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L’IDIOTA

di Roberto Braida

Una musica da un pianoforte accompagna l’intera scena.

Una tela bianca sul fondo appoggiata ad un cavalletto. Una tavolozza di colori, dei pennelli sparsi
sul pavimento sopra dei fogli di giornali sporchi di vari colori. Rosso predominante.

Delle riviste rovesciate, dei libri, della frutta.

Ed una foto, una foto su un muro di un uomo. E’ abbastanza grande da riempire una parete. La tela
è puntata proprio in quella direzione. Dietro il cavalletto Lei, sdraiata come se dormisse, si sta
leggermente muovendo. Ha le mani sporche di colore rosso.

LEI

(di fronte alla foto sulla parete scuotendo la testa)

Che vorresti che facessi? Che continuassi a ripetermi che avevo ragione a non lasciarti andare?

Hai visto che ce l’ho fatta! Ho realizzato il mio sogno. Ho vinto, finalmente. Ti ho battuto.

Dicevi sempre che non ne avrei mai avuto la forza. Eccomi qua…! Idiota. Maledetto idiota, cretino!

(sporca lentamente con le mani la tela bianca, il colore è il rosso)

In verità non ne avrei avuto il coraggio se tu non mi avessi lasciato fare. Ti devo dar merito di
questo: non ne sarei stata capace senza di te. Avrei voluto solamente che mi avessi accompagnato
in questa decisione. Non è solo mia, lo capisci, non è solo mia!

Doveva essere nostra, doveva essere un ponte per rivivere. Un piccolo passo in avanti. Una ragione.

Idiota! Inutile essere che mi hai accompagnato per tutti questi anni.

Che fine farò ormai…?

(le mani sporche di rosso continuano a sporcare la tela)

Non riesco più a dipingere. La mia mano trema, le linee non capisco perché non hanno più una
ragione. Avrei bisogno di un punto di riferimento. Un’ispirazione che mi guidi.

(comincia a ballare e ad abbracciarsi da sola come in un valzer lento, cade in terra mentre piroetta)

Dipingere, questo mi chiedevi di fare. Volevi che uccidessi il tempo in tua assenza. Ad uso e
consumo di noi povere sciagurate chiuse in casa la domenica a soffrire, a negarsi. Complimenti,
bella riuscita! Guarda che quadri, guarda l’ordine della nostra casa.

(si guarda le mani sporche di vernice rossa, si getta sulla tela bianca e la sporca con delle strisce di
dita).

Questa sembra essere la mia unica strada. Questa è la mia ancora di salvezza per andare avanti.

Non mi guardare così!

(gli getta del colore contro il viso. Si avventa sulla foto con il pennello sfregiandolo con i colori)
Non mi guardare così. Maledetto! Vattene via! Sparisci! Pensi di mettermi paura. Pensi che la mia
vita debba per forza dipendere da un idiota come te! Io so camminare con le mie gambe. Io riesco
a vivere anche senza di te! (scoppia in un pianto dirotto).

(si risistema e si rimette a sporcare la tela con le mani con un gesto meccanico).

(poi si comincia a toccare il viso, sporcandoselo, finché finisce in una risata isterica)

Tu già lo sapevi vero? Perché non hai voluto fare in modo che questo accadesse naturalmente?

Certo non avevo la forza di contrastare la tua vitalità. Il tuo lavoro che ti ha sottratto a me.

A me, chiusa in me stessa, a subìre volontariamente le tua angherie, rinchiusa qua dentro a
sviluppare tecniche di pittura per non morire di noia, per non avvelenarmi l’anima. Con l’unico
scopo di dipingere un tuo ritratto, la tua faccia da cazzo che mi guarda serena e mi dice che tutto è
a posto.

(violenta) Non è a posto nulla! Non c’è condizione per mantenere le cose a posto. Le cose
cambiano il loro aspetto, ci annientano le gioie, ci stimolano a cercarne delle nuove, ci aiutano a
farci capire che non siamo fermi, che siamo mutevoli.

Noi siamo mutevoli e cambiamo anche le nostre stupide e meschine opinioni. Cambiamo i nostri
desideri ogni volta che cambiamo gli interessi. Noi potevamo cambiare le nostre esistenze per
sempre.

Tu non lo hai voluto accettare. Idiota.

(a se stessa) Come potevo tenerti in vita? Come potevo pensare che queste mani insanguinate
riuscissero a disegnare il nostro destino?

Siamo cambiati! Anzi, no! Tu sei cambiato, io no, io non ne ho avuto il tempo, forse lo avrei fatto
fra qualche giorno ma tu lo eri già. Idiota! Ma lo hai fatto prima di me e dovevo punirti.
Severamente.

Ora sono contenta. Ho fatto quello che mi sentivo di fare, come mi dicevi tu.

Ti ho ucciso senza pietà.

(un coltello insanguinato ora è nelle sue mani, rosso, lo pulisce sul camice bianco ormai macchiato)

Ed ora riprenditi il tuo sangue, mi sporca casa…

(con un gesto violento squarcia la tela con il coltello, poi lo butta via. Rimane impassibile di fronte
alla fotografia sul muro, la guarda compiaciuta. Con le mani traccia delle linee sulla faccia di Lui. La
stacca dal muro e la lascia appoggiata sul dorso di una quinta, la faccia non si vede più. Lì vicino
prende un’altra foto, di un altro uomo, la guarda, scuote la testa, si avvicina alla tela, la cambia con
una bianca, scuote la testa)
L’ULTIMA NOTTE

- Stanotte dovrò sistemarmi qui nel parco; tutti i posti più riparati erano già occupati…

Fa davvero freddo; se fossi un po’ più grassa resisterei meglio!

Non sopporto il freddo; io sono nata al Sud, in una terra baciata dal sole e ricca di colori….

Nel posto dove sono nata, in campagna, c’era un albero di ciliegio che a primavera si riempiva di
fiori e ospitava gli uccelli che ogni mattina mi svegliavano con il loro canto.

Ho avuto un’infanzia felice; sono cresciuta serena e amata.

 Ma anche dopo sono stata felice, quando ho conosciuto Frank.

Lui era un musicista; viaggiava continuamente; era uno spirito libero.

Ho rotto con i miei perché mi ostacolavano, sostenendo che un tipo così non poteva essere
affidabile.

 Ma ci amavamo, ed ero convinta che questo sarebbe bastato a tutto.

Le cose hanno cominciato a complicarsi quando ho scoperto di essere incinta. Era stato un caso,
ma io ero felice. Però non seguivo più Frank nei suoi continui spostamenti e lui era sempre
contrariato.

Ricordo il giorno in cui è arrivato Paul. Ero sola in ospedale, Frank era fuori e mi avrebbe raggiunto
in serata.

 Avevo avuto dolore per tutto il pomeriggio; sapevo che era ormai arrivato il momento e avevo
paura.Ricordo quell’odoredidisinfettante, la stanza con le piastrelle bianche, il medico e le
infermiere che mi si muovevano intorno dandomi istruzioni che non ascoltavo.

 E poi, quasi all’improvviso, era lì, tra le mia braccia.

 Mio.

 Mio figlio!

Frank non arrivò quella sera. Né mai. Non ha mai conosciuto Paul.

Ho dovuto rimboccarmi le maniche e lavorare sodo perché mio figlio crescesse sano, senza altre
privazioni oltre quella di un padre che non c’era. Anche quando tornavo distrutta dopo una
giornata di lavoro e con mille preoccupazioni per i soldi che non bastavano mai, con lui ero sempre
allegra e fantasiosa, inventavo giochi e lui era sereno.

Anche a scuola lo aiutavo, e mi davo un gran da fare quando bisognava preparare le recite di
Carnevale o di Natale.

Un volta sono rimasta sveglia una notte intere a cucire le tuniche da angioletto per tutti i bambini
della classe. Le altre madri mi apprezzavano per la mia disponibilità, la mia fantasia, e, soprattutto,
la mia allegria, senza mai sospettare che la mia fosse una farsa continua. Non ero affatto allegra;
non ne avevo di certo motivo. Ma indossavo la maschera che mi sembrava attraesse di più chi mi
era vicino, e che mi faceva sentire  sicura.
Poi un giorno sono tornata a casa disperata: avevo perso il mio lavoro, quello che facevo da anni
con grande capacità. Da qualche mese era arrivato un nuovo capo, una donna:una di quelle
perfette, intransigenti.La mia sicurezza aveva iniziato a vacillare sotto il suo continuo esame. Era
sempre più mortificante. E quel giorno, sconfitta, me n’ero andata.

Paul non mi aveva mai visto così: urlavo e piangevo; e quando ha provato a chiedermi cosa fosse
successo, gli ho dato un violento schiaffo in pieno viso, gridandogli di lasciarmi in pace.

Mai prima d'allora lo avevo colpito; neppure col più aspro dei rimproveri ero mai arrivata ad alzare
le mani su di lui.

Devo averlo talmente spaventato e confuso che ha aperto la porta ed è sceso di corsa in strada.

Solo allora mi sono riavuta; gli sono corsa dietro per fermarlo, ma...

…l’auto arrivava veloce….

….non ha frenato…

La corsa in ospedale è stata inutile.Paul se n’era andato. E la mia vita si è fermata quel giorno,
insieme alla sua.

Non ho più fatto ritorno a casa. Mi trascino per queste strade giorno dopo giorno senza più
percezione delle ore, del tempo…: in fondo cosa sono le ore se non la trappola in cui si
racchiudono le necessità quotidiane, la scansione dei ritmi imposti dall’esistenza?

E il tempo non è affatto un balsamo che rende accettabile tutto ciò che nell’immediato sembra
doloroso e insuperabile: il dolore non passa, e fa sempre più paura, insieme alla rabbia ed alla
cattiveria che crescono ed inaspriscono il tuo cuore,senza tregua.

Ieri notte mi è venuto incontro un giovane per strada. Sembrava confuso.Col buio forse non mi
aveva guardato bene, altrimenti non si sarebbe avvicinato: sono sporca, vestita di stracci e puzzo.

 Era straniero, e tentava di ritrovare la via dove alloggiava. Non ho saputo dargli indicazioni,
altrimenti lo avrei anche accompagnato:mi faceva così tenerezza! L’ho guardato allontanarsi. Se
avessi avuto ancora una casa mi sarei offerta di ospitarlo fino all’indomani. Era già tardi e
cominciava a nevicare. Gli avrei preparato una tazza di cioccolato caldo per togliergli il gelo che
aveva addosso e addolcire i suoi sogni: sembrava un’anima candida ancora bisognosa di carezze
materne; avrebbe potuto essere mio figlio e, per me, sarebbe stato il mio Paul, per una sera.

E’l’alba.

Legocce gelate di rugiadasui rami spoglicol primo sole scintillano come diamanti. Il fiato forma
nuvole di vapore, l’aria è fredda. Tutt’intorno, una cornice di monti immacolati.

 C’è un silenzio perfetto, come solo può essere in un’alba d’inverno.Poi sarà mattino, e lentamente
tutto si risveglierà: prima l’odore del panedal forno della piazza, poi il rintocco della campana e le
risate dei bimbi che correranno a scuola tirandosi palle di neve: solo la loroallegria può ben
sostituire questo silenzio.

Dicono che quando si sta per morire tutta la vita ti scorre davanti, come in un film.Allora forse sto
per morire, chissà…
Ora chiudo gli occhi, la notte è quasi finita e non ho riposato neanche un po’.Che strano,mi sembra
quasi di sentire calore. Epace.

http://www.gttempo.it/CopioniMonologhi.htm

https://www.ateatro.info/genere/monologo/page/7/

NINA

Perche dici che baci la terra sulla quale ho camminato?

Bisognerebbe uccidermi invece. (si piega sul tavolo) Ho sofferto

tanto! Potessi riposare...riposare! (solleva la testa) Io sono un

gabbiano... No, non c'entra. Sono un'attrice. Certo, e cosi!

(sentendo le risa della Arkadina e di Trigorin, tende l'orecchio, poi corre

verso la porta di sinistra e guarda dal buco della serratura) Anche lui

e qui... (ritornando da Treplev) Eh, gia... Non importa... Si... Non

credeva nella mia vocazione, rideva dei miei sogni e a poco a

poco anch'io ho smesso di crederci e ho perduto coraggio...

E poi le pene d'amore, la gelosia, la paura continua per il piccolo...

Sono diventata meschina, mediocre, recitavo senza capire quello

che facevo... Non sapevo dove mettere le mani, come stare in

scena, come controllare la voce. Tu non puoi sapere che cosa

vuol dire rendersi conto di recitare male. Io sono un gabbiano.

No, non c'entra... Ricordi? Una volta hai ucciso un gabbiano.

Per caso capita li un uomo e, per ammazzare il tempo, distrugge

la vita... Un soggetto per un racconto breve... No, non c'entra.

(si strofina la fronte) Cosa stavo dicendo?... Ah, si, il teatro. Adesso

non e piu cosi... Adesso sono una vera attrice, recito con piacere,

con entusiasmo, quando sono in scena mi sento eccitata, mi sento

bella. Ora poi, da quando sono qui, faccio lunghe passeggiate a

piedi e mentre cammino, penso, penso e mi rendo conto che di


giorno in giorno cresce la mia forza interiore... Ora so, ora

capisco, Kostja, che nel nostro mestiere, recitare o scrivere

e poi lo stesso, l'importante non e la gloria, il successo, non

quello che sognavo, ma saper sopportare. Sappi portare la tua

croce e credi. Io credo e questo mi allevia il dolore, e quando

penso alla mia vocazione, non ho piu paura della vita.

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TREPLEV (tristemente) Tu hai trovato la tua strada, sai dove

vuoi andare, io invece vago ancora in un caos di sogni e fantasie

e non so a chi o a cosa serve tutto cio. Io non credo, non so

quale sia la mia vocazione.

NINA (tendendo l'orecchio) Sss...Vado. Addio. Quando diventero

una grande attrice, vieni a vedermi. Promesso? Ma per ora... (gli

stringe la mano) E' gia tardi. Non mi reggo in piedi... sono esausta,

ho fame....

TREPLEV Rimani, ti porto qualcosa da mangiare...

NINA No, no... Non accompagnarmi, vado da sola... La

carrozza e vicina... Dunque lei se lo e portato con se? Tanto,

fa lo stesso. Quando vedrai Trigorin, non dirgli nulla... Lo amo.

Lo amo ancor piu di prima... Un soggetto per un racconto breve...

Lo amo, lo amo appassionatamente, disperatamente. Come era

bello prima, Kostja! Ricordi? Com'era serena, allegra, felice,

innocente la vita, e che sentimenti, teneri e puri come fiori...

Ricordi? (legge) "Uomini, leoni, aquile e pernici, cornuti cervi,

oche, ragni, silenziosi pesci, abitatori delle acque, stelle marine,

esseri che mai occhio umano ha potuto vedere, insomma tutti

gli esseri viventi, tutti, tutti, terminato il loro triste ciclo, si

sono spenti. Ormai da migliaia di secoli sulla terra non c'e piu

un essere vivente e questa povera luna invano accende il suo


fanale..." (abbraccia Treplev impetuosamente e corre via attraverso la

porta a vetri)

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