricati di valutare la legittimità dei debiti accumulati per gli
acquisti di tulipani si rifiutarono di riconoscerli, equiparandoli a
quelli contratti nel gioco d’azzardo.
La «bolla dei tulipani» è considerata la prima grande crisi
finanziaria moderna. Nulla è cambiato nei quasi quattrocento anni
successivi.
Nonostante tutto i tulipani sono rimasti il fiore simbolo
dell’Olanda (o forse proprio per i soldi che le sono costati, chissà).
Un po’ come è accaduto nel caso della bolla dei tulipani, oggi gli
investitori acquistano azioni non perché interessati a ciò che
l’impresa in questione produce, ma con finalità speculative.
Sommando il valore delle azioni presenti in tutte le Borse del mondo,
si ottiene un ammontare superiore al Pil mondiale (Pil sta per
Prodotto interno lordo ed è l’insieme di tutto quello che
consumiamo, produciamo e ci scambiamo). L’economia reale, oggi,
vale molto meno dell’economia generata dalla finanza ed esistono
società che valgono più di interi paesi.
Un esempio? Le società più capitalizzate in Borsa, tutte
nell’ambito dell’high technology, valgono oltre 1000 miliardi di
dollari, ovvero quanto il Pil del Messico. E un paio hanno superato i
2000 miliardi, pari al Pil dell’Italia.

Questa cosa un po’ sconcerta… Ci dica qualcosa di più leggero. Che


cosa succede dentro alle Borse, per esempio in quelle di Milano o di
Tokyo? Siamo abituati a quelle immagini un po’ cinematografiche
delle urla, delle contrattazioni fatte a voce. Adesso come funziona?
In realtà oggi tutto questo non c’è più, basta guardare uno
schermo, anzi, i dati appaiono sugli schermi anche quando non ci

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interessano.
Essendo tutto regolato dai computer, le competizioni tra le Borse
mondiali si giocano anche sulla velocità dei calcolatori. Chi arriva
prima (parliamo di millisecondi) vince.
Le stesse Borse sono società che diventano sempre più
complicate. Per esempio la Borsa di Milano fino a poco tempo fa era
in una società insieme a quella di Londra. Poi è passata di mano, ora
è di un consorzio europeo con sede ad Amsterdam.

E la Borsa di Milano è quotata in Borsa. Mi sta venendo il mal di


testa.
Benvenuto nella finanza senza confini. Esistono società che sono
chiamate veicoli finanziari. Tali società a loro volta contengono
azioni di altre società e altri titoli finanziari, compresi magari titoli di
proprietà di aziende non quotate o titoli legati a crediti che sono stati
erogati o derivati: un paniere di azioni a sua volta quotato. Si
possono addirittura costruire indici azionari e quotarli in Borsa.
Gli indici sintetizzano il valore di un paniere di titoli e le sue
variazioni nel tempo. Il valore di un indice è dato dalla media
ponderata (pesata) dei prezzi dei titoli compresi nel portafoglio
effettuata con criteri prestabiliti rispetto alle possibili scelte: criteri
di pesatura (uniforme, in base al valore, in base alla
capitalizzazione), scadenze temporali, settori, aree geografiche…
Tutto chiaro, no?

[Silenzio sgomento]
L’importante, in realtà, è capire che se cerchiamo di far fruttare i
soldi inseguendo le creazioni della finanza dobbiamo diventare dei
professionisti, oppure, più semplicemente, essere prudenti e fare
solo ciò che si capisce. Se invece ci occupassimo di più dei risultati
non solo da un punto di vista strettamente economico, ma anche di
impatto sociale, potremmo davvero guadagnarci tutti.

La finanza pubblica
Non si può non parlare di soldi e finanza senza provare a dire due
cose sulla finanza pubblica.

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Non vorrà mica parlarci di tasse?
Intanto la finanza pubblica non deve farci venire le bolle o farci
fare scongiuri, perché anche questa ha del buono, e tanto.
Prima che i soldi iniziassero a circolare, la redistribuzione delle
ricchezze era poco praticata ed era oggettivamente un problema. Un
feudo non si divideva tra tutti i figli, mentre la miseria si è sempre
divisa – anzi, fatta aumentare – benissimo.

Questa massima profonda sulla capacità di distribuzione della


miseria mi ha colpito.
Certo, non è che riscuotere le tasse sia sempre stato volto a
ridurre le disuguaglianze e a redistribuire la ricchezza (altrimenti un
personaggio come Robin Hood non sarebbe mai stato inventato). Ciò
nonostante, la circolazione del denaro ha avuto anche una funzione
democratica ed egualitaria: i soldi si redistribuiscono più facilmente
delle proprietà terriere o delle case.
L’effetto più democratico del passaggio al denaro è che oggi è
molto più facile rispetto al passato (anche se non ancora abbastanza)
che anche chi nasce senza mezzi possa sviluppare le proprie capacità
e avere delle opportunità altrimenti precluse.
Dunque, i soldi sono democratici!
Il modo con cui sono organizzati lo Stato e il mercato può farli
allontanare o avvicinare a questa visione. In questa redistribuzione
democratica lo Stato e le tasse giocano un ruolo fondamentale…

Ecco che arriviamo alle tasse…


Le tasse e non solo, anche la spesa pubblica e, più in generale, la
finanza pubblica.
Certo, è facile criticare e trovare difetti nel modo in cui questa
viene gestita, spesso anche a ragione, ma, sebbene imperfetto, questo
sistema può renderci un po’ più «uguali» e redistribuire parte della
ricchezza. I soldi raccolti attraverso il fisco possono essere spesi per
soddisfare i bisogni: dalla salute all’istruzione, dai trasporti
all’ordine pubblico. Il sistema di spesa pubblica può veramente fare
la differenza e rappresenta una grande opportunità per i diritti di
tutte le persone. È bene, quindi, interessarsi alla finanza pubblica e
averne cura: ci riguarda direttamente, noi e le generazioni future.

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Il risparmio
Senza dirlo troppo in giro, sappia che ho un po’ di risparmio. Dove
lo metto?
I soldi che risparmiamo, ovvero che mettiamo da parte per il
futuro, possono essere riposti in cassaforte, sotto il materasso, nel
cassetto della biancheria o in altri luoghi a seconda della fantasia.
Qui possono tuttavia essere preda di topi, ladri, alluvioni, nipoti o di
altri tipi di pericoli. L’alternativa, più spesso praticata, è depositarli
presso una banca (detta anche istituto di credito) che, a seconda
delle modalità con cui glieli affidiamo e dell’aria che tira nella
finanza, ci corrisponderà un interesse. Questo, se da una parte torna
comodo a noi, dall’altra svolge una funzione sociale perché, come
abbiamo detto, quando mettiamo i soldi in banca questi non restano
lì, ma escono subito per finanziare qualcun altro. In tal modo,
quanto abbiamo depositato resta nostro e allo stesso tempo viene
condiviso con moltissime altre persone, fino a diventare addirittura
un bene comune qualora venga utilizzato per fini virtuosi.
Il popolo italiano è un popolo di risparmiatori, tant’è che si stima
che ognuno di noi abbia più di 75.000 euro di attività finanziarie a
disposizione direttamente o tramite istituzioni senza scopo di lucro
al servizio delle famiglie (lo afferma la Relazione annuale 2019 della
Banca d’Italia). Qualora non ce li avesse, comunque, non si
preoccupi: si sa che le medie fanno miracoli e rimandiamo ad altrove
il tema dell’equità sociale.
Questa attitudine a mettere da parte, evitando di indebitarsi per
soddisfare i propri bisogni, ha sicuramente dei tratti virtuosi: da una
parte tutela la serenità delle famiglie, e dall’altra fa sì che i nostri
piccoli e grandi risparmi, messi insieme, possano avere un peso nel
costruire il tipo di mondo che vogliamo. Il consumo responsabile ci
ha insegnato che acquistando certi beni piuttosto che altri abbiamo il
potere di sostenere le iniziative benefiche o di boicottare le imprese
dannose per le persone e per l’ambiente. Andando a fare la spesa, di
fatto, «votiamo» che tipo di mondo vogliamo alimentare: Leonardo
Becchetti, un professore ed economista che da anni si occupa del
potere che possiamo esercitare quando spendiamo i nostri soldi, ha
perfino installato come suoneria del suo cellulare una voce che dice
«voto con il portafoglio» e lo ha scritto in tutti i suoi (peraltro ottimi)

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libri. Siamo invece meno consapevoli che anche decidere come
collocare i nostri risparmi ha un impatto analogo. Insomma, che si
può votare anche con il salvadanaio.

Scegliere una banca


Vabbè, mi ha convinto, i soldi si possono mettere in banca. Ma come
si sceglie?
Non tutte le banche sono uguali, anche se spesso fatichiamo a
percepire le differenze. Nel momento in cui abbiamo bisogno di
mettere i nostri soldi in banca, per risparmiare e per godere dei
servizi finanziari che offre, dobbiamo porci quattro domande.
La prima domanda, se vogliamo che i nostri soldi siano usati
bene, è: «La banca che intendiamo scegliere è solida?». In realtà se
abbiamo da depositare solo soldi sul conto corrente possiamo dire
che tutti gli istituti di credito sono uguali, perché fino a 100.000 euro
il denaro depositato è garantito dallo Stato e dal fondo di tutela dei
depositi a cui partecipano tutte le banche. Però, se vogliamo investire
nella banca, cioè partecipare al suo capitale o sottoscrivere prestiti
vincolati nel tempo, la solidità è un elemento importante. Lo è anche
se voglio che la banca usi bene i miei soldi per la collettività. Se non è
solida, la probabilità che non lavori bene esiste.
La solidità di una banca dipende dal rapporto fra il capitale che ha
e i finanziamenti che fa. Un grande patrimonio, da solo, non è una
garanzia, ma deve essere valutato in relazione ai crediti concessi e
soprattutto in base alle sue sofferenze, ovvero quanti sono i soldi
prestati che non vengono restituiti rispetto al capitale. (Il termine
«sofferenza» in senso finanziario non può che essere stato coniato da
Paperone pensando a Paperino pronto a sperperare i soldi che gli
aveva prestato.)

Entrare in una filiale per chiedere quanto la banca sia solida non ci
porterà necessariamente a una risposta soddisfacente.
In effetti, quale banca andrebbe mai a dire a dei potenziali clienti
di non esserlo? Ci sono comunque delle classifiche che ogni tanto
vengono fuori e ci aiutano a capire. Per esempio quella di una rivista
italiana, «BancaFinanza», che classifica le banche proprio in base

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alla loro solidità. Altre classifiche che si possono trovare online sono
parziali (solo banche quotate) o hanno il difetto di considerare per
principio meno solide le banche più piccole.
Abbiamo già visto che il modo in cui le banche impiegano i nostri
soldi fa la differenza. La seconda domanda che ci porremo, dunque,
è: «Che cosa farà con i miei soldi la banca che voglio scegliere?». Per
scoprirlo, potremmo recarci presso una filiale e chiedere di investire
nel settore delle mine anti-uomo, per vedere cosa rispondono.
Purtroppo, non è detto che questo trucco funzioni. Le banche, infatti,
non sono reticenti solo con noi nel rivelare come impiegano i soldi a
loro affidati, ma anche con i propri impiegati.
Qualora volessimo decidere usando criteri negativi – evitando per
esempio le «banche armate» –, possiamo attuare una prima
scrematura consultando la relazione del Consiglio dei ministri sugli
istituti di credito che hanno maggiormente finanziato il commercio
delle armi. La si trova sul sito banchearmate.it ed è un frutto della
legge 185/90, quella sul commercio delle armi. Per quanto riguarda i
finanziamenti diretti alla produzione di armi, invece, non esistono
purtroppo dati pubblici, ma si trovano rapporti internazionali (per
esempio Don’t Bank on the Bomb, facile da rintracciare sul web).
Se, invece, volessimo prendere la nostra decisione usando criteri
positivi – per esempio il territorio nel quale vengono investiti i soldi
o il settore di intervento –, abbiamo buone ragioni per aspettarci che
un ente come Bancoposta, che è vincolato a trasferire i depositi alla
Cassa depositi e prestiti, finanzierà gli enti locali e le grandi opere (è
uno dei compiti della cassa che è controllata dallo Stato). O ancora,
che le banche di credito cooperativo investiranno nell’economia
locale, come da normativa. Sulle altre banche, a oggi, sappiamo
molto poco: il rapporto tra risparmio raccolto e crediti in essere (cioè
erogati e da riavere) ci dà un’idea di quanto siano efficienti
nell’esercitare la loro funzione sociale, ossia, un po’
grossolanamente, se i soldi che entrano dai risparmiatori generano
prestiti oppure no. Tale rapporto dovrebbe essere minore dell’80 per
cento, per garantire la liquidità e l’equilibrio finanziario, e maggiore
del 50 per cento.
È ragionevole ritenere che l’attuale cronica modalità di non
trasparenza sia destinata a cambiare e che le banche, in futuro,
saranno più stimolate a dirci che settori finanziano. Un’eccezione di

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trasparenza – e qui sono di parte, ma anche oggettivo – è Banca
Etica, l’unico istituto di credito che attualmente rende consultabili
sul proprio sito tutti i finanziamenti erogati alle persone giuridiche.
Esistono in altri paesi delle classifiche per capire come si
comportano da un punto di vista etico le banche, redatte in base ai
comportamenti ambientali e sociali: per esempio quelle di fair
finance.
Da ultimo, nel valutare a quale banca affidarci, dobbiamo tenere
in considerazione i servizi che ci offre – per esempio, ha un sistema
di internet banking? – e quanto ci costa. Qui è necessario capire
anche quali sono i nostri bisogni. Uno studente, per esempio, non
avrà probabilmente necessità di fare centinaia di operazioni al mese.
Sulla valutazione dei servizi e dei costi, comunque, non mi
dilungherò, perché sono proprio gli aspetti su cui si trovano più
informazioni, anche grazie al lavoro delle associazioni di
consumatori. Questa attenzione, se da un certo punto di vista è
indubbiamente positiva, dall’altro rischia di ridurre la scelta della
banca alla ricerca del conto corrente che costa di meno. Un aspetto
sicuramente importante, ma che deve essere a mio avviso ponderato
anche con quanto abbiamo detto prima, per dare un senso ai nostri
risparmi.

Il conto corrente
Ma depositare soldi in banca significa avere un libretto di
risparmio con una riga scritta per ogni deposito effettuato?
Una volta, forse… Oggi è tutto sul computer e ci sono i conti
deposito, vale a dire una modalità per tenere del risparmio fermo in
banca. In pratica un contratto scritto tra cliente e banca a seguito del
versamento, da parte del primo, di denaro nelle casse della seconda.
La banca si impegna a restituirlo, con diverse modalità, e a
corrispondere un interesse. Se ci si vincola a non riprendere i soldi
per un periodo di tempo prestabilito (da alcuni mesi ad alcuni anni),
gli interessi possono essere più alti. Ma un conto deposito è uno
strumento abbastanza rigido: per esempio è complicato usarlo per
pagare qualcuno o ricevere un pagamento. In compenso dovrebbe
costare molto poco.

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E se ci voglio ricevere lo stipendio?
Allora ci vuole il conto corrente. È un servizio finanziario che
consente di custodire i nostri risparmi, ricevere soldi ed effettuare
pagamenti in modo semplice. Anche qui esiste un contratto tra banca
e cliente, per cui la banca si obbliga a pagamenti e riscossioni per
conto del correntista, il quale, a sua volta, può disporre delle somme
esistenti nel conto dando ordini di pagamento alla banca. L’Iban,
identificativo internazionale del nostro numero di conto, è un po’
come un codice fiscale economico: ci consente di ricevere e mandare
denaro in modo semplice da qualunque paese dell’Unione europea e
del mondo.

Addirittura come un codice fiscale!


Oggi «non bancabile», che significa non avere accesso ai servizi
bancari, è diventato sinonimo di esclusione sociale… Avere un conto
corrente e un Iban è ormai talmente importante che in Francia, già
dal 1984, se ne parla ormai come di un diritto a cui chiunque, pur se
in difficoltà economica o magari non particolarmente affidabile, deve
poter accedere. Un’idea di questo tipo si è fatta strada anche in Italia,
infatti chi ha un Isee (un reddito annuo) sotto gli 8000 euro, o ha
una pensione di meno di 18.000 euro, ha diritto ad accedere a un
conto corrente semplificato.

Ma perché gli interessi sono così scarsini?


Le banche guadagnano dalla differenza tra gli interessi che
ricavano dai prestiti e quelli che pagano sui depositi. Oggi, i tassi di
interesse sono bassi rispetto al passato perché l’inflazione è
bassissima anche a causa degli anni di crisi dopo il 2008. Sono bassi
anche per prendere prestiti (la fonte di ricavo delle banche), quindi
di fatto gli istituti di credito non corrispondono più nessun
rendimento sui conti correnti, che, anzi, hanno un costo. In
compenso, come già detto, ogni risparmiatore è garantito fino ai
100.000 euro, ha di fatto a disposizione un sistema di pagamento e
una tenuta di contabilità e accede ai servizi bancari. Tutte cose che
hanno un costo per le banche.
I conti correnti hanno un costo che può andare da qualche decina
di euro alle centinaia, a seconda dei servizi che ci agganciamo. Per
scegliere quello più adatto alle nostre esigenze è necessario avere ben
presente quante operazioni siamo soliti fare; se non sono molte forse

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ce ne basta uno semplificato. In media, comunque, il costo di un
conto corrente con svariate funzionalità è compreso fra gli 80 e i 120
euro l’anno, ma una carta conto può costare anche solo 12 euro.

Ma se pago con il bancomat o le carte di credito, poi i soldi li


prendono dal conto? Sa che su questi misteri si distruggono
famiglie ai centri commerciali, vero?
Sì, le carte di pagamento elettronico prima o poi vanno a prendere
i soldi dal conto corrente a cui sono agganciate.
Sempre più spesso paghiamo con il bancomat o le carte
elettroniche, e, se questo da una parte ci può rendere più distratti
riguardo all’ammontare dei soldi che spendiamo, dall’altra parte ci
consente di consultare con più facilità le voci di spesa che abbiamo
avuto. Che si tratti di intestare bollette o di acquistare online, fare a
meno di un conto corrente è oggi quasi impossibile.

Sto intuendo in questo momento che lo «scoperto di conto» non è


chiedere al ristorante il conto senza coperto, ma deve avere a che
fare con il conto corrente!
Già. Se si spendono più soldi di quelli che si hanno sul conto, alle
banche scoccia. Se questo rientra in un accordo con la banca, è come
se fosse un prestito (di solito a tassi un po’ alti) e si chiama appunto
scoperto di conto. Se invece non è autorizzato, si chiama
sconfinamento.

Accidenti! Come se uno passasse il confine quando non deve.


Con lo sconfinamento le banche diventano più cattive delle
guardie di frontiera della ex Germania Orientale: multano il cliente e
gli possono bloccare i conti. Bisogna capirle, si sentono tradite e non
si fidano più…

Gli investimenti
Se metto sotto il vicino insopportabile posso dire di aver fatto un
buon investimento?
No, a meno che non voglia andare in galera e risparmiare sulle
spese quotidiane per un bel po’.

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Un buon investimento in finanza è quando si mettono soldi in
un’attività potenzialmente rischiosa e… incredibilmente va tutto
bene e si guadagna. Ma andiamo con ordine.
Quando abbiamo dei soldi che ci avanzano possiamo decidere di
risparmiarli in senso stretto, quindi di tenerli da parte per il futuro
correndo il minor rischio possibile, oppure di investirli. In questo
secondo caso ci apriamo alla possibilità di ottenere dei rendimenti,
ma anche a un rischio. Una buona gestione finanziaria è mirata a
evitare o ad attenuare i problemi, più che a conseguire risultati
straordinari. Questi, infatti, si rivelano spesso aleatori, mentre la
possibilità di incorrere in guai seri risulta reale e frequente.
Nel decidere come investire i propri soldi, una prima cosa da fare
è valutare quanto si è disposti a rischiare, così da indirizzarci verso le
attività che hanno un rischio compatibile con le nostre esigenze.
C’è poi una regola d’oro, che viene insegnata presso la London
School of Economics: non mettere mai tutte le uova nello stesso
paniere. Mia nonna – pur non avendo studiato a Londra – conosceva
bene questa regola, sapeva che se ti cade il paniere in cui hai messo
tutte le tue uova puoi dire loro addio. Questa regola è più spesso
conosciuta nel mondo della finanza con la parola «diversificazione».
Diversificare i propri investimenti vuol dire appunto stare attenti a
non metterli tutti nella stessa attività, e invece suddividerli fra
opportunità diverse. Questa non è certo una garanzia totale,
potremmo ancora rompere qualche uovo, ma nel mondo della
finanza, diversificando bene, potremmo perdere un po’ da una parte
e guadagnare un po’ dall’altra, e questo abbassa il rischio.
Quando ci rechiamo presso un istituto per investire, dunque, non
facciamoci mai convincere a riversare tutto quello che abbiamo in un
solo tipo di titoli – come le azioni della Cirio o della Parmalat, per
fare il nome di quelle che qualche anno fa hanno messo alcune
persone in difficoltà –, e nemmeno a impegnare tutti i risparmi, ma
proprio tutti, nelle azioni della banca in cui siamo entrati (to’, che
caso, sono le migliori del mondo!).

La cosa delle uova l’ho capita: meglio essere prudenti.


Le conseguenze di una scarsa consapevolezza finanziaria possono
essere importanti e negative, e non riguardano tanto i guadagni non
realizzati, quanto i rischi e le perdite che diminuiscono il valore del
patrimonio o il potere di spesa della famiglia. Pertanto, per chi ha un

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capitale limitato e un reddito in linea con le proprie esigenze, è
buona norma scegliere quegli investimenti che hanno un rischio
ridotto.
Tenuto conto dei rischi, investire è un atto positivo: aiuta a far
girare l’economia, soprattutto se si tratta di investimenti
nell’economia reale e produttiva. Le decisioni finanziarie che
prendiamo, infatti, oltre ad avere un impatto sulla nostra vita, ne
hanno anche su coloro che ci circondano. Possono contribuire a
produrre ingiustizia, guerra e fame, oppure veicolare dei valori e
costruire delle storie positive.

Titoli finanziari
Un titolo finanziario immagino non sia un’onorificenza o un epiteto
tipo «gran barone della finanza» o «azzeccagarbugli finanziario»…
No, «titolo» indica genericamente uno strumento finanziario che
si può comprare o vendere, ma anche prendere in prestito o
noleggiare, come fosse una merce.
I titoli finanziari tecnicamente sono detti «titoli di massa» e
possono essere di diverso tipo, principalmente azioni, obbligazioni e
certificati di titolarità di un veicolo di investimento. Anche se oggi si
usano meno, perfino le cambiali finanziarie possono essere
considerate un titolo finanziario di massa.
Un tempo i titoli erano cartacei e si potevano perfino scambiare. A
oggi, invece, sono dematerializzati. Questa parola non ci deve
spaventare (non equivale a «volatilizzati»): significa solo che non è
necessario stamparli su carta, ma possono essere registrati su
supporti elettronici con procedure sicure e antifrode.
Siccome, però, una volta un titolo era sempre di carta, un insieme
di titoli finanziari si chiama «portafoglio finanziario».

Quindi il portafoglio, oltre a essere quell’oggetto spesso semivuoto,


ma a volte carino, ornamentale, che portiamo con noi in tasca o in
borsa, nel linguaggio finanziario indica l’insieme dei titoli
finanziari che abbiamo comprato.
Esatto, e quindi può essere altrettanto vuoto e ornamentale di
quello che lei ha in tasca, solo che in tal caso non conviene tenerlo se

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è vuoto, perché un portafoglio finanziario non è di pelle, di stoffa o
cartone pressato (come il suo), ma è un deposito titoli gestito da una
banca speciale (banca depositaria) che si fa pagare per il servizio.

Le obbligazioni
Se mi obbligano a far qualcosa non sono contento, ma se
l’obbligazione è un titolo finanziario, allora, chi viene obbligato
dall’obbligazione?
Le obbligazioni sono prestiti che noi possiamo concedere a chi le
emette. A volte uno dice «ho comprato un’obbligazione», ma in
realtà non ha comprato qualcosa, ha fatto da banca. Di fatto siamo
noi che prestiamo soldi all’impresa o allo Stato che ha emesso (e
venduto) l’obbligazione.
L’obbligazione, dunque, si chiama così perché chi la emette si
obbliga a restituirci i soldi, con un tasso di interesse fisso o variabile.
Può renderci quanto gli abbiamo dato in una volta sola alla fine del
periodo di tempo prestabilito, oppure ci può dare delle cedole: cioè
ogni anno ci restituirà un pezzettino di quello che ci deve.

L’obbligo, quindi, non è mio, che l’obbligazione l’ho comprata, ma è


di quello che me l’ha venduta, della società che dovrà restituirmi
questi soldi – che il Cielo ce la mandi buona – con un tasso che mi
farà guadagnare qualcosa!
Esatto. Le obbligazioni sono considerate un prodotto finanziario
molto semplice. Delle più classiche sappiamo, al momento
dell’acquisto, sia dopo quanto tempo rientreremo in possesso del
nostro capitale sia quanti interessi ci verranno corrisposti.
Ovviamente un po’ di rischio c’è anche nei casi più lineari:
bisogna andare a vedere se la società che emette questi titoli
funziona. Il rischio che ci assumiamo con le obbligazioni ha il pregio
di essere limitato temporalmente dal numero di anni di durata
dell’obbligazione. Inoltre, le obbligazioni non sono volatili, a
differenza delle azioni il cui valore cambia ogni giorno, rendendole
decisamente sconsigliabili agli ansiosi e a chi soffre di problemi di
cuore.
La durata tipica di un’obbligazione è di cinque/sette anni. Sul

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mercato si trovano anche obbligazioni decennali, ma sono per
investitori esperti.
Per gli anni di durata dell’obbligazione, l’investitore (cioè noi)
dovrebbe fare in modo di non avere bisogno dei soldi prestati, perché
chiedere una restituzione anticipata non è mai un’operazione molto
conveniente, ci si smenano soldi e si trovano difficoltà.

Ci si smena, come dicono i tecnici. Quindi prima di acquistare


un’obbligazione, oltre al rischio, valutiamo bene anche per quanto
tempo possiamo permetterci di fare a meno dei soldi che prestiamo.
Ma quante obbligazioni esistono? Alla fine, sembrano essere più
varie delle azioni…
In effetti, se le azioni sono sempre più o meno la stessa cosa –
anche se ci sono grandi differenze tra una società e l’altra, o tra il
fatto di essere o meno quotate in Borsa –, di obbligazioni se ne
trovano davvero di tutti i tipi. In Italia, poi, ci siamo inventati anche i
«minibond», che consentono alle imprese non quotate di emettere
obbligazioni. Il legislatore, accorgendosi che era forse uno strumento
complicato e rischioso per noi comuni cittadini, ha fatto sì che
possano comprarli solo gli investitori istituzionali.

A una mia amica hanno proposto un bond modello 007, c’è da


fidarsi?
Notoriamente James Bond non lascia in pace nessuna signora e
ha un interesse diverso da quello finanziario. Però in inglese bond è
anche un’obbligazione, quindi conviene capire bene cosa le hanno
offerto.
Qualunque tipo di multinazionale vi venga in mente ne emette,
sia quelle che producono energia nucleare sia quelle che fabbricano
pale eoliche. Le obbligazioni hanno il pregio di essere piuttosto
trasparenti: in linea di massima si sa dove vanno a finire i soldi.
Quindi, se per esempio qualcuno è contrario all’energia nucleare e
agli ogm, ha la possibilità di evitare quel tipo di investimenti.

Ho sentito nominare anche i green bond, cioè l’idea che si può in


qualche modo comprare delle obbligazioni che vanno a finanziare
l’ambiente e addirittura a fargli bene.
Sì, ci sono delle obbligazioni verdi, che possono operare contro i
cambiamenti climatici o per le energie rinnovabili, per esempio.

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Non solo: comprando delle obbligazioni bancarie a vocazione
ambientale (o anche sociale) possiamo attivare un effetto
moltiplicatore…

Tornando alla durata, obbligazioni di cinque/sette anni… non è un


po’ tantino? Posso avere qualcosa di più veloce? Ormai siamo al
self-service, qua.
Tipicamente le obbligazioni durano almeno cinque anni.

Quindi la risposta è: fattene una ragione.


Sì. Ci sono i conti deposito, se vuole avere dei tempi più brevi, o i
fondi di investimento.

LE OBBLIGAZIONI BANCARIE

Vogliamo davvero parlare di obbligazioni bancarie? Lo sa che se


dice «obbligazioni bancarie» in provincia di Arezzo tre pensionati
muoiono e altri finiscono al pronto soccorso? Ma forse è meglio dire
loro di aspettare a morire, perché un altro stile di obbligazione
bancaria è possibile: vero, Biggeri? Partiamo intanto con lo
spiegare a persone come me, per esempio, che cos’è un’obbligazione
bancaria.
Le obbligazioni bancarie sono un prestito che i cittadini o le
istituzioni possono fare alla banca, per un periodo di tempo limitato.
Con le obbligazioni più semplici, le plain vanilla, ci verrà
corrisposto un tasso di interesse che è già stato definito in partenza.
Gli americani le chiamano così per indicare che sono le più semplici
di tutte, come fare un gelato alla vaniglia (io comunque ho qualche
dubbio che sappiano farlo, il gelato).
Se le obbligazioni sono definite «subordinate», allora non solo si
concede un prestito, ma si diventa, limitatamente al periodo di
durata delle obbligazioni, anche investitori della banca. Il nostro
prestito, in questo caso, diventerà «quasi capitale» sociale, quindi si
risponderà anche dei rischi della banca. Si dice «quasi capitale»
perché le obbligazioni hanno una scadenza temporale definita,
perché non danno diritto di voto e perché l’effetto moltiplicatore
sulla possibilità di fare credito è circa la metà rispetto a quello del
capitale sociale in azioni, come spieghiamo più avanti. Questo tipo di
obbligazioni negli ultimi tempi non gode certo di buona fama. Se si

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guarda alle statistiche della Banca d’Italia dopo le vicende che sono
successe nella provincia di Arezzo e non solo, se ne vedono molte di
meno in giro.

Si vende più gelato alla cicuta che obbligazioni bancarie


subordinate. Però si possono prestare dei soldi alla propria banca
anche in modo pulito, vero?
Ma sì. Se scegliamo di investire in una banca ragionevolmente
solida, il tutto dovrebbe essere abbastanza tranquillo. In più, come
abbiamo già imparato, in mano alle banche i nostri soldi hanno un
effetto moltiplicatore.
Se comprando le obbligazioni di una impresa la aiutiamo a fare il
proprio lavoro, comprando le obbligazioni di una banca i nostri soldi
servono a fare prestiti garantendo una disponibilità di denaro per
più tempo rispetto ai conti correnti.
Con le obbligazioni subordinate, è come se i nostri soldi facessero
il lavoro delle banche, perché sono una delle leve che consentono
loro di prestare.
Grossolanamente, possiamo dire che per ogni 100 euro di capitale
la banca può fare 1000 euro di prestiti (dieci volte di più).
Un’obbligazione subordinata, nell’arco temporale per cui è stipulata,
consente analogamente di fare prestiti per cinque volte il proprio
valore: un po’ meno perché le obbligazioni a differenza delle azioni
hanno una scadenza temporale.
È come se i soldi dell’obbligazione si moltiplicassero, diventando
aiuti per le persone e per le imprese e fungendo come motore per
l’economia.
Con Banca Etica, tanto per fare un esempio totalmente a caso,
abbiamo delle obbligazioni che consentono di finanziare il
microcredito in Africa. E chi le acquista sa che il suo denaro avrà un
effetto moltiplicatore in quel determinato settore.

Titoli di stato, debito pubblico e spread


Lo strumento finanziario più usato dallo Stato per raccogliere denaro
– e quindi per contrarre debito – è l’emissione di obbligazioni a
breve, media e lunga scadenza: i titoli di stato. In Italia questi

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vengono emessi dal ministero dell’Economia e delle finanze (tramite
il dipartimento del Tesoro) e – come forse già si può intuire – le cose
cambiano un po’ rispetto a quando a emetterli è una società.
Le tipiche obbligazioni dello Stato sono i Bot, Buoni ordinari del
tesoro, che durano dai tre ai dodici mesi, i Ctz, Certificati del tesoro
zero coupon (che non danno cedole: si comprano a un valore
inferiore di quello a cui saranno rimborsati), che durano
ventiquattro mesi, poi ci sono i Btp, Buoni del tesoro poliennali che
tipicamente hanno scadenze fra i tre e i trent’anni, e i Cct, Certificati
di credito del tesoro, che durano sette anni.
I titoli di stato hanno vari pregi. I livelli di rischio, per esempio,
sono tendenzialmente più bassi rispetto a quelli di altre obbligazioni
emesse da società private. C’è inoltre un buon livello di trasparenza:
è facile andare a vedere come uno stato usa i soldi che gli vengono
prestati, valutando con un buon livello di chiarezza gli aspetti sociali
e ambientali. Possiamo, per esempio, controllare se lo stato che ha
emesso titoli prevede la pena di morte. O se dedica una buona fetta
della propria spesa al welfare, quindi sanità, pensioni, istruzione.

Guardi, io ho studiato e so che però ci sono anche le spese militari…


Da uno studio rilasciato nel febbraio del 2020 da Eurostat emerge
che l’Italia nel 2018 ha speso per la protezione sociale il 20,8 per
cento del Pil – valore al di sopra della media europea –, mentre per
l’istruzione e per la sanità rispettivamente il 4 per cento e il 6,8 per
cento –, entrambi valori al di sotto della media europea. La spesa
militare, invece, è cresciuta negli ultimi anni fino a raggiungere l’1,3
per cento del Pil, e le pressioni di Donald Trump ci spingono a un
ulteriore incremento fino al 2 per cento del Pil.

Quindi si può dire che, comprando i titoli di stato, una quota dell’1,3
per cento del nostro finanziamento va anche alle spese militari?
Scusi sa, ma, come uno studentello, godo a fare capire che ho
capito…
Quasi giusto. Nel senso che, ammesso che lo Stato si finanzi solo
con i titoli o comunque che il debito si spalmi in modo proporzionale
su tutta la spesa, stiamo parlando dell’1,3 per cento del Pil, non delle
spese complessive dello Stato. Ma queste sono inferiori al Pil
(grossolanamente la metà). Quindi il ragionamento torna.
Se dunque la nostra soglia di tolleranza alle spese militari fosse

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dell’1 per cento, saremmo sopra tale soglia e di conseguenza non
dovremmo comprare i titoli di stato. In tal caso forse sarebbe
ragionevole fare anche l’obiezione di coscienza alle spese militari…

Mi sta dicendo che si possono pagare meno tasse con la scusa della
pace?
Decisamente no. Si tratta di obiezione di coscienza: non si paga
per protesta la quota delle tasse che viene usata per le spese militari
e ci si autodenuncia per averlo fatto in modo che lo Stato ci pignori
(ci prenda qualcosa di nostro) e usando ogni occasione per far
conoscere le nostre ragioni. In conclusione, si finisce per pagare due
volte le tasse, altro che pagarne meno…
Ma immaginando di non essere così radicali, comunque non
scordiamoci che soprattutto si finanzia in ordine di spesa: sanità,
politiche del lavoro, istruzione, università e ricerca, sostegno alla
previdenza, diritti sociali, ordine pubblico, e quindi la difesa (che
comprende le spese militari); e poi il resto, dai trasporti alle
infrastrutture… Insomma tutto quello che fa lo Stato.
Se prendiamo la Legge bilancio 2020, il conto è di quasi 900
miliardi.
Tolti il debito in scadenza da rimborsare (232 miliardi!) e gli
interessi da pagare su tutto il debito (64,7 miliardi su circa 2300 di
debito), restano circa 600 miliardi.
È immediato capire quanto pesi il debito! Gli interessi ci costano
quasi quanto le spese per la tutela dei livelli essenziali di assistenza,
cioè la sanità (77 miliardi!). Questo ci dà un’idea di quanto pesi quel
fardello e del perché un cambiamento dei tassi di interesse che
paghiamo sia un problema veramente importante per il nostro
paese.

Il debito pubblico è il male assoluto?


Il debito di per sé non è negativo. Di solito quando uno deve soldi
a qualcun altro, il problema è del debitore. Ma quando il debito
diventa troppo grande, o si hanno delle ragioni per ritenere che non
verrà rimborsato, il problema diventa anche di colui che ha prestato i
soldi. Se dunque uno stato si ritrova a essere un po’ troppo
indebitato, e c’è il timore che non riesca a ripagare il dovuto, l’intera
comunità internazionale degli investitori che possiede dei titoli di
stato inizierà a preoccuparsi. Nei mercati finanziari, questo si

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trasforma facilmente in un effetto valanga.
Con l’aumento del rischio, infatti, molti vorranno vendere i propri
titoli o chiederanno un tasso di interesse più alto. Un’esperienza che
tocchiamo con mano quando vediamo come due diversi stati, con
una diversa stabilità, offrono interessi diversi rispetto a titoli aventi
la stessa formulazione e durata.

C’entra lo spread, giusto? L’ho intuito dal titolo di questo capitolo, e


dal fatto che fra qualche pagina ne intravedo la fine.
Esatto. Lo spread misura la differenza di rendimento fra i Btp
decennali e gli analoghi titoli tedeschi, presi come punto di
riferimento perché reputati particolarmente sicuri. In altre parole, lo
spread è la differenza di fiducia che gli investitori hanno nell’Italia
rispetto alla Germania. Un parametro che ha sicuramente una sua
logica, ma che rischia di intrappolare lo stato debitore in una spirale
negativa per la quale gli sarà sempre più difficile restituire il debito.
Diventa una vera e propria trappola!
L’Italia ha un debito di circa 2400 miliardi di euro (a inizio 2020),
e la Germania non ce l’ha tanto più basso. Essa, tuttavia, ha
un’economia tale per cui nessuno è preoccupato che non riesca a
ripagare i propri debiti. L’Italia, invece, da anni ha un avanzo
primario – ovvero le sue entrate sono maggiori rispetto alle uscite:
ottimo! –, ma gli interessi da pagare sui debiti contratti fanno sì che
il saldo netto, alla fine, sia negativo.
Questa situazione rende difficile ridurre il debito, e dunque gli
interessi da pagare. È un problema serio, che blocca il paese, e le
ricette per uscirne sono il taglio delle spese o l’aumento delle entrate.
A meno che lo Stato non riesca, come accade in Giappone, a tenere il
debito pubblico nelle mani dei suoi cittadini e quindi a convincere i
propri investitori a non lasciarsi scoraggiare dall’aumento del debito,
e quindi del rischio.

Devo concludere che lo spread e il debito pubblico sono reali, e non


delle invenzioni?
Sono reali. I soldi li dobbiamo rendere. Il problema è che per
riuscire a ripagare il vecchio debito pubblico ne emettiamo di nuovo:
si può facilmente immaginare che se non usciamo da questa spirale
ci troveremo nei guai! Gli analisti finanziari dicono addirittura che lo
spread è tenuto più basso di quanto dovrebbe essere perché tutti

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hanno paura che salga troppo, in particolar modo i creditori
internazionali dell’Italia.
Quella che non ha molto senso, invece, è la variazione giornaliera
dello spread, che in realtà amplifica le possibili volatilità (i
cambiamenti repentini) del mercato.
Se lo spread aumenta da un giorno all’altro non vuole per forza
dire che l’Italia dovrà pagare più interessi fin da subito. Solo nel
momento in cui lo Stato si troverà di fronte alla necessità di emettere
nuovi titoli dovrà fare i conti con lo spread e con l’alto rendimento da
corrispondere.

Se le conseguenze non sono immediate, perché riceviamo


aggiornamenti frequenti sull’innalzamento o sul crollo dello
spread?
Perché oltre a un mercato primario esiste anche un mercato
secondario, nel quale si comprano e vendono titoli. Sono le
quotazioni su questo mercato che determinano, momento per
momento, lo spread, seguendo la legge della domanda e dell’offerta:
se tutti vogliono qualcosa il prezzo sale, se nessuno ne vuole scende.
I più, in questo mercato, non sono interessati ad avere il titolo,
ma a guadagnare su rialzi e ribassi.
Per mettere sotto pressione uno stato come l’Italia facendo
innalzare lo spread con obiettivi speculativi o politici non sono
necessari tantissimi soldi, quindi farlo è alla portata dei grandi
speculatori.

Per Banca Etica, a cui piace dividere il mondo fra bene e male,
possiamo dire che mercato primario è bene e mercato secondario è
male?
Be’, insomma, no, andrebbe bene anche il mercato secondario. Il
fatto è che fa girare moltissimo denaro, circa 70 miliardi al mese, più
o meno 3 miliardi al giorno di titoli di stato che vengono scambiati. Il
problema, però, è che se vado a vedere cosa succede ora per ora o nei
prossimi venti minuti, in realtà i titoli venduti si misurano in milioni
e non in miliardi. Con poche centinaia di milioni di euro, ammesso
che uno li abbia, si può fare leva e cambiare lo spread italiano. I
cambiamenti repentini sono quindi dovuti alla speculazione che
cerca di innescare una variazione dello spread per guadagnarci
sopra. Con qualche centinaio di milioni si può alterare il destino di

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un paese.

Ecco, appena mi avanzano 200 milioni e proprio non so come


usarli, faccio girare lo spread come una trottola, per far impazzire
il governo! Così, per sfizio…
Non so se è una bella idea, magari troverei qualcosa di più utile in
cui investirli.

Bene, abbiamo capito che i titoli di stato servono a finanziare lo


Stato: non era così difficile. Però poi aiutano qualcuno a giocare
con lo spread o con le scommesse sui fallimenti degli Stati di cui ci
parlerà sicuramente prima o poi. Servono ad altro?
Oltre a finanziare la spesa pubblica, i titoli di stato possono essere
usati dalle banche centrali per creare nuova moneta. Avevamo già
visto che le banche creano moneta commerciale attraverso il
meccanismo di risparmio-credito (quello del lampredotto, per
intendersi). Ma la quantità di denaro che può essere così prodotta
dipende dalla quantità di soldi emessi dalle banche centrali.
Le banche centrali posso creare denaro stampando i soldi (le
banconote o le monete metalliche) o comprando attività sul mercato
interbancario (tra banche) e pagandole con moneta emessa
contabilmente. Lo strumento usato più di frequente in tal caso è dato
dall’acquisto di titoli di stato detenuti dagli istituti di credito da parte
della banca centrale (quella che stampa anche la moneta legale e
controlla come le singole banche creano moneta commerciale). La
banca centrale compra i titoli creando il denaro che versa alle banche
per l’acquisto. Al contrario, quando la banca centrale vende titoli di
stato, riduce la moneta. Queste operazioni, dette «di mercato
aperto», sono considerate strumenti convenzionali.
Il quantitative easing, invece, è uno strumento non
convenzionale.

Scusi, non ho capito niente della creazione di soldi. C’entrano


Draghi e la Lagarde e il quantitative easing? Avevo sempre pensato
si traducesse in «quantitativamente facile», come quando in
salumeria ci dicono: «È venuto di più, che faccio, lascio?». Ma temo
non sia corretto.
Il quantitative easing in italiano si potrebbe tradurre come
«alleggerimento quantitativo». In pratica le banche centrali

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«alleggeriscono» le banche comprando loro i titoli di stato e
detenendoli per un tempo definito. Questo aiuta gli stati – come
l’Italia – che potrebbero avere difficoltà a sostenere e rinnovare il
proprio debito pubblico, e le banche, stimolandole almeno in teoria a
fare più prestiti.
L’idea di base è che aumentando la loro liquidità queste avranno
più risorse per finanziare l’economia reale. Di fatto, almeno
inizialmente, questa cosa è successa abbastanza poco.

Chiariamo una volta per tutte cos’è questa liquidità. Un banchiere


che suda copiosamente? Soldi trasformati in vino? Se i soldi sono
liquidi, mi sa di fregatura. Qualcuno se li beve?
Si può liquidare un debito o ricevere la liquidazione al termine di
un periodo lavorativo, che poi significa appunto che ci danno dei
soldi. Oggi i soldi sono considerati «liquidità». Forse si usa questa
espressione perché indica un’operazione facile e perché i soldi sono
visti un po’ come un fluido che può circolare.

Lasciamo stare… Ma alla fine i soldi nuovi vengono usati per fare
crediti alle imprese o no?
Un po’ di più, dopo che la Bce ha messo in atto per tre volte (2014,
2016 e 2019) un ulteriore piano di rifinanziamento a lungo termine,
chiamato Tltro. In cui «ltro» sta per Longer-term refinancing
operations, mentre la t sta per Targeted, ossia «mirato». E il target
era in questo caso il finanziamento dell’economia reale, e cioè il
settore privato non finanziario. Se non prestati all’economia reale,
almeno in una certa quota, i soldi dati alle banche andavano infatti
restituiti in anticipo rispetto alle scadenze previste dal piano.
La verità è che sono argomenti molto difficili da maneggiare e
governare: è incredibile come un tema così fondamentale per le
nostre vite sia molto più complesso di quel che si pensa.

Le azioni
Cosa sono le azioni? A noi pigri è un termine che mette paura.
Le azioni in finanza non sono solo quelle del moto fisico che non
facciamo, esponendoci all’obesità. Sono le azioni societarie o in

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genere i titoli che rappresentano capitale di rischio: piccoli pezzi di
proprietà di una società o di un’attività avente un valore economico.
Acquistandole, come già accennato, diventiamo proprietari della
società o dell’attività che le ha emesse, insieme a tutti coloro che
detengono le altre azioni. Questo, se da una parte ci apre alla
possibilità di percepire il dividendo e di prendere parte alle decisioni
della società, dall’altra ci fa partecipare anche al rischio
imprenditoriale: vale a dire che se le cose vanno male pagheremo le
perdite, limitatamente al capitale investito.
Dalle azioni è possibile guadagnare in due modi. Se la società
distribuisce in tutto o in parte il suo utile, gli azionisti ne
percepiranno una quota proporzionale all’ammontare delle azioni
possedute: il dividendo. Se il loro valore, invece, è in aumento,
rivendendole è possibile realizzare un guadagno dalla differenza fra
il prezzo iniziale di acquisto e quello successivo di vendita. Ci sono
poi alcune società che, per non far diminuire il valore delle proprie
azioni, distribuiscono dividendi anche quando le cose non vanno
benissimo. Un giochetto che si può fare, ma non per molto… alla fine
i nodi vengono al pettine.
Le società quotate in Borsa, poi, emettono azioni a loro volta
quotate.

Cioè stanno in alto, ad alta quota, e sono più pure?


Non proprio. Significa che il loro valore ha una quota giornaliera,
una valutazione. Insomma, quotato sta per «avere un prezzo chiaro e
sempre aggiornato». Ciò è reso possibile dal fatto che, oltre al
mercato primario, dove avvengono per la prima volta l’acquisto e la
vendita di titoli, c’è anche il mercato secondario di cui dicevamo, nel
quale tali titoli continuano a essere scambiati. Per entrarci le imprese
sono chiamate a rispondere a stringenti requisiti di trasparenza e
rendicontazione.
L’idea di fondo è quella di rendere disponibili a chiunque, nello
stesso modo, tutte le informazioni rilevanti per valutare le aziende e
le loro azioni, evitando aggiotaggio o insider trading, vale a dire
operazioni illecite volte a fregare gli azionisti meno informati.
L’informazione, infatti, è un vantaggio non da poco nella finanza.
Coloro che hanno accesso a informazioni riservate possono
comprare o vendere azioni prima degli altri, o addirittura costruire
notizie false in modo da far variare il prezzo delle azioni, per

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guadagnarci.

Mi scusi, ma il mercato secondario è come un mercato dell’usato, in


cui lei mi vuol tirare una fregatura rifilandomi una macchina con il
contachilometri taroccato?
Si potrebbe vedere anche così. L’idea, tuttavia, sarebbe di rendere
il mercato secondario controllato in modo tale che le fregature non
abbiano luogo, o che almeno avvengano il meno possibile.
Nel mercato primario, le società si appoggiano solitamente a degli
operatori finanziari per vendere le proprie azioni. Stabiliscono un
prezzo iniziale di vendita in base ai valori dei propri bilanci
economici attuali e soprattutto ipotizzati per il futuro, e poi avviene
una specie di asta per venderle, il cui andamento determina il prezzo
finale.
Nel mercato secondario, invece, il prezzo delle azioni dipende
dall’interazione fra domanda e offerta. Se molti vogliono comprare
una determinata azione, perché si aspettano che la società emittente
abbia di fronte un futuro roseo, il valore tenderà ad aumentare. Al
contrario, se c’è l’aspettativa, fondata o infondata, che una certa
società sia nei guai o che lo sarà nel futuro, i più cercheranno di
venderne le azioni e il loro prezzo calerà drasticamente.
Quando il mercato secondario non c’è, o per qualche motivo non è
efficiente, potremmo ritrovarci in difficoltà a vendere in tempi rapidi
le azioni che non vogliamo più. E questo, di solito, scoccia.

Ma è vero che i piccoli azionisti sono il cosiddetto «parco buoi» che


viene sempre fregato?
Può capitare, ma di solito non è così. Il mercato azionario, e in
generale il mondo delle azioni, è complesso: il fai da te non è così
facile come sembra dalle pubblicità online sul «trading delle azioni»,
vale a dire comprare e vendere sperando di guadagnarci qualcosa. È
certo invece che i fautori di queste pubblicità e di questi servizi
online ci guadagnano, altrimenti non insisterebbero.
Il mercato azionario è in crescita da moltissimi anni, e per ora si è
sempre ripreso dalle crisi periodiche che ha avuto. In linea di
massima chi ha investito in modo differenziato rischia meno di
perdere soldi. È invece più facile che accada se si punta a fare il
«colpo grosso», sperando, per esempio, di azzeccare la società che
oggi ha un valore basso e che domani sfonderà perché «me lo ha

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detto mio cugino che ha un amico il cui cognato è amante di un tizio
che lavora nella società».
C’è tuttavia una cosa importante da dire sui piccoli azionisti: se
presi singolarmente valgono poco o niente, ma facendo fronte
comune possono mettere una tale pressione sulle società da
costringerle a cambiare le proprie politiche, diventando magari più
attente all’ambiente e ai diritti umani.

Il rating, o la misura del rischio


Abbiamo visto che quando abbiamo delle disponibilità economiche,
dei soldi da parte, siamo chiamati a interrogarci e a prendere
decisioni su come risparmiarle o investirle, tante o poche che siano.
Ormai dovrebbe essere chiaro che si tratta di due attività ben
diverse. Se infatti nel caso del risparmio prevale la volontà di riavere
indietro i propri soldi, nel caso dell’investimento la disponibilità a
rischiare è più alta.
In linea di massima, più si va nel mercato azionario più si può
guadagnare o perdere. Più si sta nel mercato obbligazionario,
acquistando per esempio titoli di stato, più si è sicuri di riavere
indietro quanto si è investito.
Prima di lasciarci abbagliare dalle potenzialità di rendimento che
ci vengono presentate, quindi, è importante avere chiaro sia quanto
siamo disposti a rischiare sia quanto è rischioso il titolo che
intendiamo acquistare.
Di solito a un rendimento alto corrisponde sempre, o quasi
sempre, un rischio alto. Questo ragionamento vale anche per
l’obbligazionario governativo, in cui, tuttavia, le oscillazioni tra
guadagni e perdite potenziali sono generalmente minori.
Per valutare il rischio di azioni, obbligazioni e quant’altro esistono
delle cosiddette società di «rating», istituti che valutano i titoli e le
azioni da un punto di vista finanziario e lo fanno mettendo in fila
delle a, delle b e delle c, mescolate con un po’ di ripetizioni
cacofoniche o dei più e dei meno. Casomai volessimo leggere queste
valutazioni, è importante tenere a mente che tali società non si sono
accordate fra loro sulla nomenclatura e che ognuna usa una propria
classificazione diversa dalle altre, così, per confonderci un po’.

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Tendenzialmente, però, più a ci sono e meglio è. Se vediamo tante c
siamo presumibilmente di fronte a una fregatura.
Quando si valutano le obbligazioni governative emesse da uno
stato, si finisce per associare il giudizio sulle obbligazioni al giudizio
sullo stato stesso, nella complessità delle sue caratteristiche.
L’Italia, fra un debito pubblico alto e altri fattori, fatica per
esempio a rientrare fra i primi della classe. Anzi, se un’impresa ha
sede e lavora in Italia arriva perfino a essere penalizzata dal basso
rating nazionale, facendo un po’ più di fatica a trovare investitori
internazionali e dovendo dunque corrispondere degli interessi più
alti.

I fondi comuni di investimento


Nelle pagine precedenti abbiamo visto che cosa sono i titoli
finanziari e abbiamo più volte richiamato la celebre regola della
diversificazione. Ovvero, non tutte le uova in un paniere solo.
Nonostante questa profondissima conoscenza del mondo
finanziario che pian piano stiamo affinando insieme, a meno che non
sappiate davvero bene ciò che volete fare del denaro che avete in più,
rivolgersi ai fondi comuni di investimento può essere un’idea.
I fondi comuni di investimento sono un po’ come un grande
salvadanaio, all’interno del quale confluiscono i capitali dei piccoli e
dei grandi risparmiatori. Affidando i nostri soldi a un fondo comune
di investimento, invece di tuffarci direttamente nella Borsa o
nell’obbligazionario internazionale, deleghiamo delle società
specializzate in investimenti a investire per noi in uno dei loro
panieri – ovvero un insieme – di tanti titoli differenti, così da ridurre
il rischio e da ottimizzare i rendimenti.

Un fondo vale l’altro?


Di fondi comuni di investimento ce ne sono di ogni tipo, ma non
sono tutti uguali. Per esempio esistono i fondi etici, che si
propongono di coniugare gli obiettivi di contenimento del rischio e
di rendimento con un impatto positivo per l’ambiente e per la
società. Questo si traduce innanzitutto nell’esclusione di alcune
attività, come le armi, il tabacco, il nucleare, l’estrazione di

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combustibili fossili, o di alcuni stati, come quelli che applicano la
pena di morte o che ledono la dignità umana. Si cercano poi quelle
società e quegli stati che si caratterizzano per attività e pratiche
virtuose, applicando dunque dei criteri positivi.
Un fondo comune di investimento attento al clima, per esempio,
premierà in modo particolare quelle attività che adottano delle
politiche di sostenibilità ambientale, e chi lo acquisterà potrà far
crescere il proprio risparmio preservando al contempo il futuro del
nostro pianeta.
La scelta di mettere nel paniere dei titoli solo cose «belle» riduce
in un certo senso la diversificazione. Ciò nonostante, l’esperienza
empirica ha dimostrato che la finanza etica, pur differenziando di
meno, non accresce il rischio, complice anche un’attenta analisi dei
rischi ambientali e sociali. Certo, in finanza il passato non è di per sé
una garanzia per il futuro. Ed è per questo che la vigilanza da parte
di Consob (Commissione nazionale per le società e la Borsa, per le
società quotate) e di Banca d’Italia (per le banche e gli intermediari
finanziari) è quanto mai importante, soprattutto alla luce della
grande quantità di soldi che i fondi di investimento maneggiano,
appartenenti a tantissime persone diverse.

E quando c’è l’ispezione si prova a nascondersi o a fischiettare


facendo finta di nulla…
Può essere una strategia, soprattutto se si ha paura di aver fatto
operazioni sbagliate, o ancora di più se si sa di averle fatte
deliberatamente. Però, un’ispezione è un po’ come andare dal
dottore. Si può anche decidere di non dirgli delle malattie famigliari
o del problema sanitario avuto, ma sul lungo periodo non è affatto
una buona idea. E soprattutto con un rapporto conflittuale non si
riesce ad approfittare dei buoni consigli che possono essere dati da
un’analisi esterna.

Chiedere un prestito
Prima di chiedere un prestito è opportuno interrogarci su quale uso
vogliamo fare del credito che eventualmente ci sarà concesso e
prendere consapevolezza di cosa esso comporti. Questo perché, se da

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una parte dobbiamo evitare di incasinarci la vita – e con i debiti ce la
si può incasinare tanto! –, dall’altra, per convincere qualcuno a
finanziarci, dobbiamo dimostrare di avere le idee piuttosto chiare.

Come valutare, dunque, se chiedere un prestito alla banca è una


buona idea?
Dicevamo che il primo passo è avere ben chiaro che cosa
vorremmo fare di questo prestito: pagare le spese sanitarie,
un’attività di formazione, fare investimenti immobiliari o
produttivi… Si tratta di cose ben diverse. Per esempio, nel caso di
prestiti che non servono a produrre o a investire ma a consumare
(prestiti al consumo), sarà necessario avere e dimostrare una fonte di
reddito grazie alla quale appaia plausibile che potremo ripagare il
debito. Nel caso di investimenti immobiliari o produttivi, invece,
potrebbe essere lo stesso investimento a consentirmi di rifondere il
debito. Soldi per fare soldi in un certo senso, perché uno dei
«superpoteri» delle banche è quello di anticipare i guadagni futuri,
di una persona o di un’impresa, e di dare una spinta iniziale alle
attività promettenti. In questo modo, la persona o l’impresa che sia
non dovrà aspettare e risparmiare per anni prima di mettere in piedi
il progetto ideato, ma potrà avviare fin dalla ricezione del prestito la
propria attività, guadagnare e iniziare a restituire il debito contratto.
Il secondo passo da fare è chiarire, prima a noi stessi e poi alla
banca, quanti soldi effettivamente ci servono. E ancora, in quanto
tempo riteniamo plausibile restituirli. Un anno? Cinque anni?
Vent’anni? Si tratta di impegni ben diversi fra loro, che potrebbero
influenzare in maniera più o meno profonda il nostro futuro e le
scelte di vita.
Infine, c’è da pensare alle garanzie.

Ecco, non ho capito questa cosa della garanzia. Non è che il mutuo
mi scade come lo yogurt? E se mi scade mi rendono i soldi? Temo di
no…
Mi dispiace informarla che la garanzia non gliela dà la banca. È lei
che, se vuole ricevere un prestito, dovrebbe offrire garanzie alla
banca. Per esempio, potrebbe portare una busta paga, dimostrando
così di avere uno stipendio capace di ripagare le rate, oppure un bene
ipotecabile o perfino la firma di qualche zio facoltoso.
Le banche amano le garanzie perché diminuiscono il rischio e

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fanno contenta «mamma Banca d’Italia». Anche se a volte si tende
un po’ a esagerare…
Qualora la banca decidesse di finanziarla, oltre al termine del
prestito andranno concordati le rate di restituzione e il tipo di tasso,
fisso o variabile. Finché la banca non riavrà indietro tutti i soldi che
le spettano, la garanzia non scade, a meno che essa non accetti una
postergazione.

Badi a come parla! Scusi sa, ma se mi dicono che mi devo


postergare mi preoccupo parecchio…
Se si posterga una garanzia ipotecaria vuol dire che in qualche
modo se ne cambia la scadenza e la priorità rispetto ad altre garanzie
date o che si vogliono dare. Non è detto che sia una cosa negativa,
anche se in effetti non suona bene.

Va bene, passiamo però a un tema più avvincente: come ci si veste


per andare in banca a chiedere un prestito?
Non con un passamontagna. Neanche se fa molto freddo. Poi non
bisogna esagerare, nel senso che magari uno una lavatina se la deve
dare, perché arrivare lì vestito da pezzente per cercare di impietosire
la banca, ecco, non è una buona idea. Di solito non funziona.

Ma neanche vestiti da agente immobiliare o da broker della City di


Londra, perché non ci cascano.
Non ci cascano. La cosa un po’ sorprendente è che noi non ci
fidiamo delle banche, ma quando andiamo in banca dobbiamo
convincerla che siamo degni di fiducia.
Come quando andiamo dal dottore, anche in banca è inutile fare
finta o cercare di tenere nascoste delle informazioni cruciali. Se
andiamo dal medico e non gli diciamo che dalle ultime analisi risulta
che abbiamo il colesterolo alto, non abbiamo molto da guadagnarci.
Allo stesso modo, mentendo o nascondendo delle cose all’istituto di
credito si rischia di finire in grossi pasticci e di mettere a repentaglio
la nostra salute finanziaria.

Considerare la banca come un dottore. Mai un corso di educazione


finanziaria ha raccontato questi aspetti psicologici!
Le banche possono essere più rapide di un dottore perché non
devono neppure aspettare il risultato delle analisi, che comunque

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faranno. Infatti, mentre l’impiegato ti sorride chiedendoti
informazioni sul tuo prestito, nel frattempo sul computer cerca se sei
segnalato in una centrale rischi e vede subito se non hai pagato rate
di un prestito, o non hai proprio restituito un precedente prestito da
un’altra banca, o anche se sei protestato (nel senso che qualcuno
protesta pubblicamente perché non paghi le rate di qualcosa che hai
comprato… a rate).
Un’altra buona ragione per cui conviene essere veritieri è il fatto
che le banche maneggiano i soldi dei risparmiatori. Sono i loro soldi,
di fatto, quelli che ci vengono prestati. Fornendo un’informazione
completa si consente alla banca di tutelare sia noi sia i risparmiatori
e gli investitori che vi hanno riposto il proprio denaro.

Scusi, ho capito bene che siamo tutti schedati da una centrale di


spionaggio?
La centrale rischi è uno strumento costruito a partire dalle
segnalazioni che fanno gli operatori finanziari e gli operatori del
credito al consumo (i pagamenti di beni a rate). È uno strumento di
autotutela degli operatori finanziari per ridurre il rischio
condividendo informazioni. Non è una banca dati pubblica, ma solo
per gli intermediari finanziari.
Mentire alle banche, quindi non è facile perché, bene o male che
sia, siamo tutti quanti schedati, nel senso che qui sono iscritti tutti i
debiti contratti, estinti o ancora non pagati.
Di fatto, se avete già fregato altre dodici banche, vi scoprono.

Quindi conviene arrivare nella propria totale onestà, dire tutto. È


meglio fare riferimento a parenti facoltosi oppure a proprietà, se ci
sono?
Il tema delle garanzie è delicato. La cosa migliore sarebbe
dimostrare di poter restituire il prestito grazie al proprio lavoro, o a
eventuali entrate regolari, come anche le rendite. Può aiutare anche
avere un rapporto di lunga data con il proprio istituto di credito,
perché in qualche modo «ci si conosce». Certo, possiamo anche
entrare in una banca per la prima volta e chiedere subito dei soldi,
ma non ci si deve poi meravigliare se riceviamo in cambio una gran
quantità di domande.
Tornando alle garanzie, è vero, aiutano. Sono di fatto uno
strumento volto a ridurre il rischio della banca di perdere soldi per

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casi accidentali. Tuttavia, andare allo sportello dicendo di avere uno
zio ricco serve pochino, fino a quando questi, se davvero esiste, non
metterà una firma.
Ecco, ammiccare di certo non basta.

Portare prosciutti e regalie varie funziona?


No. Devo dire che mi piacerebbe tanto come banchiere, ma non
serve.

Che si intende per «prestito personale?»


L’importo del prestito varia in base alle esigenze e alla capacità di
rimborso del richiedente. La somma che può essere concessa da
banche e finanziarie è solitamente compresa tra 1000 e 75.000 euro.
In base all’uso e alla cifra esistono varie tipologie di prestiti, tra cui il
prestito finalizzato, il prestito personale, la cessione del quinto e il
prestito vitalizio.
Dagli studi dell’Associazione italiana del credito al consumo e
immobiliare risulta che buona parte di questi prestiti finiscono per
essere usati per comprare un’automobile (quasi il 30 per cento) o dei
grandi elettrodomestici (circa il 16 per cento), o per l’efficientamento
energetico (intorno al 15 per cento). Altre volte vengono usati per
curare varie tipologie di mal di denti, per pagare gli studi ai figli o
per viaggiare.
Anche se la rata è piccola e sentiamo di potercela permettere, è
sempre meglio chiedersi quanto questo prestito sia importante per
noi, pena il rischio di complicarsi inutilmente la vita.

Mutui
Il mutuo, a differenza dei prestiti personali, è un prestito grande
finalizzato ad acquistare una casa o comunque a una spesa
significativa.
Se c’è un’ipoteca (una garanzia) su un bene di valore, si chiama
mutuo ipotecario. Se la garanzia è data dalla generale situazione
economica e di patrimonio del richiedente si chiama mutuo
chirografario.

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E perché si chiama chirografario? Non perché c’entra un
chiromante, spero. Sa, io sono un po’ scettico su quelle cose…
L’aggettivo «chirografario» ha la stessa origine della parola
«autografo». In senso generico si riferisce a ogni documento scritto e
firmato di propria mano. In finanza indica un documento scritto e
firmato e che costituisce prova di impegno qualora le cose non
vadano come dovrebbero. In pratica poi la banca, se chi ha firmato
non restituisce il debito, può rivalersi sui suoi beni.
Comunque, in generale, per i mutui alcune delle regole da seguire
sono un po’ le stesse che abbiamo già descritto.

… vestirsi un po’ a modino e non dire bugie, perché tanto si


scoprono subito grazie alla centrale rischi.
Altre cose, invece, sono un po’ diverse. Per esempio, volendo
acquistare una casa possiamo chiedere alla banca un mutuo pari al
suo valore totale, o solo parziale. Se riusciamo già a pagare una parte
noi, di tasca nostra, è sicuramente meglio. Questa, infatti, sarà una
delle prime cose che la banca ci chiederà di chiarire. Seguirà una
valutazione di quanto potremmo ragionevolmente restituire in base
ai nostri guadagni tipici. Fare il passo più lungo della gamba, come
sempre, non paga. A questo punto possiamo aspettarci che la banca
ci chieda un’ipoteca, cioè un atto privato e registrato grazie al quale
essa ottiene un diritto sulla nostra casa.
Se l’ipoteca è capiente, ovvero se il valore della casa ipotecata
supera il valore del mutuo, la banca, a fronte di questa garanzia,
potrebbe prestarci anche di più: quanto serve, per esempio, per i
lavori di ristrutturazione. Qualora, invece, volessimo un giorno
rivendere la nostra casa prima di aver finito di pagare il mutuo,
dovremmo accordarci in anticipo con la banca, così da trovare
un’intesa e chiudere le partite prima della vendita o proprio al
momento della vendita.
Sostanzialmente, comunque, siamo di fronte a un pegno sulla
casa: se non paghiamo le rate, la banca può prendersela, perché, si
sa, a loro piace che i soldi vengano restituiti.

È proprio un brutto vizio quello di rivolere i soldi indietro!


Le banche più «generose», d’altronde, falliscono. Comunque, per
tenersi lontani dai guai con gli istituti di credito bisogna fare bene i
conti. Se, per esempio, prendo 120.000 euro in prestito, da restituire

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in vent’anni, anche qualora non mi applicassero nessun interesse
dovrei comunque restituire 500 euro al mese, mica poco. Se ci si
mette anche il tasso d’interesse, la rata sarà ancora più alta.
Insomma, bisogna pensarci bene.
Ma passiamo ora alla fatidica domanda: tasso fisso o tasso
variabile? Con il tasso fisso il vantaggio è che si sa sempre a quanto
ammonterà la rata per tutta la durata del prestito. Certo, non un
grande affare qualora i tassi dovessero scendere: in quel caso
dovremo comunque corrispondere il tasso di interesse concordato.
Il tasso variabile, invece, nel breve periodo tende a essere sempre
più basso, mentre nel lungo periodo non lo possiamo sapere. Quel
che è certo è che se i tassi di riferimento saliranno, salirà anche la
rata.
Una durata ragionevole per un mutuo si aggira attorno ai
vent’anni, anche se poi c’è chi ne fa di più lunghi (e se già su
vent’anni fare previsioni è difficile, aumentando la durata lo diventa
ancor di più).

Biggeri, però non dimentichi la legge che afferma: qualsiasi tasso


tu scelga, se scegli il tasso fisso poi i tassi diminuiscono, se scegli
quello variabile poi aumentano.
Sì. Questa è sicuramente una legge implacabile che si chiama
sfiga.

Visto che i mutui servono per comprare le case, sa dirmi se le


soluzioni abitative comprendono solo la villetta a schiera o il
condominio di otto piani?
Accanto alle scelte abitative più convenzionali, si stanno facendo
strada nuove modalità di prendere casa, condividere gli spazi e di
prendersene cura. Ne è un esempio il cohousing, che vuol dire
letteralmente vivere insieme, coabitare. Insieme si possono
comprare degli spazi più ampi, che siano un po’ privati e un po’
comuni, da condividere con gli altri. La casa, dopotutto, è anche il
buon vicinato. Ne riparleremo più avanti.
Un’altra esperienza interessante, al fine di ristrutturare la propria
abitazione, è l’autocostruzione. In Italia, purtroppo, le leggi sono
abbastanza restrittive, ma è comunque possibile svolgere da soli dei
piccoli lavori di manutenzione. Se autocostruire è una bella
esperienza, farlo insieme, come accade nelle cooperative di

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autocostruzione, può esserlo ancora di più.

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I soldi che non danno la felicità

Abbiamo scritto che i soldi di per sé non sono né buoni né cattivi e


neppure neutrali. Siamo noi, individualmente e collettivamente, a
spingerli in una direzione o in un’altra. Certo, imprenditori e
manager, politici e governanti, ma anche accademici e ricercatori
hanno una sfera di influenza più ampia, tuttavia c’è molto che tutti i
cittadini possono fare armandosi di buona volontà, competenze e
inventiva, se esplorano e sperimentano modi e modelli diversi di
procurarsi, scambiare e risparmiare risorse.

Molto bello, ma le ricordo che siamo nella sezione del libro in cui
dovrebbe parlarci male dei soldi e della finanza! Almeno qui ci
risparmi questo atteggiamento propositivo e tiri fuori un po’ di
spirito manicheo, una bella divisione fra bianco e nero.
Ecco, la verità è che queste divisioni nette rischiano di essere un
po’ forzate e discrezionali. Distinguere fra i soldi che danno la felicità
e quelli che proprio non la danno può aiutare a capirsi in termini
generali, ma nella pratica le cose si fanno più complesse e qualunque
operazione finanziaria, o uso dei soldi, può avere una qualche
giustificazione di utilità.
Molto spesso, però, anche se in via del tutto teorica, è difficile
separare nettamente il bianco dal nero, come lo chiama lei.
Pragmaticamente si possono evidenziare distorsioni rilevanti,
assurdità anche da un punto di vista della corretta allocazione delle
risorse da parte delle persone, degli operatori finanziari e della
finanza a livello globale.
Certo, se si mettono in fila le sanzioni della Sec (che controlla i

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mercati finanziari negli Usa, quella che in Italia è la Consob) e delle
altre autorità di vigilanza, vediamo che praticamente tutti i maggiori
operatori sono stati condannati a pagare miliardi di dollari per frodi,
truffe, manipolazione del mercato, riciclaggio del denaro (anche per
narcotraffico). Non è un buon indicatore.
Dunque, come nel resto del libro, proviamo a rispondere con
leggerezza.
Partiamo da quello che può succedere in banca, poi negli
investimenti e quindi nel mondo finanziario globale. Troveremo
operazioni finanziarie di dubbia utilità, pseudotruffe e truffe vere e
proprie, investimenti sbagliati e anche operazioni difficilmente
comprensibili alle persone comuni e quasi sicuramente dannose.
Indipendentemente da queste classificazioni o dai giudizi che ne
ricaveremo, troveremo poca felicità: se proprio va bene, solo per
pochi, e spesso soltanto quella di chi è riuscito a fare più soldi
fregando gli altri.

… soldi che gli auguriamo di spendere in antidiarroici!


Non sia così vendicativo, non aiuta. E poi, potrebbero arrabbiarsi.

Giusto, siamo non violenti, collaborativi e solidali…

In banca o attorno ai soldi: le fregature italiche


Che entrando in banca si possa prendere una fregatura lo hanno
abbastanza chiaro in alcune province italiane tipo Arezzo, Chieti,
Ferrara, Vicenza eccetera. Cosa è successo?
Con il senno di poi è facile dire che le banche in questione non
abbiano agito in modo corretto. Comunque, principalmente hanno
fatto due cose: gestito male i crediti e fatto maneggi attorno al
capitale della banca.
Riguardo al credito, lo hanno dato in maniera non accorta,
sbagliando le valutazioni, ma anche con dolo, erogando credito che
sapevano dubbio e saltando alcuni controlli interni (di solito questa
fortuna di ricevere un credito che poi non si restituisce accade non ai
cittadini comuni, ma a una cerchia di persone di interesse per chi
compie il dolo). Ma per fare un disastro non basta dare male il

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credito, aiuta anche non gestire correttamente il rischio del credito.
Infatti, che una banca rischi a dare credito non solo non è sbagliato,
ma dovrebbe essere opportuno, a patto che essa stabilisca in modo
accurato se in base al suo patrimonio se lo può permettere. E quindi
la banca deve costituire continuamente un fondo accantonamento
rischi su crediti, per coprire le perdite. Attenzione: non via via che
avvengono, ma prima che si verifichino. Ogni singolo credito erogato
andrebbe valutato con una percentuale di dubbio esito.

Una specie di salvadanaio in cui la banca mette dei soldi quando


eroga e poi valuta con il tempo i suoi crediti. Tipo: «Faccio un
prestito a questo bravo ragazzo che ha una startup di cui non
capisco una mazza e, siccome ho il dubbio di perdere soldi, metto
via una percentuale di quanto gli ho prestato nel mio salvadanaio
del dubbio…».
Spiegazione perfetta! Naturalmente, così facendo, se poi il credito
non torna, come banca sono «coperta» dal rischio; d’altra parte,
però, se metto i soldi nel «salvadanaio del dubbio» avrò meno utili in
misura proporzionale. Quindi nella cattiva gestione del credito vi è
anche la tentazione (e nelle banche commissariate anche la certezza)
di non fare correttamente gli accantonamenti sul rischio (il
salvadanaio del dubbio semivuoto).

Le banche armate
Oggi in Italia, come abbiamo già visto, l’unico settore del credito in
cui le banche sono obbligate alla trasparenza è quello dei prestiti
finalizzati al commercio delle armi, secondo la legge 185/90.
Purtroppo, la legge non dice nulla sui prestiti per la produzione di
armi, cioè i prestiti alle fabbriche.
Anche qui è lecito avere opinioni differenziate. Banca Etica non
sovvenziona nulla nel settore, ma alcune banche hanno per esempio
adottato una policy che definisce quali tipi di armi finanziano e quali
no, dando trasparenza anche quando sostengono la produzione e
non solo il commercio delle stesse. In pratica accettano le armi per le
forze di polizia ed escludono le armi offensive (un criterio un po’
aleatorio e che, quindi, deve essere definito nelle policy) e le armi

70
controverse a livello internazionale (tipo nucleari o di distruzione).
Si tratta di un buon compromesso; la prima banca di dimensioni
importanti in Italia ad andare in questa direzione positiva è stata la
Banca popolare dell’Emilia-Romagna (Bper), anche grazie alle
interlocuzioni con Banca Etica.

Non sia sempre così autoreferenziale! O, se proprio deve esserlo, ci


parli direttamente di Banca Etica.
Va bene. Allora facciamo un passo indietro nel tempo, a quando
Banca Etica era ancora un’idea. Più di vent’anni fa a Mani Tese,
l’associazione in cui ero attivo, venne chiesto di entrare a far parte
del gruppo di fondatori della cooperativa Verso la Banca Etica. La
prima risposta fu negativa: «Non ci si può occupare di tutto» si
diceva allora, poiché gli sforzi dell’associazione erano rivolti verso
altre azioni, fra le quali una campagna internazionale per mettere al
bando le mine antiuomo. Mani Tese, in particolare, coordinava la
campagna in Italia e si era fatta carico della tesoreria, aprendo anche
un conto presso la Banca nazionale del lavoro.
Poi venne pubblicata la prima lista delle «banche armate», e fu
uno shock. Ai primi posti, infatti, figurava proprio la Banca nazionale
del lavoro, che, ironia della sorte, risultava finanziare l’esportazione
di mine antiuomo, di cui l’Italia era uno dei maggiori produttori.

Tecnicamente si può dire che Mani Tese si tirava la zappa sui piedi?
Decisamente. La campagna ebbe comunque successo, tanto da
vincere il premio Nobel per la pace del 1997. Mani Tese, infine, si
rese conto che non si può sfuggire alla responsabilità del denaro,
cambiò posizione e diventò una delle fondatrici di Banca Etica.
Questo per dire che si possono fare tante azioni positive, ma i
nostri soldi, se non li teniamo sott’occhio – quelli spesi come quelli
risparmiati –, potrebbero remare in direzione contraria ai nostri
sforzi quotidiani.
Per concludere, consiglio di cercare sul web un video, datato ma
geniale, di alcuni attivisti belgi che si sono inventati una campagna
di opinione simulando l’apertura e la relativa campagna pubblicitaria
di una banca armata (Ace Bank) con conferenze stampa, interviste,
dépliant e conseguente intervento della vigilanza, utilizzando il
clamore per far discutere della trasparenza nel settore bancario.

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Noi italiani siamo notoriamente poliglotti, ma il video in
fiammingo ci pare un po’ eccessivo…
C’è anche un po’ di francese e comunque ci sono i sottotitoli anche
in italiano. La cosa interessante è che a un certo punto qualcuno dice
alla nascente banca armata: «Be’, almeno voi siete onesti e dite
quello che fate».
Nella realtà, purtroppo, la trasparenza minima o inesistente sugli
investimenti in tutti i settori, non soltanto nelle armi, è una
caratteristica negativa del sistema finanziario.

Operazioni farlocche
In questi anni gli sportelli delle grandi banche hanno consigliato ai
cittadini di investire nei prodotti più svariati, non sempre pensando
all’interesse dei clienti, e a volte pensando solo al proprio ritorno
economico.
Una volta, quello bancario era un mestiere di grande reputazione:
in paese la gente si fidava del parroco, del maresciallo, del farmacista
e del direttore di banca. Oggi, purtroppo, non è più così, anche
perché il modo di fare banca è cambiato, mettendo l’interesse del
cliente in secondo piano rispetto a quello degli azionisti delle banche.
E gli impiegati, per portare a casa a fine mese l’incentivo di vendita,
possono essere tentati (e in alcuni casi perfino spinti) a trascurare la
tutela dei clienti privilegiando il proprio tornaconto personale e
cercando di vendere i prodotti sui quali vi sono più commissioni e
che il capo chiede loro di vendere.
Tra i prodotti che in questi anni hanno avuto incentivi
interessanti ci sono, per esempio, i diamanti. Un mercato
particolare, per esperti. Venduto come investimento alternativo nella
logica del bene rifugio come l’oro.

Scusi, mi sono distratto: «bene rifugio» non sta per un investimento


nelle baite alpine, immagino.
Un bene rifugio è la proprietà di qualcosa che si suppone abbia un
suo valore intrinseco, e che quindi anche in caso di crisi non perda
valore. Un classico bene rifugio è l’oro, ma possiamo inserire in
questa categoria anche i titoli di stato tedeschi, vista la solidità di

72
quell’economia, e, se vogliamo parlar dei soldi che non danno
felicità, anche gli investimenti in immensi latifondi di terra fertile nei
paesi più poveri, soprattutto in Africa, comprati non per farci attività
produttive, ma appunto per assicurare un bene rifugio (la proprietà
della terra avrà sempre un valore) ai fondi speculativi. Si chiama
land grabbing.

Brutto, sembra il ritorno al feudalesimo medioevale. Ma torniamo


ai diamanti, non si distragga.
Ecco: l’investimento proposto a migliaia di persone in diamanti
«di qualità» ha fatto perdere soldi ai clienti e ha fatto realizzare 500
milioni di profitti illeciti ai venditori. La Procura di Milano, nel 2019,
ha indagato cinque istituti di credito per truffa aggravata,
autoriciclaggio con omessa sorveglianza e corruzione tra privati: si
tratta di Banco Bpm, Mps, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banca Aletti.
I clienti si sono ritrovati in difficoltà per aver investito troppi soldi
in qualche cosa che evidentemente non capivano fino in fondo e per
non aver suddiviso il rischio in modo opportuno. In linea di massima
un buon consiglio è evitare gli investimenti che non si capiscono. Se
vogliamo essere tranquilli e dare energia a un futuro migliore,
scegliamo di investire nell’economia reale: magari in concimi
organici per l’agricoltura, o in altri settori il cui funzionamento ci sia
più chiaro e che abbiano una buona ricaduta sul mondo che
vorremmo vedere crescere nel futuro.

Ecco, la stavo aspettando al varco: dai diamanti non nasce niente e


dal letame nascono i fiori. Scontato.

I soldi che investono il pianeta


Ho capito che per investire servono i soldi. Ma mi sembra ce ne
siano pochi in giro.
I soldi in circolazione sono tanti, tantissimi, nonostante la crisi
del 2008. Non ci sono mai stati così tanti soldi in giro come nel 2019.
E anche la pandemia del 2020 ha ridotto di poco la quantità di soldi.

Scusi, ma dove si trovano? No, perché, sa, io non me ne sono

73
accorto.
Nelle attività finanziarie globali, che ammontano a molte volte il
Pil mondiale.

Mi scusi, prima di andare avanti, mi rinfreschi un attimo cosa è il


Pil e perché ora sembra un termine di confronto «buono». Io
credevo che anche il Pil fosse un po’ il male…
Il Pil è il prodotto interno lordo, vale a dire il valore dei prodotti e
servizi realizzati all’interno di un’area geografica in un periodo di
tempo (di solito un anno o un mese). Mette insieme tutte le vendite
di prodotti e servizi, considerando per i beni duraturi del sistema
produttivo il loro deprezzamento o ammortamento (in pratica
suddividendo la spesa dedicata a quel bene duraturo per il numero di
anni in cui si presuppone che esso continuerà a esistere).
Insomma, è un indicatore degli scambi economici legati alle
attività fisiche: acquisto di beni ed erogazione di servizi. Il Pil deriva
da almeno tre diversi conti – produzione, distribuzione e impieghi –
ed è ottimo per vedere «quanto gira l’economia». Tuttavia, come il
suo stesso ideatore, Simon Kuznets, aveva chiarito nel 1934, «il
benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto da una
misura del reddito nazionale». Pertanto, se un’economia pone la
crescita del Pil come suo traguardo principale è inevitabile che
finisca per trascurare molti aspetti importanti, cadendo in paradossi
e provocando danni.
Infatti non è un indicatore della qualità degli scambi, di quello che
generano all’ambiente o alla società, non è un indicatore di felicità e
non è neanche un indicatore dei prodotti che ci si può autoprodurre
o dei servizi resi a titolo gratuito.

Ho capito: il Pil non tiene conto di aspetti come la nonna che bada
ai nipoti, o del nonno che fa l’orto. Ora possiamo tornare a parlare
delle attività finanziarie globali. Che cosa sarebbero?
Analogamente al Pil, si possono calcolare le attività finanziarie
globali, considerando tutti gli scambi che avvengono (per esempio in
un anno) comprando e vendendo prodotti finanziari
(principalmente: titoli, derivati, valute).
Ebbene, la prima cosa sorprendente è che nonostante siano tutte
operazione fatte via computer, e quindi in teoria tracciabili, in realtà
non si riesce a calcolare in modo accurato questo indicatore, almeno

74
non come il Pil.
Ciò dipende da vari motivi: la poca trasparenza, gli standard di
misura differenti (si calcola il valore nozionale/contrattuale o quello
effettivamente scambiato) e il fatto che venga usato in mercati non
regolamentati di cui coloro che si occupano di statistiche non
tengono conto (che non a caso si chiamano mercati Otc, Over the
counter). Questo è tutt’altro che positivo, perché, se non sappiamo
misurare qualcosa, è praticamente certo che non sapremo
controllarlo.

Ho capito il senso (meno la sostanza): è come andare in auto senza


l’indicatore di velocità…
Le stime ci dicono che i volumi delle attività finanziarie variano
da quindici a cento volte il Pil mondiale (che a sua volta è circa 35-40
volte il Pil italiano).
È una cifra pazzesca. Se anche stiamo prudenti e facciamo mille
distinguo, significa che il 95 per cento dei soldi gira sui mercati
finanziari e solo il 5 per cento nel Pil, ossia nel mondo in cui viviamo!
Intendiamoci: le attività finanziarie, come spiegato
nell’introduzione, sono utili e quindi non devono essere zero, ma, per
capirci, trent’anni fa il rapporto era di due a uno, ossia i volumi
finanziari erano il doppio del Pil: il mondo funzionava lo stesso e da
allora la felicità delle persone di sicuro non è aumentata grazie
all’incremento delle attività della finanza. È a questo fenomeno che
fa riferimento chi denuncia l’eccessivo peso dell’economia
finanziaria rispetto all’economia reale.

Il titolo del paragrafo – I soldi che investono il pianeta – è


volutamente ambiguo, o sbaglio?
In effetti la finanza con le sue operazioni investe il pianeta con
violenza, proprio nel senso di un impatto violento. Quarant’anni fa
James Tobin, un economista liberista (quindi non accusabile di una
posizione anticapitalista), propose una tassa sulle transazioni
finanziarie perché aveva intuito che altrimenti la finanza globale
avrebbe sottratto risorse agli investimenti produttivi.
Tobin non era un bischero, come si dice in Toscana, tant’è che,
per altri suoi studi, nel 1981 ha vinto il Premio della Banca di Svezia
per l’economia, impropriamente detto «premio Nobel per
l’economia». Ecco, la cosiddetta «Tobin tax» era un’ottima idea,

75
anche se continua a essere ignorata dai regolatori.

In effetti la Tobin tax mi accende qualche neurone, magari ci


torneremo più avanti…

Cattive azioni
Vediamo meglio dove si trovano questi volumi finanziari incredibili e
partiamo dagli strumenti più semplici: titoli, azioni quotate e
obbligazioni governative.
Di fatto sono un caso particolare, perché sono quelle più
direttamente legate all’economia reale e anche più comprensibili.
Nel 2019 la capitalizzazione delle Borse mondiali ha superato il Pil
(come nel 1929, nel 2008 e nel 2017). In generale quando questo
succede non è un buon indicatore, ma siamo comunque in un ambito
elevato, ancora spiegabile. Meno spiegabile è il fatto che si continui a
investire nell’estrazione del petrolio o in prodotti nocivi, ma questo
dipende anche dal fatto che le regole sono fatte in modo tale che gli
effetti negativi non ricadono su chi investe, ma sulla collettività.
Abbastanza preoccupanti infine sono alcune operazioni che si
possono fare in campo azionario. Per esempio, il buy back o le
vendite allo scoperto.

VENDITE ALLO SCOPERTO

Mi pare di capire che in finanza le vendite allo scoperto non sono i


mercati rionali…
No, infatti, anzi, è una cosa che se la fai al mercato di quartiere…
rischi.
La vendita allo scoperto è un’operazione speculativa, chiamata
anche vendita a nudo (short selling, nel caso uno se la tiri). Consiste
nella vendita di titoli non direttamente posseduti dal venditore, ma
presi in prestito dietro il versamento di un corrispettivo, con
l’intento di ottenere un profitto a seguito di un movimento ribassista
in una Borsa valori. Insomma, come se al mercato mi accorgo che i
jeans attillati avranno un calo del prezzo perché stanno per passare
di moda. Allora noleggio per 20 euro cento jeans da un banco che è

76
ben felice di darmeli perché gli sembra di guadagnar facile. Poi li
vendo immediatamente a 50 euro l’uno nel mercato accanto. Quando
il valore dei jeans scende a 40, ricompro cento jeans a un altro banco
e li restituisco al primo banco. Pagando un noleggio di 20 euro ho
guadagnato la differenza tra i due prezzi di vendita (5000-
4000=1000). È la vendita di ciò che non si ha, ma che si sa dove
trovare: un trucco ammesso in finanza.

Fantastico. Però se lo si fa al mercato di quartiere temo che si possa


essere inseguiti dalla folla.
Eh già, giustamente. Anche se provate a farlo noleggiando un’auto
vi arrestano.

BUY BACK

L’altro esempio riguarda il buy back o acquisto di azioni proprie, che


è il simbolo di come si sia passati dall’attenzione agli interessi di
coloro che sono coinvolti in un’azienda (stakeholders interest) a
privilegiare la sola convenienza degli azionisti (shareholders
interest). Insomma, si pensa solo a chi può guadagnare dalle azioni,
come se la salute di un’azienda non dipendesse anche da ciò che fa,
dai rapporti con chi ci lavora o con la società.
In teoria, gli obiettivi per giustificare operazioni di buy back
possono essere diversi. In pratica, quasi sempre l’obiettivo principale
è aumentare la quotazione delle azioni, visto che questa pratica
genera alcune conseguenze: l’impresa crea una domanda
supplementare per i propri titoli; aumenta il valore di quelli rimasti
(se, come spesso avviene, i titoli comprati vengono distrutti). Inoltre,
un altro obiettivo del buy back può essere quello di mantenere o
rafforzare quote di maggioranza (relativa o di controllo) di
determinati azionisti.
Ebbene, negli ultimi anni diverse imprese hanno acquistato azioni
proprie per importi superiori ai loro utili. Di fatto si indebitano, ma
non fanno nessun investimento né innovazione. L’unico obiettivo è
drogare il proprio corso azionario nel breve, anche se al prezzo di un
decadimento complessivo della propria struttura di impresa, tanto
produttiva quanto finanziaria.
Qualche giornalista ha definito il buy back «cannibalismo

77
finanziario».

Non la faccia tanto lunga, via! Viviamo nel mondo dell’immagine:


un po’ di trucchi estetici sono tollerati.

CARTOLARIZZAZIONI

Un’altra pratica diffusa con titoli e azioni sono le cartolarizzazioni. Si


trasforma qualcosa in azioni e poi lo si vende a qualcun altro.

Mi spiega perché ora se la prende con i cartolai? Alla peggio


possono non battere uno scontrino!
In effetti la parola «cartolarizzazione» inganna. Sembra un gioco
o un’attività da fare con i cartoni o appunto le cartolerie. La parola
inglese è più aggressiva e inquietante: securitization, e indica che
questa operazione finanziaria consente di trasformare un titolo
tipicamente illiquido (come i crediti al consumo o sugli immobili) in
strumenti finanziari negoziabili.
Facciamo un esempio. Una banca ha erogato molti mutui
ipotecari anche in modo «leggero», senza valutare bene garanzie e
capacità di rimborso, perché confidava nella crescita costante dei
valori nel mercato immobiliare (il mercato di compravendita di
immobili e case). Per vari motivi ora vuole «vendere» i suoi mutui a
qualcuno, in modo da procurarsi nuova liquidità per finanziare altre
cose.
I mutui generano interessi (ossia rendimento), tuttavia hanno un
rischio (di non essere ripagati), coperto però dal valore degli
immobili. Ma soprattutto i mutui non si vendono facilmente e hanno
durata lunga.
Viene allora creata una società diversa e non legata alla banca, che
si chiama «società veicolo». Questa compra i mutui non solo dalla
prima banca, ma da tutti gli istituti di credito che vorranno
venderglieli, in modo da fare una buona differenziazione.
Dato che la nuova società veicolo è fatta di tanti investimenti
diversi e con scadenze diverse, le sue azioni sono vendibili facilmente
sul mercato (non si compra un mutuo, ma un’azione della società che
li possiede). La società veicolo vende, quindi, agli investitori le sue
azioni direttamente sul mercato o inserite all’interno di altri veicoli o
strumenti finanziari. In questo modo si è operata una sorta di

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trasformazione delle scadenze di fatto, rendendo liquidi investimenti
che singolarmente non lo sono e dando possibilità alle banche di fare
nuovi crediti.

Ma allora è una cosa buona, perché la mette tra le cattive azioni?


Se tutti i passaggi sono svolti correttamente, la cartolarizzazione è
uno strumento in più a disposizione degli operatori finanziari e può
anche essere utile, ma a patto che si tenga presente la «parte oscura»
del processo: la gestione del rischio.
Con la cartolarizzazione, oltre a rendere liquidi investimenti che
non lo erano si trasferisce il rischio. Anzi, la securitization può
essere proprio la messa in sicurezza di una banca che ha agito male
nel momento dell’erogazione del credito e rifila il rischio che lei ben
conosce a qualcun altro: insomma, una colossale macchina per
fregature.
La crisi del 2008, che abbiamo pagato tutti duramente, si è
originata perché le banche americane avevano erogato troppi mutui
a chi non era in grado di rimborsarli (i cosiddetti mutui subprime) e
il mercato immobiliare è crollato.
A causa del processo spinto di cartolarizzazione, tali mutui
cartolarizzati erano finiti in tutto il sistema mondiale in una maniera
così pervasiva e opaca da bloccare i mercati finanziari e provocare
una serie di fallimenti a catena che ha causato una lunghissima crisi
finanziaria e quindi economica.
Tra le obbligazioni più sfornate a seguito dei processi di
cartolarizzazione ci sono le Asset-backed securities (Abs) le
Collateralized debt obligations (Cdo) le Mortgage-backed securities
(Mbs).
Si consiglia la visione del film La grande scommessa del 2015,
diretto da Adam McKay, per far crescere un po’ di sani dubbi e anche
un po’ di rabbia sulle cartolarizzazioni.

Il mercato delle divise e dei derivati


Ben più ampio nel complesso delle attività finanziarie globali è il
mercato dei cambi relativi alle valute e alle divise. Il mercato dei
cambi è soprattutto quello in cui si comprano e vendono valute:

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dollari, yen, euro, sterline, taka bengalesi. È il cosiddetto Forex
(Foreign exchange market) e serve a determinare il giusto prezzo
reciproco delle varie valute: quando è lo Stato che fissa il tasso di
cambio, spesso succede poi che esista un florido cambio in nero,
ossia cambiavalute infrattati per strada a caccia di turisti.
Nonostante questa funzione di autoregolamentazione, il fatto che
abbia volumi annuali superiori almeno di sette volte al Pil mondiale
è un filino esagerato.

Sono un po’ confuso. Con un certo sforzo ho capito il nesso tra


valute e monete di differenti sistemi monetari o stati. Ma le divise
cosa c’entrano? Insinua l’esistenza di un complotto militare?
In finanza la divisa, parola di derivazione francese (devise), indica
ogni titolo di credito (detto appunto divisa estera) pagabile su piazze
estere e quindi in moneta estera, che serve come mezzo di
pagamento per regolare i debiti e i crediti fra i cittadini di stati
diversi. In pratica le divise sono cambiali, tratte, assegni, ordini di
pagamento a mezzo vario, ma anche tutti i titoli, rappresentativi di
crediti a vista, o a brevissima scadenza, emessi in una moneta estera
o verso l’estero.

I DERIVATI

La parte del leone nel complesso delle attività finanziarie la fa il


mercato dei derivati. Quanto sia ampio non lo sa nessuno. Si pensava
almeno otto-nove volte il Pil mondiale in base ai dati di fine 2017
raccolti da parte della Banca dei regolamenti internazionali (Bri, o
Bis in inglese). Tali dati erano stati richiesti alle grandi banche
internazionali, con l’Europa che pesava per circa un quarto del totale
dei derivati emessi. Ma un rapporto del 2018 dell’autorità sui
mercati dell’Unione europea (Esma, European security and markets
authority), ha calcolato analiticamente i derivati nel mercato
europeo a ventotto paesi, ottenendo una cifra quattro volte maggiore
dei dati Bri. Il che porterebbe il mercato dei derivati a trentatré volte
il Pil mondiale.

Scusi, ma fanno parte dei derivati anche i formaggi in quanto


derivati del latte?
I derivati finanziari si chiamano così perché sono contratti

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finanziari il cui valore «deriva» da altri beni – valute, titoli e materie
prime –; infatti chi compra un derivato non possiede un titolo di
proprietà del bene sottostante. Sono più simili a un’assicurazione – è
così che sono nati –, ma per la gran parte ormai sono, di fatto, delle
scommesse sul futuro.
L’idea alla base è che se qualcuno, dovendo comprare qualcosa,
ha paura che il prezzo oscilli, paga una sorta di rata assicurativa. Se
succede un imprevisto, e per esempio il prezzo sale troppo, sarà
l’assicurazione a pagare. Un po’ come con l’Rc auto: se uno fa un
incidente c’è una franchigia, e al di sopra di quella paga
l’assicurazione. In modo simile, qualcuno che commercia grano e ha
paura che il suo costo sia destinato ad aumentare nei mesi a venire
può garantirsi attraverso i derivati un’assicurazione su questo
rischio. I derivati, tuttavia, consentono di fare una cosa che nella
modalità dell’Rc auto non è prevista. Per esempio, posso assicurarmi
sul fatto che la macchina di un tale Mario Rossi abbia un incidente, e
se Mario si schianta… io prendo il premio. I derivati speculativi, detti
anche «senza sottostante», sono sganciati dalla funzione di garanzia
che in teoria dovrebbero esercitare. Chiaramente, se posso
guadagnare da un incidente del povero Mario Rossi, mi auspicherò
che questa cosa avvenga e, se posso influire in modo tale da favorire
questo evento, lo farò.

Sarà bene controllare che Biggeri non abbia fatto un derivato sullo
schianto della mia utilitaria… Non vorrei mi avesse sabotato i freni.
Viste le alte possibilità di guadagno, i miliardari e i gestori dei loro
patrimoni sono spesso incentivati a giocare alle scommesse
finanziarie: puntando per esempio sul fallimento della Grecia,
dell’Italia o del settore immobiliare. E, ovviamente, si possono fare
derivati sulle cartolarizzazioni, aumentando a dismisura l’effetto leva
sia in positivo (i potenziali guadagni) sia in negativo.
Se quei signori vincono, fanno ancora più soldi, di cui nessuno di
noi beneficerà in alcun modo, anzi, saremo noi a pagarne le
conseguenze. Se perdono, si rischia una crisi finanziaria che dovrà
essere arginata anche con i soldi pubblici. Una trappola.
Pure il governo italiano, in passato, ha fatto dei derivati
sull’andamento dell’economia che inizialmente hanno aiutato i conti,
ma poi sono stati pagati cari e hanno «incasinato» i conti pubblici.

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Ma i derivati serviranno pure a qualcosa?
Certo che servono, nella loro funzione assicurativa, ma non se
usati per scommettere o speculare. Soprattutto non con il livello
fantasmagorico di volumi finanziari annuali raggiunto. È importante
capire che il mercato dei contratti derivati, come anche quello degli
scambi valutari, è un mercato a «somma zero»: non si crea ricchezza,
la sommatoria dei ricavi di chi guadagna e delle perdite di chi perde
fa zero.
Banche come la Barclays o la Deutsche Bank emettono un sacco di
derivati, di cui quasi la totalità sono senza sottostante, ovvero hanno
la sola funzione di scommesse.
Come Banca Etica ed Etica Sgr, al contrario, noi ci siamo
impegnati a non fare derivati che non abbiano la funzione di coprire
rischi reali. Praticamente non ne trattiamo se non per i rischi
valutari.

Per favore, riassuma tutta questa sua saggezza finanziaria in un


consiglio perché nel concreto non ho mica capito cosa devo fare.
Il consiglio che sento di fornire ai cittadini, a questo proposito, è
di evitarli o, se proprio sono attratti dai derivati, privilegiare
effettivamente i derivati del latte come le caciotte e le mozzarelle.
Quelli sì che danno soddisfazione!

La finanza è veloce
La maggior parte dei volumi finanziari si gioca in terreni chiamati
High frequency trading (Hft), il mercato degli scambi ad alta
frequenza in cui computer velocissimi competono per ordini di
acquisto e vendita gestiti in automatico.

Guardi che anche se cerca di tradurre in italiano queste parolacce


finanziarie non credo che si capisca molto di più! Scambi ad alta
frequenza, per esempio, mi fa pensare a una versione accelerata del
poliamore o a un dispositivo medico.
L’Hft è come il bagarinaggio. Il bagarino, se si accorge che un
evento è molto richiesto, compra e accumula i biglietti e realizza una
speculazione al rialzo nel mercato «secondario». In pratica se si

82
prova a comprare un quantitativo importante di azioni in Borsa, l’Hft
si inserisce nell’ordine e non ti fa comprare quanto richiesto in
un’unica soluzione, ma solo una parte. Le azioni successive (come
per i biglietti del bagarinaggio) costeranno di più, perché il prezzo
del titolo nel frattempo è aumentato (to’, che caso).
Secondo i suoi sostenitori l’Hft aiuta il mercato perché uno
speculatore ad alta frequenza cercherebbe i titoli sottovalutati e
rivenderebbe quelli con un prezzo eccessivo. Da un lato fornirebbe
quindi liquidità alle contrattazioni, dall’altro aiuterebbe nella
formazione del prezzo. Questo discorso potrebbe avere senso se l’Hft
fosse residuale. In realtà ormai queste operazioni sono oltre il 50 per
cento del totale di quelle eseguite negli Usa, poco meno in Ue
(intorno al 40 per cento). Nel 2011 è stato posato un nuovo cavo
transoceanico tra New York e Londra. La velocità dei segnali del
nuovo cavo è di 6 millesimi di secondo inferiore rispetto ai 65 degli
altri cavi. Il costo è stato di 300 milioni di dollari, rapidamente
recuperati con le speculazioni.
Cosa non va, quindi? Tali operazioni generano instabilità e
maggiore volatilità, all’opposto di quanto dichiarato dai loro
sostenitori.
Per esempio, con il flash trading (che non è un supereroe, ma uno
scambio lampo) si generano via software variazioni di quotazione
attraverso enormi numeri di operazioni mandate in esecuzione e poi
annullate. Si approfitta quindi (spesso tramite operazioni con
derivati) di questi aumenti o cali istantanei di quotazione dovuti a
operazioni in realtà «fantasma», a volte inserite tra la partenza di un
ordine di acquisto (vero, istituzionale) da Londra e l’arrivo
dell’ordine a New York. L’acquisto farà salire leggermente la
quotazione istantanea finale, con guadagno del flash trader. Il
premio Nobel Paul Krugman ha scritto su «The New York Times» (il
13 aprile 2014) che con l’Hft «un sacco di soldi vanno in attività
speculative che sono privatamente profittevoli ma socialmente
improduttive. […] In breve, stiamo dando somme enormi al sistema
finanziario mentre ne riceviamo poco o nulla – forse meno di nulla –
in ritorno».

SE TUTTO QUESTO NON BASTASSE

83
Sono preoccupato… Le cattive azioni possibili sono moltissime.
Non è finita qui. Ci sarebbero anche molte altre azioni
preoccupanti, perché in finanza ci sono sempre nuove frontiere.
Oltre al già citato land grabbing, esistono le dark pools (ossia gli
stagni neri) in cui si fa compravendita di azioni fuori dai mercati
regolamentati: in tal modo alcuni attori hanno informazioni diverse,
si perde la «simmetria informativa» del libero mercato. Esiste uno
shadow banking system, o sistema bancario ombra, in cui si fa
intermediazione finanziaria direttamente tra privati senza il
controllo delle attività di vigilanza. Ci sono anche le opzioni binarie,
che sono scommesse a brevissimo termine (minuti) su oscillazioni
del valore delle azioni. E le Etc (Exchange-traded commodities),
fondi «passivi» che investono ipotizzando i movimenti di prezzo dei
beni alimentari o delle materie prime. Per non parlare dei fondi che
speculano sulle più svariate attività o dei cosiddetti «fondi
avvoltoio», che prendono il controllo di aziende sane e le spolpano
lasciandole in stato fallimentare.

LE SCOMMESSE DELLA FINANZA

Usa spesso la parola «scommesse». Perché?


Perché se i mercati sono a somma zero, e ci si investono milioni di
miliardi, allora è evidente che il tema assicurativo è marginale.
Talvolta non è neanche speculazione: è proprio gioco d’azzardo,
scommesse.
Uno dei problemi della finanza risiede nella sua velocità ed
emotività. Lo vediamo da come, di fronte ad annunci e previsioni, le
Borse salgono o scendono a velocità esorbitanti. Segno che è scattato
il dente vampiresco della speculazione.

Da quando è iniziato questo libro, ho l’impressione che quando


parla di speculazione non stia filosofeggiando o avendo intuizioni
di alto livello. Temo sia una cosa più brutta, vero?
Se si fa a manetta, sì! La speculazione approfitta delle differenze
di prezzo; in dosi limitate è utile a definire il corretto valore di ciò
che si scambia, ma se si eccede fa esattamente il contrario: può far
cambiare irragionevolmente i prezzi, sottrae risorse all’economia
reale. E soprattutto non crea ricchezza: se lo speculatore vince, altri

84
perderanno la stessa cifra.

Piccolo inciso: «speculare a manetta» è un temine tecnico?


Assolutamente sì. Si può dire anche «speculare a tutta randa».
Ma torniamo a noi. La finanza ama prevedere il futuro dal punto
di vista della massimizzazione del profitto, e quando vuole vendere
sottovaluta costantemente rischi e limiti. Contraddicendo il buon
senso del proverbio «meglio un uovo oggi che una gallina domani»,
la finanza vuole sempre vendere oggi un uovo al prezzo della gallina
che potrebbe diventare domani. Anzi, della gallina ovaiola che a sua
volta farà dei pulcini.
E allora, ecco che si valutano i manager e le società in base agli
andamenti trimestrali, le azioni di ora in ora, di minuto in minuto.
Si specula sui contratti futuri per vendere le materie prime, le
produzioni agricole e qualunque altra cosa. Si fa altrettanto sui titoli
di stato e si scommette sui loro fallimenti. Si punta sul valore dei
terreni africani che si stanno portando via per niente a quei paesi. Il
meccanismo, se ha una logica, ce l’ha perché aiuta a definire il prezzo
reale e tendenzialmente corretto di qualunque cosa, ma
l’esasperazione della finanza è decisamente deleteria. Gioco
d’azzardo e sostenibilità non vanno d’accordo, neanche in finanza.
Questo non solo per un mero calcolo delle probabilità, che evidenzia
un rischio inaccettabile in scommesse e lotterie, ma per la visione
della vita e della collettività che esse rappresentano. È già troppo.
La nostra economia e la politica, anche nelle loro «non-
decisioni», scommettono da trent’anni sulla probabilità sempre più
piccola, e ormai azzerata, che i cambiamenti climatici non
avvengano. Che l’esaurimento delle risorse sarà cancellato da nuovi
giacimenti. Azzardano sulla capacità futura di gestione delle scorie
nucleari e sul debito pubblico. Pronosticano, senza crederci, che lo
stile di vita americano sarà alla portata di tutti i cittadini del mondo.
E, addirittura, che una finanza ipertrofica e predatrice faccia bene ai
mercati e crei ricchezza per tutti.
Quando il gioco d’azzardo comincia a permeare tutta la società, a
partire dai cittadini inchiodati nei bar a giocare con le slot machine
per arrivare alle scommesse sui prodotti finanziari che distruggono il
welfare e la natura, c’è decisamente qualcosa che non va.

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IL FAI DA TE

Oggi capita di andare sul web e di ricevere proposte allettanti per


investire in qualunque cosa: trading sul Forex, sulle opzioni binarie,
sull’oro, sulle azioni. Alcune pubblicità fantasticano spudoratamente
di un secondo stipendio online a partire da pochi soldi investiti
all’inizio. E noi ci domandiamo se siamo gli unici polli che non si
danno da fare… Come in tutti i campi, di sicuro c’è chi può essere
bravo e imparare a usare questi strumenti, ma se si fa tanta
pubblicità qualche sospetto ci dovrebbe venire, anche perché le
pubblicità si pagano e quindi chi le promuove dovrà guadagnare da
qualche parte.

Mi viene il sospetto che alcuni tizi guadagnino proprio da coloro


che si fanno convincere dalla pubblicità e si mettono a giocare a
Wall Street.
È un sospetto fondato, a un certo punto le commissioni arrivano,
potete essere sicuri.

LE CRIPTOVALUTE

Esiste anche il fai da te delle monete. Le criptovalute sono monete


elettroniche, dunque virtuali, che per non essere contraffatte
vengono criptate da un algoritmo facendo uso di un’innovativa
tecnologia informatica che prende il nome di blockchain (catena a
blocchi).

Un po’ criptico…
Effettivamente un po’ criptiche lo sono, anche perché vengono
create e gestite a livello informatico, senza alcun bisogno di passare
dalle banche centrali; un aspetto, questo, che le rende affascinanti in
un momento storico in cui c’è una crescente diffidenza verso le
autorità di riferimento. Personalmente, non sono sicuro che sia un
bene essere indipendenti dalle autorità di controllo.
Per mantenere alto il valore delle criptovalute si pone un limite
alla loro creazione.
La tecnologia blockchain usata per creare le criptovalute
funziona, per usare una metafora, come la catena di una bicicletta. A
ogni transazione si aggiunge un pezzettino (di codice informatico)

86
che resta agganciato saldamente alla catena, con il risultato di
rendere tracciabile il percorso e dunque certificabile ogni scambio
avvenuto tra gli utenti. Nel futuro prossimo questa tecnologia verrà
applicata in tanti nuovi campi, consentendoci, per esempio, di fare a
meno dei notai per stipulare mutui. O dell’anagrafe. A oggi,
comunque, una delle applicazioni più popolari è proprio la creazione
di queste criptovalute.
Negli ultimi anni, di monete virtuali del genere ne sono state
costruite oltre 1500, una delle quali è stata perfino battezzata con il
nome del più classico schema per fregare soldi – lo schema Ponzi –,
da cui il nome «ponzicoin». Uno scherzo che è riuscito a raccogliere
ben 90.000 dollari, provando forse che di fronte alla promessa di
fare soldi in modo facile finiamo per essere un po’ creduloni e poco
cauti.
La più famosa criptovaluta si chiama «bitcoin», dove in inglese
coin è moneta e bit è l’unita di informazione dei computer.
Le criptovalute sono uno strumento che, se da una parte ha degli
aspetti interessanti, dall’altra è anche controverso. Il fatto che le
transazioni siano anonime e prive di controlli, per esempio, fa sì che
esse si prestino bene a usi illeciti (quindi evasione di tasse,
riciclaggio di denaro sporco eccetera). Un altro aspetto negativo di
questo strumento è che a oggi viene usato perlopiù a fini speculativi.
Dietro, dunque, non c’è una reale creazione di valore, ma una specie
di gioco d’azzardo. Non possiamo poi ignorare l’impatto ambientale,
perché per «estrarre» bitcoin si usano milioni di pc: si pensi che nel
2017 la produzione di questa valuta immateriale ha consumato la
stessa quantità di energia adoperata nell’intera Tunisia!
Vi sono, però, aspetti positivi che magari saranno utili in futuro. Il
primo è dato dalle potenzialità della tecnologia blockchain, ma è
anche interessante che, rispetto alle correnti idee sul denaro, le
criptovalute reintroducano il concetto di limite alla produzione di
valuta mediante un blocco informatico che ne interrompe la
continua creazione (è per questo che aumentano di prezzo per come
sono gestite oggi). Un’idea che andrebbe recuperata anche per la
creazione di moneta commerciale, magari legando questo vincolo ai
limiti ecologici.
Altro aspetto interessante è che sarebbe possibile tenere memoria
dei vari passaggi di denaro, non solo consentendone la tracciabilità,

87
ma perfino di scrivere una storia di quello che hanno prodotto.

Bello, ma forse anche un po’ inquietante: non voglio quel bitcoin lì,
ci hanno comprato armi due anni fa, per favore mi dia quell’altro.
Tra gli aspetti negativi abbiamo visto che la limitazione alla
creazione può essere ottenuta con necessità di calcolo sempre
maggiori (mining), il che rende il costo energetico insostenibile.
Ma soprattutto finora le criptovalute sono state usate per fini
puramente speculativi, per sfruttare la loro opacità a fini di
riciclaggio, per transazioni illegali.

Una via di mezzo tra un’idea geniale e… una boiata pazzesca!


Nel complesso di queste luci e ombre l’acquisto dei bitcoin non è
un investimento che consiglierei. Un po’ perché non sostengono
l’economia reale, un po’ per l’alto consumo energetico, ma anche
perché – è inevitabile – il loro prezzo è destinato a crollare e si
rischia di arrivare ad acquistarli poco prima che la bolla scoppi.

I fallimenti del sistema finanziario globale


Il sistema finanziario globale non funziona soprattutto per la sua
ipertrofia. Per fare un altro esempio oltre a quelli già visti: l’intero
mercato globale dell’import-export è solo un centesimo di quello
degli scambi valutari.
Si danno un eccesso di soldi nelle attività finanziarie globali e allo
stesso tempo il credit crunch, ossia la stretta sul credito
nell’economia reale. Domanda e offerta di denaro che non si
incontrano! Un vero e proprio fallimento del «mercato» finanziario.
Gli investimenti sono sempre più liquidi e sempre più veloci
(short termism), determinando un’inefficiente allocazione delle
risorse. Anche gli effetti positivi e di autoregolamentazione dei
mercati dati dalle attività finanziarie sono ottenuti a «prezzo» di
ingentissime risorse economiche immesse. Quindi possiamo dire
che… il sistema consuma troppo!
Alcune banche ormai sono too big to fail e too big to jail: troppo
grandi per fallire e troppo grandi per essere fermate, imprigionate.
Se capita che siano a rischio fallimento, anche per le loro condotte

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scorrette, devono comunque essere salvate, in quanto sistemiche,
indispensabili. Ovvio che non possano essere punite efficacemente,
neanche a fronte di comportamenti illeciti.
Ma soprattutto, il mercato finanziario globale non è un libero
mercato.

Biggeri, ma che sta dicendo! È il luogo del liberismo!


Forse sì, ma viene insegnato all’università che un mercato per
essere libero deve dare a tutti le stesse opportunità, le stesse
informazioni, e ci deve essere concorrenza.
Se prendiamo il mercato dei derivati, otto banche ne controllano
circa il 60 per cento dei volumi (Deutsche Bank, Barclays, JP
Morgan Chase, Citigroup, Bank of America, Credit Suisse, Bnp
Paribas, Hsbc).
Le ventinove banche e istituzioni finanziarie sistemiche che ci
sono al mondo controllano la quasi totalità dei volumi di scambi
finanziari globali: sono quindi in grado di orientare le scelte
economiche e politiche dei governi, di impedire cambiamenti a un
sistema che mantiene e accresce ricchezza e potere nel mondo
finanziario stesso. A titolo di confronto, il Pil mondiale, pur in via di
concentrazione, non è assolutamente controllabile da un numero
così esiguo di imprese.
Queste grandi imprese finanziarie agiscono di fatto come un
oligopolio. Quindi, incredibile ma vero, c’è poco libero mercato nella
finanza globale.
Che rapporto hanno questi mercati con le persone, la loro vita, le
comunità? Non c’è nessun rapporto, nessun controllo. Anzi:
paradossalmente domina l’illusione che, anche quando si specula o si
distrugge l’economia di un paese, si stia operando al meglio secondo
le leggi del mercato. È come se la sua mano invisibile ormai fosse la
finanza: un’assurdità, che però ci sta spingendo a smantellare il
welfare in Europa. È davvero ragionevole considerare che la Apple
valga molto di più rispetto alla Grecia? Ne riparliamo tra qualche
centinaio di anni e vediamo chi ci sarà ancora?
La finanza non è sempre stata così, basti pensare che fino agli
anni Sessanta essa non era neppure considerata un settore
produttivo dell’economia, ma solo uno strumento volto a trasferire la
ricchezza generata da altre attività. Solo dagli anni Settanta,
complice una vasta deregolamentazione, il modo di agire della

89
finanza è cambiato, assumendo il volto con cui oggi la conosciamo.
A essere critica non è solo l’ampiezza del settore finanziario, ma
l’influenza che questo esercita sul comportamento dell’intera
economia, fatta di persone e del frutto del loro lavoro.
«Da un grande potere derivano grandi responsabilità!»
sentenziava lo zio di Spider-Man. Ecco, questo sembra non valere
per la finanza, che, pur esercitando un grande impatto sulla società e
sulle nostre vite, individuali e collettive, ne rimane sempre a una
certa distanza quando si tratta di assumersi delle responsabilità.

Dopo Paperone ci cita Spider-Man… I suoi riferimenti culturali


sono notevoli, Biggeri: le posso consigliare un buon analista?
Non si distragga proprio quando parliamo di responsabilità, la
prego. L’irresponsabilità nella finanza ha varie facce. Una delle più
rilevanti riguarda la tassazione: nonostante i progressi e i formidabili
cambiamenti avvenuti nel campo finanziario, la finanza speculativa
internazionale, quella delle migliaia di scambi giornalieri su mercati
che valgono svariate volte il Pil mondiale, continua a essere
sostanzialmente non tassata.
Il sistema fiscale, saldamente agganciato a idee e categorie
presenti da fine Ottocento, tassa il lavoro, le imprese, i consumi, le
rendite, i cittadini… Sostanzialmente tassa il Pil. Anche le banche
vengono tassate, e in misura significativa. Sui movimenti finanziari,
invece, non ricadono con lo stesso peso né controlli né tasse. È
possibile arricchirsi vendendo e comprando da soggetti diversi
prodotti finanziari decine di volte in un giorno, senza mai pagare
alcuna tassa o pagandone solo una a fine giornata. Se facciamo un
paragone con la vita delle persone e delle imprese, qualcosa non
torna. Il buon senso vorrebbe che le tasse fossero dove c’è ricchezza,
e oggi le fortune sono negli scambi finanziari internazionali.
Questi soldi, dunque, non vengono tassati, non sono nel Pil e
neppure nella Borsa, ma in mercati strani che spesso non
conosciamo, come quello degli scambi valutari o quello dei derivati
che insieme sono decine e decine di volte il Pil.
Inoltre, non solo non si traducono in retribuzione per i lavoratori,
ma neppure finanziano l’economia reale! Si tratta di ricchezze spesso
drenate, sottratte a qualunque forma di interesse pubblico. Non
sorprende, dunque, che le classifichiamo a pieno titolo fra i «soldi
che non danno la felicità».

90
I PARADISI FISCALI

Senta, ma nei paradisi fiscali anche i poveri possono bere


champagne?
I paradisi fiscali non sono per i poveri. Anzi, non sono proprio
ammessi. Un paradiso fiscale è uno Stato che garantisce un prelievo
fiscale basso o addirittura nullo sui depositi bancari e sulle attività
finanziarie. Non sono per tutti, perché trovare i canali giusti per
rimanere nella legalità ha un costo, ma ormai si trovano anche siti
online che invitano chiunque a usare i paradisi fiscali.
La definizione non è banale, perché ufficialmente le liste nere
contengono solo pochi stati piccoli ed esotici. Ma se si considerano i
dati di una ong indipendente come Tax Justice Network, che
pubblica un report chiamato Financial Secrecy Index, accanto alle
Isole Vergini britanniche o alle Cayman, si trovano anche Usa,
Svizzera, Lussemburgo, Olanda e Giappone. Questo perché secondo
Tax Justice Network non conta solo l’elusione fiscale (cioè far sparire
traccia dei soldi per non pagare le tasse), ma il livello di segretezza
delle operazioni e anche l’ottimizzazione fiscale, e quindi l’uso legale
di spostare le sedi fiscali laddove si pagano meno tasse.
Quindi, più che la definizione stringente sui paradisi fiscali conta
il principio di differenziare tra una regolamentazione più agile per
operare (cioè utile e spesso migliore che in altri stati) e lo
spostamento fittizio dei soldi e dei profitti per pagare meno tasse.
Purtroppo non è così banale cogliere la differenza, ma quando
un’impresa ha decine e decine di società partecipate con sedi in tanti
paesi a rischio o in veri e propri paradisi fiscali, allora non ci vuole
Sherlock Holmes per capire che non è una questione di
regolamentazioni più semplici. I motivi devono essere oscuri come la
spiegazione che viene balbettata quando si chiede ragione della
necessità di avere tutte quelle società.
I paradisi fiscali o simili usati in questo modo hanno molte
conseguenze negative. La competizione fiscale è assolutamente
deleteria perché sottrae risorse alle finanze pubbliche determinando
meno servizi civici. Generano poi una corsa al ribasso a favore delle
grandi aziende a cui gli stati (anche l’Italia) offrono sconti sulle tasse.
Facilitano i traffici illegali e le attività criminali, determinano una

91
concorrenza sleale tra le imprese multinazionali e quelle locali.

Però i governi sono sempre contro i paradisi fiscali…


Senza guardare nei giardini altrui, evidentemente i governi
italiani predicano bene e razzolano male. Di tutti quelli che abbiamo
avuto, nessuno ha messo mano al fatto che Eni ed Enel (di cui il
ministero dell’Economia e delle finanze è il maggior azionista)
possiedano decine di società nei paradisi fiscali.

FINANZA E MAFIA

Pare che la nota frase pecunia non olet sia stata pronunciata
dall’imperatore Vespasiano, che introdusse una tassa sugli orinatoi.
Di fronte alle rimostranze del figlio, a cui la cosa forse sembrava
inopportuna, prese una manciata di monete e gliele fece annusare.
«Questi sono i soldi delle tasse! Puzzano? No.»
I soldi hanno meno memoria di un pesce rosso, non ricordano la
penultima volta che sono passati di mano. In questo senso non
hanno storia, non hanno responsabilità e non possono avere colpe.
La facilità con cui i capitali si spostano nel mondo, oltre al fatto
che non hanno memoria, non ha uguali rispetto ad altri servizi, beni
o persone. I numeri di passaggi, anche giornalieri, che si possono
fare sono altissimi. Inoltre la finanza è per sua natura riservata e se
vuole può diventare opaca, legata solo all’aumento dei volumi
monetari e non certo alle storie che produce. Infine oggi essa è il vero
motore della globalizzazione e dell’economia mondiale.
È logico, quindi, che la criminalità, che ha un sacco di soldi, sia
interessata all’ambito in cui al giorno d’oggi si realizza il massimo del
potere e della ricchezza. La finanza internazionale, dunque,
garantisce potere, riservatezza, possibilità di enormi guadagni,
sostegno dagli Stati. Una situazione ideale per gli interessi
dell’economia criminale.
Com’è stato ben messo in evidenza dalla commissione Antimafia,
esiste una vera e propria strategia della sommersione da parte delle
organizzazioni criminali. Alla luce di queste caratteristiche in
comune, la finanza – così inodore – non può che essere
strutturalmente una buona alleata della criminalità. Non che lo sia
per sua volontà, ma viste le sue caratteristiche è lo strumento ideale

92
attraverso il quale mettere in circolo e «ripulire» i proventi delle
attività delinquenziali.
Nella consapevolezza di questo legame, esistono varie normative e
attenzioni antiriciclaggio. Quando le banche fanno firmare un sacco
di fogli, in realtà, si accertano dell’identità di chi ha il conto e cercano
di capire se ci sono spostamenti di denaro sospetti. Alla base,
dunque, non c’è tanto un atteggiamento burocratico inquisitorio
quanto un’attenzione a contrastare questo tipo di fenomeni. In Italia
vengono fatte annualmente attorno a 100.000 denunce all’Unità
d’informazione finanziaria (Uif), la sezione della nostra banca
centrale che si occupa delle segnalazioni sui movimenti di denaro
sospetti. Di queste solo mille riguardano il tema del terrorismo,
mentre le altre coinvolgono più spesso la corruzione, il riciclaggio di
denaro o le attività criminose e potenzialmente mafiose. Certo, non
tutte queste segnalazioni hanno dietro un reato, ma il numero rende
l’idea. Sempre per contrastare il riciclaggio sono state varate una
serie di leggi che consentono di sequestrare i beni acquisiti
attraverso attività illecite – si parla di confische allargate, quindi
riguardano anche i patrimoni dei congiunti – e di «restituirli» alla
società. Si parla di ville, terreni agricoli e aziende che secondo la
legge devono essere assegnati a imprese sociali, affinché li utilizzino
nell’interesse comune.

DISUGUAGLIANZE E DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL MONDO

Intanto è importante avere ben chiaro che la ricchezza non è


distribuita proprio benissimo.
L’1 per cento più ricco del mondo detiene più del doppio della
ricchezza dei restanti 7,5 miliardi di persone, e spesso la colloca in
strumenti finanziari complessi.

Scusi, allora avevano ragione i ragazzi che scesero in strada a New


York con il movimento Occupy Wall Street nel 2011!
Davvero, proprio così. Al sorpasso dell’1 per cento della
popolazione rispetto al restante 99 per cento ci siamo arrivati nel
2016. Infatti, le disuguaglianze sono aumentate negli ultimi anni.
Negli Stati Uniti la percentuale dell’aumento dei profitti delle grandi
compagnie è andata quasi completamente agli azionisti, mentre solo

93
per l’1-2 per cento ai lavoratori. E nel mondo in generale i salari non
sono cresciuti, pur crescendo la ricchezza complessiva.
«Se tutti si sedessero sulla propria ricchezza sotto forma di una
pila di banconote da 100 dollari, la maggior parte dell’umanità
sarebbe seduta al suolo. Una persona della classe media di un paese
ricco si siederebbe all’altezza di una sedia. I due uomini più ricchi del
mondo sarebbero seduti nello spazio» si trova scritto nel rapporto
Avere cura di noi rilasciato da Oxfam nel 2020.
Mentre la ricchezza nel mondo, anche a seguito della crisi del
2008, ha continuato ad aumentare, allo stesso modo, sia
globalmente sia nei singoli paesi, le disuguaglianze – nel reddito, nei
consumi, nell’accesso alle cure, nell’istruzione e nella speranza di
vita – sono sempre più profonde.
Gli economisti sanno che l’idea di abolire del tutto le
disuguaglianze è velleitaria, ma delle disparità eccessive provocano
stagnazione economica e rendono il conflitto sociale insostenibile.
Sono sessant’anni che si parla della necessità di ridurle anche
favorendo l’aiuto pubblico allo sviluppo (nella misura dello 0,7 per
cento del Pil). Non è stato mai fatto seriamente.

… e oggi forse non possiamo meravigliarci se abbiamo le


migrazioni.
Le migrazioni ci sono sempre state, e la spinta più forte a migrare
è data proprio dalle disuguaglianze.
Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, ha rimarcato che gli
esseri umani sono irriducibilmente diversi fra loro e che non
dobbiamo essere tutti uguali. La disuguaglianza, tuttavia, diventa
nociva per la vita umana quando le persone non hanno modo di
sviluppare le proprie capacità. Quando non hanno la possibilità di
cogliere le opportunità della vita. Se una persona ha un talento e non
riesce a metterlo in atto perché si trova in una situazione
particolarmente svantaggiata, perché è povera, perché è malata,
questo è un danno alla vita della persona e della collettività. Volendo
pensare in termini macro, neppure all’economia fa bene se le
persone dotate di talento non possono coltivarsi e crescere, se è
possibile emergere solo se appartieni a una famiglia benestante. Nel
lungo periodo, anche coloro che detengono i privilegi risentiranno di
questa ingiustizia, ritrovandosi con meno persone che possano
creare economia e consumare.

94
OROSCOPO FINANZIARIO

Secondo un famoso economista del Novecento, Ezra Solomon, «la


sola funzione delle previsioni in campo economico è quella di
rendere perfino l’astrologia un po’ più rispettabile», quindi, per
alleggerire questo capitolo pesante sui soldi che non danno la felicità,
facciamo l’operazione inversa e vediamo se a partire dall’astrologia
riusciamo a rendere rispettabili le previsioni finanziarie.

Nel 2021 si assisterà al cambio della guardia di Urano che


dall’Ariete sconfinerà in Toro, a inizio marzo. Come tutti sanno il
simbolo di Wall Street è il toro e quando la Borsa sale e va forte si
dice che è «in Toro». Alla faccia dell’Ariete e delle previsioni di
recessione, conviene investire in Borsa. Il passaggio sarà
contrastato da Plutone che entra nella costellazione dell’Orsa e si
scontra con Titano postergandolo. La Borsa va «in Orso», che come
tutti sanno vuol dire che è in calo. Quindi conviene non investire in
Borsa, ma speculare al ribasso e a manetta sui derivati del cibo.
Non dimentichiamo l’influenza della Vergine: se la si vede
transitare tra Forlì e Cesena bisogna vendere i propri titoli di stato,
ma di corsa!
Infine, nel campo dei derivati, se lo Scorpione facesse una
fusione con la Stella del mattino, allora come al solito non ci
capiremmo nulla lo stesso.
I mercati sono estremamente volubili ed emotivi, come è stato
accennato in questo capitolo.
Si racconta che Isaac Newton ebbe qualche sfortuna con le Borse:
vi investì il proprio denaro e lo perse. In seguito a questa esperienza,
pare che abbia affermato: «So calcolare i movimenti dei corpi celesti,
ma non la pazzia della gente».
Chi volesse proprio scommettere, puntando anche su un futuro
migliore, è invitato a non usare la plastica, a mangiare cibo del
territorio, e a cercarsi un fondo pensione attento al clima.

95
I soldi che danno la felicità

Se a governare i soldi sono avidità e individualismo, i soldi


ripagheranno con speculazione, disuguaglianze e divisione sociale.
Se invece a governarli sono la solidarietà, l’attenzione alla società e
all’ambiente, assumeranno una funzione sociale, restituendo equità,
benessere diffuso e armonia con la natura. Orientati nella giusta
direzione, i soldi hanno tutto il potenziale per essere strumento di
democrazia e giustizia.
Il denaro dà felicità tutte le volte che aiuta le persone, rafforza le
relazioni, favorisce l’innovazione o, in generale, contribuisce a
generare bellezza: anche se non parliamo di grandi cifre.

Però se devo scegliere tra tanti e pochi soldi, direi meglio tanti…
Perché, è una scelta che capita di fare? Cioè arriva qualcuno, il
gestore del contatore che trasforma tempo in denaro, e ci chiede se
ne vogliamo poco o tanto? Così, in cambio di niente?
Quindi non confondiamoci, i soldi – se arrivano – arrivano a
seguito di tempo dedicato a ottenerli: sono il nostro tempo
trasformato in moneta, cosa che tendiamo a dimenticare.
Di mezzo ci sono le nostre scelte individuali, certo, ma anche la
lotteria della vita.
Per la maggior parte di noi guadagnare vuol dire spendere tempo,
e cioè vita. C’è chi ha la fortuna di fare un lavoro che gli piace o che
viene retribuito particolarmente bene. Per chi, invece, trasforma il
proprio tempo in denaro soffrendo, annoiandosi o maledicendo ogni
minuto che passa, il denaro ha un costo altissimo!
Nonostante le forti disuguaglianze che vive la nostra società, vale

96
sempre ciò che abbiamo descritto all’inizio del libro: a fare la
differenza non è quanti soldi abbiamo, ma il modo in cui li
spendiamo e risparmiamo, quanto tempo dedichiamo a quello che
per noi ha valore e come tutto questo impatta sulle persone che ci
stanno più o meno vicino.
Quindi, forse è meglio cambiare punto di vista, lavorare e
spendere «quanto basta», misurare i soldi non in base al «quanto»
ma al «come» e al «cosa». Cosa possono produrre, cosa generano,
che relazioni nutrono… avremmo delle sorprese.

L’ha detto perfino il papa!


Biggeri, lei filosofeggia e forse anche gira intorno alla domanda.
Niente affatto. È una cosa molto più concreta di quanto non
sembri. I soldi danno la felicità quando escono dagli schemi
esclusivamente finanziari, quando generano qualcosa per tutti:
solidarietà, dono, valori intesi in senso non monetario. In sostanza,
quando agiscono con obiettivi non economici, facendo allo stesso
tempo funzionare l’economia.

Si direbbe che papa Francesco abbia scaricato le lezioni del corso di


finanza etica I soldi danno la felicità. Ha fatto delle dichiarazioni
assolutamente in linea con la sua visione!
Be’, sì, sono piacevolmente sorpreso. Da qualche anno la Chiesa
esprime forti critiche alla finanza.
Per tanto tempo ci eravamo scordati tutti delle condizioni alle
quali si poteva fare finanza applicando un tasso di interesse (fino al
1512 l’interesse era proibito dalla Chiesa!): finanziare l’economia
reale, premiare l’intraprendenza, non speculare, non fare azzardo.
Invece ora basta citare uno degli ultimi documenti della
Congregazione per la dottrina della fede, Considerazioni per un
discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema
economico-finanziario (del 17 maggio 2018), che ha il pregio non
solo di parlare di argomenti che sono molto vicini alla finanza etica,
ma di prendere anche una posizione pratica contro la speculazione e
i derivati, proponendo una «tassa sulle transazioni compiute
offshore». Insomma, pare che per la Chiesa i paradisi fiscali siano un

97
inferno!

Secondo lei, papa Francesco vuole dire questa cosa ai suoi o a tutti
noi?
A tutti noi. Ed è il frutto di un percorso cominciato da tempo.
I documenti di rilievo più recenti sono stati le encicliche Caritas
in veritate di Benedetto XVI, con il ragionamento sulla
responsabilità morale indiretta, e Laudato si’ di Francesco, che
affronta di petto le questioni economiche esortandoci a essere
efficienti nel misurare gli impatti sociali e ambientali. Indicando,
quindi, che oggi non lo siamo perché consideriamo l’efficienza solo
una questione economica. La Laudato si’ ha avuto eco anche in
ambienti non cattolici: soprattutto per aver affrontato i temi
ambientali e sociali con un taglio economico.

I soldi che si danno, danno la felicità: mi regala


100 euro?
Allora cominciamo da una cosa facile: se uno ti regala dei soldi di
solito sei contento. Su questo siamo tutti d’accordo?
Si narra vi siano casi di vincitori al lotto che, diventati d’un tratto
milionari, si sono rovinati la vita. Forse anche in questo caso era
stata violata la regola del Qb: il «quanto basta» delle ricette della
nonna.
In generale, però, sì, i doni rendono felici, e non solo perché
riceverne ci ricorda l’infanzia. In economia il dono ha una funzione
importante e anche un po’ rivoluzionaria, perché va al di fuori degli
schemi classici del do ut des – ti do affinché tu mi dia –, proponendo
un modello alternativo di comportamento basato su reciprocità e
solidarietà.
Come abbiamo già visto, per buona parte della storia l’economia,
soprattutto prima della diffusione del denaro, è stata regolata dagli
equilibri della reciprocità, dall’aiuto reciproco che ci si scambiava nel
tempo. In tal caso il dono rischiava di sovrapporsi al debito, ed
essere e sentirsi in debito non è sempre positivo.
Il denaro, potendo essere donato più facilmente e godendo di una

98
grande versabilità – si può, cioè, trasformare in quello che
preferiamo avere –, apre delle potenzialità più semplici e più libere
per fare solidarietà. Per esempio, oggi è possibile donare a persone
che non si conoscono, o per una causa che ci sta a cuore, ma che non
ci impegna in prima persona. È più facile lasciare la responsabilità di
usare bene il dono a chi lo riceve con un atteggiamento (tipicamente
anglosassone e poco latino, in realtà) di liberazione dalle
responsabilità, perché ognuno si assume le proprie. Io posso elargire
una donazione perché ritengo mia responsabilità farla e perché me lo
posso permettere, ma non interferisco su come verrà usata perché lì
inizia la responsabilità esclusiva di chi ha ricevuto il dono.

Una pacchia, mi danno dei soldi, ma poi non controllano!


Di certo se si vuol fare il furbo, ma di base si tratta di una grande
libertà sia per chi dona sia per chi riceve. La fiducia genera fiducia e
chi riceve un dono, perché ritenuto capace di farne qualcosa di
positivo, solidale e virtuoso eccetera, tendenzialmente poi ne fa un
buon uso.
Le discipline economiche tradizionali, con l’eccezione del filone
dell’economia civile, tendono a ignorare il valore del dono, ma esso,
come moltissimi di noi hanno la fortuna di sperimentare, riveste un
ruolo essenziale nelle nostre vite e nella stessa economia. Il dono è
un indicatore di coesione sociale, di impegno civico, di salute della
società. Implica la responsabilità, l’altruismo, la cura verso ciò che in
questo modo cerchiamo di sostenere.
In generale è la cosa pubblica che si occupa di redistribuire, fare
mutualità, prendersi cura. Demandare questa funzione allo Stato,
tuttavia, non è di per sé sufficiente alla buona salute della società.
Donando, i cittadini tengono in allenamento il muscolo della
coesione sociale ed esercitano la libertà di indirizzare risorse laddove
lo Stato non arriva, non può arrivare o forse non arriverebbe mai se
non stimolato dai suoi cittadini.
Del resto, oltre a regalare i soldi, tutte le persone fanno
continuamente dono di beni e di tempo, di cura, anche di elevazione
culturale. Spesso senza accorgersene!
Si pensi a tutte le volte che amici e parenti ci cucinano una cena, o
riparano un’anta rotta dell’armadio, ci aiutano a guardare i figli, o
ancora ci ascoltano e supportano. Per indicare tutti quei lavori di
cura e di relazione che, non avendo un prezzo, tendiamo a non

99
considerare «lavoro», ma senza i quali la nostra società e la nostra
specie andrebbero in malora, lo scrittore Ivan Illich aveva coniato
l’espressione «lavoro ombra».

Che non è lavoro nero, vero?


Esatto. Svolgiamo un lavoro ombra tutte le volte che facciamo
volontariato, che condividiamo gratuitamente informazioni e
conoscenze con gli altri, che generiamo bellezza. Se facciamo un
dono che abbiamo prodotto noi stessi, chi lo riceve spesso lo
apprezza di più perché riconosce il tempo, l’abilità e la cura che
abbiamo dedicato a realizzarlo. Facciamo lavoro ombra anche
decidendo di svolgere un lavoro utile alla collettività, accettando una
remunerazione inferiore rispetto ad altre possibili attività e ancora
autolimitando le nostre possibilità di guadagno per avere maggiore
tempo per altre cose che contano nella vita.
Le sfumature del dono possono essere molto diverse. Si può
donare a un parente, ad amici o a sconosciuti. Ci si può attendere un
ritorno in termini di riconoscenza e di risultati, ma anche no. Si
possono cercare dei benefici o non avere degli interessi diretti.

Fare un dono ai propri figli non richiede uno slancio così grande…
In linea di massima, è più facile essere generosi con i nostri cari e
con le persone vicine. Spesso, tuttavia, lo siamo anche con gli
sconosciuti, sovvenzionando le cause e le associazioni in cui
crediamo e che vogliamo sostenere.
I doni contengono al proprio interno un valore non monetizzabile,
che non può essere semplificato e svilito ai dati che misurano
l’influenza del periodo di Natale sul Pil del paese.

Lei intende come dono anche l’agendina che le banche di solito


regalano ai correntisti a Natale? O quello è più marketing?
Quello, secondo me, fa parte di come abbiamo travisato il dono.
La stessa storia del Natale è diventata un po’ una parabola di questa
svalutazione del dono, relegato nell’angolo della bontà, senza
tuttavia includere la giustizia o il benessere collettivo.
Ripensiamo ai Vangeli. I Magi portano dei doni, che
evidentemente non sono dei regali (qualcosa che vale solo per il
prezzo che ha). Il loro dono non è nei simboli (oro, incenso e mirra),
ma nell’atto che compiono: riconoscono, testimoniano e avvisano il

100
mondo del dono che è Gesù stesso.
Infatti, non risulta che dopo i Magi la sacra famiglia si sia spostata
in un albergo di lusso, o che in seguito Giuseppe abbia aperto
un’impresa di falegnameria su larga scala, o che abbiano poi vissuto
negli agi. La loro vita, nonostante i Magi, è restata semplice: il dono
dei Magi muove un popolo, produce ricchezza sociale, cambiamenti
della storia, ma non produce ricchezza monetizzabile.

Guardi che ormai i regali di Natale è Babbo Natale a farli!


Sì, è vero, ma il modo in cui viene presentata la sua figura rischia
di farci dimenticare, e forse perdere, il profondo significato che ha il
dono e di trasformarsi in un obbligo ad acquistare regali di cui
spesso neppure abbiamo bisogno.
Pochi sanno che Babbo Natale in realtà è sepolto a Bari da un
migliaio di anni, e per altri otto secoli era stato sepolto a Mira. Si
dice che san Nicola, vescovo di quella città dell’attuale Turchia,
togliesse le ricchezze alla sacrestia per donarle ai più poveri come
atto di giustizia.

Babbo Natale sepolto a Bari… Ha gettato nel panico milioni di


bambini! I baresi lo sanno? E poi chi lo ha venduto alla nota
azienda americana della bevanda nera con le bollicine?
Nessuno lo ha venduto, in questo caso la nota azienda americana
l’ha usato senza pagare le royalties e poi l’ha un pochino sterilizzato
e travisato, facendolo diventare tutt’altra figura rispetto al vescovo di
Mira in Anatolia e al Nikolaus che girava in Nord Europa. Da noi no,
perché noi italiani avevamo san Nicola/Babbo Natale in casa, ma ci
piaceva di più la Befana.

Il business di Babbo Natale, dunque, dopo averlo trafugato agli


anatoli (come cavolo si dice?) lo abbiamo regalato prima ai
tedeschi e poi agli americani… Più che un dono, una pirlata!
Se rendi disponibile ad altri qualcosa, ma non lo fai con
intenzione e succede per caso o per indifferenza, non è un dono. È
come se metto fuori in strada la roba che stava in cantina per
liberarmene. Non sto regalando nulla: svuoto la cantina e basta!

E magari prendo una multa per abbandono di rifiuti. Ma non


divaghiamo troppo. Qua si parla di soldi! Si possono regalare

101
soldi?
Ha toccato un punto interessante. Pare che oggi sia quasi illegale
regalare dei soldi perché uno pensa sempre che ci sia un pagamento
in nero, una corruzione, un qualcosa di losco. Comunque è possibile,
anche se non così facile, soprattutto se si superano certe cifre e se si
regalano, per esempio, a delle persone e non a delle onlus o ad altri
tipi di organizzazioni.

Cioè, la giustificazione «ho regalato 1200 euro all’idraulico» regge


poco.
No, non regge, ed è giusto così. Trasformare la pratica del dono in
una cosa da furbi-evaditasse è svilente, non trova? D’altra parte, è
importante che le persone possano donare, perché fa bene a chi dona
e a chi riceve!

DONO 2.0. IL CROWDFUNDING

L’economia digitale ci ha dato delle opportunità in più, anche


quando si tratta di donare. A oggi trasferire denaro o consegnare
doni (materiali o meno) è più facile che mai: non serve neppure
aprire il portafoglio, basta un computer o un telefono. La tecnologia
ci ha aperto nuove possibilità, consentendo alla nostra generosità di
oltrepassare i confini e di arrivare lontano.
Il crowdfunding, in particolare, è una modalità di donazione tanto
diffusa quanto affascinante. Qualunque realtà giuridica o persona
fisica, che abbia bisogno di denaro per avviare progetti sociali,
culturali, di ricerca o iniziative che abbiano una qualche forma di
interesse collettivo, può richiedere donazioni attraverso il
crowdfunding. Tantissime organizzazioni del terzo settore lo fanno
regolarmente, spesso congiuntamente alla richiesta di un prestito.
Gli italiani, d’altra parte, rispondono bene a queste richieste: basti
pensare che il 20 per cento della popolazione è abituato a donare
soldi per un ammontare complessivo di qualche miliardo di euro
l’anno, anche se la tendenza appare un po’ in calo.
Crowd vuol dire «folla» e funding sta per «raccolta fondi». Se
goccia dopo goccia si fa un fiume, una folla che a seconda delle
proprie possibilità dona 10, 20 o 100 euro, chi ha aperto la raccolta
fondi può riuscire a raccogliere anche grandi somme e realizzare

102
quanto si era proposto.

Ma è meraviglioso: ho un’idea, la metto su internet e tutti mi danno


soldi.
Non è così facile. Bisogna individuare coloro che potrebbero
sostenere la causa, comunicare in modo efficace quello che si vuol
fare, suscitando l’interesse delle persone. Conviene anche
appoggiarsi a una piattaforma specializzata nel crowdfunding perché
ha già un pubblico attento e disponibile.
Infine, bisogna determinare il tempo giusto di apertura della
raccolta, decidere se si raccoglie tutto o se invece, al di sotto di un
certo importo, si restituiscono i soldi perché non è stata raggiunta la
soglia minima per avviare il progetto. O ancora, va deciso se in
cambio della donazione intendiamo offrire qualcosa, per esempio il
bene che si è prodotto, un biglietto per eventuali spettacoli oppure
«ricompense» più simboliche. In tal caso, quando chi chiede
sostegno al proprio progetto si impegna ad attuare una forma di
reciprocità in caso di successo, si parla di reward crowdfunding.

LA BARCHETTA IN MEZZO AL MARE

Visto che ha lavorato in una banca etica, ha esperienza anche con il


crowdfunding?
Sì, soprattutto sulla piattaforma Produzioni dal basso in cui esiste
una sezione dedicata ai progetti promossi da Banca Etica o dai suoi
soci. Alcuni di questi, selezionati con appositi bandi, ottengono da
Banca Etica e da Etica Sgr un sostegno diretto pari al 25 per cento
dell’importo indicato come necessario.
Abbiamo anche esperienza nell’equity crowdfunding, che però
riguarda gli investimenti. Si tratta di una tipologia di crowdfunding
con la quale gli investitori entrano nel capitale sociale (equity) di una
società, condividendo il «rischio d’impresa» con i soci già esistenti.
In questo caso non si è donatori, ma azionisti disposti a rischiare.
Banca Etica è inoltre partner delle piattaforme StarsUp – per startup
e piccole imprese innovative – ed Ecomill, specializzata in ambiente
e territorio.

Tornando al dono, promuovete solo progetti da poche migliaia di


euro o anche più grossi?

103
Se l’importo e il periodo di tempo sono maggiori rispetto a una
comune raccolta si parla di civic crowdfunding. È adatto a pubbliche
amministrazioni, istituzioni, grandi organizzazioni o reti associative
della società civile e si realizza per grandi iniziative. Abbiamo avuto
diverse esperienze di questo tipo, ma la più significativa è stata con
Mediterranea e la nave Mare Jonio, che hanno raccolto oltre un
milione di euro.

La nave italiana che quando può salva i migranti nel


Mediterraneo? Vuole dire che c’è dietro Banca Etica?
Sì, quella. Mediterranea è una piattaforma di realtà della società
civile presente nel Mediterraneo centrale nell’attività di
monitoraggio, testimonianza e denuncia della drammatica situazione
che vede costantemente uomini, donne e bambini affrontare enormi
pericoli nel silenzio e nella complice indifferenza del governo italiano
e di quelli degli altri paesi europei. Banca Etica ha fatto soprattutto
da banca – prestando dunque il denaro necessario –, ma ha anche
contribuito a progettare finanziariamente l’iniziativa e promosso il
crowdfunding. D’altra parte, è anche una questione di coerenza.
Siamo stati un popolo di migranti e lo siamo ancora. Siamo vicini
alle realtà che si impegnano sia nei paesi meno ricchi sia in Italia,
perché non dovremmo portare il nostro aiuto anche in mezzo al
mare?

IL TEMPO NON È DENARO

Ho un dubbio: se, come dice il grande ex presidente Mujica, quando


compro qualcosa compro il «tempo risparmiato» per
autoprodurmi quella stessa cosa, allora, quando dono denaro,
regalo tempo? E se regalo denaro sto regalando anche il denaro che
con quei soldi avrei potuto guadagnare nel tempo? Il tempo è
denaro? Ho mal di testa… mi regala un po’ di tempo per capire
perché?
Sebbene il denaro lo otteniamo spendendo il tempo della nostra
vita, e regalando soldi o beni possiamo far risparmiare tempo a
qualcun altro, è solo nella matematica finanziaria che troviamo una
relazione diretta fra il tempo e il denaro.
«Il tempo è denaro», per dire, è un’affermazione vera solo se

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regolata da un contratto finanziario, altrimenti è un’ipotesi, una
speranza. Che però ci è entrata in testa come fosse realtà. Un po’
come se, passando dai soldi alle uova, una persona volesse
convincerci a vendere un uovo al valore che potrebbe avere quando,
con il passare del tempo, si schiuderà e diventerà un pollo. Provi ad
andare al mercato a farlo e vediamo quanti ne vende…

Lei deve aver avuto fame da piccolo: trasforma tutto in cibo o in


esempi rurali… Quindi il tempo non è denaro?
No di sicuro. Soprattutto non lo è sempre. Se sono pagato 10 euro
l’ora e poi spendo 10 euro per una torta, di fatto, come dice Mujica,
sto pagando quella torta con un’ora del mio lavoro. Ma non è che se
poi chiacchiero un’ora con un’amica o faccio una passeggiata
qualcuno mi deve 10 euro. Invece la finanza vede nel trascorrere del
tempo la necessità ineluttabile di far fruttare il denaro. Come,
appunto, se ci fosse un’equivalenza tra tempo e denaro.
Il tempo intanto è, in fisica, una variabile a sé stante. Ma più in
generale indica il passare della nostra vita, quindi è lo «spazio» in
cui si svolgono le relazioni, le interazioni con il mondo che ci
circonda, in cui sentiamo le nostre sensazioni e quelle altrui. In cui si
può essere felici, tristi, allegri, arrabbiati, sereni o frustrati. È su
questa relazione complessa con il tempo che scorre che dovremmo
valutare le nostre azioni, non sull’ipotetica connessione tra tempo e
denaro. Infatti, il denaro è in un rapporto importante con le nostre
vite perché lo usiamo molto per tantissime cose, ma è uno
strumento, non un fine.
Quindi, decisamente, il tempo non è denaro. In un certo senso i
teologi medioevali che condannavano il prestito a interesse perché
«il tempo è di Dio» non avevano considerato la funzione del denaro
come riserva di ricchezza, ma avevano comunque avuto
un’intuizione su cui ancora oggi possiamo riflettere.

Molto profondo, secondo me lei ha un po’ copiato Mujica… Quindi


quando regalo denaro, regalo tempo? Sì o no?
In un certo senso è proprio il denaro donato che può essere tempo
risparmiato, perché chi riceve denaro lo può usare senza aver dovuto
dedicare del tempo a guadagnarlo. Ma è un po’ riduttivo, perché in
realtà non esiste una contabilità del genere. Se si dona non c’è solo la
razionalità, il conteggio di quanto costa donare e di quanto tempo si

105
dedica a chiedere agli altri un dono. C’è qualcosa di passionale, di
profondo. C’entrano la solidarietà, la speranza di un futuro migliore,
la compartecipazione.
Quindi donare ha a che fare con tutto questo, che lo si faccia con i
soldi o in un’altra modalità.

I soldi consapevoli danno la felicità: percorsi di


consapevolezza economica
Esiste un proverbio, caro a don Lorenzo Milani, che ci fa capire cosa
si possa intendere con soldi consapevoli: «È ladro tanto chi ruba
quanto chi tiene il sacco».
La responsabilità morale indiretta funziona in modo analogo: se
partecipiamo a un’azione economica negativa non ci possiamo
nascondere dietro il «non sapevo». Abbiamo comunque dato il
nostro contributo, magari vendendo o comprando a basso prezzo un
prodotto per il quale i lavoratori più deboli sono stati pagati poco e
male.
Oggi si è persa la visione della catena delle responsabilità:
semplicemente non sappiamo e non capiamo più cosa ci sia dietro
ciò che compriamo o facciamo con i soldi. Ci piace di più il
proverbio: «Occhio non vede, cuore non duole». La conseguenza è
che il passo dalla non-responsabilità all’irresponsabilità può essere
breve. La frammentazione dei processi produttivi, la loro
specializzazione e standardizzazione rompono legami relazionali
altrimenti spontanei, che implicitamente rappresentano anche una
sicurezza sull’«onestà» del mercato.

Ma non è che ci mette un po’ di angoscia invece che di felicità, se ci


fa sentire tutti responsabili?
Alla responsabilità non si sfugge. Essere informati dovrebbe dare
consapevolezza, non angoscia. Inoltre, la felicità è meno duratura se
uno fa finta di non sapere e coinvolge meno persone rispetto al caso
in cui si fanno delle domande e si fa la nostra piccola parte per
migliorare le cose. Sia con gli acquisti sia con le domande.
Per capirci meglio: quando un processo produttivo avviene a

106
livello locale tra persone che si conoscono (per esempio, lungo la
filiera che porta un prodotto alimentare dal campo alla tavola),
difficilmente si hanno prodotti scadenti o dannosi, come spesso si è
verificato negli ultimi anni con i tanti scandali in campo alimentare.
Ma all’allungarsi delle filiere produttive non dovrebbe corrispondere
la diluizione della responsabilità, fino ad arrivare appunto
all’irresponsabilità.
Le domande di responsabilità sulle filiere produttive, anche
quando sembrano non aver risposta, costringono le imprese a stare
più attente, e anche i cittadini.

SCEGLIERE LA SOBRIETÀ

I percorsi di consapevolezza economica ci fanno capire dove


spendiamo il denaro e gli effetti che causano le nostre spese. E alla
fine, di solito, ci si accorge che abbiamo bisogno di meno soldi,
prodotti e servizi di quanto normalmente pensiamo; e questo a sua
volta apre alla possibilità di mettere in discussione quanto e come
vogliamo lavorare. Certo, spesso non dipende solo da noi, ma anche
dall’elasticità del datore di lavoro sulla conciliazione di tempi di
lavoro e di vita, ma da un primo passo si può arrivare lontano. In
generale basta prestare un po’ più di attenzione all’uso che facciamo
dei soldi per limitare molti danni e costruire una vita migliore per
noi stessi e per gli altri.

In effetti, se sei un po’ più consapevole delle tue spese ed eviti di


sputtanare tutto in gratta e vinci, magari sei più contento perché
acquisti cibo di maggiore qualità. E sappiamo che a Biggeri il cibo
interessa molto…
Esatto, ma ancor più che sapere dove e per cosa si spendono i
propri soldi, è la sobrietà consapevole a essere una bella scelta!
Sobrietà nel senso di dare meno importanza all’avere tanto in favore
di altre cose, come per esempio il senso di realizzazione che deriva
dallo scoprirsi capaci di costruire quanto ci serve con le nostre stesse
mani, o ancora la soddisfazione del prendersi cura di quanto ci
circonda…
Sono scelte di libertà che fanno stare bene, modificano il nostro
stile di vita e rafforzano i nostri valori. Di fatto, per dirla tutta, la

107
sobrietà non è una scelta di scarsità, ma di abbondanza. È un rifiuto
a identificarsi solo come consumatore, rivendicando mille altri ruoli
che potremmo assumere, sperimentare e cambiare. Il proverbio
popolare dice che «chi si accontenta gode»; del resto
«accontentarsi» ha la stessa etimologia di «contento», mentre
«consumatore» ha quella di «consumato». Poi il proverbio è
bistrattato perché associamo l’accontentarsi a una rinuncia. Ma
questa è una distorsione
Come dice Snoopy: «Il fatto che mi basti poco per essere felice
non significa che mi accontenti delle briciole. Altrimenti sarei un
criceto».

Ci ha citato Snoopy! Il corso di finanza raggiunge vette


ineguagliabili!
La sobrietà non è privazione, ma libertà. I soldi hanno meno
importanza, si possono donare più facilmente, condizionano meno le
nostre vite. Abbiamo più tempo per noi e per gli altri, inquiniamo
meno… Tuttavia questo non esime dal dovere di imparare a capire e
a gestire il denaro con rispetto, attenzione e cura verso le persone, le
attività, i prodotti, i progetti verso cui lo indirizziamo. Le persone
devono governare i soldi, non viceversa. Se i soldi non ci bastano
mai, hanno vinto loro.

I BILANCI FAMIGLIARI

A proposito di consapevolezza, l’associazione Bilanci di giustizia


porta avanti da anni un metodo per tenere dei bilanci famigliari
capaci di pensare e di generare un mondo migliore. E questa pratica
educa al consumo critico, come sostiene anche il Centro nuovo
modello di sviluppo. L’iniziativa oggi viene riproposta anche da tante
altre realtà della finanza etica, come le Mag (Mutua autogestione).
Ma partiamo dall’inizio. Spesso le famiglie non hanno ben chiaro
dove spendono i propri soldi, e a fine mese si sorprendono un po’ di
non averli più in tasca.

In effetti capita… Ma perché, lei sa dove li spendono?


Si evince che in Italia le famiglie spendono in media circa 2500
euro al mese, per un totale di circa 600 miliardi l’anno. La voce più
importante, solitamente, è il mutuo o l’affitto, che mobilitano

108
intorno ai 200 miliardi annui di spesa. La seconda è il cibo, subito
seguito dall’energia.
L’aspetto più interessante, però, è che le nostre percezioni di
spesa sono spesso distorte. Si sente dire, per esempio, che la pasta di
Libera (prodotta nei terreni confiscati alle mafie) costa tanto, ma
tutto sommato con un chilo di pasta ci si può mangiare in dieci: si
tratta quindi di un costo relativo. Altre volte, invece, spendiamo i
nostri soldi senza quasi accorgercene, in cose di cui non abbiamo
bisogno. Tenere quindi traccia delle nostre spese ci consente di
prestare più attenzione a quello che consumiamo, di valutare le
implicazioni etiche delle nostre scelte e magari scoprire perché a fine
mese abbiamo speso più di quello che immaginavamo.
Una volta presa consapevolezza delle nostre spese, possiamo
rifletterci su ed eventualmente reindirizzarle. Di solito si finisce per
consumare un po’ meno, privilegiando le spese in cultura o in
esperienze, o in quei prodotti che rispettano l’ambiente e le persone.
Bilanci di giustizia, che da molti anni propone agli associati di fare
bilanci famigliari e di segnare le scelte di consumo «spostate», ha
dimostrato che per agire in modo responsabile non servono più
soldi. Anzi, in alcuni casi si arriva a risparmiare e si guadagna in
qualità della vita e benessere per tutti.

KAKEBO

L’idea di segnare le proprie spese, e magari di rifletterci su, è in un


certo senso antica. Basta pensare ai nostri nonni, che spesso
tenevano la contabilità su un quadernino.
Oggi è tornata di moda con il kakebo, un quaderno pensato
proprio a questo scopo, che in giapponese significa «libro dei conti di
casa».

Così invece di dire «scrivo su un quadernino» – che sembra noioso


– dico «tengo un kakebo», che uno fa la figura di avere una carpa
giapponese…
L’aspetto più interessante, oltre alla possibilità di vantarsi con gli
amici puntando sul fascino dell’Oriente, è che si scoprono tante cose
di sé e finalmente si capisce com’è che il nostro portafoglio si svuota
così in fretta. Non è necessario redigerlo per tutto l’anno, basta

109
qualche tempo per prendere un po’ di consapevolezza in più e per
abituarci ad avere comportamenti economici più intenzionali e meno
istintivi. In fondo non siamo immuni alle pubblicità e al marketing!
Un altro consiglio è di non segnare soltanto i soldi che si
spendono, ma anche quelli che si risparmiano. O, ancora meglio,
quando ci sentiamo soddisfatti senza avere bisogno di aprire il
portafoglio, per esempio: «Oggi ho passeggiato e sono stato bene».
Oppure: «Spendo meno di bolletta perché ho messo i pannelli
fotovoltaici, mi posso permettere più cultura, o più pasta di Libera, e
questa cosa mi ha fatto felice». Forse conviene guardare anche a
queste cose e non soltanto alla lista nuda e cruda delle spese.

Nelle famiglie, quali sono le grandi uscite di cui siamo poco


consapevoli?
Molte sulla telefonia, poi i giochi d’azzardo, l’energia. L’idea del
kakebo, come anche dei bilanci famigliari, è quella di andare a
vedere dov’è che si possono spostare alcune spese. Non è che per
forza si debba risparmiare, magari con questa nuova consapevolezza
possiamo spendere di più nelle cose che ci fanno felici.

I GAS

In effetti, fare consumo critico insieme sembra essere allettante, e


magari con più cervelli evitiamo anche di prendere abbagli.
È proprio così che oltre venticinque anni fa sono nati i Gruppi di
acquisto solidale (Gas), vale a dire dei gruppi di venti-quaranta
persone (e relative famiglie) che organizzano piccole distribuzioni di
prodotti, in alternativa alla grande distribuzione. Nei Gas si scelgono
insieme quali prodotti acquistare e da chi, si vanno a conoscere i
produttori e si garantisce loro il pagamento di un prezzo equo. A
turno, poi, ci si occupa degli ordini. E non manca un po’ di
convivialità, quindi discussione sulle scelte di consumo, magari
sull’educazione dei figli, ma alla fine anche su ricette e su possibili
azioni per il cambiamento. Oggi si contano oltre duemila Gas in
Italia e sono nate anche piattaforme (penso, per esempio, a
portalgas.it) per aiutare i gruppi a effettuare i propri ordini.

Ma se a me piace andare al supermercato? E se non sono


abbastanza previdente da comprare i ceci per tempo? Poi finisco

110
comunque al discount!
In quel caso ci sono le Food Coop, una forma di supermercato
etico autogestito nata nel 1973 a New York, poi avviata a Bruxelles e
Parigi e recentemente giunta anche da noi. Chi partecipa alla vita
delle Food Coop è chiamato a essere proprietario (prendendo parte
alle decisioni), consumatore (accedendo a beni di ottima qualità a
prezzi accessibili) e volontario (lavorando circa tre ore al mese
nell’emporio di comunità). Il tipo di contributo che viene richiesto ai
soci può andare dalla gestione del magazzino alle pulizie, dalle
operazioni di carico e scarico all’amministrazione ordinaria, dalla
cassa alla piccola manutenzione e al rifornimento degli scaffali. La
prima realtà italiana è stata Camilla a Bologna, ma nel giro di poco
tempo se ne sono aggiunte altre: Mesa Noa a Cagliari, Oltrefood
Coop a Parma, Stadera a Ravenna… e speriamo che diventino
sempre di più.

L’economia circolare, o la riscoperta della


parsimonia
Da tempo l’Earth overshoot day – ovvero il giorno dell’anno in cui
l’umanità finisce di consumare tutte le risorse che il pianeta produce
nell’intero anno – arriva sempre prima (tranne che nel 2020, causa
lockdown, quando è stato il 22 agosto; nel 2019 era stato il 29
luglio). È un po’ come se, tornando all’esempio del nostro bilancio
famigliare, ci ritrovassimo a metà della terza settimana senza più un
soldo, dopo aver sperperato quanto avevamo. Se dovesse capitare
alla nostra famiglia sentiremmo con urgenza la spinta a rimediare,
perché ci si ritroverebbe d’un tratto senza poter soddisfare i propri
bisogni primari. Nel caso della Terra gli effetti non sono meno
devastanti, ma, forse perché avvengono più lentamente o perché
abbiamo perso il contatto con la natura e siamo poco consapevoli di
quanto ne dipendiamo, finiamo per considerare questo problema più
lontano, senza percepirne l’urgenza.
Dobbiamo tutti prendere coscienza del fatto che la Terra non ha
risorse illimitate, prediligere un modello di economia sostenibile e, al
contempo, usare l’incredibile abbondanza della natura. Magari

111
provando a imitarla un po’. Questo tipo di pensiero ha trovato varie
espressioni, con sfumature differenti, ma con la stessa volontà di
considerare il limite delle risorse naturali come un’opportunità.
Cito a titolo di esempio alcuni concetti economici che vanno in
questa direzione, e che ho avuto la gioia di incontrare negli anni:
parsimonia (mia nonna), economia ecologica (Nicholas Georgescu-
Roegen), ecologia economico-sociale (Giorgio Nebbia), fattore 4
(Amory Lovins), capitalismo naturale (Paul Hawken), terza
rivoluzione industriale (Jeremy Rifkin), blue economy (Gunter
Pauli), economia civile (Stefano Zamagni). Fra questi, uno dei
concetti più affascinanti è quello dell’economia circolare, ma non
dubito che ce ne siano moltissimi altri.

Immagino che l’economia circolare non sia quella delle giostre né


dei circensi…
Fa bene. L’economia circolare è quella che imita la natura e
chiude i cicli, cercando di evitare i rifiuti e gli scarti nella forma in cui
li generiamo noi umani. In natura, infatti, gli scarti di un regno
vivente diventano risorse per gli altri. Non si tratta solo di riusare,
riciclare, o di abbandonare la cultura usa e getta, ma di ripensare
l’economia come una serie di cicli che si aprono e si chiudono,
uscendo così dal paradigma dell’economia lineare. Si tratta di un
ambito in cui c’è un enorme potenziale di ricerca e innovazione e dal
quale può scaturire un benessere diffuso.

Ma tutto ciò è fantastico! Efficiente economicamente e anche


poetico! Mi scusi, ma in scienze naturali non sono mai stato forte…
Mi ricorda qual è la classificazione dei regni degli esseri viventi?
I regni degli esseri viventi sono cinque: monere, protisti, funghi,
vegetali, animali.

Ho un po’ di difficoltà su monere e protisti. I funghi invece mi


piacciono tanto, soprattutto trifolati. Mi illumina?
Non ho la più pallida idea di cosa siano monere e protisti,
immagino abbiano a che fare con microorganismi. Appunto c’è tanto
da imparare e da studiare, il che è una buona notizia: vuol dire che ci
sono tante possibilità che potremmo esplorare.

Ma il cittadino che vuole impiegare consapevolmente il proprio

112
denaro per dare felicità, come fa a fare economia circolare? Non mi
dica che basta far girare i soldi per avere economia circolare,
perché mi distrugge lo slancio positivo.
Tutti possiamo fare dei piccoli gesti di economia circolare. Dal
semplice riciclare o riusare al domandarsi, prima di comprare
qualcosa di cui abbiamo bisogno, se è possibile noleggiarlo, farcelo
prestare o acquistarlo insieme ad altre persone. In generale è sempre
meglio noleggiare che comprare. Alcune cose le usiamo veramente di
rado, ma le compriamo, un po’ per pigrizia un po’ perché siamo
immersi nella società dei consumi.
Infine, autoprodurre, magari con prodotti di buona qualità,
naturali e a basso impatto. Questa pratica ha due vantaggi: da una
parte ci consente di consumare meno, dall’altra ci permette di
riscoprire le nostre capacità manuali e comprendere il valore di
quanto usiamo.

Ora capisco perché sono quarant’anni che va in giro con vestiti


usati – da prima che si chiamasse economia circolare –,
frequentando il «mercatino dell’usato di Mani Tese». Lei dunque
non è affatto un cialtrone!

ABITARE COLLABORATIVO

Abbiamo visto che i nostri soldi possono dare la felicità quando sono
impiegati e risparmiati in modo generoso e consapevole. La spesa
principale che sosteniamo nel corso della nostra vita è quella della
casa, declinata sotto forma di mutuo o di affitto. Ma ci siamo mai
domandati se esiste un altro modo di abitare rispetto a quello delle
famiglie mononucleari, ognuna nel proprio appartamento, separata
dalle altre? Non che questa sia una scelta negativa, ma libertà
significa esplorare anche varie alternative e non agire
necessariamente in base a un qualche standard abitativo.
La casa, dopotutto, è la nostra terza pelle (dopo quella del corpo e
i vestiti): delimita il confine fra quello che è interno, famigliare, e
l’esterno, l’altro. C’è un aspetto profondamente simbolico nell’abitare
umano, nel suo carattere non di rifugio, ma di luogo al centro del
mondo.
In questo senso, l’abitare collaborativo – che può prendere molte

113
forme, non solo quella di un cohousing o di un ecovillaggio – è
un’opzione interessante, che consente di allargare la propria
quotidianità e il proprio mondo ad altre persone e a nuove pratiche.
Insieme, per esempio, è più facile autocostruire e autoprodurre, o
compiere alcune scelte consapevoli come le energie rinnovabili, il
risparmio energetico, la riduzione dei consumi o l’accoglienza. E,
riducendo le spese, coltivando le relazioni, si diventa più «ricchi», in
senso sia letterale sia umano. Si impara gli uni dagli altri,
condividendo talenti e trovando nuovi stimoli di crescita. O ancora,
insieme si hanno spazi più grandi, magari per fare feste, si fa da
mangiare a turno e si può decidere di lasciare aperta più spesso la
porta di casa…

Ora finisce che con la scusa dell’abitare collaborativo e degli stili di


vita sostenibili ci troviamo Biggeri a casa, ovviamente a scroccare
la cena, mentre vuole convincerci a lasciargli l’appartamento per
mandarci nell’ecovillaggio…
Ma no, non la prenda così. Pensi piuttosto ai vantaggi di un buon
vicinato o dell’abitare collaborativo. Per esempio, può fare un orto e
non doversene occupare tutti i giorni. Le famiglie possono guardarsi
i figli a vicenda e farli crescere insieme. Si possono prendere animali
domestici senza avere grattacapi ogni volta che dobbiamo
allontanarci da casa. Insieme, poi, si possono organizzare progetti
sociali che da soli sarebbero troppo gravosi in termini di tempo e
fatica.
Non è un caso che la parola stessa «economia» derivi da oikos
nomos, ossia «la buona regola della casa», che ci rimanda al modo in
cui si decidono e distribuiscono i piccoli grandi compiti da svolgere,
come anche la gestione delle risorse.
Senza dubbio, vivere insieme può comportare anche un certo
grado di impegno, di adattamento alle situazioni e agli altri, e non
tutti sono disposti a fare compromessi, contrattare, confrontarsi.

LE MONETE ALTERNATIVE O COMPLEMENTARI

Oltre ai soldi di cui abbiamo parlato finora, nel mondo esistono oltre
cinquemila monete locali o alternative: valute utili a favorire lo
scambio solidale di beni e attività fra i membri di una comunità.

114
Questo è possibile perché il denaro, di fatto, è frutto dell’accordo di
accettare all’interno di una comunità l’utilizzo di «qualcosa» come
un bene di scambio riconosciuto.
L’obiettivo di queste valute è stimolare coloro che partecipano al
circuito a relazionarsi e cooperare all’interno nella rete, e infatti la
loro velocità di circolazione rispetto alle monete ufficiali tende a
essere ben più alta.
Chi ha sentito nominare la banconota da 21 sterline di Totnes,
epicentro del movimento Transition Towns, potrebbe aver pensato
che si trattasse di un fenomeno recente, forse appena diventato di
moda. Invece la nascita delle monete alternative può essere collocata
nei primi decenni dell’Ottocento all’interno di movimenti di matrice
protosocialista e anarchica, con chiare finalità egualitarie e
anticapitalistiche.
Oggi queste monete affiancano le valute ufficiali, e gli organi di
governo (come quelli dell’Unione europea) si stanno dimostrando
sempre più tolleranti nei loro confronti, arrivando perfino a
sostenere alcune di queste iniziative per favorire lo sviluppo locale e
affrontare meglio la crisi economica delle piccole imprese.
Questo fenomeno è diffuso anche in Italia a partire dal 2004,
quando Tonino Perna – al tempo presidente del parco Aspromonte
ed ex presidente del comitato etico di Banca Etica – promosse
l’Ecoaspromonte. A oggi l’esperienza più significativa è quella del
Sardex, ma non mancano varie altre monete alternative in giro per
l’Italia, compresa l’esperienza, interrotta, di Riace, legata
all’accoglienza migranti.

Ci sta riprovando? Mi vuole pagare quel vecchio debito con le


banconote del Monopoli, stavolta?
Intanto il denaro del Monopoli funziona solo a casa sua sotto le
feste di Natale. E poi, anche se la volessimo considerare una moneta
alternativa, non potrei costringerla ad accettarla. Queste valute,
infatti, non hanno circolazione forzata perché il loro valore si fonda
sull’accettazione da parte di una comunità, si parla quindi di
«circolazione volontaria».

Lei mi sta parlando di una moneta relazionale?


In un certo senso… La loro stabilità dipende in modo
preponderante dalla fiducia delle persone e delle istituzioni

115
economiche che le usano. Ma anche le monete ufficiali risentono
della fiducia che poniamo o non poniamo in loro.

Ma sono etiche perché si pongono il tipo di domande che piacciono


a lei?
Si fanno sicuramente delle domande sul denaro e hanno una
funzione mutualistica. Però non hanno necessariamente l’approccio
della finanza etica, vale a dire non si interrogano sulle scelte di
acquisto, di risparmio e sulle conseguenze non economiche delle
azioni economiche. Prestano invece molta attenzione a favorire la
circolazione a livello locale e a portare «liquidità» dove questa
scarseggia.
Delle tre funzioni della moneta che avevamo visto all’inizio del
libro, le monete complementari non hanno la dimensione del
risparmio. Spesso viene proprio posta una scadenza temporale
esplicita, per aumentarne la circolazione (liquidità). Sono invece
presenti le funzioni di mezzo di scambio e di misura del «prezzo».

Non siamo certi di aver capito a cosa servono…


Ad aiutare l’economia locale ad avere liquidità, soldi da spendere.
Restando dentro un circuito – locale o di associati – fanno girare
l’economia interna. Poi, siccome hanno una scadenza e sono messe a
disposizione del circuito, si tendono a usare di più, anche perché non
si possono risparmiare. In questo modo passano di mano in mano
due, tre, cinque volte in più della valuta ufficiale.
Si tratta di uno strumento molto utile, sebbene non risolutivo.
Anche perché non sempre è usato per promuovere l’economia
alternativa: il Wir in Svizzera, per esempio, esiste da più di
ottant’anni, ma la Confederazione elvetica non è certo un modello
per la finanza alternativa!

Invece l’esperienza italiana, anzi sarda, quella con il nome da


Asterix e Obelix?
Il Sardex? È un circuito commerciale complementare che, per la
sua innovazione, il buon funzionamento e la sostenibilità economica
che lo caratterizza, ha avuto negli ultimi anni una crescita notevole,
studiata anche a livello accademico internazionale. La novità
principale riguarda la creazione di un mercato tra imprese
regolamentato e gestito da Sardex. Questa infatti nasce per

116
consentire alle imprese di sviluppare un mercato complementare per
le proprie attività, sostenendosi a vicenda, anche se a oggi è stato
esteso anche alla forza lavoro e ai consumatori finali.
Gli ingressi nel circuito avvengono a seguito di un attento
screening economico e reputazionale dei soggetti interessati e
mantenendo un corretto equilibrio fra domanda e offerta di beni e
servizi. C’è poi una relazione prudente tra i fatturati delle aziende
coinvolte e l’emissione di Sardex. La solida sostenibilità di Sardex,
inoltre, è determinata dal pagamento di una commissione annua da
parte degli aderenti in cambio di servizi accessori. Non manca infine
un importante aspetto di innovazione nel campo dei servizi digitali.
Nel complesso questo tipo di esperienze indica che si stanno
affermando nuovi approcci di sviluppo economico, caratterizzati
dall’attenzione ai valori della cooperazione, della partecipazione e
della responsabilità sociale. Insomma, c’è spazio per l’innovazione.

I soldi in finanza etica danno la felicità: coltiva il


denaro paziente e generoso
Abbiamo bisogno che la finanza sia più paziente, più connessa con il
mondo, più generosa. Di liberare il denaro dall’ansia esclusiva del
rendimento, perché possa dare la felicità.
Da tempo la finanza etica prova a porsi domande di senso su dove
finiscono i risparmi e gli investimenti; non si accontenta di
conseguire gli obiettivi «tradizionali» – come i conti in ordine o il
profitto –, ma cerca di raggiungere obiettivi strategici ambientali,
sociali e culturali. Quello che propone, dunque, è un approccio più
sfaccettato, che non metta da parte il benessere collettivo in nome
del denaro. Non è poesia. È una pratica costante, che richiede
professionalità, e sulla quale abbiamo ancora molto da imparare, a
cominciare dalle valutazioni degli impatti sociali e ambientali.

Tutto molto bello, ma immagino che anche con la finanza etica si


chiedano gli interessi per un prestito.
Sì, e anche le commissioni, i costi di tenuta conto… Questo perché
bisogna coprire le spese e il rischio di fare intermediazione

117
finanziaria. In altre parole, sarebbe brutto (e poco etico) non pagare i
lavoratori della finanza etica o far perdere soldi ai risparmiatori se
qualche credito va male solo perché non si sono messi da parte dei
fondi adeguati a coprire eventuali perdite. Detto questo, la finanza
etica dovrebbe avere una particolare tendenza ad applicare costi
trasparenti e quanto possibile contenuti.
In un certo senso, poi, si può dire che il cuore della finanza etica è
la costante indagine sui perché e sui come delle scelte in finanza.
Come si legge nel Manifesto della finanza etica del 1998, all’interno
del percorso che ha portato alla nascita di Banca Etica «l’economia e
la finanza eticamente orientate si pongono domande e cercano
risposte sulle conseguenze delle azioni economiche. Quali
conseguenze comporta un’attività produttiva o finanziaria per la vita
delle persone, per il bene comune, per l’ambiente naturale?».

E com’è che è nata questa storia della finanza etica?


Nasce dall’incrocio fra i movimenti consumeristici – da non
confondere con i consumisti, è il contrario! – e l’impegno sociale e
ambientale. Le critiche al sistema economico rispetto a guerre, diritti
umani e ambiente hanno mostrato che il «consumatore» può
esercitare un potere sul mercato in base alle sue scelte di consumo.
La finanza etica ha sviluppato due settori: quello degli
investimenti e quello dell’intermediazione bancaria.
Il primo è nato nel mondo anglosassone, in particolare negli Stati
Uniti, negli anni Trenta, e fin da subito ha posto una particolare
enfasi sulla scelta di investimenti responsabili e sull’azionariato
attivo: si sceglie di non comprare azioni di determinate compagnie
per motivazioni etiche o, se si acquistano, si richiedono dei
cambiamenti «etici» alle imprese di cui si è diventati azionisti.
Le banche etiche, invece, hanno avuto origine in Europa. La
prima esperienza è stata quella della Bfs (Bank für Sozialwirtschaft,
cioè «banca per l’economia sociale»), nata in Germania nel 1923, ma
ancora non inserita nelle dinamiche dei risparmiatori descritte in
precedenza.
Nel 1974, invece, sempre in Germania, su spinta del movimento
antroposofico apre a Bochum, nella Ruhr, la Gls Bank. Esperienze
simili si moltiplicano presto nel resto d’Europa e poi in tutto il
mondo.

118
Hanno funzionato? Funzionano?
Sì, funzionano, a dispetto di quello che molti potrebbero pensare
si possono avere i bilanci in ordine e fare utili anche prestando
attenzione a finanziare solo cose belle. Quello che accomuna i due
filoni della finanza etica è la trasparenza verso i risparmiatori
sull’uso del loro denaro, generalmente rendendo pubblici i prestiti
erogati e l’indirizzo verso il bene comune dei crediti concessi, o
avendo una struttura proprietaria chiara. Stiamo parlando di banche
apparentemente «normali» per certi versi, ma capaci di fornire
risposte soddisfacenti sul proprio operato, così come richiesto dai
risparmiatori che le hanno fatte nascere.
Oggi i prodotti di finanza etica sono sempre più diffusi, mentre le
istituzioni di finanza etica sono ancora troppo poche.

E noi che siamo seri (e talvolta integralisti) preferiamo chi fa


coerentemente finanza etica in tutte le sue attività.
In effetti sì, perché altrimenti è un po’ come la storia delle due
tasche dei pantaloni: con una investi per comportarti bene, con
l’altra invece… tutto come prima. Però il fatto che ci siano anche
singoli prodotti di finanza etica fatti da banche della finanza
tradizionale è una cosa positiva: significa che il mercato si sta
muovendo nella direzione giusta.

FINANZA MUTUALISTICA E SOLIDALE

Una parte importante nella finanza etica italiana l’hanno avuta le


Mag: realtà in cui i risparmiatori e i debitori si conoscono, e in cui i
progetti da finanziare si scelgono in base a relazioni di solidarietà e
di fiducia reciproca. Le Mag sono un po’ le antesignane della finanza
etica, e non è un caso che fra le venti associazioni che hanno fondato
Banca Etica ci fosse anche un discreto numero di cooperative
finanziarie e di mutua gestione.
Sebbene la loro rilevanza economica rispetto ai volumi finanziari
in Italia sia marginale, le idee che mettono in campo sono
interessanti, come la promozione di un’economia conviviale in cui
chi presta i soldi entra in contatto con i beneficiari del prestito, in
uno scambio e un’educazione finanziaria continui.

Ma esistono davvero?

119
Per fortuna sì, e sono pure riconosciute dal Testo unico bancario
come «finanza etica e sostenibile» all’articolo 111, che è quello che
riguarda anche il microcredito. Però le maglie rigide messe dal
legislatore hanno fatto sì che non tutte le Mag esistenti abbiano
scelto di operare in questa cornice regolamentare.
Le Mag consentono di chiedere e concedere prestiti, e alcune
riescono a farlo senza interessi, come la Mag di Firenze. Altre invece
hanno il pregio di riuscire a concedere finanziamenti che le banche
non farebbero, ma chiedono in cambio un tasso di interesse che può
essere più alto di quello normalmente proposto dalle banche. Infine,
c’è chi oggi fa anche molta educazione finanziaria con i bilanci
famigliari, come Mag2 di Milano.
Non trattandosi di banche, non possiamo pensare di metterci i
nostri soldi per poi riprenderli dopo qualche giorno, ma, qualora
avessimo dei risparmi da parte che ritenessimo di poter investire nel
lungo periodo, le Mag fanno cose decisamente innovative e
promuovono un percorso di consapevolezza monetaria.
Un’esperienza significativa per chi volesse sperimentare i legami
relazionali sottesi al denaro.

BANCA ETICA

Banca popolare Etica ha aperto nel 1999 ed è la prima banca italiana


interamente dedicata alla finanza etica. Il modo in cui è nata è
decisamente originale: un processo dal basso, che ha visto il
coinvolgimento di migliaia di cittadini che volevano una risposta alla
domanda: «Come vengono investiti i miei soldi?».
Ha iniziato con venti soci fondatori, poi si sono aggiunte centinaia
di altre realtà e tantissime persone. Oggi i soci della cooperativa sono
oltre 43.000, per l’84 per cento persone fisiche.
In questi anni l’istituto si è consolidato e vanta risultati
sorprendenti. Le classifiche di «BancaFinanza» la vedono addirittura
al secondo posto nella categoria piccole banche, e al primo posto per
solidità. Posizione che si è guadagnata facendo finanziamenti sicuri e
in modo corretto. Una banca leggera, che opera in Italia e in Spagna
con qualche centinaio di dipendenti e molto attiva online.

Visto che i tedeschi sono arrivati prima, c’è una cosa che Banca

120
Etica ha fatto meglio di loro?
Banca Etica è stata la prima banca al mondo a pubblicare sul web
tutti i suoi finanziamenti alle persone giuridiche: un’idea di
trasparenza decisamente forte che poi altri hanno seguito. Inoltre,
per prima ha coniugato i due filoni internazionali della finanza etica
offrendo anche i servizi di investimento, costituendo, già vent’anni
fa, una società di gestione risparmio: Etica Sgr (i tedeschi la stanno
facendo solo ora e chiedono consigli!).
L’innovazione più recente, di quest’anno, riguarda la stesura di un
report che misuri gli impatti determinati dal credito erogato. Uno
studio unico a livello internazionale da cui emerge che i 222 milioni
di crediti erogati nel 2019 hanno fatto nascere quasi 10.000 posti di
lavoro, evitato quasi 5000 tonnellate di CO2, permesso oltre 4000
eventi culturali…
Ma non è una gara, ci sono tante cose che Banca Etica può ancora
imparare. In altre, come la partecipazione dei soci alla vita della
banca, rappresenta un esempio da seguire.

Be’, un po’ di competizione e orgoglio però traspaiono… Ma ci dica


un po’ di numeri «finanziari», così, per fare finta che noi stiamo
capendo.
Il bilancio del 2019 approvato a maggio del 2020 vede 95.000
clienti con una raccolta di 1,7 miliardi di euro di risparmio e di altri
700 milioni di raccolta indiretta (i fondi etici). Con la raccolta di
risparmio sono stati finanziati oltre un miliardo di euro di prestiti
per quasi il 50 per cento destinati al mondo dell’economia no profit.
Ma il bilancio sociale della banca riporta anche i numeri che
testimoniano il lavoro dei soci, con i gruppi di soci attivi e le oltre
mille iniziative culturali.

Sì, ma la solidità?
La banca è in utile da sempre con un Roe (Return on equity, ossia
utili su capitale investito) del 6,26 per cento (particolarmente buono
nel 2020) e indicatori patrimoniali buoni (Cet1 13,83 per cento;
Total capital ratio 16,31 per cento). Le sofferenze nette, ossia quanto
si perde in percentuale rispetto al credito erogato, sono sempre state
molto più basse della media di mercato e nell’ultimo anno pari allo
0,64 per cento (a fronte di una media del sistema dell’1,69), mentre
cresce il tasso di copertura del credito deteriorato (ricordate il

121
«salvadanaio del dubbio»?), al 53 per cento, superiore alla media
degli istituti italiani e ben dieci punti sopra quella delle piccole
banche.
Questi dati sono in crescita significativa (oltre il 5 per cento e
talvolta oltre il 10 per cento) da anni, proprio mentre il mercato
bancario è stato in crisi. Un dato che ha fatto guardare alla finanza
etica con maggiore attenzione anche gli operatori tradizionali.
È significativo che Banca Etica abbia sofferenze nette (ossia
prestiti che non funzionano) in media negli anni inferiori di tre-
quattro volte a quelle del sistema bancario tradizionale. Non è un
dato scontato e sicuramente contraddice le norme sugli assorbimenti
patrimoniali che classificano il mondo del no profit e dell’impegno
civile come il più rischioso in cui intervenire.
Certo, questo straordinario risultato dipende dalle scelte accurate
dei finanziamenti, prese non solo su basi finanziarie – come deve
essere in una banca –, ma anche facendo un’attenta valutazione
socio-ambientale eseguita anche per mezzo dei soci attivi presenti
sul territorio e adeguatamente formati: un chiaro esempio di valore
delle relazioni in finanza.

Non per sciupare questa botta di ottimismo, ma con la pandemia


da Covid-19 temiamo che oltre alla sofferenza delle persone
aumenterà anche quella del sistema bancario…
La pandemia, come la crisi finanziaria del 2008, sta mettendo a
dura prova l’economia, ma con effetti che al momento sembrano
maggiori e soprattutto incerti. Questo causerà difficoltà all’intero
sistema bancario, soprattutto sul fronte delle sofferenze sul credito e
dell’erogazione di nuovi prestiti. La finanza etica ha avuto quasi
sempre un comportamento anticiclico, ossia è riuscita a fare bene
anche in momenti di crisi. Ma onestamente non è possibile sapere se
sarà così anche stavolta. Di sicuro la capacità di relazione con i
propri clienti, le valutazioni del merito di credito non solo
finanziarie, ma molto più ad ampio raggio, e la buona reputazione di
cui gode Banca Etica potranno aiutare a trovare tutti insieme delle
soluzioni per uscire da questa crisi.

Se ho un’attività utile al bene comune, Banca Etica mi finanzia


anche se sono in perdita?
Banca Etica non accetta qualunque finanziamento «buono» e si

122
trova spesso a dover dire dei no, vuoi perché non ci sono le
condizioni di sostenibilità, vuoi perché non è chiaro il ritorno
positivo per la collettività. È per questo che si impegna tutti i giorni
per capire come fare ad accompagnare realtà meritevoli affinché
giungano ad avere le condizioni perché il finanziamento sia possibile,
eventualmente costruendo garanzie relazionali con il territorio in cui
operano.

Possiamo ragionevolmente affermare che presto Banca Etica


risolverà tutti i problemi inerenti al debito pubblico e alla
disoccupazione in Italia?
Purtroppo no. La finanza etica è nata per dare risposte sull’uso dei
risparmi e degli investimenti e si trova chiamata a «riscoprire» il
ruolo positivo del fare banca vicino ai cittadini. Viene così a
catalizzare su di sé desideri, sogni, idee diverse di finanza che
difficilmente potrà soddisfare, ma che sono stimolanti e potranno
favorire la nascita di altre esperienze. Le banche etiche o sostenibili
sono ancora troppo piccole per poter dare tutte le risposte. Banca
Etica rappresenta meno dell’1 per mille dell’operatività bancaria in
Italia: non ha senso chiederle tutto quello che gli istituti tradizionali
non riescono o non vogliono fare.

Ma come facciamo a sapere se continuerà ad andare bene?


L’impegno volontario dei soci nella vita della banca rappresenta
una forma indiretta, ma efficace di garanzia sul fatto che Banca Etica
faccia effettivamente ciò che dichiara. A questo si affiancano gli
strumenti interni predisposti a questo fine, quale il comitato etico e,
soprattutto, il sistema dei controlli che verifica anche gli obiettivi
strategici non economici. Infine, grazie alla trasparenza e agli
strumenti quali report di impatto e bilancio sociale, i risparmiatori
possono verificare come i loro risparmi favoriscano il bene comune.
Un modo di agire efficacemente sintetizzato nello slogan:
«L’interesse più alto è quello di tutti».

FINANZA ETICA NEL MONDO: GLOBAL ALLIANCE FOR BANKING ON


VALUES

Scusi, ma la finanza etica funziona ovunque?


Sì, funziona bene dappertutto. C’è anche un’alleanza mondiale

123
(Global Alliance for Banking on Values) che coinvolge oltre sessanta
banche con esperienze molto diverse ma accomunate dagli stessi
valori. Si tratta di realtà attente all’ecologia, al microcredito, ai
precetti della finanza islamica, al tema della responsabilità sociale a
tutto tondo e alla scelta della finanza etica. Incontrandosi imparano
l’una dall’altra, e hanno tutte i bilanci in ordine!
Il fatto che la finanza etica stia funzionando si vede anche da
come le sue idee si stanno diffondendo, e dalla nascita di nuovi
agenti economici con una sensibilità affine. Le attività e i prodotti di
finanza etica proposti ai risparmiatori sono sempre più numerosi: un
chiaro segnale dell’interesse del mercato.
Ma la finanza etica non è nata per creare una nicchia di mercato.
L’ambizione è un’altra: cambiare il sistema finanziario, renderlo
attento a quello che sostiene e a come lo fa e non solo all’immediato
ritorno economico. E purtroppo da questo punto di vista è ancora
presto per dire se la finanza etica sta davvero funzionando.

Sempre ambiziosi nella finanza etica! Ma ci ricordiamo di alcuni


suoi collegamenti dal Nepal, dal Canada, sbagliamo o lei era là per
questa alleanza? Addirittura, nel board! Dica la verità, vi fate delle
gran mangiate, altro che finanza etica.
Invece si lavora! Si visitano i progetti migliori della banca
ospitante, si discute di come riuscire a misurare meglio gli impatti, di
come gestire le risorse umane…
Sono stati fatti degli interessanti studi comparativi: confrontate
con le ventinove banche sistemiche globali, quelle sostenibili o
sociali non sfigurano affatto! Hanno attraversato meglio la crisi,
hanno un buon livello di solidità ed efficienza, finanziano di più
l’economia reale e crescono meglio. Certo, stiamo comparando
sistemi molto diversi fra loro e quindi bisogna andarci cauti, ma
quello che emerge è decisamente incoraggiante.

FINANZA ETICA IN EUROPA

E in Europa? Come ve la cavate in Europa?


Febea, la Federazione europea delle banche etiche e alternative,
ha messo a confronto l’operato delle ventitré banche etiche e
sostenibili europee con l’operato delle quindici banche sistemiche. Si

124
è così appurato che quelle etiche, nel decennio seguito alla crisi del
2008, hanno reso il triplo rispetto agli istituti tradizionali. Mentre il
ritorno di questi ultimi è cresciuto dell’1,23 per cento, quello delle
banche etiche ha sfiorato il 4.
Questo per dire che le banche etiche hanno una visione di lungo
periodo, quindi, pur essendo meno brave sullo sprint, hanno buone
possibilità di vincere la maratona. Un altro dato interessante è che le
banche etiche investono il 77 per cento del proprio attivo
nell’economia reale, contro il 40 delle altre, o che fanno il 10 per
cento di crediti in più ogni anno, a fronte dello 0,39 delle altre.

I rapporti sono positivi, floridi e di amore reciproco come in


generale in questo momento fra i paesi europei, o nella finanza
etica si fa un po’ più comunella?
Be’, sì, il termine giusto è proprio «comunella». La facciamo
anche perché è facile: ognuno sta a casa sua, non ci facciamo
concorrenza, quindi siamo tutti amici. I numeri sono buoni e così
nelle sedute in cui ci incontriamo ci domandiamo come fare a
marcare la nostra differenza visto che oggi quasi tutti gli operatori
finanziari cominciano a parlare di finanza verde, di green investing…

UN’IMPRONTA (AMBIENTALE E SOCIALE) MIGLIORE PER I NOSTRI


INVESTIMENTI

Ecco, passiamo agli investimenti che, come abbiamo imparato,


sono cosa ben diversa dal risparmio!
Una domanda che ci possiamo porre è: «Il mio portafoglio
investimenti migliora o peggiora i diritti umani nel mondo?».
Sebbene investimenti e diritti umani possano sembrare due cose
lontanissime, c’è molto che possiamo fare in quella direzione
attraverso le nostre scelte. Un passo importante per sostenere il tipo
di futuro che desideriamo, per esempio, può essere disinvestire dalle
fonti fossili, contrastando così i cambiamenti climatici. Oggi questo
tipo di scelte e di attenzioni hanno acquisito una certa popolarità, sia
fra le imprese sia fra i governi locali: il quotidiano britannico «The
Guardian», per esempio, dall’inizio del 2020 non accetta più
pubblicità dalle compagnie petrolifere, mentre la città di New York
sembra intenzionata a disinvestire dai combustibili fossili.
Un aspetto interessante delle multinazionali – sebbene esistano

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altri mille motivi per parlarne male – è il fatto che partecipando alla
Borsa sono costrette ad avere una grande trasparenza nei propri
bilanci e nelle proprie attività. Grazie a queste informazioni
possiamo adottare varie strategie di investimento: escludere le
società che hanno pratiche poco etiche, fare uno screening per
scegliere solo le aziende che rispettano le principali convenzioni
internazionali (sulla biodiversità, sui diritti umani eccetera),
scegliere le cosiddette best in class (cioè le migliori del settore in
base a punteggi Esg, ovvero ecologici, sociali e di governance), fare
pressione affinché vengano attuati cambiamenti positivi. O anche
una combinazione di tutte queste strategie.

Le «migliori della classe» sa un po’ di scuola elementare. Che


strumenti abbiamo per capire se quel fondo di investimento o titolo
azionario è più o meno orientato a tutelare i diritti umani? Se
un’azienda produce mine antiuomo specializzate per colpire i
bambini si capisce che non è molto attenta, ma a volte non è così
evidente.
Per orientarci nella scelta degli investimenti in base a parametri
etici possiamo rivolgerci alle società internazionali specializzate, ben
capaci di fare questo tipo di analisi. Per mantenere un certo livello di
indipendenza, a differenza di quanto accade per le agenzie di rating,
a pagarle sono i gestori dei fondi o degli investimenti e non le
imprese. Queste società, sul fronte dei diritti umani, valutano fra le
altre cose anche la promozione attiva del rispetto dei contratti e delle
leggi sul lavoro, l’efficacia dei sindacati, il diritto alla privacy, la non
discriminazione tanto dei dipendenti quanto dei clienti e l’eventuale
coinvolgimento della società in questione in controversie relative ai
diritti umani fondamentali.
Per quanto riguarda i cambiamenti climatici, altro tema giunto
finalmente all’attenzione di tutti, è possibile calcolare la carbon
footprint associata alle azioni di un’impresa. In pratica si tratta
dell’ammontare di emissioni di gas serra in unità di CO2 equivalente
prodotte ogni 100 azioni; dato che consente di capire e confrontare
quanto le società contribuiscono all’emergenza climatica.

ETICA SGR

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In Italia, Etica Sgr – che è nel gruppo Banca Etica, ma vi partecipano
anche altri istituti – è stata la prima società italiana ad aver proposto
esclusivamente fondi etici. Gestisce circa 4,8 miliardi di euro e
cinque fondi di investimento che vanno dall’azionariato puro (il più
rischioso e potenzialmente il più redditizio) all’obbligazionario a
breve termine (il meno rischioso e redditizio, perché investe in titoli
di stato). A questi si aggiunge un fondo tematico che cerca di
minimizzare l’impatto climatico. I criteri seguiti sono i più rigorosi:
si escludono settori importanti ma controversi come l’estrazione del
petrolio o quello minerario e alcuni prodotti come le armi, il tabacco,
il nucleare, i pesticidi e gli ogm. Infine, si prendono i best in class e si
fa azionariato attivo.

Scusi, ma restano solo i produttori di pale eoliche e l’agricoltura


biologica?
No, c’è molto di più! Un fondo deve investire in almeno qualche
centinaio di società e titoli di diversi paesi. Deve diversificare per
ridurre il rischio. Quindi ci rientrano anche tante imprese normali, o
ritenute accettabili perché comunque non vi sono alternative su cui
abbia senso investire i soldi dei risparmiatori. Per capirci, tutta
l’edilizia ancora non ha un’alternativa valida al cemento, quindi i
cementifici (solo i migliori nei punteggi Esg) possono essere tra le
società in cui investire: così pure la birra o i mezzi di trasporto che
per ora lo fanno molto poco, ma speriamo un giorno vadano a
energia pulita. Già essere riusciti a escludere da vent’anni il settore
dell’estrazione petrolifera è molto.

E a livello economico funziona? Perché se uno investe in un fondo


magari ci vuole anche guadagnare oltre a far bene al pianeta.
Funziona sia dal punto di vista dei rendimenti, che sono buoni e
talvolta più redditizi dei fondi tradizionali, sia da quello dei risultati
sociali e ambientali, che sono molto migliori rispetto agli indici di
confronto (benchmark).
Il rapporto di impatto relativo al 2018 mostra che, in un anno,
100 euro investiti in Etica Sgr producono 27 chili di CO2, meno di
quella prodotta da uno smartphone. Anche se non ci pensiamo
spesso, qualunque cosa facciamo comporta anche un determinato
consumo di energia che varierà in base all’attività e alle modalità di
uso. La finanza non fa eccezione. Il rapporto del 2019 mostra invece

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come sugli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite i fondi
di Etica Sgr abbiano avuto risultati migliori rispetto al mercato di
riferimento con percentuali che vanno dal 25 al 140 per cento.

Senta, con tutti i fondi sostenibili che si trovano, posso sceglierne


uno a caso a cuor leggero?
Sebbene l’aumento della sensibilità rispetto ai temi della finanza
sostenibile e responsabile sia da ritenersi una tendenza positiva, non
dobbiamo dimenticarci di mantenere uno sguardo d’insieme. Non
possiamo pensare che se un operatore finanziario fa un fondo di
investimento attento all’impatto ambientale, allora quell’operatore
sarà conseguentemente sostenibile.
Spesso accade che con una mano costruisce fondi a basso impatto
ambientale, e con l’altra continua a finanziare petrolio e armi, o a
speculare. Faccio un esempio a caso: se la BlackRock, che è la più
grande società di investimento al mondo, dovesse dichiarare che
vuole arrivare ad avere il 10 per cento di fondi sostenibili, allora
centinaia di miliardi di dollari verrebbero impiegati con attenzioni
ambientali (e si spera anche sociali) che prima non erano
considerate. Per contro, significa che per altre migliaia di miliardi di
dollari tutto continuerebbe come prima…
Dobbiamo pertanto diventare un po’ come dei piccoli
investigatori, prestando attenzione all’intero operato della banca e
non al singolo fondo. Chiediamoci per esempio che fetta delle attività
è gestita in modo sostenibile e quanto no: non mancheranno le
sorprese! Quindi ben vengano i singoli fondi sostenibili, ma se
vogliamo costruire un futuro migliore dobbiamo chiedere agli
operatori coerenza nell’attenzione verso quelli che riteniamo essere i
nostri valori.

AZIONARIATO ATTIVO

In assenza di policy chiare e stringenti, i fondi di investimento e i


fondi pensione possono finire investiti in società che licenziano per
fare cassa, che sfruttano i lavoratori nei paesi in cui i diritti sindacali
sono più deboli, o contribuire a tante altre cose che non ci piacciono.
Se in Italia l’attenzione a questo tipo di fenomeni non è ancora
molto alta, negli Stati Uniti sono già presenti da tempo alcuni fondi

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pensione che, interrogandosi sui diritti umani e sulla finanza, si sono
accorti delle enormi contraddizioni esistenti: soldi investiti in
sfruttamento del lavoro infantile, schiavitù, violazione dei diritti
sindacali, paghe misere, norme di sicurezza inesistenti, condizioni
degradanti. Purtroppo, non sono casi isolati e coinvolgono
importanti compagnie.

Terribile. E non si può fare quella cosa che gli investitori


responsabili vanno in assemblea a scassare i cabasisi al consiglio di
amministrazione?
Si chiama azionariato attivo o critico se si va in assemblee di
imprese in cui non si vuole investire, ma che si vuole spronare a
cambiare.
Uno dei pionieri di questa attività è l’Iccr, un istituto con sede a
New York fondato nel 1971, noto per aver contribuito a far cadere il
regime di apartheid in Sudafrica. In tempi più recenti l’Iccr è andato
da Alcoa, la nota multinazionale delle miniere, chiedendole di
aumentare il reddito minimo dei lavoratori, che era al di sotto dei
limiti della dignità dei diritti umani. Alcoa, sotto questa pressione,
ha così aumentato il salario dei minatori.
Ma ci sono anche fondi responsabili come Calvert – quello degli
impiegati pubblici californiani –, che sceglie dove investire con
criteri legati ai diritti umani e in cui gli investitori esercitano
pienamente i propri diritti di «proprietari» per chiedere
miglioramenti sul fronte dei diritti dei lavoratori.
I fondi etici, dunque, possono difendere i diritti umani e
l’ambiente, ma anche spingere le grandi imprese a compiere un certo
tipo di scelte anche in funzione di altri fattori, come la parità di
genere o una retribuzione più equa.

Cioè si va al buffet assembleare, si mangia alla grande e poi si


fanno le domande scomode. Non viceversa, perché magari ci
cacciano, giusto?
Potrebbe essere una buona strategia. D’altronde, per chiedere la
riduzione dello stipendio dell’amministratore delegato (che a volte
guadagna oltre mille volte di più del lavoratore medio), magari
chiedendo di agganciarlo al raggiungimento di determinati risultati
sociali e ambientali, bisogna essere nel pieno delle forze e aver
mangiato bene.

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MICROCREDITO

Senta, lasciamo stare gli stipendi fantasmagorici e passiamo a


parlare a chi invece non ha molto, anzi, ha pochissimo. La finanza
può fare qualcosa, o si deve arrangiare?
Per questo c’è la microfinanza, che offre servizi finanziari ai
soggetti «non bancabili», ovvero chi non ha un conto su cui
risparmiare o non riesce ad accedere al credito. La sua pratica più
diffusa è il microcredito, che si è sviluppato a partire dagli anni
Settanta in America Latina e in Bangladesh. Il più noto promotore di
questa pratica è Muhammad Yunus, «il banchiere dei poveri»,
vincitore nel 2006 del Nobel per la pace.
Ma andiamo con ordine. Nei paesi in via di sviluppo, in cui
mancano le infrastrutture e i livelli di alfabetizzazione sono bassi, le
persone possono essere «non bancabili» anche solo perché non
hanno un istituto di credito vicino, perché sono povere e prive di
garanzie, perché non sanno leggere o perché non sono ritenute
affidabili, una percezione che può avere motivi reali o essere il frutto
di pregiudizi. O anche per un miscuglio di questi motivi.

Interessante, l’affidabilità… Mi ricorda la lezione in cui ci ha


illuminato su come vestirsi per andare in banca, suggerendo di non
indossare un passamontagna…
I pregiudizi hanno proprio il potere di danneggiare le vite, la
nostra come quella degli altri. A volte le persone non sono
considerate affidabili solo perché appartenenti a un’etnia
minoritaria, a un’estrazione sociale bassa, o perché donne.
Per riuscire a concedere un prestito a queste persone, il
microcredito parte dalla costruzione di relazioni affidabili, dando
fiducia e cercando di costruire garanzie relazionali. Negli anni questa
pratica ha dimostrato che le garanzie relazionali svolgono la stessa
funzione delle garanzie materiali ed economiche. Si creano così dei
gruppi di solidarietà tra persone che richiedono un prestito legando i
loro destini e in generale si organizzano incontri frequenti tra gli
operatori e i clienti…
Le persone non bancabili trovano in questa pratica
un’opportunità unica per avviare una piccola attività, costruendo
passo passo la propria emancipazione, e per questo tendono a
impegnarsi molto nella restituzione dei soldi ricevuti.

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Però abbiamo l’impressione che il microcredito presti pochi soldi…
Il microcredito è un prestito piccolo, molto piccolo, a volte anche
di poche decine di euro. Tuttavia può essere più che sufficiente per
comprare quei beni utili a generare nuovo reddito.
Le banche tradizionali di solito non hanno interesse a concedere
questo tipo di prestiti, sia per gli scarsi rendimenti che ne
otterrebbero, sia perché fare microcredito in modo valido ed efficace
presuppone una metodologia e una professionalità molto diverse da
quelle che solitamente utilizzano.
I tassi di interesse del microcredito, in tutto il mondo, sono più
alti rispetto a quelli del comune sistema bancario. Questo sia per
riuscire a far quadrare i conti (un interesse su un importo basso
«rende» poco), sia perché oltre al prestito ci sono vari fattori da cui
dipende il successo dell’operazione, come l’accompagnamento del
microdebitore nella costruzione del suo progetto economico, la
costruzione e il mantenimento di un legame di fiducia. Soprattutto
nei paesi emergenti, tuttavia, le persone non bancabili non guardano
tanto al tasso di interesse, ma all’ottenimento del credito e al
miglioramento dei propri flussi di cassa.

Scusi, che flussi, cosa c’entra l’idraulica, ora?


In parole povere fanno il confronto tra quanto guadagnavano
prima del microcredito e quanto guadagnano dopo, pur pagando le
rate. Se guadagnano di più, allora sono felici del credito e di averlo
potuto avere. E poi si deve considerare che di solito il microcredito si
restituisce in tempi brevi, poche settimane o qualche mese, quindi la
valutazione è relativamente rapida.
Attraverso questi prestiti, le persone più povere, soprattutto le
donne che ne sono le maggiori beneficiarie, hanno modo di accedere
al credito e di migliorare le proprie condizioni di vita avviando
piccole attività imprenditoriali.
Una banca in cui sono stato, la Caja de Arequipa in Perù, riesce a
far diventare clienti anche persone non alfabetizzate e che altrimenti
non avrebbero mai potuto accedere a un istituto di credito. Gli
operatori vanno in prima persona a cercarle per strada, e da lì ha
inizio un percorso che nel giro di qualche anno riesce a migliorare il
loro tenore di vita, e a volte ad avviare delle vere e proprie attività
imprenditoriali. La maggior parte delle attività comincia con la
vendita di alimenti o di altri beni, per strada o attraverso il porta a

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porta. Poi, dopo un po’ di tempo, il nuovo lavoro si stabilizza, e si
trasforma in un’attività commerciale che regge. Non mancano poi
progetti legati all’educazione e al miglioramento della vita nei
quartieri.

Mi dica, ma il microcredito esiste anche da noi?


In Europa il microcredito ha delle caratteristiche un po’ diverse. Il
limite massimo è 10.000 euro per i prestiti personali e 25.000 per
uso imprenditoriale: somme un po’ più alte rispetto alle poche
decine di euro di cui parlavamo prima.
Inoltre, le difficoltà che le persone non bancabili devono
affrontare in questa parte del mondo sono di un tipo diverso, mentre
alcune metodologie – come il prestito di gruppo – non sono
praticabili per motivi giuridici e per la struttura sociale
individualista. Un’altra differenza è che, per vari motivi, i tassi di
interesse vengono mantenuti bassi e questo complica la possibilità di
coinvolgere operatori finanziari tradizionali. Il principale istituto che
offre microcredito in Italia è PerMicro, al cui capitale partecipa
anche Banca Etica, ma ve ne sono tanti altri.
L’articolo 111 del Testo unico bancario definisce il microcredito e
riconosce il ruolo delle realtà del terzo settore che sostengono tali
progetti; fra queste ci sono Caritas, Arci, ma anche varie associazioni
locali. Queste istituzioni, come anche le Mag, sostengono il
richiedente lungo tutto il suo percorso: lo aiutano a capire di cosa ha
bisogno e lo seguono nella quotidianità. Un vero e proprio
accompagnamento per quelle persone che, per un motivo o per un
altro, si ritrovano in una fase difficile della propria vita e che
determina un inquadramento del microcredito nell’area del
volontariato e dell’assistenza.

Banca Etica fa qualcosa?


Direttamente, poco: le attività di microcredito in Banca Etica
costituiscono il 2 per cento dei finanziamenti erogati. Agisce quasi
solo quando è affiancata da realtà del terzo settore, spesso con dei
fondi di garanzia: indirettamente fa microcredito tramite realtà
europee a cui fornisce dei finanziamenti. Banca Etica, inoltre,
sostiene il microcredito nel Sud del mondo, soprattutto nel
continente africano: un bel modo per aiutare le persone a uscire da
un contesto di difficoltà, valorizzandone le risorse personali e

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l’indipendenza. Inoltre, in questo modo, si migliorano le condizioni
locali e si riduce la pressione migratoria. C’è poi un pensiero al fatto
che l’Africa ha una popolazione giovane, e la sua economia nel tempo
non potrà che crescere, mentre in Europa ci troviamo nella
situazione opposta. Investire in Africa è dunque una buona pratica,
non solo a livello sociale, ma anche economico.

LA FINANZA DIGITALE

In finanza sono le potenzialità racchiuse dai grandi numeri a fare la


differenza. Per rendersene conto basta osservare che la media del
risparmio italiano sui depositi bancari è di 22.000 euro a testa, a cui
si aggiungono altri 24.000 euro investiti in strumenti di risparmio
gestito quali fondi e assicurazioni sulla vita (dati della Banca
d’Italia).
Significa che in un comune italiano di soli 25.000 abitanti c’è un
potenziale bacino di raccolta dai cittadini che è mediamente di oltre
un miliardo e cento milioni di euro.

Va bene che è la media e quindi ci saranno tante differenze, ma


sono un sacco di soldi! Cominciamo a capire perché ci sono così
tanti sportelli bancari in giro.
Ma ce ne saranno sempre meno, perché oggi la finanza digitale
rende «costoso» avere sportelli, visto che i cittadini possono fare
quasi tutto da soli sul web senza bisogno dell’intermediazione del
cassiere di banca.
Le opportunità offerte da internet possono quindi aprire nuove
interessanti strade per la finanza in generale e per quella etica.
Anche in assenza di legami forti fra le persone – bassa o nessuna
conoscenza diretta, distanza – tramite il web è possibile instaurare
nuove interazioni, anche economiche. Si aprono così possibilità di
relazioni finanziarie dirette che erano impensabili fino a pochi anni
fa, come i prestiti fra privati – social lending – tramite piattaforme
web e senza bisogno di intermediari finanziari, ma solo di enti di
pagamento. Queste piattaforme favoriscono l’incontro fra domanda e
offerta in una sorta di asta, e poi gestiscono i singoli filoni dei
finanziamenti.

Scusi, ma su queste piattaforme posso chiedere un prestito a dei

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perfetti sconosciuti per riverniciare casa o per farmi una vacanza?
E se poi sparisco e non restituisco niente?
Be’, se riesce a convincerli, può anche chiedere un finanziamento
per farsi una vacanza. Certo, in quel caso dovrà forse essere disposto
a pagare un tasso di interesse più alto. Funziona anche qui la regola
del frazionamento del rischio, che si traduce in tanti piccoli
finanziatori: per questo servono la piattaforma e il meccanismo di
divisione paritaria o di asta sul tasso di interesse fatto dal sistema di
pagamento che gestisce la piattaforma web. In pratica, essa propone
un tasso uguale a tutti in funzione del tipo di finanziamento
richiesto, oppure si lascia spazio alla contrattazione fra debitore e
creditore.
E poi c’è un altro aspetto fondamentale da considerare. La
reputazione nel mondo digitale è fondamentale: una recensione
critica può distruggere gli affari di un fornitore di servizi. Quindi,
anche se noi non lo vediamo, il gestore della piattaforma seleziona
coloro che chiedono i prestiti e soprattutto controlla che tutto vada a
buon fine.
Questa forma di prestito (da pari a pari o peer-to-peer, P2P, in
slang anglosassone) inizia a essere molto diffusa a livello
internazionale e consente di offrire prestiti diretti a realtà che
operano per il microcredito nel Sud del mondo. Prendendo spunto
dalle recenti esperienze nel campo dell’autoproduzione di musica,
eventi e attività artistiche, si stanno sviluppando piattaforme di
crowdfunding volte a trovare i capitali necessari a realizzare un
progetto o a dare il via a un’impresa.
Un territorio vastissimo e poco esplorato è quello della
partecipazione dei cittadini al capitale sociale di piccole imprese non
quotate o di imprese cooperative. Si tratta di un «mercato» non
regolamentato, senza le garanzie della Borsa. Si può comprare, ma
può essere difficile vendere quando si vuole realizzare un guadagno o
semplicemente tornare in possesso dei propri soldi. Il rischio può
quindi essere alto, ma di certo lo è anche la soddisfazione. Infatti, in
questi casi si può offrire capitale a realtà che ne hanno bisogno per
fare attività vicine a noi o che ci interessano per il loro valore sociale
o ambientale. Imprese che hanno molte più difficoltà di quelle
grandi e quotate a reperire fondi per crescere o per far partire nuove
attività.

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Come sempre il rischio in finanza va gestito e, nel caso si voglia
investire in piccole imprese, bisogna capire bene quanti soldi si è
disposti a «rischiare». Non è detto, infatti, che si debbano mettere in
gioco cifre importanti: la cooperativa Verso la Banca Etica ha
inizialmente raccolto migliaia di soci che hanno acquistato solo 50 o
100 euro di azioni.
È un settore che rischia di trovare ostacoli notevoli nella
regolamentazione bancaria soprattutto se non si tratta di donazioni,
ma di partecipazione a un’impresa, come comprare azioni o
obbligazioni. Ma se in futuro si riconoscessero delle soglie per
piccole cifre al di sotto delle quali semplificare la normativa, sarebbe
davvero possibile aiutare a innescare processi positivi di economia
civile e di finanza cittadina che nascono dal basso.

I soldi pubblici danno la felicità: #meglioinsieme


Riesce difficile dirlo perché ci suona strano, tanto siamo abituati a
criticarlo, ma lo Stato è bello. E ci aiuta a essere più felici o almeno a
dare più opportunità di felicità a tutti grazie ai servizi pubblici
essenziali.
Capita a ognuno di noi, direttamente o tramite conoscenti, di
toccare con mano il valore incredibile dell’istruzione alla portata di
tutti, dei servizi pubblici di assistenza, degli ammortizzatori sociali
per i lavoratori in difficoltà, delle infrastrutture che ci accompagnano
nella vita quotidiana. La pandemia del 2020 ci ha fatto rivalutare il
fatto di avere una sanità pubblica gratuita e universale: una sicurezza
eccezionale in tempo di crisi e paura che ha supportato tutti, poveri,
ricchi e perfino chi evade le tasse.
Non dobbiamo dimenticare che i servizi pubblici essenziali sono
una conquista recente e hanno contribuito enormemente alla
crescita del paese e al benessere delle persone. La vita è più semplice
e le sicurezze maggiori, anche rispetto a paesi con standard
economici molto più elevati dei nostri come gli Stati Uniti.
In effetti, lo Stato spende per noi, per le persone che vivono in
Italia, per i cittadini…

Non se la prenda, ma… posso dire che a volte spende male?

135
Pensiamo a corruzione, sprechi, inefficienze.
Certo, possiamo anche dire che a volte non siamo un esempio di
efficienza e organizzazione.
La corruzione è una delle piaghe da debellare, ma non è corretto
attribuirla in toto al sistema pubblico perché è data da un intreccio
continuo con il sistema privato e arriva fino al malcostume dei
cittadini. È una realtà difficile da misurare, ma si stima che l’8 per
cento delle famiglie abbia avuto esperienza di fenomeni corruttivi e
che sprechi e corruzione arrivino alla cifra incredibile di 230 miliardi
l’anno (il 13 per cento del Pil), un numero importante se confrontato
alla spesa pubblica italiana che è di circa 830 miliardi annui.
Questi numeri dovrebbero stimolarci ad avere maggior cura della
cosa pubblica, non a buttare via il bambino con l’acqua sporca. In
altre parole: dobbiamo adoperarci per migliorare continuamente la
gestione della cosa pubblica e dobbiamo anche rispettarla, non
metterci dalla parte di coloro che cercano di fregare il pubblico o che
lo rendono inefficiente.
Tornando al valore «sano» dei servizi pubblici, finora gli stati o le
comunità locali si sono dimostrati lo strumento principale per
gestire la solidarietà e la mutualità tra cittadini. Una solidarietà
anche intergenerazionale. Si pensi alle pensioni: gli anziani ricevono
l’assegno grazie al lavoro dei più giovani, e il meccanismo si inceppa
se non vi è equilibrio tra le generazioni, come sta accadendo in Italia
(ci mancano lavoratori che paghino le pensioni: vanno bene anche
stranieri ovviamente…). Un sistema che rappresenta un modello di
solidarietà intergenerazionale ed è più semplice rispetto ad altre
forme previdenziali.

Biggeri, le pensioni sono un casino.


Sono d’accordo. Ma questo argomento è utile a capire che alcuni
problemi li dobbiamo affrontare pensando con una prospettiva
decennale. In tal modo vedremmo con una prospettiva molto diversa
anche il tema delle migrazioni.
Un ragionamento simile vale pure per le politiche del lavoro: per
la nostra Costituzione il lavoro è fondamentale. Non basta il mercato
a garantire il lavoro per tutti. In un momento storico in cui
sembrano servire sempre meno lavoratori, c’è bisogno di un sistema
di regole che sappia intervenire e fare in modo che si possa lavorare
tutti, magari ognuno un po’ meno che nel passato. Credo sia

136
necessario riflettere su come ottenere queste cose, che sono
importanti per la felicità, sono un diritto. Per provare a garantirle, il
ruolo dello Stato non solo potrebbe essere più positivo, ma
determinante.

LE TASSE

Adesso, prima di affrontare il prossimo argomento, c’è bisogno di


tirare un bel respiro, perché per far funzionare i servizi pubblici
essenziali ci vogliono le tasse.

Quindi le tasse sono un bene?


Sì, meglio se eque, giuste, progressive e, soprattutto, pagate da
tutti.
Prima di iniziare bisogna capire quali servizi pubblici essenziali
garantiti, e di che qualità, si vogliono avere, e quindi le tasse da
pagare. Il ragionamento per cui se i servizi non sono perfetti allora
tanto vale pagare meno imposte genera una spirale negativa. Con
meno tasse i servizi possono solo peggiorare! Occorre piuttosto fare
in modo che i servizi funzionino bene e che tutti paghino quanto
dovuto al fisco. In questo modo sarebbe possibile ridurre le imposte
e avere buoni servizi.
Ovvio che è un tema politico spinoso.

Quindi, saggiamente, meno diciamo e meglio è…


Però qualcosa possiamo dire comunque. Per esempio, si
potrebbero diminuire un po’ le tasse, se tutti le pagassero e se si
riducesse l’ottimizzazione fiscale delle grandi imprese sovranazionali
(quelle dei paradisi fiscali o delle sedi legali in posti diversi da dove si
produce valore). Un sistema di contabilità per paese è relativamente
facile da rendere obbligatorio a livello internazionale e bloccherebbe
la corsa al ribasso delle tasse per le grandi imprese.

Giusto!
Si potrebbero anche cambiare le politiche fiscali. L’attuale
emergenza climatica ha bisogno di rendere espliciti i costi alla
collettività di un’economia basata sul petrolio. Non farlo significa
solo drogare un’economia sbagliata e farne pagare le conseguenze a
tutti e alle future generazioni. Quindi una carbon tax (tassa sulle

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emissioni) sarebbe una bella novità in grado di generare innovazione
in economia e di contrastare i cambiamenti climatici. L’esperienza
dei gilet gialli in Francia ci ha dimostrato che una simile iniziativa va
preparata bene e magari va accompagnata da meccanismi di
compensazione per le fasce deboli della popolazione, per esempio
riducendo a queste ultime il carico fiscale.
Si potrebbe alleggerire le tasse per i servizi e la produzione di beni
che abbiano un benefico impatto sociale e ambientale e aumentarle
per quelli che hanno impatti negativi. Quando fu abolita la schiavitù,
sembrava che l’economia delle zone in cui si praticava dovesse
crollare. Stessa cosa quando si è proibito il lavoro minorile o si sono
dati dei diritti ai lavoratori. Invece le tasse o i disincentivi legali,
quando sono chiari e ben posti, alla fine danno risultati positivi,
generano innovazione.

Ci scusi, ma questa cosa che le tasse generano innovazione potrebbe


causare infarti agli imprenditori brianzoli e non solo…
I disincentivi fiscali non aggirabili (e non frammentati in milioni
di piccole regole per accontentare tutti) determinano una
riorganizzazione del mercato. Si pensi, per esempio, agli effetti
positivi sulla produttività del lavoro determinati dall’avere dato
diritti ai lavoratori aumentando il costo del lavoro per le imprese.
Orientano, quindi, le aziende a investire in ricerca per essere
competitive ed evitare gli effetti negativi delle imposte o delle
normative volte a scoraggiare una determinata prassi. In questo
senso, quindi, le tasse funzionano meglio degli incentivi (che però
politicamente e culturalmente sono più digeribili).
Dobbiamo sempre ricordare che le regole e le tasse sui diritti dei
lavoratori hanno contribuito ad aumentare l’efficienza e ad alzare la
produttività rispetto al costo del lavoro. Oggi abbiamo bisogno di
innovazioni simili sul fronte ambientale e su quello della creazione o
del mantenimento dei posti di lavoro. In ogni caso il sistema di
tassazione andrebbe cambiato, magari andando a prendere i soldi
dove sono, invece di continuare a spremere i posti da cui i soldi sono
scappati… con la fantastica tassa sulle transazioni fiscali!

È vero, quella di Tobin Hood! Mi scusi, James Tobin…


Malgrado quelli che dicono il contrario, sarebbe semplice tassare
le attività finanziarie globali, che sono molte volte il Pil globale. Più

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di qualsiasi altro mercato, infatti, il funzionamento delle attività
finanziarie globali si basa sull’informatica, quindi tracciare gli
scambi (e tassarli) è un problema tecnicamente risolvibile. E ci
sarebbero ulteriori vantaggi: la tracciatura necessaria per la
tassazione renderebbe la finanza più trasparente, impedirebbe (pena
la loro nullità) che i contratti derivati vengano fatti in modo non
regolamentato (tenuti in casseforti segrete come ha fatto il Monte dei
Paschi di Siena…).

E questi controlli via computer non sarebbero anche più semplici


della verifica degli scontrini del negozietto di quartiere?
Sì, e sarebbero almeno altrettanto importanti. Genererebbero
tanti soldi per le finanze pubbliche (con la possibilità di ridurre le
tasse ai contribuenti) e indirettamente riporterebbero gli
investimenti all’economia reale. Secondo me prima o poi ci
arriveremo: succederà quando i cittadini comuni capiranno che è
una tassa a loro vantaggio.
I soldi pubblici sono soldi in comune. Non sono i nostri soldi,
perché non sono neanche la somma di tutte le tasse versate. Sono
proprio soldi che abbiamo tutti insieme. Non è un concetto facile.
Ecco un esempio concreto. L’associazione Mondo di comunità e
famiglia (Mcf) riunisce esperienze di vita nate nella comunità di
Villapizzone a Milano, avviata nel 1978. Tra le cose che i suoi membri
propongono vi è l’uso della cassa comune: tutti gli aderenti vi
versano i propri stipendi e poi riprendono ciò di cui hanno bisogno.
Non è una scelta banale, ma le cose vanno molto meglio di quanto si
creda al di fuori. Infatti i soldi della cassa sono pensati come soldi in
comune, non più dei singoli, e da usare con attenzione agli altri. La
comunità è animata da forti motivazioni e dalla scelta compiuta dagli
aderenti: questo ha reso possibile la gestione collettiva del denaro.
Con lo Stato siamo e ci sentiamo «costretti» a mettere i nostri
soldi (tramite le tasse) nella «cassa comune», ma potremmo aprirci a
uno sguardo diverso, ampliare l’orizzonte e capire la responsabilità,
la solidarietà, la mutualità e il valore comunitario dei soldi pubblici.

Se così fosse forse eleggeremmo i migliori politici del mondo…


Concordo. Speriamo che prima o poi succederà.
Non possiamo che chiudere questo libro dicendo che si sta meglio
insieme che da soli. Che si risparmia meglio insieme che da soli. Che

139
si crea economia circolare meglio insieme che da soli. Che si sogna
meglio insieme che da soli. Che si è più felici insieme che da soli.
In questi anni ci vengono spesso additati nemici esterni a cui dare
la colpa per le paure che abbiamo o per ciò che non funziona.
Però è chiaro che è difficile essere contenti se si è sempre
arrabbiati e se abbiamo costantemente un nemico da combattere o
da cui difenderci. Chiudersi in casa, nel proprio circondario o nel
proprio stato, dà un apparente senso di protezione, ma non può che
generare insicurezza nel medio e lungo periodo: una simile risposta
alla paura ne genera altra in continuazione.
Per ottenere sicurezza e opportunità è necessaria la pazienza di
generare buone relazioni con gli altri e di risolvere insieme i
problemi che possono sorgere.
È più facile essere felici quando si è solidali e si rischia l’apertura
verso gli altri piuttosto che chiudersi nel proprio guscio.
Non significa rinunciare allo slancio per migliorare e cambiare il
mondo. Tutt’altro.
Significa capire che è #meglioinsieme, perché così anche i soldi
danno la felicità.

140
Compiti per fare pratica

Caro Biggeri, abbiamo fatto un lungo percorso, in un paese che di


finanza sa poco. Lei ci ha illuminati.
Adesso però non possiamo dimenticare tutto, starcene spiaggiati
con le nostre infradito a mollo sul bagnasciuga, o in montagna a
tirarci palle di neve prima che l’ultimo ghiacciaio si sciolga per i
cambiamenti climatici. Quindi dobbiamo dedicare almeno mezz’ora
al giorno a fare i compiti.

Mezz’ora al giorno? Non sarà troppo?


No, perché i soldi occupano la nostra vita per molto più di
mezz’ora al giorno, quindi è poco.

Lo diceva anche la mia professoressa di matematica.


Il primo compito ovviamente riguarda l’economia. Bisogna
chiedersi dove sono i propri soldi, e poi girare la domanda (per
email, per telefono, di persona) a chi li gestisce. Alla banca, al
consulente finanziario. Chiediamo: «I miei soldi dove sono investiti?
Negli ogm o nel biologico? Nella plastica che mi circonda mentre
faccio il bagno al mare o nella plastica riciclabile? Nelle bombe o
nelle pale eoliche?». E dobbiamo ottenere una risposta. Poi ce le
appuntiamo, queste risposte, e scriviamo che cosa abbiamo deciso di
conseguenza.

D’accordo, va fatto.
Poi vi aspetta un bel compito di matematica. Quella faccenda del
kakebo vi era piaciuta. Almeno per un mesetto proviamo a tenere

141
conto delle spese che facciamo sul kakebo, senza ossessioni, ma con
l’attenzione sufficiente a capire dove mettiamo i nostri soldi in quel
mese.
Magari non scegliamo proprio la settimana in cui siamo in
vacanza e possiamo spendere quello che ci pare. Prendiamo a
riferimento un mese di vita normale, e vediamo che succede. E
scriviamo anche le cose belle, non solo le spese, altrimenti viene la
tristezza. Per esempio: «Ho risparmiato dieci euro facendo in casa la
torta e mi sono divertito».
Magari scopriremo che in alcuni settori spendiamo di più o di
meno di quanto pensavamo.

E non si copia dal kakebo degli altri.


Assolutamente no. Ognuno ha il suo kakebo.

E se mi accorgo di spendere in ghiaccioli l’equivalente del Pil di San


Marino?
Forse bisognerebbe preoccuparsi più per i coloranti che finiscono
nello stomaco che per l’aspetto economico. La salute prima di tutto!

Certo, certo, molto attento, presidente. Altro?


Un po’ di autoproduzione, soprattutto se si riesce a farla con altri,
e di buone relazioni: orto, giardino, un vaso sul balcone, marmellate,
scambio di favori con il vicino, solidarietà. Qualcosa che ci faccia
scoprire la felicità di saper fare qualcosa e di stare bene con le
persone. E che ci faccia riflettere.
Sarà utile anche qualche lettura. Siccome per qualcuno i libri sono
pesanti, suggerisco un sito che, guarda caso, sostiene anche Banca
Etica: valori.it. È dedicato a una continua educazione finanziaria e
c’è anche qualche articolo divertente.

Per esempio apro valori.it e trovo: «Riciclaggio, il paradiso è


l’Austria». Be’, divertente!
Infine, un bel compito, che ci darà un po’ di speranza e felicità:
praticare gesti di gratuità a casaccio, non organizzati, spontanei e
inaspettati. È abbastanza rivoluzionario e può essere anche
economico, basta poco.

Prendere un ghiacciolo e non pagarlo? In questo senso?

142
No, casomai alla rovescia, prendere il ghiacciolo e regalarlo al
primo che passa, al tizio che viene a vendere cianfrusaglie in
spiaggia.

Il ghiacciolo sospeso!
Comunque, meno male che ero io che pensavo al cibo… Questa
dei ghiaccioli mi pare una fissazione.
La gratuità ci serve, ci fa stare bene e crea coesione. In generale
aiuta a pensare che i soldi si possono anche regalare. Pochi o tanti
che siano, fa bene a tutti. E dà molti più risultati di quanto
potremmo pensare.
Buon lavoro e non scordatevi di completare i quiz di fine corso,
altrimenti niente promozione!

143
Quiz finali

Domande di riscaldamento

Il grano è…

a. L’unità di misura che indica la decima parte di un grammo.


b. I quattrini che guadagniamo e spendiamo.
c. Una pianta graminacea che sta alla base dell’alimentazione di
molti popoli.

La Borsa è…

a. Un portaoggetti di stoffa, pelle o altro materiale di vari colori,


forme e dimensioni, secondo l’uso cui è destinato.
b. Un giro di compravendita e scambi finanziariamente assai
notevoli. La riunione degli agenti di cambio per contrattare merci
(B. merci) e titoli pubblici e privati (B. valori).
c. Quella che possono chiederci in cambio della vita.

L’investimento è…

a. L’atto di essere nominato cavaliere, con tanto di spadata sulla


spalla.
b. Un incidente, un urto violento o una collisione nel traffico.
c. L’impiego di una somma di denaro in un’impresa o nell’acquisto
di valori o beni durevoli.

144
Un buon tasso è…

a. Il caro vecchio Torquato della Gerusalemme liberata.


b. Un rapporto tra due valori che può essere anche espresso in
percentuale. Magari un tasso di interesse.
c. Un simpatico mustelide che pur essendo carnivoro è di indole
pacifica.

La liquidità è…

a. La disponibilità di denaro contante o di altri mezzi rapidi di


pagamento.
b. Lo stato liquido di un corpo, per esempio l’acqua o ancora
meglio la birra.
c. L’atteggiamento di una persona che cambia più volte idea nel
giro di pochi minuti.

La sofferenza è…

a. Un dolore. Per esempio, quando ci togliamo un dente.


b. Il ritardo nell’estinzione di un debito il cui recupero prefigura la
necessità di un’azione legale da parte della banca.
c. Lo stato emotivo che accomuna tutta l’umanità di quando in
quando.

La speculazione è…

a. Un’attività di pensiero relativa a una sfera teorica d’indagine e di


approfondimento.
b. L’azione di guardarsi allo specchio per ore occupando il bagno,
mentre il resto della famiglia attende impaziente.
c. Un’operazione commerciale intesa a conseguire un guadagno in
base alla differenza tra i prezzi attuali e quelli futuri previsti.

I derivati sono…

a. Termini che si formano a partire da una parola. Per esempio:


mano, smanettare, manette, maniglie eccetera.
b. Prodotti finanziari la cui esistenza e il cui valore sono legati a

145
quelli di titoli sottostanti.
c. Prodotti che si ottengono da altri mediante una trasformazione
chimica o alimentare, come per esempio il formaggio, i salumi, il
seitan e il tofu, che derivano rispettivamente dal latte, dal maiale,
dal grano e dalla soia.

Domande avanzate

Questa mattina hai differenziato i rifiuti; hai fatto la spesa bioequa e


solidale; hai pagato le tasse; hai fatto un’ora di volontariato
insegnando italiano a un gruppo di rifugiati. Ti senti in pace con te
stesso/a. Poi leggi sul giornale che la tua banca finanzia la vendita
di armi che stanno sterminando una generazione di bambini nello
Yemen. E anche un progetto di diga che comporterà ulteriore
deforestazione in Amazzonia. Cosa fai?

a. Chiudo il giornale! Mica posso salvare il mondo da solo/a.


b. Parto per lo Yemen per controllare con i miei occhi se su quelle
bombe c’è davvero scritto «made in Italy».
c. Segno in agenda di andare a chiudere il conto in quella banca.
Magari posso farlo anche online!

Dopo la crisi del 2008 l’Europa e l’Italia hanno varato norme che
incentivano le fusioni tra banche e la creazione di pochi gruppi
bancari molto grandi. Che ne pensi?

a. Mi pare una stupidaggine! Sono state le banche too big to fail a


causare la crisi. Io sono per la biodiversità nel sistema bancario.
b. Buona idea! Come si fa a fidarsi di piccole banche locali?
c. Che provvedimento machista: sempre a guardare a chi ce l’ha
più grande.

Molte banche promettono conti correnti del tutto gratuiti. Che ne


pensi?

a. Sento puzza di bruciato. I servizi gratuiti di solito nascondono


fregature. Come fa la banca ad avere le entrate sufficienti per
pagare i lavoratori, far funzionare i software dei bancomat

146
eccetera? È chiaro che ci sono costi o rischi occulti da qualche
parte.
b. Evvai, lo apro subito! D’altra parte, perché dovrei pagare per
gestire i miei soldi?
c. Penso che dovrebbero fare di più: darci i conti correnti già con i
soldi dentro!

147
Postfazione

di Anna Fasano
Presidente di Banca popolare Etica

Se cercavate un manuale di finanza popolare o un vademecum di


buone pratiche, questo non era il libro giusto (Biggeri comunque li
ha scritti, potete recuperarli).
Se invece siete persone curiose, appassionate di finanza,
allergiche al denaro, indifferenti a temi che non potete governare,
questo libro fa per voi.
Mantiene il ritmo veloce tipico di una trasmissione radiofonica,
stabilisce sintonia immediata tra autore e lettori e permette di avere
un’idea articolata su «a cosa serve il denaro».
Ci permette di evitare il rischio di concentrarci solo sulle parole
chiave della finanza, quelle alla moda come blockchain, o sui
macrotemi che leggiamo sui giornali e che ci piacerebbe capire in
pochi secondi, come lo spread. Se lo facessimo qui, sarebbe come
avere scoperto il segreto di una buona torta e volersi fermare alle
decorazioni.
No, dobbiamo andare a fondo, conoscere gli ingredienti e saperli
mescolare. A quel punto obbligazioni, derivati, paradisi fiscali, ma
anche economia circolare, Pil, debito pubblico, inizieranno ad avere
un sapore di quotidianità.
L’obiettivo non è quello di dividere il denaro in buono o cattivo,
ma di stimolarci a riflettere sul legame tra i soldi e il benessere delle
persone e dell’ambiente.

148
L’idea dominante è dare credito alle persone, alle organizzazioni e
alle imprese che lavorano rispettando i diritti umani e il pianeta, che
utilizzano la creatività e la tecnologia per rendere i nostri paesi più
vivibili e per dare qualità ai servizi. A quelle che si impegnano per
l’inclusione lavorativa dei giovani e delle donne (fasce penalizzate
anche dalla crisi successiva alla pandemia da Covid-19).
A lettura finita, pensate ancora che tutto questo non sia
prioritario e sia irrealizzabile?
Non solo si può fare – e Banca Etica ne è la dimostrazione –, ma
possiamo chiedere a tutte le banche di sostenere solo chi si impegna
per un’ecologia integrale (così la definisce anche papa Francesco
nell’enciclica Laudato si’).
Dobbiamo partire però da noi, dalla voglia di farci delle buone
domande, dalla capacità di cercare le risposte e dal desiderio di
trovare altre persone che hanno scelto di far sentire la loro voce
attraverso la partecipazione attiva (come ci insegnano i giovani di
Fridays for Future).
Ancora un tassello… Ma lo sapete che le donne, nello scegliere
come risparmiare, pensano al futuro e non solo al rendimento
immediato? Che sia venuto il momento di declinare i temi
dell’economia e della finanza avendo ben presenti modelli non solo
maschili?
Se ora, terminato il libro, avete ancora un sacco di nuove
domande (non le stesse dell’inizio)… siete in buona compagnia!

149
Qualche approfondimento bibliografico

Aa.Vv., Non con i miei soldi! Sussidiario per un’educazione critica


alla finanza, Altreconomia, Milano 2019.
Baranes, Andrea, Finanza per indignati, Ponte alle Grazie, Milano
2014.
Bartolini, Stefano, Manifesto per la felicità. Come passare dalla
società del ben-avere a quella del ben-essere, Feltrinelli, Milano
2013.
Becchetti, Leonardo, Il microcredito. Una nuova frontiera per
l’economia, il Mulino, Bologna 2008.
—, Il voto nel portafoglio. Cambiare consumo e risparmio per
cambiare l’economia, Il Margine, Trento 2008.
Biggeri, Ugo, Il tempo e il denaro… e altre domande di senso che in
finanza non ci facciamo più, in «Nuova economia e storia», XXIV,
2018, p. 137.
—, Il valore dei soldi. Banche, finanza ed etica oltre il mito della
crescita, San Paolo, Cinisello Balsamo 2014.
Brancaccio, Emiliano e Bracci, Giacomo, Il discorso del potere. Il
premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica, il
Saggiatore, Milano 2019.
Bruni, Luigino e Zamagni, Stefano, L’economia civile. Un’altra idea
di mercato, il Mulino, Bologna 2015.
Cavallito, Matteo et al., La finanza etica e sostenibile in Europa,
Finanza Etica, 2019.
Congregazione per la dottrina della fede e dicastero per il Servizio
dello sviluppo umano integrale, «Oeconomicae et pecuniariae
quaestiones.» Considerazioni per un discernimento etico circa

150
alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, 17
maggio 2018.
Gesualdi, Francesco, Manuale per un consumo responsabile. Dal
boicottaggio al commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano
1999.
—, Guida al consumo critico, Emi, Verona 2009.
Graeber, David, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano
2015.
Illich, Ivan, Lavoro-ombra, Mondadori, Milano 1985.
Istat, La corruzione in Italia, 12 ottobre 2017.
Mazzucato, Mariana, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo
sottrae nell’economia globale, Editori Laterza, Roma-Bari 2018.
Milani, Lorenzo, L’obbedienza non è più una virtù, Chiarelettere,
Milano 2012.
Report di Impatto 2019 di Etica Sgr: i risultati dell’impatto
ambientale, sociale e di governance, Etica Sgr, 2019.
Vecchi, Davide, Il caso David Rossi. Il suicidio imperfetto del
manager Monte Paschi di Siena, Chiarelettere, Milano 2017.

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