Il P&I, ovvero Piping&Instrumentation, è il luogo in cui sono indicati tutti gli elementi circuitali di un impianto
e tutto ciò che serve a farlo funzionare correttamente. Si differenzia da un’altra sigla, che è la PFD, Process
Flow Diagram, che indica quello che è un diagramma di principio, che mostra quali sono i componenti
essenziali di un impianto (ma non come questo impianto viene progettato). Prendiamo ad esempio un ciclo
frigorifero, costituito da un compressore, un condensatore, un ricevitore di liquido, una valvola di laminazione
e un evaporatore:
BIOMASSE
La direttiva comunitaria del 2001, recepita nel 2003, definisce la biomassa come la parte biodegradabile dei
prodotti e i residui provenienti dall’agricoltura e della silvicoltura e industrie connesse, nonché la parte
biodegradabile dei rifiuti industriali urbani. Fra le biomasse più comuni abbiamo: legno, sorgo, sansa (risultato
della spremitura delle olive), residui di lavorazioni industriali, reflui zootecnici.
Possiamo inoltre distinguere biomassa residuale e biomassa dedicata: della prima sfrutto i residui per la
termovalorizzazione; la seconda invece riguarda certe colture (come ad esempio i pioppi) coltivate apposta per
la termovalorizzazione.
Fra le categorie di biomasse abbiamo:
Potere calorifico inferiore (PCI): il potere calorico di una biomassa si aggira fra i 10 e 15 mila kJ/kg
(all’incirca un terzo del gas metano), ed esprime la quantità di calore generata dalla combustione
completa di 1 kg di biomassa, considerando l’acqua allo stato vapore di 100°C, quindi considerando
fumi che non condensano.
Umidità: l’umidità presente nelle biomasse è considerata una zavorra poiché in fase di combustione
l’acqua presente all’interno della biomassa verrà completamente vaporizzata (scaricata al camino) e
per vaporizzare un kg d’acqua dovremmo spendere 2500/2600 kJ/kg. Quindi se ad esempio io avessi
un kg di biomassa con la metà in peso di acqua, anziché avere un potere calorifico di 15000 kJ/kg, ne
avrei circa 8, e di questi 8000 una parte (2600 diviso 2) vanno impegnati per far evaporare l’acqua.
Quindi l’umidità rappresenta un fattore fondamentale per il rendimento della combustione stessa.
Densità: abbiamo due tipi di densità, la densità assoluta, ovvero quella misurata eliminando tutti gli
interstizi e tutte le porosità presenti all’interno della biomassa, e la densità in mucchio (BS = bulk soil)
che tiene conto del volume comprensivo di interstizi (sarà quindi all’incirca la metà della densità
reale).
Rapporto C/N: rapporto ponderale, maggiore è la percentuale di carbonio, più sarà il potere calorifico
sviluppato dalla biomassa.
Produzione media: rappresenta la quantità di biomassa prodotta con un ettaro di terreno, e si misura in
ton/ha oppure in GJ/ha (se mi interessa l’energia prodotta da un ettaro di terreno). Per noi la densità
energetica è più importante poiché c’è il problema del trasporto.
Composizione chimica: i metalli presenti in queste colture ci sono e non sono affatto trascurabili, per
cui la composizione chimica dev’essere nota, poiché quando facciamo la combustione di questi oggetti
dobbiamo sapere quali sono i prodotti della combustione, perché altrimenti non riusciremmo a
dimensionare il sistema di abbattimento (dato che la biomassa non è a impatto zero).
Area teorica di combustione (o stechiometrica): indica la quantità presente in aria contenente
esattamente tanto ossigeno quanto necessario per bruciare una quantità stabilita di combustibile.
Eccesso d’aria: percentuale di aria alimentata in eccesso rispetto alla quantità teorica o stechiometrica.
Come già anticipato, esiste una correlazione fra potere calorifico inferiore e percentuale di umidità presente
nella biomassa, ovvero:
Molto importante è anche l’influenza dell’eccesso d’aria rispetto alla combustione. In ordinata abbiamo in
scala logaritmica la CO (principale tipologia di gas incombusto, l’efficienza della caldaia è data dalla quantità
di incombusti presenti nel camino) e in ascissa il rapporto effettivo fra aria e combustibile e lo stesso in
condizioni stechiometriche. La percentuale di gas incombusti ha un riflesso immediato e pesantissimo sul
rendimento perché è tutta parte di combustibile che non utilizzo e che non riesco a recuperare; il fumo si porta
via del calore sensibile, acqua allo stato vapore e degli incombusti. Guardando questo grafico bisogna porre
particolare attenzione al minimo (minima quantità di incombusti, massimo rendimento) e al fatto che migliore
è la caldaia e più ci si sposta verso valori di eccesso d’aria più bassi, questo vuol dire buttar via meno fumi.
Sono quindi due gli elementi che incidono negativamente sull’efficienza: la produzione di incombusti (energia
sottratta al potere calorifico perché non sono riuscito a completare la combustione dell’ossido di carbonio) e
la presenza di umidità. Aumentare l’efficienza è molto importante, in quanto raddoppiando il rendimento della
combustione si dimezza la quantità di combustione utilizzato a parità di energia prodotta.
Le biomasse di origine forestale (quindi le biomasse lignocellulosiche) sono costituite da tre elementi:
la lignina: la parte più nobile dal punto di vista energetico, l’elemento che conferisce rigidità all’albero,
rappresenta il 20-30% in peso e contiene un potere calorifico di 25000 kJ/kg (circa la metà del metano);
la cellulosa: rappresenta il 50% in peso del legno e contiene un potere calorifico di 16000 kJ/kg;
l’emicellulosa: non da nessun contributo positivo alla densità energetica di combustibile.
Ci sono due categorie di informazioni: quelle che riguardano il prodotto in senso stretto e quello che ci
consegnano, quindi specifiche, classe del combustibile, campionamento, densità, ceneri. È molto importante
sapere quante ceneri produce il combustibile alla fine della combustione, perché se è vero che devo portare il
combustibile alla caldaia, è anche vero che devo smaltire le ceneri prodotte portandole in discariche di rifiuti
speciali, il tutto ad un costo non trascurabile.
PELLET
Il pellet è la riduzione in polvere della massa lignocellulosica (quindi prodotti di segherie, scarti di legno, ecc..)
in modo da rendere il materiale omogeneo; tuttavia è difficilmente trasportabile in quanto carico dei volumi
enormi ma dei pesi bassissimi (la segatura ha una densità in mucchio che si aggira attorno ai 200 kg/m^3,
quindi siamo sempre a giocare su questi due piatti della bilancia: abbiamo bisogno di massa per produrre
potenza, abbiamo bisogno di densità alte per stoccare di meno. Una volta aver reso omogeneo ed isotropo il
nostro materiale attraverso l’utilizzo di filiere.
Il formato di un pellet è standardizzato e normato in base a diametro e lunghezza: secondo la normativa EN
ISO 17225-1:2014, stabilito un diametro, si sceglie una lunghezza compresa all’interno di un certo range. La
combustione di un pellet integro è completamente differente da quella di un pellet frantumato, questo è il
motivo per cui per ogni diametro abbiamo un minimo valore di lunghezza del pellet. Un altro parametro che
caratterizza il pellet è la percentuale di umidità che, a seconda della categoria di pellet, dev’essere inferiore al
10% o al 15%; poi abbiamo come parametro le ceneri (ash), ci si riferisce alla somma di due tipologie di ceneri,
le bottom ash (le ceneri di fondo, quelle pesanti) e le fly ash (le ceneri volanti, tutto quel particolato che
ritroviamo nei fumi); la componente organica presente all’interno delle ceneri ci dà gli incombusti (vedi ad
esempio la fuliggine nera presente all’interno dei camini, anche detta carbon black); in ottica di economia
circolare, il recupero della fly ash, e quindi del carbon black, ha una potenziale destinazione (utilizzato per le
gomme delle automobili o per il toner delle stampanti) previa spesa per la gassificazione e la successiva
immissione nel mercato con diversi gradi di purezza. Un altro parametro fondamentale è la durabilità, intesa
come la capacità del pellet di rimanere intatto se movimentato. Chiaro che un pellet con alta densità avrà una
durabilità superiore rispetto ad un pellet a bassa densità. Molto importante è anche la quantità di fini, infatti se
il particolato è molto fine ha una caratteristica di combustione completamente diversa rispetto alla combustione
del pellet: la combustione del pellet è una combustione a superficie, è un processo che passa attraverso
fenomeni di essiccazione e gassificazione. Quando effettuo la combustione di una particella molto piccola
(sotto il mm) questa si scalda in maniera omogenea e istantanea, ha quindi una vaporizzazione immediata di
tutto ciò che è volatile, dall’acqua alle sostanze organiche, si ha una specie di piccola esplosione, la particella
si disintegra e la combustione avviene in maniera istantanea. È evidente che se utilizzo un oggetto con un
potere calorifico di un certo valore e lo utilizzo in tempi brevissimi, la potenza espressa è elevatissima.
Abbiamo inoltre la densità a mucchio (bulk density) misurata sversandolo.
Pellet, cippato e briquettes vengono classificati in classi: A1 e A2. La classe A1 costa di più ma presenta
numerosi vantaggi, come la minor percentuale di ceneri (circa la metà di una classe A2), minor presenza di
umidità e maggior densità in mucchio.
GWP (Global warming potential) = potenziale di riscaldamento globale, l’anidride carbonica ad esempio ha
un potenziale pari a 1, il metano batte fra i 20 e i 25, quindi 1 kg di metano è impattante quanto 25 kg di
anidride carbonica.
Le energie rinnovabili contano un problema fondamentale, ovvero la discontinuità della fornitura di energia;
naturalmente questo crea un problema, che è quello dell’accumulo e crea una prospettiva di risoluzione che
risiede nelle cosiddette Smart grid, ovvero delle reti elettriche rigidissime: nella rete passa una certa potenza
destinata all’utente, e l’utente consuma esattamente l’energia fornita, non c’è quindi possibilità di accumulo
all’interno della rete elettrica. Dal punto di vista elettrico l’accumulo è molto difficile poiché occorrerebbero
delle batterie di enormi dimensioni, con il problema che andrebbero smaltite; una cosa quindi che non si può
fare.
La biomassa sostanzialmente è un serbatoio di carbonio: la pianta assorbe CO2 e attraverso la luce e le
macchine molecolari, l’anidride carbonica si scinde in O2 che se ne va via e in carbonio, che verrà incamerato
nella lignina. In questo caso possiamo quindi stoccare la riserva energetica e utilizzarla quando necessaria.
Possiamo fare una classificazione fra i combustibili utilizzati per il riscaldamento in base al costo al MWh: il
GPL è il più costoso (250 €/MWh), seguono il Gasolio (125) e il Metano (82), dopodiché abbiamo le biomasse
come pellet in sacchi da 15 kg (65), legna da ardere sfusa (40) e cippato (26); questo spiega il perché il cippato
è un’ottima alimentazione per gli impianti di tipo industriale. Le differenze di costo dipendono anche dal fatto
che i combustibili fossili (GPL, gasolio e metano) scontano tasse enormi (i 2/3 del costo della benzina è dato
da tasse).
Addentrandoci nell’impiantistica per la valorizzazione energetica, esaminiamo meglio quelli che sono i
processi di valorizzazione: le biomasse lignocellulosiche vengono trattate principalmente con pirolisi e
gassificazione o con sintesi, da cui si ottiene syngas. Da questi trattamenti si arriva direttamente alla
combustione, quindi legno che viene trasformato in cippato o pellet; a seguito di questi trattamenti si generano
carbone vegetale e gas, il carbone vegetale va a combustione, il gas può essere destinato ad altri trattamenti al
fine di ottenere biometano. La pirolisi è un processo di decomposizione termochimica di materia organica
mediante il riscaldamento in completa assenza di materiale ossidante; riscaldare una biomassa in assenza di
ossigeno fa sì che si liberino le cosiddette SOV (sostanze organiche volatili); questo processo continua fino a
500/600 gradi, ma già da temperature attorno ai 400 gradi si è volatilizzato un buon 90% di sostanze organiche.
Ovviamente riscaldando a temperature superiori si spende anche più energia, ma non solo, a parità di potenza
posso avere un fumo che esce fuori a 150 gradi piuttosto che a 700 gradi, e se le portate sono proporzionali
entrambi i fumi possono fornire la stessa potenza. È il contenuto entalpico a definire quanto è pregiata l’energia
che sto usando; ogni ciclo termodinamico ha un rendimento che dipende dalla massima temperatura raggiunta,
quindi se voglio effettuare una pirolisi a 600 gradi ho bisogno di una sorgente che possa arrivare a temperature
uguali o superiori, devo stare attento a non utilizzare un’energia troppo pregiata che non giustifichi la
produzione marginale (l’ultimo 10-15% di estrazione). La gassificazione è un processo termochimico in
ambiente controllato che permette di convertire combustibile solido in un gas di sintesi, detto syngas. La
fermentazione è un processo anaerobico svolto da microrganismi a carico degli zuccheri. La digestione
anaerobica infine è un processo in cui si fanno degradare in mancanza di ossigeno dei microrganismi che
producono CH4.
Quando siamo poco sopra i 100 gradi, l’umidità presente nella biomassa cala drasticamente fino a rendere la
sostanza secca. Se consideriamo un tronco di legno, questo è costituito da canali e venature ricche di umidità;
se io investissi il tronco con un gas a temperature relativamente alte, se brucio la parte superficiale, si crea una
barriera carboniosa, che impedisce all’acqua presente all’interno di uscire e oltrepassare la superficie, poiché
la barriera chiude tutti i canali. Se invece abbasso la temperatura e allungo i tempi di essiccazione la barriera
non si crea e l’acqua riesce a vaporizzare e uscire dai canali. Ma il vapore per fuoriuscire deve attraversare il
canale affrontando quindi delle perdite di carico (come se fosse acqua attraverso un tubo), quindi se il vapore
esce dal canale a pressione atmosferica, l’evaporazione inizierà in un punto a pressione 𝑝 = 𝑝𝑎𝑡𝑚 + ∆𝑝, dove
espandendosi genera una pressione corrispondente alla perdita di carico per andarsene via e quindi non sono
più a pressione atmosferica, bensì ad una pressione più alta, di conseguenza l’evaporazione non avviene più a
100 gradi ma a temperature leggermente più alte. Sostanzialmente la potenza che trasmetto alla mia biomassa
per farla scaldare è proporzionale alla differenza di temperatura fra quella della sorgente e quella di
evaporazione dell’acqua presente nella biomassa.
Sopra i 200 gradi, tutta l’umidità è stata espulsa sottoforma di vapore, e cominciamo a volatilizzare, ovvero
comincio a liberare le sostanze organiche più leggere, trattenendo la materia organica pesante (carbone),
ovvero una sostanza che ha ancora un potere calorifico non indifferente. In questa fase di gassificazione,
prelevo una parte di energia dalla corrente dando ossigeno in quantità decisamente minori, quindi conducendo
combustioni parziali, che producono non solo la volatizzazione dei pesanti ma anche tanti incombusti (CO);
dopo aver gassificato ogni sostanza organica, otteniamo una sostanza minerale, cioè inorganica.
Quando si effettua la gassificazione anche delle componenti pesanti (dal char in su), queste ricondensano
quando si raffreddano i fumi. Se voglio tirar fuori tutto ciò che può essere estratto da una biomassa devo
raggiungere temperature superiori ai 1000 gradi. Liberando le catene pesanti, non posso utilizzare il syngas a
temperature elevate, va raffreddato per renderlo utilizzabile, sia che vada in un bruciatore, sia che vada in un
motore a combustione interna, il raffreddamento genera la ricondensazione delle sostanze organiche pesanti,
che provoca a sua volta la produzione di TAR (catrame), un catrame che va a sporcare i tubi e crea intasamenti
che possono realizzarsi anche in poche ore. Ciò che gli esperti del settore stanno cercando di fare è di far
permanere le catene organiche pesanti allo stato gassoso ad alte temperature per un tempo relativamente
elevato, le molecole si disperdono nell’ambiente e quando si vanno a raffreddare non formano il TAR. Se
riesco a far espandere queste molecole, andando a far occupare un volume più ampio, sembra che la formazione
di TAR sia più difficile. Ad oggi la formazione del TAR è ciò che blocca la realizzazione di questo tipo di
impianti a livello industriale.
CALDAIE
Dal punto di vista impiantistico le caldaie sono suddivise in due grandi categorie: a caricamento manuale e a
caricamento automatico. Le prime sono ad uso civile, domestico, con una potenza limitata erogabile di 10/15
kW. Ci sono due tipologie di caldaie, quelle a fiamma diretta e quelle a fiamma inversa. In una caldaia a
fiamma diretta la brace va dall’alto verso il basso. Se continuo ad alimentare il volume di biomassa, che durante
la combustione si è ridotto, con la stessa quantità d’aria, al camino avrò un eccesso d’aria, il che ha come
conseguenza una temperatura in uscita dei fumi più bassa, la qualità del vettore energetico (fumi) quindi si
abbassa notevolmente. Se con i fumi devo produrre acqua calda, avere una temperatura in uscita di 300 gradi
piuttosto che di 600, mi cambia notevolmente la superficie dello scambiatore di calore (dovrei raddoppiare la
superficie di passaggio e la mia caldaia costerebbe il doppio). Un’altra ripercussione dovuta all’eccesso d’aria
è l’aumento degli incombusti (infatti se nei fumi ho CO, ad alte temperature è più facile che diventi CO2, se
resta CO se ne va via), ho quindi dei problemi di rendimenti per due motivi: il primo perché sto scaricando
una grande massa di fumi a bassa temperatura e il secondo è che all’interno vi è una grande parte di incombusti.
Per ovviare al problema si è inventata la caldaia a fiamma inversa: in esse la camera di combustione si trova
al di sotto del braciere (vano di caricamento), l’aria quindi viene fatta passare da sopra a sotto, in questo modo
investe solo la parte inferiore del ciocco, di conseguenza la sezione di combustibile interessata alla
combustione rimane sempre la stessa. Quindi vi è una costanza sia in termini di sezione sia in termini di
rapporto stechiometrico (rapporto combustibile/comburente). Mentre nel caso precedente con il camino posso
avere un tiraggio naturale (con il fumo caldo che va in alto), in questo caso se voglio mandarlo verso il basso
ho bisogno di un tiraggio forzato, poiché la fiamma non può risalire: il comburente, dopo aver ossidato le parti
di carbonio e idrogeno contenuti nella biomassa, se ne va verso il basso perché viene richiamato, quindi la
combustione rimane localizzata nella sezione inferiore (la parte superiore non è coinvolta nella combustione e
si spegne). Le caldaie a fiamma inversa hanno un notevole vantaggio ma necessitano di una ventola di
estrazione dei fumi che favorisca l’espulsione.
Fondamentale è il sistema di regolazione mediante sonda lambda, la quale è necessaria per rilevare la presenza
di ossigeno nei gas di scarico; funziona a diossido di zirconio, che, messo in contatto con una termocoppia e
del platino, a seconda della presenza di ossigeno che ho nei fumi, determina una tensione più alta o più bassa
(tira fuori più tensione quando ho un difetto d’aria del 20%, la tensione ha un crollo quando il rapporto
stechiometrico è unitario). In questo modo, misurando la tensione ai capi della sonda riesco a capire se sono
in difetto di ossigeno o eccesso d’aria. Il segnale inviato comanda un inverter, un convertitore statico di
frequenza, che controlla i giri di un motore elettrico asincrono trifase che alimenta l’aspiratore che fa circolare
i fumi.
Il tiraggio naturale è l’espulsione dei fumi senza utilizzo di elementi meccanici appositi come pompe,
compressori, ventole, ecc… Il tiraggio avviene grazie alla differenza di densità fra aria e fumi, dovuta alla
variazione di temperatura, la temperatura dei fumi infatti fa sì che la densità diminuisca. La pompa diventa
necessaria nella realizzazione di una caldaia a condensazione (in cui si vuole recuperare il vapor d’acqua
condensando a basse temperature) in cui si arriva al camino con temperature intorno ai 50 gradi, quindi quasi
a temperatura ambiente e non c’è il ∆𝜌 sufficiente a generare la spinta. Il tiraggio viene determinato sulla base
della sola temperatura dei fumi, l’obiettivo è quello di evitare condense acide e di avere una discreta
combustione, quindi cerco di avere comunque un alta temperatura del focolare e quindi alte temperature nei
fumi. Dopodiché bisogna capire se la temperatura dei fumi va ulteriormente innalzata per avere il tiraggio
giusto; dalla temperatura dei fumi si risale alla loro densità, dalla differenza di densità fra fumi e aria esterna
(in condizioni normali), moltiplicata per g(accelerazione di gravità) e h (quota piezometrica), si ricava la
depressione che sta alla base del camino; questa depressione è quella che mi consente di tirar fuori i fumi dal
camino. La portata di fumi smaltita è ricavabile dall’espressione delle perdite (le perdite dipendono
sostanzialmente dalla velocità dei fumi) e dal ∆𝑝.
La portata dei fumi è uguale alla portata di aria più la portata di combustibile e siccome ragioniamo sempre in
termini di portata per kg di combustibile bruciato, scriveremo che:
𝐺𝑓 = 𝐺𝑎 + 𝑔𝑐
𝑔𝑓 = 𝑔𝑎 + 1 (l’1 è riferito al kg di combustibile, così come le portate sono portate per kg di combustibile)
𝐺𝑓 𝐺
essendo: 𝑔𝑓 = 𝑔𝑐
e 𝑔𝑎 = 𝑔𝑎
𝑐
Nel caso di combustione di liquido o gas ci si riferisce solamente alle portate dei fumi, ma nel caso di
combustibili solidi bisogna considerare anche la presenza di ceneri volatili (fly ash) o ceneri di fondo (botton
ash) e pensare a come smaltirle; quindi quando vado a calcolare la massa di combustibile, devo tener conto in
linea di principio sia di quella scaricata al camino sia del materiale solido presente sul fondo. Un pellet di
buona qualità presenta al più l’1-2% di ceneri.
Un vapore si comporta come gas perfetto quando la variazione di entalpia è pari a ∆ℎ = 𝐶𝑃 ∆𝑇, ovvero al calore
specifico a pressione costante per la variazione di temperatura (quando l’isoterma coincide con un’isoentalpica
sul diagramma h-s).
Un altro parametro importante che mi dà una buona combustione è la turbolenza: più è turbolento il sistema e
più è probabile che un numero elevato di molecole di ossigeno incontrino un numero elevato di molecole di
carbonio e idrogeno per realizzare la combustione.
Le caldaie a tiraggio naturale hanno un’aspirazione dovuta alla temperatura, si dice quindi che lavora a punto
fisso, ovvero il tiraggio (e quindi la depressione alla base del camino) rimane costante, perché la temperatura
rimane pressoché costante. Nelle caldaie a fiamma inversa è molto probabile trovare una sonda lambda, una
ventola e quindi un inverter per variare il numero di giri della soffiante.
Grafico raffigurante la curva motrice della pompa e la curva caratteristica del sistema (ovvero le perdite di
carico che ho nell’attraversamento del sistema, proporzionali al quadrato della portata volumetrica).
∆𝑝 𝜉𝑣 2
Le perdite nel sistema dipendono sostanzialmente da 𝜌
che è pari a 2
se si tratta di una perdita concentrata,
𝑙 𝑣2
e pari a 𝑑 2
se è una perdita distribuita. Quindi abbiamo sempre un termine legato al quadrato della velocità e
quindi al quadrato della portata volumetrica, che non è altro che la velocità per la sezione, abbiamo quindi una
proporzionalità data dalla sezione di passaggio. Al variare del numero di giri, cambia sia la portata che la
prevalenza della pompa: aumentando il numero di giri, aumenta l’aria e quindi la portata, così come aumenta
la prevalenza con il quadrato del numero di giri, se ad esempio raddoppio la portata, la prevalenza diventa 4
volte tanta.
Quindi quando ho un tiraggio naturale, una volta giunto a regime, ho una portata a punto fisso, determinata
esclusivamente dalla temperatura dei fumi. Se la temperatura diminuisce va bene comunque, poiché vi è una
minor necessità di aria dovuta ad una minor presenza di combustibile.
Con l’aggiunta di una sonda lambda invece so esattamente la quantità di ossigeno e quindi di eccesso d’aria
presente nei fumi e vengono inviati dei segnali all’inverter che fa funzionare la pompa con curve caratteristiche
diverse tali da mantenere costante l’eccesso d’aria. Quindi quando il combustibile presente è maggiore, la
pompa lavora ad un numero di giri più elevato poiché la combustione richiede maggior quantità d’aria, quando
viceversa si sta attenuando la fiamma, la sonda lambda segnale un eccesso di ossigeno e dà il comando alla
soffiante di diminuire il numero di giri. Quella con la sonda lambda è una tipica regolazione in retroazione,
ovvero controllo la quantità di ossigeno nei fumi, viene emesso un segnale analogico (che viene fuori in Volt)
e mandato ad una centralina, la quale lo confronta con ciò che dovrebbe essere e manda un segnale alla soffiante
per la regolazione.
Il tiraggio, ovvero la depressione che abbiamo misurato alla base della canna fumaria, è una funzione della
portata che vogliamo avere, e quindi dell’estrazione dei fumi. E’ chiaro che quando si fa un dimensionamento
di una canna fumaria, lo si fa per un tiraggio che è il doppio di quello che dovrebbe essere (per via di
ampliamenti futuri o aumento delle resistenze nel camino, ecc…), quindi quando vado a fare il collaudo di
una caldaia, mettendo dentro un tubo di Pitot per vedere qual è la velocità dei fumi, conoscendo la sezione,
devo regolare la portata in modo tale che questa sia pari alla portata di aria prevista (aria teorica di combustione
più eventuale eccesso d’aria) più combustibile.
Per servire utenze più grandi vengono utilizzate caldaie a caricamento automatico, le quali possono garantire
potenze di diversi MWth (megawatt termici), e sono alimentate principalmente a cippato e a pellet. Per utenti
importanti viene utilizzato il pellet, che costa di più in quanto è il prodotto di una trasformazione industriale,
oppure il cippato, che ha una filiera molto più corta (distanza dalla sorgente della biomassa all’utilizzatore) in
quanto viene raccolto e portato in cippatrici, le quali riducono le pezzature di legno in pezzi di piccole
dimensioni; questi sono caratterizzati da disomogeneità e anisotropia, ma essendo piccoli all’interno del
focolare ne entrano grandissime quantità, per cui ricostituisco l’omogeneità dell’albero che li ha generati.
Quindi sostanzialmente il combustibile dev’essere suddiviso in pezzi molto piccoli e la caldaia dev’essere
molto grande. Queste caldaie hanno un’ottima regolazione, una discreta flessibilità e sono paragonabili in tutto
e per tutto alle caldaie alimentate da combustibili più pregiati come gasolio e gas.
Un’altra caratteristica fondamentale è rappresentato da un elemento presente in tutte le caldaie di grandi
dimensioni, ovvero la griglia di combustione. La prima classificazione vien fatta fra griglia fissa e mobile: la
griglia fissa è il piano inclinato su cui si poggia il legno, il carbone, il pellet e sul quale la combustione procede,
durante il quale si formano ceneri pesanti, le quali, grazie all’inclinazione della griglia, se ne vanno verso il
basso. Questa tipologia di griglia va bene fino a qualche centinaio di kW perché fino a quelle potenze non
posso permettermi sistemi di griglia più costosi. La griglia mobile è costituita da settori che avanzano, slittano
e fanno in modo sia che venga agevolato lo scarico delle ceneri di fondo (botton ash), sia che vengano rivoltate
continuamente in modo da favorire la combustione. Adatta ad impianti più grandi, la griglia ha, come primo
aspetto tecnologico, l’innalzamento il rendimento di combustione; inoltre, quando necessita di manutenzione,
pulire una griglia di 100 metri quadri o 500 metri quadrati fa differenza, la sosta dell’impianto è più prolungato,
quindi l’effetto scala è enorme. La combustione si completa in seguito a due aspetti fondamentali: ci dev’essere
una turbolenza, perché se il moto fosse laminare avremmo una stratificazione della temperatura e avremmo
dei settori che bruciano meglio e altri che bruciano peggio. In un termovalorizzatore, l’elemento fondamentale
post-combustione è quello di avere, a valle della griglia, un post-combustore, ovvero un oggetto che tiene la
temperatura molto alta per evitare la formazione di diossine e furani. Quindi ci sono tre fattori fondamentali:
la temperatura, il tempo di residenza e la velocità dei fumi di 10 m/s per cui ci troviamo in regime turbolento
(numeri di Reynold relativamente alti), in cui abbiamo una continua miscelazione e rivoltamento dei filetti
fluidi e si ha il miglior contatto possibile. Mentre la griglia fissa non consente questi rivoltamenti continui e
funziona bene a gradi di umidità relativamente bassi (laddove l’umidità si dovesse concentrare, creerebbe degli
incombusti), la griglia mobile riesce a gestire umidità molto più elevate, anche intorno al 50% (per quanto sia
comunque sconsigliabile utilizzare un materiale con il 50% di umidità in quanto dimezza il suo potere
calorifico).
Uno dei punti fondamentali è quello di evitare che la fiamma risalga attraverso il combustibile e vada ad
incendiare il deposito, e lo si ottiene in due modi differenti: il primo è con un dispositivo dedicato che è la
cosiddetta serranda tagliafuoco (una rama o una rotocella), oppure posso realizzare lo scivolo in modo da avere
la discontinuità del materiale, non vi è quindi il collegamento diretto al deposito e rappresenta dunque esso
stesso un elemento di sicurezza. In tutti questi ambienti è fondamentale un sistema di protezione contro il
ritorno di fiamma. Ogni combustibile ha una velocità di fiamma, ovviamente un combustibile gassoso ha una
velocità elevatissima rispetto al liquido e al solido; è necessario far uscire il combustibile ad una velocità che
sia superiore alla velocità di fiamma. Nell’esempio di caldaia a pellet possiamo notare una tramoggia di
combustibile, un motore elettrico che fa girare un estrattore di combustibile, quindi ho una prima coclea che
tira fuori il combustibile dal serbatoio; ho inoltre una valvola tagliafuoco, evidentemente non ho uno scivolo
sufficiente a garantire l’assenza del ritorno di fiamma, ho la coclea di alimentazione, ovvero un oggetto che va
a prendere il combustibile per buttarlo direttamente nella camera di combustione; la parte solida si chiude con
la coclea che è il sistema di estrazione automatico delle ceneri. Per quanto riguarda la parte gassosa, ho l’aria
comburente, la quale va a produrre un fumo e ad alimentare il circuito dell’utenza. Il motore elettrico è
comandato da un inverter che prende il segnale dalla temperatura, dall’ossigeno (nel caso della sonda lambda
che dà indicazioni sul rapporto stechiometrico).
La fiamma è diretta in tutti i casi in cui ho dei combustibili di piccola pezzatura, quando il ciocco è più grande
la portata diminuisce e con essa la zona interessata alla combustione, ho di conseguenza una portata di
materiale inferiore e questo fa sì che debba andare a regolare la portata di aria. Se invece nel braciere sono
presenti un numero elevato di pezzi la situazione resta pressocché stazionaria, la superficie interessata alla
combustione rimane costante e il sistema procede in condizioni migliori (tuttavia ho dovuto fare un trattamento
sul materiale che è costato tempo, energia e denaro).
La condensazione dei fumi è una cosa che normalmente andrebbe evitata sia perché implica temperature basse
e tiraggio forzato ma soprattutto per la formazione di rugiade acide. Il problema si contrasta con le caldaie a
condensazione, dotate di uno scambiatore in grafite, con temperature al camino di 50/60°. In questo impianto
si sono divise due entrate, la prima con il 100% di calore introdotto dal combustibile rispetto al potere calorifico
inferiore, senza considerare quindi la condensazione dell’acqua presente sia nell’aria comburente sia nella
combustione degli idrogeni; la seconda riguarda il calore latente e facendo dei conti della combustione per una
biomassa tipo cippato si ricava che vale l’11% del potere calorifico inferiore, è il calore che viene recuperato
attraverso la condensazione dei vapori e determina la differenza fra potere calorifico inferiore e superiore in
una caldaia a condensazione. Che cosa succede alla corrente che si utilizza rispetto al potere calorifico
inferiore? Produco il 100% di calore sensibile e ho due scarichi, il 2% come perdita di involucro (e quindi
dispersione a parete) e il 2% di perdite al camino e la potenza persa ai fumi diminuisce al diminuire della
differenza di temperatura fra fumi e ambiente esterno, quindi quando vado a raffreddare i fumi questa
differenza diminuisce ed ho perdite sul calore sensibile piuttosto modeste. Misurando tutta l’acqua che ho
all’interno del fumo di condensazione, se la condensassi tutta, l’energia ottenuta sarebbe circa l’11%
dell’energia introdotta rispetto al potere calorifico inferiore. Tuttavia non riesco a tirar via tutta l’acqua, resta
sempre una percentuale di acqua allo stato vapore all’interno dei fumi a cui corrisponde la sua pressione
parziale. Quindi di questo 11% di potenza che recupererei se riuscissi a condensare tutti i fumi in realtà ne
utilizzo soltanto l’8% perdendo quindi il 3%. Quindi il rendimento totale della caldaia sarà del 104% poiché
viene dato in funzione del potere calorifico inferiore.
Un altro elemento essenziale è lo stoccaggio: è possibile stoccare il pellet in appositi sili all’interno dei locali.
Questi depositi sono progettati al fine di garantire uno svuotamento ottimale e totale del combustibile sul fondo
è inoltre prevista una coclea per l’alimentazione in caldaia. Il caricamento del pellet avviene solitamente
mediante autocisterna dotata di sistema pneumatico. Oltre ad uno stoccaggio interno, è possibile ricavare anche
uno stoccaggio interrato: questa tipologia di stoccaggio permette di stoccare una grande quantità di
combustibile senza la necessità di aver disponibile spazi interni. Allo stesso modo, tale configurazione
permette di minimizzare l’impatto visivo, infatti del silo rimane visibile solamente il coperchio superiore che
aperto permette il riempimento tramite autocisterna. Una soluzione alternativa può anche essere uno stoccaggio
a piani mobili che consente un’ottima adattabilità alle esigenze di stoccaggio ed è solitamente utilizzato per
cippato di legno; questa tipologia di silo prevede la presenza di più rastrelli mobili affiancati che vengono
attuati idraulicamente. I rastrelli infilano i profili metallici sotto la biomassa trascinandolo verso l’estremità
della struttura del fondo silo ove è montata una parete metallica che lo fa cadere nella coclea di estrazione; la
coclea di estrazione dunque trasferisce il combustibile verso la coclea di alimentazione della caldaia. Il gas
arriva attraverso pipe line, reti di distribuzioni molto costose e onerose dal punto di vista costruttivo,
manutentivo e di esercizio (per via dei materiali e per le saldature che li compongono). La decompressione
aumenta il volume specifico del gas in questione a massa costante, di conseguenza la velocità aumenta e con
lei le perdite di carico con il quadrato della velocità. Se lasciamo cadere la pressione oltre un certo limite le
perdite di carico crescerebbero in maniera esponenziale, il che non sarebbe auspicabile; ragion per cui è
importante fare una ricompressione, quindi ad esempio se mi abbasso da 150 a 10 bar, poi ci sarà bisogno di
tornare a 150 bar, con un compressore che garantisce un rapporto di compressione di 15. Tra i compressori
abbiamo quelli alternativi, volumetrici (prendono un volume, lo isolano e lo portano in avanti) e rotativi.
L’alternativo non ha rivali negli altissimi rapporti di compressione e quando le portate sono elevate. I
compressori dinamici rotativi (assiale o centrifugo) si occupano delle alte portate e della basse prevalenze, i
volumetrici rotativi si occupano di medie portate e medie prevalenze, quando invece abbiamo alti rapporti di
compressione e portate relativamente basse utilizziamo l’alternativo. Quando facciamo il confronto fra
alimentazione con biomassa e gas dobbiamo considerare che la rete è un patrimonio acquisito, e oggi funziona
con dei costi di esercizio che non sono trascurabili.
DIOSSINE
La diossina rappresenta uno degli elementi più impattanti e pericolosi; sono delle molecole formate da anelli
benzenici, che hanno ai vertici degli esagoni dei carboni, legati dall’ossigeno e con diramazioni di cloro. Non
tutte le diossine sono letali, ma ce ne sono alcune, come la diossina Seveso, davvero pericolose, tant’è che la
legislazione fissa il limite di presenza delle diossine in aria di 0,1 𝑛𝑔/𝑁𝑚 3. Vengono prodotte principalmente
da vulcani, geotermia, ecc… in cui però le ritroviamo in concentrazioni molto basse. Posta uguale a 1 la
tossicità della diossina Seveso, le altre si misurano in tossicità equivalenti rapportate alla diossina Seveso. La
diossina più pericolosa è costituita da due anelli benzenici, legati fra loro attraverso due ossigeni e atomi di
cloro sulle diramazioni. Le molecole di diossine, se sospese in aria in uscita dai camini, si degradano molto
facilmente con i raggi ultravioletti (essendo frequenze ad alto contenuto energetico); la diossina è pericolosa
perché ha una grandissima stabilità, ovvero ha un contenuto energetico molto basso, quindi per distruggerla
bisogna fornirle molta energia, e i termovalorizzatori lo si fa portando il gas a temperature superiori a 800°,
l’elevata temperatura del gas fornisce alla diossina un’energia sufficiente a spaccare i legami di ossigeno e di
cloro con l’anello benzenico; tuttavia è necessario produrre una turbolenza per essere sicuro che le alte
temperature abbiano effetto su tutto il fumo emesso.
Da 105° arrivando fino a 450-500° abbiamo la devolatilizzazione, abbiamo quindi delle sostanze organiche
che devolatilizzano, e se impongo un processo di volatilizzazione anaerobica (in assenza di ossigeno)
impedisco la formazione di diossine. Quindi la pirolisi, che è un processo di riscaldamento che avviene in
assenza di ossigeno, produce delle sostanze organiche volatili che, non incontrando l’ossigeno, sono privi di
diossine. Questo è possibile a meno che non sia presente l’ossigeno all’interno della biomassa, il che è
abbastanza difficile, quindi la pirolisi non è un processo che garantisce l’emissione di diossine. Se ci spostiamo
invece verso la produzione di syngas, quindi verso temperature più elevate, e quindi gassificazione del char
(carbone residuo del processo di pirolisi), andiamo a fare una combustione in difetto di ossigeno che fornisce
l’energia sufficiente ad avere elevate temperature.
I processi di formazione delle diossine sono due: la de novo sintesi e la pirosintesi. La de novo sintesi è un
processo di formazione delle diossine che avviene a temperature fra i 200° e i 400° e sfrutta il particolato
solido, quindi sostanzialmente alla cosiddetta fly ash. È un particolato molto fine che dev’essere intrappolato
e funziona come ricettore per la formazione di diossina. Quindi il processo di de novo sintesi richiede un range
di temperatura che va dai 200 a 400 gradi e una particella che faccia da veicolo per la diossina. Il processo di
pirosintesi avviene in fase gassosa a temperature fra i 600° e gli 800° e parte dalla presenza all’interno del
combustibile di elementi chimici, denominati precursori, come ad esempio clorofenoli e clorobenzeni. Fra i
due processi quello più pericoloso è la de novo sintesi perché produce diossine con 5 ordini di grandezza
superiore alla pirosintesi.
Le concentrazioni di diossina vengono espresse in ng/g di cenere volatile nella de novo sintesi, dato che
dipende da un meccanismo che richiede la presenza di particolato volatile, tuttavia eliminare il particolato non
è sufficiente, in quanto la quantità di particelle submicroniche è di gran lunga superiore; invece esprimiamo in
𝑛𝑔/𝑁𝑚 3 di fumi allo scarico nel caso di pirosintesi, questo perché la pirosintesi non si appoggia alla particella
ma sfrutto i composti chimici (i precursori).
In ordinata abbiamo la velocità di formazione di diossina diviso la velocità massima di formazione della
diossina, perché è impossibile trattare la formazione della diossina in termini di concentrazione, bensì conviene
utilizzare la velocità di formazione perché è in base a quella che riesco a capire nel processo quanta ne vado a
produrre. Se io ad esempio ho dei tempi di residenza del fumo nel circuito che sono elevati e permane in
condizioni di possibile formazione di diossina (a determinate temperature e/o in presenza di precursori) allora
la formazione è tanta; quello che posso fare quindi è quello di smaltire il fumo in tempi più brevi rispetto al
tempo di formazione della diossina in modo da contenerne la formazione. La velocità è il parametro che mi
serve per dimensionare un impianto. Mantenendo i fumi ad una temperatura alta riesco ad ossidare una buona
parte di incombusti che diventano CO2, quindi ho l’esigenza di tenere le temperature elevate per tempi di
residenza relativamente lunghi, perché in questo modo ho più tempo per completare i processi di ossidazione
e questo mi dà un notevole vantaggio in termini di rendimento. Come possiamo notare dal grafico, ho una
velocità di formazione per pirosintesi che è decisamente più ridotta rispetto alla velocità di formazione per de
novo sintesi (circa 4/5 ordini di grandezza).
Dato che la cenere volante è il 3% del peso iniziale del combustibile (30 gr/kg di combustibile), devo
moltiplicare per 30 il dato (in ng/g di cenere volante) per avere la quantità complessiva di diossina per kg di
combustibile bruciato che può esistere nella cenere volante che vado a produrre.
In seguito agli esperimenti condotti da Stanmore, alle diverse temperature si può ipotizzare che per una data
temperatura la concentrazione di diossina rilevata sia proporzionale alla velocità di formazione. Stanmore
lavora in modo da avere 108 𝑛𝑔/𝑔 di combustibile formati in 2 ore.
Assodato quindi che sopra gli 800 gradi non ci può essere in alcun modo la formazione di diossine, il problema
adesso rimane quello di scaricare i fumi, che non possono essere scaricati a temperature elevatissime, altrimenti
avremmo un calo drastico dei rendimenti. Sappiamo che anche sotto i 200 gradi la formazione di diossine,
anche per de novo sintesi, diventa praticamente inesistente, quindi il punto è essere veloci nel passaggio dagli
830°-840° e i 200°. Se ho progettato bene il materiale coibente, prima di arrivare agli scambiatori di calore, la
temperatura non cala in maniera rilevante, sono ancora a temperature superiori ai 1000°, questo mi consente
di eliminare una gran parte di ossidi di carbonio prima di affrontare lo scambiatore di calore. Costruendo degli
scambiatori di calore opportuni, in modo da far crollare la temperatura dei fumi sotto i 200° rapidamente, con
tempi di residenza inferiori al secondo, ho contrastato in maniera radicale la formazione di diossina che invece
ci metterebbe circa due secondi a formarsi.
La caldaia che andiamo a dimensionare dev’essere intrinsecamente sicura, ovvero con un profilo termico che
sia adatto a non formare la diossina. Se la diossina non viene formata, non servono i filtri a carboni attivi, non
serve la sorbalite, e mentre la presenza di filtri a carboni attivi è giustificata in caldaia con potenze dell’ordine
di decine di MW o in termovalorizzatori, certamente in caldaie da appartamento non ce lo si può permettere
sia per costi che per manutenzione; in questi casi l’unica soluzione è non produrre diossina.
Le curve analizzate in precedenza relative alla velocità di formazione delle diossine hanno un andamento che
sottende ad una probabilità, infatti se notiamo bene queste curve sono facilmente assimilabili a delle gaussiane.
Ad esempio, la curva che esprime una de novo sintesi è una gaussiana del tipo:
(𝑇−𝑏)2
[− ]
𝑓 (𝑇) = 𝑎 ∙𝑒 𝑐2
dove T è la temperatura, 𝑎 determina l’altezza della curva, b determina il punto di massimo della temperatura
misurata in gradi Kelvin e c determina l’ampiezza della curva; quindi l’applicazione di questi 3 valori alla
funzione 𝑓(𝑇) funzione della temperatura, interpolano molto bene il fenomeno di de novo sintesi. L’aver
identificato la curva interpolante di quei valori sperimentali in una gaussiana ci porta a pensare che sotto la
formazione delle diossine c’è una probabilità, quindi la diossina si forma in base alla probabilità che hanno
tutti questi elementi di incontrarsi. Nel metro cubo che sto esaminando ho un moto caotico di clori, anelli
benzenici e la produzione di diossina favorita da quelle finestre di temperatura è un fatto probabilistico che
dipende dalla probabilità che hanno questi elementi di incontrarsi. E’ chiaro quindi che tagliando il tempo di
residenza nelle finestre importanti, la probabilità che le molecole che si devono incontrare per formare della
diossina diminuisce in maniera radicale. Quindi il picco di velocità che determina la velocità massima di
formazione lo posso comunque segare se la velocità di uscita dalla finestra pericolosa è radicalmente più veloce
di quanto non lo sia il meccanismo di incontro delle due molecole. Se queste molecole si scontrano a 420° per
la de novo sintesi non succede nulla perché non ci sono le condizioni per cui avvenga la formazione, è
semplicemente uno scontro, si scontrano e rimbalzano, ma se sono all’interno della finestra di temperatura si
scontrano e si incastrano; quindi la temperatura è il fattore che favorisce la formazione, ma l’andamento è
probabilistico.
Ad ogni modo se si forma della diossina esistono dei sistemi che tagliano la concentrazione per adsorbimento,
ovvero l’attrazione che una particella solida ha per contatto con una superficie di carboni attivi drogata
(ottenuta per drogaggio) in modo da far passare una concentrazione minore. Dal punto di vista pratico è l’unica
soluzione che abbiamo che impedire la presenza di diossina.
RIASSUNTO DELLE LEZIONI PRECEDENTI
Cominciamo dunque a vedere cosa deve fare questo impianto e cosa dobbiamo costruire per modificare lo
stato delle cose, in questo caso è la combustione del legno; l’obiettivo è sempre quello di far fare all’impianto
il ciclo di trasformazione che avevo previsto. Siamo partiti dalla combustione del combustibile più grezzo (il
tronco d’albero) e abbiamo visto che esistono almeno due modalità, quella a fiamma diretta e quella a fiamma
inversa; quella a fiamma diretta è la soluzione più semplice, ma la fiamma inversa mi consente di mantenere
una maggiore costanza del rapporto combustibile/comburente al fine di ottenere delle combustioni più
controllate. Un’altra soluzione è quella di non intervenire direttamente sul processo ma agire sul combustibile.
Come abbiamo visto il combustibile ci pone un problema molto grande di omogeneità e anisotropia,
controllare quindi un fenomeno che cambia istante per istante è un problema. La prima possibilità è quella di
ridurre la pezzatura di combustibile, fare in modo che la stessa unità di massa posta all’interno della camera
di combustione sia formata non solo da un elemento, ma un numero molto elevato di piccoli elementi, in modo
da poter ragionare in termini di valore medio (potere calorifico medio, aria stechiometrica media,ecc…). Ci
si focalizza sempre sull’obiettivo principale, ovvero la produzione di energia, ma non si tratta solo di quello:
stiamo producendo anche fumi e ceneri, allora è estremamente importante anche capire dove devono andare
a finire le ceneri di fondo (spesso vengono trattate come fanghi pericolosi, subiscono trattamenti costosi e
portate in discariche); per le ceneri volanti invece, quelle che vado a recuperare nel filtro, si analizza la
formazione di diossine e furani; per impianti più grandi andrebbe analizzata anche la presenza di acido
cloridrico, acido solforico, ossidi metallici.
Siamo andati ad analizzare la chimica della formazione di diossine e furani, normalizzandola a ciò che ci
interessa, ovvero la quantità al kg di combustibile che abbiamo bruciato. Dopo di che abbiamo cercato di
ridurre i dati sperimentali ricavati da Stanmore rispetto ad un impianto che produca il 3% di ceneri (fly ash).
Ci è stato quindi possibile determinare la concentrazione espressa di diossine/furani in 𝑛𝑔/𝑘𝑔 di
combustibile, e l’abbiamo fatto per la de novo sintesi, ovvero quel fenomeno che utilizza le particelle come
luogo di residenza per la formazione delle diossine, è un meccanismo che non può prescindere
dall’appoggiarsi ad una matrice solida costituita appunto da particelle micrometriche e submicroniche di fly
ash. Sono stati svolti diversi esperimenti relativi alla concentrazione di precursori, chiedendosi se tutti si
trasformano in molecole di diossina o c’è una saturazione; si passa dal considerare 300 𝜇𝑔/𝑁𝑚3 di
precursori sino a circa 70000 𝜇𝑔/𝑁𝑚3 nella sperimentazione di Sidhu, in relazione ad una concentrazione di
10 𝜇𝑔/𝑁𝑚3 presenti in un inceneritore che per noi è l’impianto più pericoloso in quanto ci buttiamo dentro
della roba di cui non conosciamo la composizione, arrivando dunque alla conclusione che più precursori ci
sono, più diossina si forma. La scelta progettuale è quella di adottare dei filtri ai carboni attivi che sono in
grado di avere degli adsorbimenti di diossine molto pesanti.
La pirosintesi avviene a temperature decisamente più elevate, in fase gassosa e in ragione della temperatura
raggiunta; le concentrazioni di diossine formate per pirosintesi sono espresse in 𝜇𝑔/𝑁𝑚 3 (a differenza della
de novo in cui le concentrazioni erano espresse in 𝑛𝑔/𝑔 di cenere volante).
Il diagramma di Tanner è un triangolo equilatero che individua delle aree entro le quali il combustibile che
stiamo utilizzando (in questo caso è il Rifiuto Solido Urbano - RSU #2920); ai lati di questo triangolo
equilatero ritroviamo le ceneri, il combustibile e l’acqua presente, che gioca un ruolo negativo, in quanto nella
sua evaporazione si porta via 2500 kJ/kg, raffredda fortemente i fumi, con tutti gli svantaggi che ne derivano.
Se l’umidità supera un certo valore si va sotto il limite di autocombustione, per cui anche se l’oggetto che
stiamo bruciando possiede un certo potere calorifico, la combustione non può procedere autonomamente bensì
occorre fornire energia dall’esterno con un bruciatore ausiliario. Infatti guardando il database Philips del 2920
notiamo che la quantità d’acqua sopportabile è del 50%, poi abbiamo una quantità di materiale combustibile
che dev’essere almeno del 25% e infine la quantità di ceneri, che può essere al massimo del 60%. Una volta
tracciati questi limiti, siamo all’interno di un’area e tutto ciò che si trova all’interno di questo campo (campo
di incenerimento) mi consente la combustione di quest’oggetto (ovviamente non in tutti i punti dell’aria la
combustione avviene con la stessa efficienza).
Questo è il diagramma di Tanner per l’RSU #2920. Ma se noi avessimo una corrente di fumi a 400° e ci
servono 1000° per effettuare le nostre operazioni, che cosa possiamo fare? Ci immetto del metano e lo brucio
all’interno della corrente dei fumi, ma non è neanche detto che funzioni: se la quantità di inerti, ad esempio
azoto o CO2, fosse superiore ad un certo valore, posso anche mettere del metano all’interno della corrente ma
questo non brucia. Sostanzialmente nelle condizioni ambiente il metano è combustibile in una frazione che va
volumetricamente parlando da 5 metri cubi d’aria per metro cubo di metano a 15 metri cubi d’aria per metro
cubo di metano. Quindi se ad esempio avessi 4 metro cubi d’aria per metro cubo di metano, e quindi vuol dire
che abbiamo troppo metano e poca aria, la combustione del metano non avviene; lo stesso avviene sopra i 15
metri cubi d’aria per metro cubo di metano, in quanto troppo diluito. Considero il diagramma di Tanner del
metano:
Anche in questo diagramma distinguo l’area relativa al combustibile e all’inerte; il triangolo di combustione è
ABC, quindi il metano brucia solo all’interno di questo triangolo. Quando gli inerti superano il 40% sono oltre
il punto C e non ho la possibilità di usare il metano. A e B si trovano in corrispondenza rispettivamente del 5-
6% e del 15-20% di metano. Se avessi degli inerti oltre il 50% devo prendere un bruciatore di post-
combustione, produrre dei fumi ad alta temperatura e convogliarli nella portata che voglio scaldare.
Dal grafico notiamo tre zone di relativa calma in cui non si forma la diossina: sotto i 150°, fra i 400° e i 500°
e sopra gli 800°. La varianza di questa curva mi dice che la pirosintesi si rileva in campi più ampi di temperatura
e questo non è simpaticissimo, ma per fortuna il suo picco è ridotto di 5 ordini di grandezza rispetto a quello
della de novo sintesi.
Abbiamo capito che la temperatura esercita una forte influenza sul fenomeno, se produco un fumo sopra gli
850° non ho problemi, quando sto raffreddando, nel passaggio del campo che va dagli 800° ai 150°, essendo
un’interpolazione gaussiana, le probabilità che le due molecole si incontrino sono tanto più basse quanto più
basso è il tempo di residenza. Per contrastare la pirosintesi è necessario mantenere la temperatura sopra gli
800°, ma per poter fare ciò è importante mantenere il più possibile costante il rapporto aria/combustibile che
cambia al variare della superficie e della velocità di combustione. Per controllare questi parametri si può agire
variando la portata di aria in funzione dello stato di avanzamento della combustione, e questo si può fare nel
caso di tiraggio artificiale.
Per poter controllare anche localmente i parametri della combustione è necessario individuare alcune
caratteristiche del combustibile, come il rapporto superficie/volume: se voglio fare una buona combustione
devo fare in modo che la pezzatura degli elementi che ho in camera di combustione sia tale per cui,
aggiungendo una certa quantità di pellet, non si vada ad alterare la media delle condizioni
termofluidodinamiche, quindi il rapporto superficie/volume non dev’essere influenzato dall’alimentazione.
Per noi il pellet è un cilindro che ha un volume 𝑉 = 𝜋𝑟 2 ℎ. Per semplicità, dato che i pellet hanno diametri e
lunghezze standardizzate, possiamo definire un parametro di forma k, pari a 𝑘 = ℎ/𝑟, quindi il volume
diventa 𝑉 = 𝜋𝑘𝑟 3 .
Il volume di combustibile interessato dall’ossidazione è costituito solamente dalla superficie esterna del
cilindro la quale, nell’ipotesi di allontanamento istantaneo della cenere, andrà riducendosi progressivamente
col procedere della combustione. I pellet, a differenza dei combustibili fossili, non bruciano per massa, ma per
superficie, per questo motivo la portata di combustibile non è quella riferita a quella che immetto in camera di
combustione in un secondo, perché non bruciano istantaneamente. Possiamo quindi definire il volume
elementare coinvolto effettivamente nella combustione che chiameremo 𝑉𝑐 e con dV la variazione di volume
che ho per combustione, nonché il volume che istantaneamente partecipa alla combustione, dato dal
differenziale del volume del pellet:
𝑉𝑐 = 𝑑𝑉 = 𝑑 (𝜋𝑘𝑟 3 ) = 3𝜋𝑘𝑟 2 𝑑𝑟
Quindi la portata in massa di combustibile è data dalla variazione in volume rispetto al tempo per la densità:
𝑑𝑉 𝑑𝑉𝑐 𝑑𝑟
𝐺𝑐 = 𝜌 =𝜌 = 3𝜋𝜌𝑘𝑟 2
𝑑𝑡 𝑑𝑡 𝑑𝑡
E’ una funzione quindi del raggio istantaneo e della sua derivata.
Si definisce velocità di propagazione della fiamma (𝑣𝑝𝑓 ) in direzione normale alle superfici del cilindro il
rapporto tra la portata volumetrica istantanea di combustibile 𝑑𝑉/𝑑𝑡 e la superficie del cilindro 𝑆𝑐 esposta alla
fiamma.
Vediamo quindi che la velocità di propagazione della fiamma, che è una caratteristica fisica del combustibile
nelle condizioni in cui si trova (quindi se ha assorbito più o meno umidità, se c’è più o meno la presenza di
3∙𝑘 𝑑𝑟 𝑑𝑟
inerte, ecc…), è pari a 𝑣𝑝𝑓 = 2∙(𝑘+1) ∙ 𝑑𝑡 = 𝑘′ ∙ 𝑑𝑡 dove k’ rappresenta la funzione di trasferimento fra la
velocità di propagazione della fiamma e l’avanzamento radiale della stessa. Ciò vuol dire che se k’ è una
costante, la velocità di propagazione della fiamma è proporzionale alla variazione del raggio. Ovviamente k’
è costante solo se k è costante. Ma vediamo cosa succede a k’ al variare di k:
Se arriviamo a un 𝑘 = 2, ovvero che l’altezza è pari a due volte il raggio (e quindi uguale al diametro), significa
che in sezione questo cilindro è un quadrato e cioè la forma più vicina ad una sfera nel rapporto
superficie/volume, e più alta è la superficie più è alta la portata di combustibile in gioco, mentre la massa è
quella che mi dà il quantitativo energetico in gioco. Per k = 2 ho che la velocità di propagazione è esattamente
pari alla variazione di raggio in funzione del tempo. Se prendiamo valori di k inferiori a 2, e quindi per valori
di k che tendono a zero, anche k’ tende a zero. La figura che ne ricaviamo per k che tende a zero è un disco
sottile e la variazione di raggio tende ad infinito, quindi sto bruciando il mio combustibile a velocità infinita,
vuol dire che trasformo la mia energia in tempi piccolissimi, ottenendo quindi potenze elevatissime. Ci sono
quindi delle caratteristiche fisico-chimiche concentrate nella velocità di propagazione della fiamma, ma ci sono
delle caratteristiche morfologiche che sono concentrate sui rapporti dimensionali ed entrambi questi aspetti
producono potenza, a seconda di come vengono gestite.
Dalla espressione già vista in precedenza, la portata in massa del singolo elemento di combustibile coinvolta
nel processo di combustione è in funzione della velocità di propagazione di fiamma pari a:
Risulta evidente come la portata istantanea di combustibile 𝐺𝑐 coinvolto nella combustione diminuisca in
modo assai significativo al diminuire del raggio r dell’unità di combustibile.
Nel momento in cui vado ad ossidare un materiale e mi rendo conto che la temperatura è più elevata rispetto a
quella relativa alla combustione di un altro materiale, la velocità di propagazione della fiamma non può che
essere più elevata, quindi più alta è la temperatura più veloce è la propagazione della fiamma.
Detti 𝑔𝑎𝑠𝑡 il valore dell’aria stechiometrica per la combustione di 1 kg di prodotto (kg di aria per kg di
combustibile), ed et l’eccesso d’aria teorico stabilito per la combustione (che dovrebbe rimanere
complessivamente costante al procedere della combustione), la portata di aria teorica totale 𝐺𝑎𝑡 necessaria per
il completamento della portata istantanea 𝐺𝑐 si calcola come segue:
𝐺𝑎𝑡 = 𝑔𝑎𝑠𝑡 (1 + 𝑒𝑡 ) ∙ 𝐺𝑐
La portata d’aria 𝐺𝑎𝑡 viene quindi identificata in base alla portata di combustibile (ovvero dal raggio r e dal
rapporto di forma k) e alla composizione chimica del combustibile (che determina 𝑔𝑎𝑠𝑡 ). In realtà, durante la
combustione, ad ogni instante t il volume del singolo elemento si riduce, mentre la portata d’aria reale di
combustione introdotta, essendo solitamente fornita con circolazione forzata, resta costante (𝐺𝑎 = costante),
così come costante è la portata d’aria stechiometrica 𝑔𝑎𝑠𝑡 .
dove questa volta 𝑒 è il valore istantaneo dell’eccesso d’aria rapportato alla portata di combustibile.
L’incremento indesiderato dell’indice d’aria λ porta ad una variazione del rapporto aria/combustibile e, quindi,
ad un cambiamento della temperatura di combustione: se io raddoppio l’aria di combustione è evidente che la
temperatura dei fumi cala, perché l’energia che io fornisco all’aria di combustione è sempre quella, se però
raddoppio l’aria, diminuisce l’energia specifica.
dove 𝑘𝑖 è il potere calorifico del combustibile e moltiplica la portata di combustibile, questo termine sommato
alle portate di aria e combustibile per i salti entalpici ci dà la portata dei fumi per il rispettivo salto entalpico.
La portata dei fumi è l’insieme di portata di fumi in forma gassosa, fuliggine, fly ash e botton ash. Se
esprimiamo i salti entalpici in termini di temperatura (nel caso di gas perfetti ∆ℎ = 𝑐𝑝 ∆𝑇):
Il salto entalpico del combustibile contiene ovviamente la variazione di temperatura del combustibile, che però
dallo stoccaggio alla camera di combustione non varia radicalmente la sua temperatura, può essere quindi
trascurato. Consideriamo solo l’apporto energetico che ha grazie al suo potere calorifico. Dato che possiamo
scegliere la temperatura di riferimento arbitrariamente, la consideriamo pari alla temperatura ambiente. Nel
caso in cui non ci sia preriscaldamento dell’aria in ingresso, la temperatura di ingresso 𝑇𝑎 è pari a quella
ambiente𝑇𝑎𝑚𝑏 . Quindi nel nostro caso trascuriamo un eventuale preriscaldamento dell’aria e diciamo che:
𝑇𝑟𝑖𝑓 = 𝑇𝑎 = 𝑇𝑎𝑚𝑏
Di conseguenza possiamo dire che la temperatura dei fumi è influenzata soltanto dal potere calorifico
dell’elemento:
Riprendendo ora l’espressione relativa alla temperatura dei fumi 𝑇𝑓 , si sostituiscono le seguenti espressioni per
la portata di combustibile disponibile 𝐺𝑐 (variabile nel tempo) e la portata di aria reale 𝐺𝑎 , la quale è funzione
della dimensione iniziale dell’unità di combustibile 𝑟0 (cioè la quantità di portata di aria è definita in base alle
condizioni di partenza del combustibile).
Sostituisco e ottengo:
Quindi la temperatura dei fumi dipende dalla temperatura ambiente, è proporzionale a 𝑘𝑖 , ovvero il contenuto
energetico della biomassa che stiamo bruciando, dipende dall’aria stechiometrica che andiamo ad introdurre
(è evidente che se immetto valanghe di aria i fumi si raffreddano) e dal volume residuo. Il volume residuo
rappresenta il parametro di controllo, in quanto si deve garantire che nel braciere ci sia la giusta quantità di
materiale soggetto a combustione.
Nel seguente diagramma vediamo la temperatura dei fumi in funzione dell’eccesso d’aria:
Possiamo notare che i massimi sono tutti in corrispondenza di 𝜆 = 1 e quindi eccesso d’aria uguale a zero.
Questo non è propriamente vero perché un eccesso d’aria serve ad avere il minimo possibile degli incombusti
senza andare a raffreddare troppo i fumi, quindi queste sono curve teoriche; in realtà i rendimenti maggiori si
verificano leggermente a destra di 𝜆 = 1 con una certa percentuale di eccesso d’aria.
I punti deboli delle caldaie a biomasse sono due: il primo è la regolazione, in quanto è difficile regolare perché
il combustibile in esercizio è soggetto all’ossidazione e il flusso di combustione non può essere fermato o
ripristinato come per un combustibile liquido o gas; il secondo riguarda la disomogeneità che ci rende difficile
la regolazione, e l’anisotropia che ci rende difficile controllare il processo. Da queste due problematiche
derivano gli aspetti sulla sicurezza.
Due dei possibili guasti che possono verificarsi sono: interruzione dell’alimentazione elettrica, se succede in
un impianto a gas non succede nulla in quanto se la corrente va via il combustibile cessa di bruciare, invece
nelle caldaie a biomassa, tutto ciò che è presente nel braciere continua a bruciare senza sapere neanche con
quale eccesso d’aria, infatti se stavo utilizzando una ventilazione forzata le ventole smettono di funzionare ma
il tiraggio non necessariamente arriva a zero. Quando non riesco a bloccare o a far ripartire la combustione
c’è tutto il circuito degli utenti che ne soffre, ad esempio una caldaia non può produrre acqua con temperatura
superiore a 97-98° perché se mi avvicino a 100° mi avvicino alla soglia dell’evaporazione, a quel punto se
faccio evaporare un chilo di acqua questo comincia ad avere dei volumi tali da mettere in pressione il circuito
in maniera piuttosto consistente. Se siamo a 2 bar la temperatura di 100° non ci spaventa perché a quella
pressione la temperatura di evaporazione è di 120°, ma se faccio evaporare il volume specifico di un gas è
decisamente superiore a quello del suo liquido, ma se aumenta il volume all’interno di un circuito chiuso la
pressione aumenta di conseguenza, la temperatura di evaporazione aumenta in funzione della pressione che
sta aumentando quindi il fenomeno di generazione di vapore non è dirompente, è dunque un meccanismo che
si morde la coda, ma che procede.
Quando andiamo a realizzare un impianto per la produzione di potenza termica e quindi acqua calda ad uso
civile distinguiamo due esempi classici, anche sotto il profilo della sicurezza: gli impianti a vaso aperto e gli
impianti a vaso chiuso.
Il vaso di espansione aperto è un recipiente contenente un galleggiante che controlla una valvola. L’acqua di
ritorno va a finire in un collettore, va in caldaia, si scalda e con la pompa di circolazione si rinvia l’acqua alle
utenze.
IMPIANTI FRIGORIFERI
I diagrammi termodinamici sono un’infinità, basta fissare due grandezze termodinamiche e le altre sono note
di conseguenza; nell’ambito degli impianti frigoriferi il diagramma più utilizzato è il diagramma p-H
(pressione-entalpia), è un diagramma in scala semilogaritmica in cui in ordinata troviamo il logaritmo della
pressione p e in ascissa l’entalpia H. Questo diagramma è il più utilizzato per gli impianti frigoriferi poiché
quando individuo le due orizzontali relative alle pressioni di condensazione ed evaporazione sostanzialmente
ho individuato il ciclo:
Nella sezione 1 siamo nel punto di aspirazione del compressore, arrivati alla fine della compressione ci
troviamo nella sezione 2, in cui inizia la condensazione con ricevimento di liquido saturo, in 3 avviene la
laminazione fino alla sezione 4 in cui inizia la fase di evaporazione. La pressione di evaporazione dipende
dalla temperatura di evaporazione, in quanto all’interno della campana i fluidi monocomponenti le isoterme
coincidono con le isobare e ad ogni pressione corrisponde una e una sola temperatura. La temperatura di
evaporazione la definisce il mio committente, il quale mi impone il limite inferiore dell’impianto frigorifero,
ad esempio se abbiamo un oggetto in cella che non può andare sotto gli zero gradi normalmente la temperatura
di evaporazione del fluido batte intorno ai -10°, questo perché occorre avere un ∆𝑇 fra il fluido frigorifero che
scorre all’interno dell’evaporatore e la cella stessa.
Il ciclo termodinamico ideale al quale ci si può avvicinare in termini di rendimento senza però raggiungerlo è
il ciclo di Carnot. Proviamo quindi a costruire il nostro ciclo frigorifero sulla base del ciclo di Carnot: la
temperatura di evaporazione come abbiamo già detto è data dal committente, quella di condensazione invece
è data dalla fonte esterna (aria atmosferica, acqua di pozzo, falda, ecc…). In genere viene fatta un’ipotesi sulla
temperatura massima dell’aria in estate (circa 40 gradi), tenendo un ∆𝑇 = 10° di condensazione, quindi
avremmo una temperatura di condensazione di 50°. In questo ciclo, da 2 a 3 cedo calore (calore di
condensazione) e da 4 a 1 ricevo calore (calore di evaporazione). Quindi se voglio andare a definire l’effetto
utile del frigorifero, questo sarà dato dalla quantità di calore che riusciamo a sottrarre all’evaporatore diviso
l’energia che dobbiamo fornire per sottrarre questo calore. Il calore sottratto dall’evaporatore è pari all’area
sottesa dalla curva, quindi 𝑄𝐸 = ∆𝑆 ∙ 𝑇𝐸 . Mentre il calore fornito per evaporazione è pari a 𝑄𝐶 = ∆𝑆 ∙ 𝑇𝐶 . Se
in un ciclo gli unici scambi di calore sono il calore di condensazione che viene ceduto all’esterno e al calore
di evaporazione che viene ricevuto, la differenza fra il calore ceduto all’esterno per condensazione e quello
ricevuto per evaporazione sarà il lavoro speso. Il bilancio energetico mi dice che il calore di condensazione è
uguale al calore di evaporazione più il lavoro fatto. L’effetto utile si può quindi esprimere come:
𝑄𝐸 𝑄𝐸 ∆𝑆 ∙ 𝑇𝐸 𝑇𝐸
𝜂𝑢 = = = =
𝐿 (
𝑄𝐶 − 𝑄𝐸 ∆𝑆 𝑇𝐶 − 𝑇𝐸 ) (𝑇𝐶 − 𝑇𝐸 )
I due ∆𝑆, essendo relativi a trasformazioni che si muovono sulla stessa differenza di entropia, ovviamente sono
uguali e si eliminano. Quindi con una temperatura di evaporazione di 263 K e una di condensazione di 323 K,
abbiamo un coefficiente di effetto utile 4,4. Significa che, avendo fatto i conti sul ciclo di Carnot, nessuno
potrà mai avere un effetto utile maggiore di 4,4, sia nel ciclo, ne tanto meno nella realtà, dove le compressioni
non sono affatto isoentropiche, gli scambi di calore comportano sempre delle perdite e così via. Questo conto
è comunque utile perché ci dà un orizzonte e ci dice che l’effetto utile di un impianto frigorifero a compressione
deve assolutamente essere superiore a 1, e se così non fosse ci sarebbe sicuramente qualcosa di sbagliato nel
progetto del ciclo. Questo discorso sottende una grossissima bufala, ovvero che l’energia che ho ceduto al
condensatore (e quindi all’esterno) non costa nulla, perché siamo abituati a pensare all’atmosfera come un
qualcosa in cui ci possiamo buttare di tutto, sostanze chimiche, calore, ecc… ed evidentemente questo
trasferimento di energia un costo ce l’ha.
Dimensioneremo tre celle frigorifere, una per la conservazione a 0° con fluido frigorifero a -10°, una per il
surgelamento a -20° con fluido frigorifero a -30° e una cella di surgelamento rapido, che avrà l’impianto più
impegnativo in quanto comporta un fluido condensante a 50° e un fluido evaporante a -40°. Per studiare il
ciclo frigorifero prendiamo il diagramma p-H dell’R-134a (fluido frigorifero):
Nel diagramma sono tracciate due rette all’interno della campana, una corrispondente alla temperatura di 50°
alla quale corrisponde una pressione di 13 bar. Se andiamo a fare una laminazione fino ad una temperatura di
-40°, questa comporta il raggiungimento di una pressione di 0,5 bar. L’arrivo in questo punto ha due elementi
fondamentali di cui tener conto per scegliere il nostro compressore: il primo, il più evidente, è la pressione. Il
compressore lavora non tanto sulle differenze quanto sui rapporti fra le pressioni. Se si alza la temperatura non
è solo per l’aumento di pressione ma anche per attriti e perdite; in un ciclo ideale lungo le isoentropiche gli
scambi di calore sono nulli, ma quando passo a trasformazioni reali, e quindi con incrementi di entropia, viene
inserita una certa quantità di calore, il che comporta un aumento del volume specifico del fluido, perciò il
compressore fa più fatica a comprimere, di conseguenza ad un volume specifico più alto corrispondono perdite
di carico più alte. A parità di peso, se il volume specifico aumenta la portata volumetrica aumenta, e più questa
è grande, maggiori sono le perdite di carico. Quindi il pistone che comprime fornisce energia al sistema, poi
al sistema più una perdita (man mano che si comprime il fluido), quando mi trovo al secondo step ne fornisce
al sistema più due perdite, e così via, quindi col procedere della trasformazione comprimo il fluido così come
era partito più le perdite aggiunte durante il percorso. Il risultato è che ciò che conta davvero in una
compressione è il punto di inizio e di fine, è questo che ci porta a dire che non dobbiamo ragionare in termini
di differenza di pressione, bensì di rapporto di compressione. Nel caso analizzato (R134a) il rapporto di
compressione è di 26 (13/0,5).
Il secondo parametro fondamentale del punto di arrivo è il titolo (ovvero la massa di vapore rispetto alla massa
totale). In questo punto ciò che ci interessa è la quantità di liquido, in quanto è il liquido che entra all’interno
dell’evaporatore e svolge il servizio utile evaporando. Nell’esempio dell’R134a, al termine della laminazione,
ho un titolo di 0,55 , quindi ho 0,45 kg per kg di miscela che transita. La parte di vapore (che ad inizio
laminazione era liquido saturo) non produce alcun effetto utile; l’effetto utile viene svolto esclusivamente dai
450 grammi di liquido che entrano all’interno dell’evaporatore e tornando anch’esso allo stato vapore pronto
ad una nuova ricompressione. Poiché nel ciclo passa tutto il kg di miscela, faccio comprimere un kg per far
evaporare solo 450 grammi, quindi spendo per kg ma guadagno 100 J (ovvero l’evaporazione dei 450 gr). Il
valore del titolo alla pressione di evaporazione dipende dalla campana e quindi dalla natura del fluido
frigorifero. La qualità del fluido frigorifero che andiamo ad utilizzare nel nostro impianto si misura in base alla
quantità di liquido che portiamo all’evaporatore (il più alto possibile) e al rapporto di compressione necessario
a completare la trasformazione (il più basso possibile). I freon utilizzati fra gli anni 10 e 20 dell’ultimo secolo
sono fluidi con ottime caratteristiche termodinamiche, tuttavia sono nocivi per l’Ozono, infatti ad oggi fluidi
frigoriferi con un ODP (Ozone Depletion Potential) diverso da zero non sono più commerciabili. I nuovi freon
sono molto meno performanti rispetto ai precedenti.
Prendiamo ad esempio l’R507a, lavorando sempre fra le stesse temperature:
L’elemento finale arriva all’evaporatore con un titolo attorno agli 0,65-0,70, quindi solo un terzo rimane
liquido, ma in questo caso il rapporto di compressione è di 17,1 (24/1,4) quindi migliore rispetto al caso
precedente relativo all’R134a.
Inoltre se l’impianto dispone di sistemi di rilevazioni delle perdite, la frequenza degli interventi è raddoppiata.
Quando utilizziamo un fluido meno efficiente, se da un lato abbattiamo l’impatto ambientale diminuendo le
tonnellate equivalenti di CO2, dall’altro per ottenere la stessa potenza frigorifera dovremmo spendere più
energia la CO2 la tiro fuori comunque perché il motore elettrico funziona principalmente ad energia fossile.
I refrigeranti sono suddivisi in 6 classi in funzione della loro pericolosità (A1 A2 A3 B1 B2 B3) Il gruppo A1
rappresenta i fluidi meno pericolosi mentre B3 è rappresentativo dei fluidi più pericolosi.
Un altro parametro importante per classificare un fluido refrigerante è il COP (Coefficient of Performance),
ovvero l’effetto utile della pompa di calore, ed è pari alla potenza di condensazione fratto il lavoro:
𝑄𝐶 𝑄𝐶
𝐶𝑂𝑃 = = = 𝜂𝑢 + 1
𝐿 𝑄𝐶 − 𝑄𝐸
Ritornando al dimensionamento di un impianto, abbiamo detto che il primo dato fondamentale sono le
temperature di progetto scelte dal committente: nel nostro caso dobbiamo dimensionare tre celle a 0°, -20° e -
30°, ricordando di tenere sempre un ∆𝑇 = 10° per l’evaporazione (-10°,-30°,-40°) e per la condensazione (che
dipende dall’aria esterna, se questa la prendiamo pari a 40° avremo una temperatura di condensazione di 50°).
Ciò che andremo ad usare sarà un unità motocondensante, ovvero un blocco contenente sia il compressore che
il condensatore che, funzionando ad una certa potenza, produrrà un fluido frigorifero a pressione elevata, a
fronte del quale effettueremo una laminazione: più lamino (più espando), maggiore sarà il titolo e maggiore
sarà il costo di gestione dell’impianto. Dicevamo anche che maggiore è il rapporto di compressione, maggiori
sono le perdite all’interno dell’impianto (meccaniche, fluidodinamiche, elettriche): quindi a fronte di un
rapporto di compressione elevato, conviene spezzare in due la compressione.
(N.B.: consideriamo sempre compressioni isoentropiche, ovvero 𝑃𝑉 𝑘 = 𝑐𝑜𝑠𝑡, dove 𝑘 = 𝑐𝑝 /𝑐𝑣 , più
abbassiamo k più la compressione risulta facile, fino ad arrivare al caso ideale e irraggiungibile in cui k=1.
Notiamo che la somma dei due lavori di compressione è minore del singolo lavoro di compressione; dallo stato
in cui ho spezzato (2) sfrutto i compressori di alta pressione per desurriscaldare il vapore fino al punto 2’ in
cui riprenderò a comprimere ma su un’isoentropica meno inclinata, che mi farà arrivare ad un valore di entalpia
più spostato a sinistra rispetto al caso precedente e quindi ad entalpia minore.
Parliamo ora di dispersioni termiche a cui sarà sottoposta ogni cella; dispersioni termiche attraverso pareti,
soffitto, pavimenti. Inoltre all’interno della cella avremo impianti ausiliari (luce, ventilatori, ecc…) che
disperderanno potenza termica all’interno della cella stessa; infine avrò dispersioni causate dal prodotto che
voglio raffreddare (mela raccolta a 30°C da raffreddare fino a 5°C). L’energia spesa per portare la frutta da
𝑘𝐽
30° a 5° sarà pari a 𝐸 = 𝑚𝑐∆𝑇 = 1000 (𝑘𝑔) ∙ 4,186 (𝑘𝑔°𝐶 ) ∙ 25(°𝐶 ) = 105 𝑘𝐽 che convertita in potenza spesa
è pari 𝑃 = 28 𝑘𝑊 a dispersi per portare la frutta da 30° a 5° in un’ora. Se invece ci mettessi 3 ore la potenza
spesa sarebbe pari a 𝑃 = 9 𝑘𝑊.
Ma la potenza necessaria per raffreddare è 𝑄 = 𝑘𝑠∆𝑇, e possiamo agire solo su k, da qui si arriva dunque al
parametro impiantistico vero e proprio ovvero la freccia: la misura della velocità con cui gli evaporatori
sparano in cella, rappresenta la distanza dall’evaporatore alla quale si ha una velocità utile ad avere un k elevato
(coefficiente di scambio). Se ho un coefficiente di scambio k elevato la velocità di spinta dell’evaporatore è
altrettanto elevata, così come la potenza termica dispersa in cella.
Dopo aver parlato di quanto sia importante spezzare la compressione con rapporti di compressione elevati,
parliamo delle altre tre fasi, nel caso reale.
Condensazione
Il fluido entrando in 2 e uscendo in 3 va incontro a delle perdite di carico che il costruttore deve cercare di
ridurre il più possibile. Sottraggo calore da ℎ2 a ℎ3′ e non più fino a 3: in 3′ sono dentro la campana (bifase)
quindi andrò a dare al ricevitore di liquido una miscela. Come riflesso, 𝑇3′ < 𝑇3 ; il ∆𝑇 nel condensatore si sta
abbassando quindi la potenza scambiata 𝑄 = 𝑘𝑠∆𝑇 è minore; ma se raffreddo di meno al condensatore 3′ si
sposta verso destra (3′′ ) e non ho più ℎ2 − ℎ3 ma un valore inferiore pari a ℎ2 − ℎ3′′ . Quindi in definitiva il
condensatore ha prodotto del vapore di flash (3-3’) a causa delle perdite di carico e come riflesso ha scambiato
meno potenza del dovuto (3’-3’’): tutto ciò lo paga il compressore, che deve elaborare una portata in massa
maggiore.
Nei magazzini frigoriferi grandi, per andare dal ricevitore di liquido alla cella (evaporatore) posso avere anche
centinaia di metri: avrò liquido in uscita dal condensatore che entrerà nel collettore che lo trasporterà verso le
celle: qui il liquido (uscita a 𝑇3′ ) si raffredderà ulteriormente. Il collettore, come il condensatore, è una
superficie di scambio, quindi dal condensatore alla valvola di laminazione ho un recupero energetico, come se
avessi aggiunto un pezzo di condensatore ottenendo alla fine un liquido sottoraffreddato a circa 45° (da 3” a
3”’). Avrò un ∆𝑝 lungo le tubazioni che abbassa la pressione e allo stesso tempo raffreddamento, trasformando
il più possibile il vapore in 3” in liquido verso la curva limite. Il parametro da calcolare per l’impiantista è il
diametro del collettore in modo da avere una perdita di carico che ci conduca a sinistra fuori dalla campana.
L’obiettivo è quindi avere minori ∆𝑝 possibili per avere minor vapore e maggiori perdite di calore (da 3” a
3”’) per spostarsi a sinistra della campana: ma ho ∆𝑝 basse con basse velocità degli evaporatori, di conseguenza
avrò un k basso, quindi bisogna trovare un giusto equilibrio.
Laminazione ed evaporazione
Devo espandere appena fuori dalla cella, perché se lo facessi subito dopo il ricevitore di liquido avrei un tubo
lungo 200 metri a -10° che disperderebbe tantissima potenza e andrebbe coibentato. Devo spostarmi più a
sinistra possibile, inoltre, per avere a fine laminazione un titolo più basso rispetto a 3”, e quindi una maggior
quantità di liquido disponibile per l’evaporazione. All’uscita dalla cella, ho un tubo a -10°C che deve tornare
all’unità motocondensante (compressore + condensatore); il tubo, nonostante sia coibentato, si riscalda e può
arrivare anche a -8°C; essendo un collettore lungo avrò anche perdite di carico, quindi una diminuzione di
pressione e temperatura, che si stabilizza intorno ai -9°C, ma in quel punto non sono a vapore saturo secco,
sono più spostato a destra, quindi isoentropiche più inclinate e di conseguenza maggiori lavori di compressione.
Queste ∆𝑝 inoltre mi tengono lontano dall’avere a fine evaporazione un titolo diverso da 1 (che entrando poi
nel compressore alternativo mi provocherebbe dei danni).
Il gruppo di compressione, nel caso di funzionamento standard, è costituito da 4 compressori che alimentano
5 celle a 0°, una a -20° e una a -30°. Per le 3 celle a 0°C è impiegato un compressore che lavora
ininterrottamente, quando le richieste si alzano (primavera/estate) iniziano a lavorare anche il secondo e il terzo
compressore sulla quarta e quinta cella; il quarto compressore è tenuto come riserva. Ovviamente i primi tre
compressori verranno commutati nell’utilizzo per non avere squilibri di tempo di funzionamento. In sostanza
abbiamo più compressori installati in parallelo per ragioni di regolazione e sicurezza, più altri due compressori
a parte che funzioneranno a temperature più basse.
Perché la perdita di carico tra la cella ‘n’ (a 𝑝𝑛 ) e l’imbocco di aspirazione (1) è maggiore della perdita di
carico tra 𝑝1 e 1. Questo provoca l’arrivo a 1 di una 𝑝𝑛 < 𝑝1 e un volume specifico 𝑣𝑛 maggiore del volume
specifico 𝑣1 , di conseguenza 𝑄𝑛 > 𝑄1, 𝐺𝑛 < 𝐺1 .
La soluzione sta nel biforcare il collettore di aspirazione in modo da avere lunghezze di aspirazione uguali tra
i compressori, senza vie preferenziali, perdite di carico in ingresso uguali e minori possibili: devono essere
fluidodinamicamente bilanciati. Questo bilanciamento non è in uscita dalle celle, perché queste possono essere
decine, centinaia quindi mi servirebbero migliaia di metri di tubature e costi di impianto altissimi. Inoltre se
dalla cella 1 uscisse una miscela con titolo diverso da 1, questa verrebbe bilanciata dal vapore surriscaldato in
uscita dalla cella n; per minimizzare ulteriormente le perdite in uscita dall’evaporatore, posso aumentare il
diametro del collettore, in modo da avere una velocità del fluido minore, e quindi minori perdite e minor
squilibrio fra le celle.
Nel collettore di mandata abbiamo molti problemi rispetto a quello di aspirazione, perché le pressioni sono
molto elevate (23 bar) e anche se perdo 100 mbar è trascurabile. Il compressore va lubrificato: ho una coppa
dell’olio sul fondo più un piede di biella che si tuffa nell’olio, lo nebulizza in modo che l’olio invada la camera.
il fluido frigorifero in uscita dal condensatore trasporterà una nebbia d’olio molto fine (dell’ordine del 𝜇𝑚)
che alla lunga dà fastidio perché queste goccioline si separano ostruendo il tubo e creando una resistenza
termica: per evitare questo, c’è il separatore dell’olio che scarica in basso l’olio separato il quale, passando
attraverso un filtro, va verso un ricevitore di olio ce si comporta come un vaso comunicante: tenendo il livello
del vaso ad un valore fisso garantisce la presenza di olio in tutti i compressori.
Compressori a media-bassa pressione
𝐶𝑛+1 dovrà essere un compressore più grande, più robusto e più prestante dei 𝐶𝑛 perché elabora un rapporto
di compressione maggiore (di circa 5,1). Funziona normalmente, comprimendo il vapore in arrivo dalla cella
di surgelamento (quella a -30°) e spedendolo ai condensatori (previo passaggio nel separatore di olio n+1).
Discorso più complesso per 𝐶𝑛+2 che, sostanzialmente, fa da condensatore ai compressori di alta pressione.
𝐶𝑛+2 a un rapporto di compressione enorme (23:1,2=17,7) e si usa raramente, in casi di emergenza quando è
richiesto un surgelamento rapido. La compressione arriva fino all’aspirazione dei compressori ad alta
pressione. Sono nel punto in cui ho vapore surriscaldato a 0°C; se butto all’aspirazione dei condensatori del
vapore a 0°C (in cui è presente vapore a -10°C), questo passerà da -10°C a -9°,-8°, ecc…
Devo essere più leggero in questo surriscaldamento quindi attraverso il desurriscaldatore sposto il punto verso
sinistra (comunque fuori dalla campana per far funzionare i miei strumenti di misura di pressione e
temperatura). Ora sarò nell’intorno del punto 1 con il desurriscaldatore che mi ha fatto passare dagli 0° del
punto precedente ai -8°C del punto 1.
Quando i 𝐶𝑛 sono funzionanti le valvole di laminazione VI1 e VI3 sono aperte, mentre VI2 è chiusa, con un
funzionamento normale del desurriscaldatore. Quando i 𝐶𝑛 sono spenti, VI1 e VI3 sono chiuse, mentre VI2 è
aperta e 𝐶𝑛+2 manda direttamente al condensatore. Ovviamente 𝐶𝑛+2 non ha il suo separatore di olio (perché
il vapore compresso andrà a finire in aspirazione ai 𝐶𝑛 e dopo ci sarà un separatore di olio); se il fluido
frigorifero uscito da 𝐶𝑛+2 si porta dietro un po’ di olio non fa altro che bene: in questo modo avrò lubrificato
anche la parte superiore dei 𝐶𝑛 , meno soggetto a lubrificazione. Nella coppa l’olio ha pressioni molto elevate
quindi tende a fluire liberamente verso il basso.
L’R404a, che è il fluido che stiamo considerando per il nostro impianto, è una miscela detta zeotropica, ovvero
una miscela di R143a, R125 e R134a. Questi tre gas sono stati messi insieme per creare un elemento che abbia
una campana che sia significativa, che abbia la possibilità di effettuare cicli di temperatura che sono fissati,
fissare dunque la temperatura di condensazione in base alla sorgente fredda che abbiamo, fissare la temperatura
di evaporazione in base alle esigenze del committente, nel caso più drastico dobbiamo andare da -40° a +50°,
quindi dobbiamo avere una campana che realizzi almeno nel ciclo teorico (compressione isoentropica,
condensazione perfetta fino al liquido saturo, ecc…) un effetto utile decente. Se notiamo le isoterme all’interno
della campana possiamo notare che sono leggermente inclinate, e questo succede quando utilizziamo delle
miscele zeotropiche, in cui ci sono diversi elementi che hanno isoterme e isobare nelle rispettive campane che
non sono uguali a quelle del composto finale, in quanto alle stesse pressioni presentano temperature diverse.
Di conseguenza durante l’evaporazione dallo stato liquido allo stato vapore non abbiamo più la costanza della
temperatura in funzione della pressione all’interno della campana, e questa differenza di temperatura fra lo
stato liquido e lo stato gassoso si chiama glide temperature, scorrimento, e più è marcato questo scorrimento
e meno prestante è l’impianto frigorifero, in quanto ciò che si vuole è proprio avere un’evaporazione a
temperatura costante con tutti i benefici che ne derivano. Questo vuol dire che comincio ad evaporare a -10° e
finisco di evaporare a -7°, e questo negli scambi termici ha un effetto considerevole, perché la temperatura
media non è più -10° ma -8,5° quindi bisogna dimensionare tutte le apparecchiature, in particolare gli
evaporatori, sulla base di quella temperatura media.
Abbiamo la parte costituita da 𝐶1 e 𝐶𝑛 che sono i compressori di alta pressione, poi abbiamo i compressori
𝐶𝑛+1 che è quello di media pressione (-30°/50°) e poi 𝐶𝑛+2 utilizzabile in due modi, il primo esattamente come
gli altri, effettuando una compressione da -40° (quindi da circa 1,3 bar) fino a 50° a cui corrisponde una
pressione di 23 bar, ma nel suo funzionamento normale funziona come il primo stadio di un frigorifero doppio
stadio, cioè raccoglie il vapore dalla cella a bassa pressione (-40°/vapore saturo secco), fa la compressione fino
a -10°, si ferma quindi alla pressione di mandata dei compressori di alta pressione, e dopo un opportuno
desurriscaldamento il vapore che torna in condizioni di saturo secco (mantenendo comunque un grado di
surriscaldamento di 2° per evitare la formazione di liquido) viene mandato al compressore di alta pressione; in
questo modo arriviamo alla mandata del condensatore con un grado di entropia inferiore rispetto al ciclo che
prevede un’unica compressione. C’è un’altra ipotesi, molto rara, che questo compressore non vada a fare il
primo stadio della compressione ma se la debba cavare da solo mentre gli altri compressori sono fermi, vado
quindi da 1,3 a 23 bar, l’elettrovalvola si usa perché non c’è nessun desurriscaldamento dato che effettuiamo
un’unica compressione. Dopodiché la valvola VI che sarebbe andata all’aspirazione dei gruppi di alta pressione
viene chiusa, mentre viene aperta la valvola VI di mandata al recuperatore e ai condensatori. Da notare che
queste due valvole VI sono valvole manuali, non automatiche, il che sta a sottolineare il fatto che questa
operazione, ovvero il 𝐶𝑛+2 che lavora da solo, è un’operazione veramente rara.
Dai compressori si arriva ad un primo recuperatore di calore in quanto nella post-compressione raggiungiamo
una temperatura di 70° a fronte di una temperatura di condensazione di 50°, quindi un grado di
surriscaldamento di 20°, posso quindi approfittarne per fornire del riscaldamento di acqua sanitaria e altri
servizi di questo tipo.
Nel collettore di aspirazione dei condensatori abbiamo una valvola di sicurezza, che può scaricare il fluido
frigorifero all’esterno, ma ogni kg di fluido equivale a 3,9 tonnellate di CO2 (quindi qualcosa che si evita
volentieri), e se questa interviene, interviene dopo che un pressostato segnala il superamento di un certo limite
di pressione, a quel punto qualcosa non sta funzionando come dovrebbe, e piuttosto che avere degli scoppi si
preferisce scaricare il freon in atmosfera. Ma cosa comporta un aumento incontrollato della pressione tale da
attivare questa valvola, determinando quindi un insuccesso della regolazione del nostro impianto? Il
condensatore trasforma il vapore surriscaldato in un liquido, il volume specifico diminuisce di 3 ordini di
grandezza e di conseguenza la pressione tende a calare in maniera robusta proprio perché stiamo riducendo il
volume specifico in ambiente chiuso, quindi se questi condensatori non svolgono il loro compito come
dovrebbero (quindi senza condensare tutto il vapore) mi ritrovo un freon nel circuito con un volume specifico
medio che tende a schizzare, avrei degli incrementi di pressioni elevatissimi proprio per mancata
condensazione e mancata riduzione del volume specifico. Dall’altra parte inoltre non c’è un compressore
centrifugo con caratteristica che si adatta, bensì c’è un compressore alternativo (o volumetrico rotativo), che
invece prende un volume, lo isola e lo manda in avanti. Quindi la pressione alla mandata dei compressori, cioè
all’aspirazione dei condensatori, è determinata dall’efficacia di condensazione. Per questo motivo la valvola
di sicurezza viene posizionata nel collettore di aspirazione del condensatore ma viene portata anche al servizio
del ricevitore di liquido, non ha quindi una valvola dedicata in quanto la pressione all’interno di un ricevitore
di liquido non sarà mai maggiore rispetto a quella presente nei condensatori. Ho inoltre le solite valvole di
intercettazione al servizio di ciascun dispositivo per poterlo installare e poterlo manutenere.
Il termostato viene settato attraverso una manopola in grado di regolare il set-point, quando la temperatura è
inferiore a questo valore si ha un microinterruttore e si dice che il contatto è normalmente aperto, se invece il
contatto è chiuso per temperature inferiori al set-point si dice che il contatto è normalmente chiuso. Il contatto
normalmente chiuso o normalmente aperto è definito in base a come è costruito questo oggetto: se sono sotto
la temperatura di set-point e il mio contatto è normalmente aperto vuol dire che in quelle condizioni è aperto,
quando supero la soglia il contatto normalmente aperto si chiude (non diventa normalmente chiuso), è quindi
una definizione all’origine. Quando sono sotto la soglia di impostazione il contatto normalmente aperto è
aperto e il normalmente chiuso è chiuso, quando supero la soglia invece sono fuori dalle condizioni normali.
Quando raggiungo la temperatura fissata questo oggetto apre un circuito e diseccita un’elettrovalvola, ovvero
una valvola automatica comandata da una bobina che apre e chiude un interruttore.
Quando il circuito è disalimentato, questa valvola è fatta in modo da spingere l’otturatore verso la sede e
impedire il flusso, quando il circuito è aperto, quindi non alimentato dalla bobina, la valvola è chiusa, quindi
questa valvola è normalmente chiusa.
Nel collettore di mandata alle celle ho il liquido condensato (a valle dei condensatori), ho quindi tutti i condotti
che portano il condensato a fianco delle celle frigorifere. Questi tubi non vengono isolati perché, essendo
lunghi anche centinaia di metri, ho delle perdite di carico che mi farebbero rientrare all’interno della campana,
con una diminuzione di pressione isoentalpica, e se mentre riduco la pressione non acquisto e non cedo calore,
ho una laminazione, cominciando così ad avere vapore e liquido (sono dentro la campana). Più la velocità è
elevata, più le perdite di carico salgono; ciò che invece non mi dispiace è perdere calore, perché questo significa
aiutare la condensazione e continuare a mantenere il liquido, quindi perdite di carico relativamente basse e
tutto il sistema risulta essere controllato.
Le due valvole di intercettazione, che realizzano l’isolamento dell’elemento che eventualmente devo andare a
manutenere, sono a valle dell’evaporatore e a monte del gruppo di fornitura del laminato (orificio tarato,
elettrovalvola, filtro). Superata la valvola di intercettazione immediatamente a valle dello stacco ho subito un
filtro (per bloccare la circolazione di particolato proveniente dal compressore), un’elettrovalvola che prende
consenso dal termostato ambiente e quando viene superato il set-point va a chiudere uno di questi microcontatti
che vanno ad aprire indirettamente questa elettrovalvola. Ho un orificio tarato che è otturatore che vado a
regolare manualmente quando vado a fare il collaudo e che funge da valvola di laminazione; se la prima cella
è molto vicina questo oggetto lo strozzo di più, perché devo realizzare la stessa perdita di carico che ho nella
cella più lontana, la perdita di carico della cella lontana è data ovviamente da quella concentrata dovuta
all’orificio tarato più le perdite distribuite sul percorso per raggiungerla. Le celle devono essere servite dalla
stessa temperatura di esercizio (nel nostro caso è -10° la temperatura in uscita dall’evaporatore), è evidente
che la cella più lontana, e che quindi viene servita con una perdita di carico dovuta al percorso che il fluido
deve fare per raggiungerla, dovrà avere un orificio tarato un po’ più aperto rispetto alla cella vicina, perché la
somma delle perdite di carico distribuite e concentrate deve essere uguale per entrambe: la cella più vicina
avrà praticamente solo la perdita concentrata dovuta all’orificio tarato, quella più lontana avrà la somma delle
due. In questo passaggio un filtro è estremamente importante, perché se dovessi accumulare particolato,
frammenti di metallo e sporcizie di varia natura, questa zona andrebbe a sporcarsi e andrei a sbilanciare
facilmente tutto il sistema. Anche differenze di pochi millibar fanno cambiare la temperatura, quindi tutto il
gruppo andrebbe salvaguardato.
Il termostato ambiente non attiva solo l’elettrovalvola, ma anche il ventilatore dell’evaporatore perché nel
momento in cui ho bisogno di freddo all’interno della cella l’elettrovalvola si apre e consente la laminazione
del fluido che entra nell’evaporatore, ma l’evaporatore dal canto suo deve far funzionare i propri ventilatori;
quando non c’è bisogno di potenza frigorifera i ventilatori si vanno a fermare insieme a tutti gli ausiliari, per
evitare che consumino potenza frigorifera. Quindi quando l’elettrovalvola fornisce liquido all’orificio tarato,
anche il ventilatore inizia a funzionare. L’evaporato va al compressore, a valle del compressore abbiamo il
filtro e poi il desurriscaldatore. Il termostato ambiente è collegato al qm,uadro elettrico che comanda il
compressore il quale viene attivato assieme ad un’altra elettrovalvola che dal ricevitore di liquido fornisce il
liquido necessario a desurriscaldare il fluido alla mandata del compressore di bassa pressione. Dall’evaporatore
si arriva al compressore di bassa pressione, si entra nel desurriscaldatore e l’elettrovalvola si deve attivare. Nel
caso della cella di surgelamento rapido a -30°, quando il termostato chiama si attiva l’elettrovalvola, l’orificio
tarato sarà strozzatissimo perché devo arrivare a -40° quindi ad una pressione di 1,3 bar, il ventilatore entra in
funzione, contemporaneamente parte il compressore 𝐶𝑛+2 e si apre l’elettrovalvola che controlla il
desurriscaldamento.
IL COMPRESSORE
Normalmente ci sono tre tipi di compressori: compressore ermetico, compressore semiermetico e compressore
aperto.
Compressore ermetico contiene, all'interno di un unico involucro metallico sigillato, le parti meccaniche il
motore elettrico ed il lubrificante;
Compressore semiermetico blocco motore e blocco compressore sono direttamente accoppiati e imbullonati
tra loro formando un unico involucro che però è accessibile al suo interno;
Compressore aperto gruppo compressore e gruppo motore sono due unità completamente distinte tra loro.
La prima cosa da fare è capire qual è il fluido frigorifero che meglio si adatta al sistema. Bisogna vedere quali
sono le condizioni che portano alla scrittura dei dati presenti nei cataloghi:
Abbiamo un compressore, un separatore di olio, il quale porta ad un ricevitore di olio quindi una volta separate
le goccioline di olio nel filtro lo faccio confluire in un ricevitore di olio (questi oggetti sono tutti ad alta
pressione, soggetti alle normative PED e ATEX). Il ricevitore di olio ha due uscite, una verso il basso che torna
direttamente dentro il compressore nella coppa dell’olio, mentre una parte dell’olio viene reimmessa
all’aspirazione. Il compressore ricordiamo che è un oggetto costituito da cilindro, pistone, biella, piede di biella
con i supporti, motore elettrico che alimenta il sistema con le tre fasi e portato a terra e la pompa di circolazione
dell’olio. Se guardiamo questo sistema noi abbiamo fasce elastiche e raschia olio, con valvole di aspirazione e
di mandata entrambe di non ritorno e se in fondo alla cassa abbiamo l’olio, per sbattimento la lubrificazione
avviene per tutta la camera al di sotto del raschia olio (fatto apposta per evitare che l’olio vada alla mandata).
Ovviamente il raschia olio non eviterà che tutto l’olio vada alla mandata, per questo a valle della mandata
abbiamo filtri separatori. Tuttavia se sotto le fasce elastiche avremo una lubrificazione fantastica, al di là di
queste la lubrificazione sarà modesta rispetto al resto della camera, per questo, attraverso la valvola di
aspirazione del compressore e l’ausilio di un atomizzatore, immetto dell’olio finissimo con portate molto basse
per non danneggiare la testa del cilindro e le valvole stesse. Quel che si fa è portare una nebbia di atomizzato
e goccioline in sospensione finissima grazie a questa grossa differenza di pressione che c’è fra la pressione di
condensazione (a valle) e la pressione di evaporazione (a monte).
Compito dell’olio presente nel compressore è quello di:
Abbiamo una linea di aspirazione, il collettore di aspirazione, con questa disposizione ho il bilanciamento delle
perdite di carico sulle condotte dei compressori, si cerca di realizzare un’installazione per cui aspirazione e
mandata si equilibrano nel gruppo di elementi in parallelo. All’uscita del compressore vado all’interno del
separatore di olio, in cui le particelle di olio vengono bloccate e il gas pulito prosegue il suo percorso verso il
condensatore. Abbiamo un punto di estrazione che dal separatore giunge al ricevitore di olio, che due punti
che potrebbero essere delle spie visive, ma potremmo anche collegarli a un tubo trasparente esterno (per alte
pressioni e temperature) in modo da controllare il livello. Una volta che l’olio è tornato al ricevitore,
quest’ultimo lo distribuisce su due vie, la prima porta ai filtri, passa attraverso un indicatore di olio e un
regolatore di olio, questo dev’essere posizionato al livello di olio che voglio avere all’interno del carter del
compressore: il pelo libero deve trovarsi esattamente in corrispondenza della spia visiva del regolatore
altrimenti non è possibile controllare il livello dell’olio e sulla base di questo è possibile regolare il livello
all’interno del carter. La seconda via porta all’aspirazione del compressore, dove nebulizzo questa nebbia e
bisogna stare molto attenti a calibrare bene perché se arriva una quantità di olio liquido eccessiva c’è il rischio
di danneggiare il compressore.
L’olio lubrifica la camera del compressore per sbattimento, dopodiché abbiamo una pompa ad ingranaggi che
va a pescare, attraverso un filtro, l’olio inviandolo laddove ci sono degli elementi di strisciamento (bronzine)
che consentono il moto. Come si fa a controllare che questa pompa abbia olio a sufficienza? Lo si fa con un
pressostato differenziale che misura la pressione a valle della pompa, in quanto la pompa volumetrica si limita
ad isolare un volume e portarlo avanti, ma le perdite di pressione sono date dai capillari che giungono agli
elementi di strisciamento che vanno lubrificati. Ma noi non possiamo sapere con esattezza la pressione di
aspirazione dell’olio, quello che possiamo sapere è che la pressione all’interno del carter è intermedia fra la
pressione di evaporazione e quella di condensazione: sul pistone, quando sono al punto morto inferiore, ho la
pressione di evaporazione, quando invece il pistone è al punto morto superiore e sta scaricando il gas a valle
del compressore avrò la pressione di condensazione. Non essendo quindi nota la pressione ambiente, possiamo
misurare la differenza di pressione che c’è fra l’aspirazione e la mandata di questa pompa, utilizzando un
pressostato differenziale, che misura la differenza fra monte e valle: una presa di pressione la metto in
collegamento col carter da cui prendo la pressione di riferimento dell’ambiente in cui la pompa lavora, la
seconda invece la metto a valle della pompa, in modo da misurare la differenza di pressione e questa è la
prevalenza che la pompa dà in funzione delle perdite di carico che affronterà nel circuito. La differenza di
𝜌𝑙 𝑣 2
pressione è data dalle perdite di carico alla mandata, questa perdita di carico è data da ∆𝑝 = 𝐷 2
, il parametro
decisivo è la densità 𝜌 dell’olio, all’avviamento la densità dell’olio è quello in condizioni normali (0,75 circa),
una volta entrato in circolo innanzitutto si scalda, si nebulizza, quindi la densità cala e la viscosità cresce, ho
quindi un calo di perdite di carico a valle della pompa, quindi se ad esempio avevo messo come limite del
differenziale 5 bar, quando sono a regime il pressostato mi segnala che non c’è olio, ma l’olio c’è,
semplicemente e arrivato a temperatura di regime e riduce la sua densità. Ma all’interno del compressore il
manovellismo nebulizza per sbattimento buona parte dell’olio, quindi se questa pompa non è inserita in una
zona di calma dell’olio e quest’olio si va a mischiare con il gas nell’ambiente che lo circonda la densità crolla,
perché diventa una miscela di liquido e gas nebulizzata, e la pressione crolla di conseguenza e non sappiamo
più distinguere quando l’olio si è miscelato con il gas e quando l’olio effettivamente non c’è.
Il pressostato differenziale, se sente una pressione che è inferiore a quella di set-point, apre un circuito che va
a disalimentare il motore del compressore. Il pressostato differenziale è un pressostato temporizzato (o
ritardato), ciò vuol dire che quando lo disalimento, c’è un piccolo dispositivo che torno a zero rispetto a un
conto alla rovescia; in sostanza il pressostato non interviene immediatamente, ma con un ritardo. Quindi se ad
esempio setto un ritardo di 3 minuti, quando faccio partire la corrente elettrica e che quindi investe anche il
pressostato differenziale, questo comincia a contare 3 minuti entro i quali viene by-passato il circuito di
controllo; dopo il terzo minuto va a controllare cosa è successo. Siccome dopo 3 minuti la pressione è stata
abbondantemente raggiunta, il microswitch si è chiuso e mi dà il consenso. Mentre i vari pressostati, termostati,
ecc… di regolazione funzionano a riarmo automatico, gli elementi di sicurezza come il pressostato
differenziale il riarmo dev’essere manuale.
Separatore dell’olio
• Intercetta l’olio trascinato dal gas compresso e, restituendolo con regolarità al carter della macchina, concorre
ad assicurare l’efficace lubrificazione degli organi in movimento del compressore;
• Eliminando o riducendo il film d’olio sulle superfici di scambio del condensatore e dell’evaporatore,
mantiene al valore atteso il coefficiente di trasmissione termica di tali apparecchi;
• Il separatore d’olio, smorzando le pulsazioni delle valvole del compressore alternativo, riduce la rumorosità
degli impianti con compressore aperto o semi ermetico.
La selezione del separatore dell’olio viene fatta in funzione delle caratteristiche del compressore scegliendo
un separatore che abbia dimensione in ingresso compatibile con lo scarico del compressore e che possa
sopportare la portata di refrigerante in condizioni nominali. Ciò significa in particolare verificare la velocità di
attraversamento della sezione filtrante e verificare che questa non superi valori di riferimento usualmente
impiegati nel settore 0 4 m/s altrimenti si corre il rischio di generare turbolenze indesiderate.
IMPIANTO FRIGORIFERO AD ASSORBIMENTO
L’impianto frigorifero a compressione preleva del vapore ad una pressione e temperatura basse (di
evaporazione), lo comprime, lo porta ad un’altra pressione e temperatura per consentire al vapore di cedere
vapore all’esterno, abbiamo quindi la fase di condensazione, una volta ottenuto un liquido alla condizione di
condensazione facciamo una laminazione isoentalpica che si sviluppa all’interno della campana, quindi ad una
riduzione di pressione si accompagna una riduzione di temperatura. Tutto questo è possibile grazie al lavoro
di un compressore, facendo passare del calore da una sorgente fredda ad una sorgente calda e questa macchina
realizza due cose sostanzialmente: alzare la pressione/temperatura e aumentare l’entropia. L’impianto a
compressione è altamente energivoro perché elabora un fluido allo stato gassoso e assorbe molta energia; se
dovessimo portare un liquido dalla stessa pressione evaporazione alla stessa pressione di condensazione
dovremmo usare una pompa e vedremo che l’energia fornita dalla pompa al liquido è sostanzialmente
trascurabile rispetto all’energia che invece fornisce il compressore.
Come facciamo a sostituire un compressore?
Consideriamo una miscela, per semplicità facciamo riferimento a due elementi concreti: acqua e ammoniaca,
fluidi utilizzati nei classici frigoriferi ad assorbimento. Se prendiamo una miscela composta da due fluidi
abbiamo qualcosa di molto simile ad una miscela zeotropica, ovvero il fatto che acqua e ammoniaca stanno in
equilibrio fra di loro con concentrazioni diverse e determinano delle condizioni termodinamiche diverse.
Prendiamo come riferimento questo diagramma:
è:
Il titolo x del vapore presente nella miscela eterogenea (M) è quindi dato da:
Se volessimo fare invece un discorso energetico dobbiamo andare a studiare un diagramma H-c:
Anche in questo caso abbiamo due curve, la curva limite inferiore separa il
liquido dalla miscela liquido + vapore, mentre la curva limite superiore separa la miscela liquido + vapore
dalla fase vapore. Se considero solo uno dei due elementi che compongono la miscela, e quindi mi metto o
sull’ordinata di sinistra o su quella di destra, ritrovo la differenza di entalpia, ovvero l’energia che devo fornire
per far evaporare completamente il fluido (𝐻𝑉𝐴 − 𝐻𝐿𝐴 nel caso del fluido A). Questi diagrammi si riferiscono
a 1 kg di miscela a pressione costante. Notiamo che se siamo sotto la curva limite inferiore o sopra la curva
limite superiore, le temperature tendono ad essere delle isoentalpiche man mano che si allontanano dalle curve
limite. Nella miscela di due componenti che hanno diversi punti ebullioscopici quando entro dentro la zona
bifase la temperatura cambia, quindi diversamente da quanto detto per un freon abbiamo temperature diverse
da inizio a fine evaporazione. Quando comincio a fornire calore all’interno della campana separo un vapore
con concentrazione molto più alta di bassobollente, il liquido che rimane evapora a temperature più elevate
perché ha un contenuto maggiore di altobollente quindi tende, man mano che evapora, ad avere solo acqua.
Come possiamo vedere dal diagramma di Mollier dell’acqua, le isoterme diventano orizzontali quasi subito
all’uscita dalla campana. Ad esempio l’acqua diventa vapore saturo secco alla temperatura di 30 gradi quando
è alla pressione di 0,04 bar (40 millibar). Se voglio evaporare a 5°C ho bisogno di una pressione di 0,8721 kPa
(8 millibar), se voglio condensare a 35-40°C la pressione oscilla fra 5,628 e 7,384 kPa (fra 56 e 74 millibar),
quindi posso benissimo fare una condensazione dell’acqua a 40 gradi, come per il fluido frigorifero. Quindi
l’acqua diventa un fluido frigorifero normale, con l’unica preoccupazione che sotto gli zero gradi diventi
solida, ed è chiaro che si forma del ghiaccio nelle condotte abbiamo finito di lavorare; per questo motivo
andiamo ad evaporare a 4-5 °C con pressioni di evaporazione intorno agli 8-9 millibar, e andiamo a condensare
a 50 °C con pressioni attorno al decimo di atmosfera.
Partiamo dal generatore all’interno del quale mettiamo una soluzione di acqua e LiBr e andiamo a scaldarla
attraverso una sorgente esterna (alimentata da calore di recupero). Tutti questi impianti hanno dei COP inferiori
a 1 (attorno allo 0,7-0,8), vuol dire che se butto dentro una potenza termica, esco fuori con una potenza
frigorifera del 70/80% e di conseguenza se dovessi pagare questa energia termica con dei combustibili fossili
sarebbe sciocco non rivolgersi ad un impianto a compressione con un effetto utile pari a 3. Se però la fonte è
una fonte che avrei buttato via, per me è gratis, quindi quell’80% è totalmente guadagnato. Tornando al nostro
impianto, se con una sorgente calda fornisco della potenza termica alla temperatura di 90° e nello stesso
ambiente ci metto sia il generatore sia il condensatore qui dentro ho una pressione che è quella di
condensazione (che se voglio condensare a 50°, sarà circa di 0,12 bar). Se ci fosse acqua pura, a quelle
pressioni, bollirebbe a 45-46°; in realtà acqua pura non è, in quanto è acqua salata e l’acqua salata bolle a
temperature più alte, ed è per questo che fornisco una potenza termica a 85-90°. Dato che il sale ha una tensione
molto elevata quello che si libera in vapore è acqua pura, di conseguenza abbiamo: soluzione che bolle a 90°
ma dalla cui superficie esce fuori vapor d’acqua puro a 90° ma a 0,12 bar la temperatura di evaporazione è
circa 46°, quindi quest’acqua si trova ad uscire dalla fase liquida a 90° ma si trova in un ambiente a cui
corrisponde una temperatura di saturazione di 46°, sarà quindi un vapore surriscaldato con un grado di
surriscaldamento di 90-45=45°. Quindi produco istantaneamente vapore surriscaldato. Se ci butto dentro una
sorgente di raffreddamento (ad esempio dell’acqua a 35°) riesco a desurriscaldare e a realizzare una
condensazione a 45°. Ho prodotto del liquido saturo umido condensato alla temperatura di circa 45° alla
pressione di un decimo di atmosfera (ottenendo lo stesso risultato di un frigorifero a compressione). Come
qualsiasi frigorifero a questo punto devo ridurre la pressione attraverso una laminazione e se voglio andare ad
evaporare a 5° devo laminare fino ad una pressione di 8 millibar. Faccio uscire il condensato dall’ambiente
generatore-condensatore per poi farlo passare attraverso una valvola di laminazione che riduca la pressione da
0,12 a 0,008 bar. Ciò che ci consente di tenere condensatore e generatore nello stesso recipiente alla stessa
pressione pur avendo temperature completamente differenti (90 e 45 °C) è che ciò che bolle è una soluzione
al bromuro di litio, chi evapora è acqua pura. A fine laminazione ho un fluido con un certo titolo la cui fase
liquida va a bollire raffreddando il serpentino esterno, il quale normalmente va a servire un impianto ad uso
civile, ad esempio gli aerotermi o fan coil, in cui l’acqua entra a 12° ed esce a 7° e ciò che la raffredda è
l’evaporazione del liquido dal punto 4 al punto 1 alla pressione di un centesimo di atmosfera. Il liquido in
uscita dalla valvola di laminazione viene atomizzato e spruzzato sulle superfici di scambio proprio per avere
il massimo raffreddamento.
Abbiamo detto che nel recipiente generatore-condensatore abbiamo versato dell’acqua salata e ne abbiamo
estratto del vapore, ma cosa succede al liquido che rimane nel recipiente? La concentrazione di bromuro di
litio aumenta in maniera radicale avendo tirato fuori acqua pura. Una concentrazione alta di LiBr è molto abile
a catturare del vapore, posso quindi inviare questa soluzione molto concentrata nell’ambiente di evaporazione
(vaporizzatore-assorbitore A) piena di vapore saturo secco alla condizione 1, tornando a diluire riportandosi
allo stato iniziale, pompo il diluito fino al decimo di atmosfera e torno nel generatore. Al generatore deve
tornare un fluido che sia il più possibile vicino ad una temperatura di 90°, mentre all’assorbitore A occorre una
temperatura più bassa possibile, perché se la temperatura è molto bassa la soluzione di LiBr riesce a catturare
molta roba, al contrario se la temperatura è alta l’acqua pura se ne va via e riesce a catturare poca roba. Quindi
più è bassa la temperatura nell’assorbitore e più la soluzione salata riesce a catturare il vapore puro (che
altrimenti uscirebbe dalla miscela). Nell’assorbitore A abbiamo bisogno di una sorgente che raffreddi, ma
allora se ciò che esce dal generatore dev’essere raffreddato e quello che esce dall’assorbitore dev’essere
riscaldato, è chiaro che fra le due fasi ci metterò una scambiatore di recupero S. Quindi dal punto 8 a 90° entro
nello scambiatore di calore S, e arrivo all’assorbitore già raffreddato a temperature di circa 35-40°, esce fuori,
viene pompato e rimandato indietro. Dall’altra parte esce dall’assorbitore un liquido che nel frattempo ha
catturato molto vapore d’acqua puro e quindi a concentrazione povera che, passando dallo scambiatore di
calore S, si scalda (dal punto 6 al punto 7) pronto per tornare al generatore per essere fatto bollire nuovamente
a 90°.
Il punto più delicato durante il raffreddamento è l’assorbitore: più la temperatura nell’assorbitore è bassa e più
catturo vapor d’acqua. Se entro nell’assorbitore con una sorgente esterna (ad esempio acqua di torre) a 30°
(𝑇𝑒 ) esco fuori a 35°(𝑇𝑖 ) e posso già mandarla tranquillamente al condensatore, posso quindi fare uno stesso
circuito in serie, avendo quindi lo stesso tubo che entra, esce e se ne va.
La valvola di laminazione presente fra i punti 9 e 10 serve per passare dalla pressione di un decimo a quella di
un centesimo di atmosfera e lavora solo sul liquido, mentre quella presente fra i punti 3 e 4 lavora all’interno
della campana. Devo stare attento che al punto 10 io abbia effettivamente solo liquido, perché il liquido è
capace di assorbire vapore una volta dentro l’assorbitore, il vapore no. Inoltre se nel punto 5 a valle
dell’assorbitore avessi delle bolle di vapore, insorgerebbero problemi di cavitazione a monte della pompa fra
5 e 6 e nel giro di qualche ora avverrebbe il deterioramento della pompa.
nel diagramma H-c della soluzione H2O-LiBr la curva del vapore coincide con l’ordinata c = 0;
si trascurano le cadute di pressione al passaggio dal generatore al condensatore e dal vaporizzatore
all’assorbitore:
si assume che la soluzione povera all’uscita dall’assorbitore, la soluzione ricca all’uscita del generatore
e la condensa allo scarico del condensatore, siano sature;
si assume che il vapore d’acqua all’uscita del vaporizzatore sia saturo secco;
si trascurano le variazioni di temperatura e di entalpia della soluzione povera attraverso la pompa.
Affianchiamo i diagrammi H-s e H-c, come possiamo notare sul diagramma H-c abbiamo due isobare, quella
relativa alla pressione di condensazione 𝑝𝑐 e quella relativa alla pressione di evaporazione 𝑝𝑣 . Entrambe vanno
a finire sull’asse delle ordinate perché la curva limite superiore coincide praticamente con l’asse delle ordinate.
Le isobare sono definite dalle caratteristiche dell’impianto, la pressione di evaporazione la identificano le
condizioni di esercizio imposte dal committente (evaporo a 4-5 °C per far entrare acqua a 12-13° e per farla
uscire a 7-8°), mentre la pressione di condensazione è data dalla temperatura della sorgente fredda che riesco
ad avere, quindi se riesco a condensare a 45° (perché uso una sorgente fredda che entra a 40° ed esce a 45°)
allora la pressione 𝑝𝑐 è la pressione corrispondente a quella temperatura (quindi nell’ordine del decimo di
atmosfera). Dal punto 8 al punto 9 la concentrazione rimane la stessa, dal punto 9 al punto 10 attraverso la
valvola di laminazione e la pressione cala, la laminazione è isoentalpica, la concentrazione resta la stessa,
quindi il punto sul diagramma H-c è lo stesso, cambia solo la pressione di riferimento (che ora è quella di
evaporazione), quindi ora il punto si trova nella zona liquido + vapore, si sta dunque formando del vapore di
flash. Se viceversa rimane come pressione di riferimento la pressione di condensazione, non abbiamo più un
saturo umido ma un liquido sottoraffreddato (semplicemente aumentando la pressione).
La pressione di condensazione ci è data dalla temperatura di condensazione che deriva a sua volta dalla
disponibilità del fluido freddo, quindi ad esempio abbiamo un fluido freddo a 40°, condensiamo a 45°,
temperatura di saturazione di 45° con una pressione attorno al decimo di atmosfera. Se questo è vero, riusciamo
a tracciare la curva 𝑝𝑐 sul diagramma H-c:
Abbiamo inoltre una temperatura massima, che non è un dato che scegliamo, poiché il livello di temperatura
che corrisponde al nostro cascame termico che stiamo andando a recuperare è quello che è: noi facciamo i
conti con 90°, ma è chiaro che se avessi temperature più basse attorno ai 60° non sarebbe possibile far
funzionare un frigorifero ad assorbimento, così come se avessimo temperature più elevate dovremmo
preoccuparci di abbassarle per farle rientrare in un range di 75-90°. Una volta scelta la pressione 𝑝𝑐 , la
temperatura 𝑇1,𝑚𝑎𝑥 incrocia la 𝑝𝑐 , perché la temperatura massima è nel generatore all’interno del quale
troviamo la pressione di condensazione.
L’incrocio fra la pressione di condensazione, che deriva dalla sorgente fredda che posso sfruttare, e la
temperatura 𝑇1,𝑚𝑎𝑥 , che deriva dalla sorgente calda che ho a disposizione, è il punto 8, che è la condizione
della miscela bollente nel generatore e definisce in maniera univoca la concentrazione ricca. A seconda di ciò
che ho a disposizione viene univocamente determinato il valore della concentrazione ricca, se ad esempio
avessi una 𝑇1,𝑚𝑎𝑥 più alta, io avrei una concentrazione più ricca, e quindi più spostata verso destra. Al punto
8 corrisponde una certa entalpia, una certa temperatura di evaporazione e quindi il punto 1 (ricordando che la
curva di saturazione è così vicina all’asse delle ordinate che la facciamo coincidere con l’asse stesso). Se noi
questo valore di entalpia lo ribaltiamo in un diagramma H-s troviamo anche qui il punto 1 identificato sempre
dalla pressione di condensazione e dalla temperatura massima 𝑇1 . Dato il punto 1 trovo il grado di
surriscaldamento che questo vapore ha; poi faccio una condensazione e arrivo al punto 2, quindi all’interno
del contenitore trovo acqua condensata alla pressione di circa un decimo di atmosfera, effettuo una laminazione
da un decimo a circa un centesimo di atmosfera (fino al punto 3), ottengo un vapore in equilibrio con il liquido
(sono dentro la campana) e infine un’evaporazione da 3 a 4 alla pressione di evaporazione, stabilita dal
committente che mi dice a quale temperatura devo raffreddare, arrivo quindi al punto 4 che corrisponde al
vapore saturo secco nell’ambiente dell’assorbitore/evaporatore. L’impianto a bromuro di litio è rigidissimo
(poco flessibile), sotto i 4-5° non si può andare e se si dovesse andare sopra a quel punto lì ci sarebbe la
concorrenza delle falde in cui non è difficile arrivare a 12-13°.
Riassumendo
Dati di progetto:
1) Per ottener acqua refrigerata a 7÷8°C, occorre del vapore a 4÷5°C. Essendo il fluido frigorifero acqua, è
nota anche la pressione di evaporazione 𝑝𝑣 ≃8mbar.
2) La massima temperatura raggiungibile nel generatore, T1, nota la 𝑝𝑐 , determina la concentrazione ricca 𝑐𝑟 .
3) Con acqua a 35°C disponibile al condensatore, si riesce a condensare il vapore frigorifero a circa 45°C. La
pressione di condensazione del vapore è 𝑝𝑐 ≃100mbar.
Se voglio produrre un kg di vapore puro, qui dentro devo far entrare (1 + 𝑔) kg dove g è la quantità di liquido
concentrato alla concentrazione ricca che refluisce verso l’assorbitore dove andrà ad assorbire il vapore. Se
entro con una quantità (1 + 𝑔), 1 kg si libera ed è il kg che rappresenta l’unità di portata del mio fluido
frigorifero, mentre g refluisce, quindi per produrre 1 kg di vapore ho bisogno di (1 + 𝑔) kg con g che dopo va
a riarricchirsi di 1 e ritorna al generatore per ripetere il ciclo. Facendo un bilancio di portate, se io entro con
[1 + 𝑔] = 𝐺7 allo stato fisico 7, da questo viene fuori un kg di vapore e g kg allo stato fisico 8; è chiaro che
nel vapore puro la concentrazione del bromuro di litio sia zero, quindi abbiamo:
0 ∙ 1 + 𝑐𝑟 ∙ 𝑔 = 𝑐𝑝 ∙ (1 + 𝑔)
Raccogliendo otteniamo:
𝑐𝑝
𝑔=
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝
Questa espressione ci dice quanto vale la portata g che refluisce dalla zona generatore/condensatore alla
pressione di un decimo di atmosfera e la zona assorbitore/evaporatore alla pressione di un centesimo di
atmosfera.
Aggiungendo 1 ad entrambi i termini si ottiene:
𝑐𝑝 𝑐𝑝 𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 𝑐𝑟
𝑔+1= +1 = + =
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 𝑐𝑟 − 𝑐𝑝
Abbiamo detto che la concentrazione ricca è ancora più ricca se la temperatura si alza, la curva di pressione è
sempre quella, mentre la temperatura incrocia un punto che sta sempre più a destra man mano che la
temperatura T1 si alza. La concentrazione povera al diminuire della temperatura che ho all’assorbitore diventa
sempre più povera, quindi se io alzo la massima e abbasso la minima, 𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 aumenta, quindi 1 + 𝑔 cala.
Guardandola da un’altra prospettiva, se la concentrazione ricca diminuisce perché la temperatura massima
diminuisce e la temperatura minima aumenta, quindi il 𝑐𝑝 diventa sempre più grande, la differenza 𝑐𝑟 − 𝑐𝑝
diminuisce, il denominatore tende a zero e la portata 1 + 𝑔 tende a infinito e appare chiaro che se l’impianto
deve elaborare portate enormi diventa un problema, occorre una pompa che assorbe potenze enormi, tubazioni
che devono contenere portate enormi e quindi diventa altamente sconveniente.
Lo stesso bilancio fatto al generatore possiamo farlo all’assorbitore, dicendo quindi che il vapore saturo secco
ottenuto dall’evaporazione va a sommarsi al liquido allo stato 10 che arriva in condizioni di concentrazione
ricca (dal fondo del generatore), dandomi lo stato 5, quindi concentrazione povera:
la concentrazione 𝑐4 di bromuro di litio nel vapore saturo secco ovviamente è zero, ottenendo quindi lo stesso
bilancio fatto per il generatore.
Si sottolinea il fatto che l’entalpia fornita dalla pompa P al liquido è sostanzialmente trascurabile. Inoltre per
fare calcoli rispetto alle portate consideriamo gli stati fisici saturi. Naturalmente il punto 5 fa riferimento alla
pressione di evaporazione con la temperatura minima del ciclo, con un fluido a concentrazione povera. Nel
momento in cui il fluido al punto 5 attraversa la pompa, la pressione al punto 6 non è più quella di evaporazione,
ma diventa quella di condensazione, quindi i punti 5 e 6 sono alla stessa entalpia avendo trascurato il rapporto
della pompa ma si trovano a livello di sottoraffreddato perché il fluido al punto 6 si trova ad un’entalpia che
era quella di saturazione alla pressione di evaporazione, ma diventa sottoraffreddato nel momento in cui vado
ad alzare la pressione. Va da sé che il punto 5 corrisponde ad un liquido saturo umido non può essere pompato
tal quale, quindi dall’assorbitore alla pompa ci dev’essere un battente tale da evitare il fenomeno della
cavitazione: se andassimo ad elaborare un liquido saturo umido e lo andassimo ad infilare nella pompa,
avremmo le perdite di imbocco e della girante che vanno a diminuire la pressione di aspirazione, il fluido si
trovava già allo stato limite, ed entriamo nella campana, se entriamo nella campana si produce del vapore che
al contatto con le pale della girante, riacquista pressione ed implode sulla superficie della pala, questo dà
origine al fenomeno di pitting, portando alla distruzione dei dispositivi.
Prima di raggiungere il generatore, lo scambiatore di recupero scalda la soluzione povera (ampiamente diluita
con acqua pura) fino a raggiungere lo stato 7 di liquido sottoraffreddato. La soluzione ricca allo stato 8 che
esce dal generatore alla temperatura T1, viene raffreddato nello scambiatore di recupero fino a raggiungere
una temperatura T9, superiore di un certo ∆𝑇𝑠 alla temperatura T5 (=T6) di entrata della soluzione povera.
Nel diagramma che vede la temperatura in ordinata e la potenza scambiata in ascissa il fluido che esce dal
generatore al punto 8 entra nello scambiatore ed esce allo stato 9 raffreddandosi, mentre il fluido freddo che
entra allo stato 6 riscaldandosi esce allo stato 7; essendo il fluido che si scalda e quello che si raffredda lo
stesso a meno della concentrazione, il calore specifico del fluido che si riscalda è uguale al calore specifico del
fluido che si raffredda, questo fa sì che il ∆𝑇𝑠 si mantenga costante; al contrario se avessimo due fluidi differenti
avremmo che il fluido con maggior calore specifico è quello che ha un ∆𝑇𝑠 inferiore a pari potenza scambiata
rispetto all’altro. Il punto 6 e il punto 5 è vincolato perché si trova a concentrazione povera e ad un certo valore
di entalpia indipendentemente dalla pressione che hanno, dopodiché se la pressione è quella di evaporazione
il fluido è in condizione di saturazione, se a valle della pompa la pressione è quella di condensazione allora è
un liquido sottoraffreddato, però il punto è sempre quello. Anche il punto 8 è vincolato, nello scambiatore
entra un punto che si trova sulla curva di saturazione, quindi è un liquido saturo alla pressione di
condensazione. Quindi rimangono svincolati il punto 9, che è il punto di uscita dallo scambiatore e di
conseguenza anche il punto 7, anch’esso in uscita dallo scambiatore, perché bisogna vedere come si giocano
lo scambio. Quando entriamo all’interno dell’assorbitore, questo assorbe vapore, quindi mi serve un fluido allo
stato liquido, perché il vapore non assorbe altro vapore, in quanto il vapor d’acqua puro fornito
dall’evaporatore dobbiamo intrappolarlo in un liquido per poter essere pompato ad una pressione maggiore.
Vuol dire che il punto 9, prima della valvola di laminazione, è un sottoraffreddato ancora alla pressione del
generatore e dev’essere tale che, quando vado a fare la riduzione di pressione (punto 10), non vada a creare
del vapore.
A valle della valvola la pressione di riferimento diventa la pressione 𝑝𝑣 , allora se il punto 9 è esattamente in
questa posizione, arrivo al punto 10 con un saturo umido alla pressione di evaporazione, è quindi nelle
condizione limite, perché se la pressione di evaporazione fosse leggermente più bassa di quella indicata, il
punto 9/10 si troverebbe sopra la curva di saturazione, quindi produrrebbe del vapore, che è la cosa più
indesiderabile che posso avere qui dentro. Se il punto 9 si trovasse invece ad un’entalpia leggermente inferiore,
si troverebbe leggermente sotto la curva, quindi con un piccolo grado di sottoraffreddamento, che mi garantisce
di non avere vapore all’interno. Abbiamo quindi fissato il punto 8,9,5 e 6, di conseguenza il punto 7 è
necessariamente identificato.
Facendo un bilancio energetico relativo allo scambiatore abbiamo che:
(𝐻7 − 𝐻6 )(1 + 𝑔) = (𝐻8 − 𝐻9 )𝑔
Ricordando che:
𝑐𝑝
𝑔=
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝
e
𝑐𝑟
1+𝑔 =
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝
abbiamo che:
𝐻7 − 𝐻6 𝐻8 − 𝐻9
=
𝑐𝑝 𝑐𝑟
Possiamo dunque identificare una similitudine fra triangoli, affermando che il punto 7 e il punto 8 sono
allineati. Se andassi ad unire i punti 1 (vapore puro) e 8 (liquido alla concentrazione ricca) troverei un oggetto
alla concentrazione povera, che si trova necessariamente sul segmento 1-8, in particolare nel punto A (liquido
alla concentrazione povera). A rappresenta la riunione del kg del vapore puro alla temperatura massima e il
liquido saturo umido alla concentrazione ricca. Il segmento che congiunge A allo stato vapore rappresenta la
portata di liquido, il segmento che congiunge A allo stato liquido rappresenta la portata di vapore (regola della
leva):
1 ̅̅̅̅
𝐴8
= ̅̅̅̅
𝑔 𝐴1
Bilanci energetici:
il calore sottratto nel condensatore è pari a: 𝑞𝑐 = 𝐻1 − 𝐻2 (la portata è pari a 1 perché ci riferiamo
appunto ad 1 kg di vapore);
la potenza specifica nel vaporizzatore riferita al kg di vapore prodotto è pari a: 𝑞𝑣 = 𝐻4 − 𝐻3 ;
nell’assorbitore la storia cambia: l’assorbitore prende il kg di vapore che viene intrappolato in g kg
di soluzione ricca per riottenere una soluzione a concentrazione povera, quindi se ho riunito 1 con g,
quello che ne esce è sicuramente 1+g. Ora prendo il vapore generato allo stato 4 in uscita
dall’evaporatore, prendo la miscela allo stato 8,9 o 10 (è indifferente, la concentrazione è la stessa,
l’entalpia anche, quello che cambia è solo la pressione dopo la valvola) e unisco 4 con 9(o 10) ad
ottenere un liquido a concentrazione povera. La riunione del punto 4 con il punto 9 mi da il punto B,
ovvero un punto appartenente al segmento 4-9 alla concentrazione povera:
Quindi il calore sottratto all’assorbitore per produrre un kg di vapore è pari a: 𝑞𝑎 = (𝐻𝐵 − 𝐻5 )(1 +
𝑐𝑟
𝑔) = (𝐻𝐵 − 𝐻5 ) 𝑐 −𝑐 , ovvero quello che devo sottrarre all’assorbitore per avere una portata 1+g che
𝑟 𝑝
mi genererà un kg di vapore nella parte del condensatore. Inoltre per la similitudine dei triangoli 49R
𝑐
e B95, (𝐻𝐵 − 𝐻5 ) 𝑟 = 𝐻4 − 𝐻𝑅 :
𝑐𝑟 −𝑐𝑝
Quindi la differenza fra le concentrazioni non è solo un problema di portate, per cui se la differenza
tende a zero la portata tende ad infinito, bensì è anche un problema di potenza, ragion per cui la
temperatura massima non può essere più bassa di un certo valore, la temperatura minima non può
essere più alta di un certo valore.
Nello scambiatore abbiamo i punti in ingresso 6 e 8 che sono determinati, il punto 9 va sistemato in
modo tale che sia al massimo un liquido saturo umido nel momento in cui vado a fare la riduzione da
9 a 10. Dalle equazioni di bilancio otteniamo che:
(𝐻7 − 𝐻6 )(1 + 𝑔) = (𝐻8 − 𝐻9 )𝑔
da cui:
𝑔 𝑐𝑝
(𝐻7 − 𝐻6 ) = (𝐻8 − 𝐻9 ) = (𝐻8 − 𝐻9 )
1+𝑔 𝑐𝑟
quindi sostanzialmente anche il punto 7 è determinato.
𝑐𝑝
La potenza scambiata nello scambiatore è quindi pari a: 𝑞𝑠 = (𝐻8 − 𝐻9 )𝑔 = (𝐻8 − 𝐻9 ) 𝑐𝑟 −𝑐𝑝
A questo punto se congiungiamo il punto 8 con il punto R ricavando quindi il punto 7 alla
concentrazione povera, e uniamo il punto 9 con 7 ricaviamo il punto T, otteniamo i due triangoli simili
T7R e 879 opposti al vertice, sulla base della quale possiamo scrivere che:
(𝐻8 − 𝐻9 ) 𝐻𝑇 − 𝐻𝑅
=
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 𝑐𝑝
con 𝐻𝑇 − 𝐻𝑅 che è la potenza che devo effettivamente scambiare allo scambiatore di calore.
Se uniamo il punto 1, che è vapore surriscaldato puro che esce dal generatore, con il punto 8, che è
liquido alla concentrazione ricca, otterremo un punto che giace sul segmento 1-8 alla concentrazione
povera, quindi il punto A. Il punto 7 è identificato perché all’uscita dallo scambiatore di calore, quindi
Individuando quindi i triangoli simili A87 e 18R, possiamo dire che:
𝐻𝐴 − 𝐻7 𝐻1 − 𝐻𝑅
=
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 𝑐𝑟
quindi la quantità di calore specifico che devo fornire al generatore per ottenere 1 kg di vapore è pari
a 𝑞𝑔 = 𝐻1 − 𝐻𝑅 .
Dal punto di vista energetico, la potenza termica si fornisce al generatore e all’evaporatore (alla temperatura
massima e minima dell’impianto), mentre viene sottratta al condensatore e all’assorbitore. Racchiudendo
dunque il nostro impianto all’interno di una scatola chiusa, vale la seguente espressione:
𝑞𝑔 + 𝑞𝑣 = 𝑞𝑎 + 𝑞𝑐
ovvero la potenza sottratta all’evaporatore fratto la potenza fornita al generatore, e come possiamo constatare
anche graficamente, l’effetto utile è sempre minore di 1.
Consideriamo un diagramma H-c per la soluzione 𝐻2 𝑂 − 𝐿𝑖𝐵𝑟 con kcal/kg in ordinata e la concentrazione di
LiBr in ascissa, con le isobare date in millimetri di mercurio (mm Hg):
Analizziamo i vari casi con le varie temperature di esercizio reali di un impianto di questo tipo:
- Consideriamo una temperatura di condensazione di 37°C alla quale corrisponde una pressione di
condensazione di 50 mm Hg (≅ 67 mbar), incrociamo dunque l’isobara a 50 mm Hg con la temperatura
del generatore a 90°C, dal punto di intersezione scendiamo con la verticale sull’asse delle ascisse
ricavando la concentrazione ricca, ovvero quella che esce dal fondo del generatore, che viene mandata
nell’assorbitore passando per lo scambiatore di recupero: la concentrazione ricca nel caso specifico
con 37°C e 67 mbar con 90°C al generatore è di 0,63 (0,63 kg di bromuro di litio in un litro di miscela).
- Se anziché la mia sorgente fredda esterna mi garantisse 45° anziché 37° di condensazione avrei una
pressione di condensazione di 75 mm Hg (≅ 96 mbar), intersecando con l’isoterma a 90° nel
generatore, ricavo una concentrazione di 0.59, contro gli 0.63 del caso precedente. Ho perso 4
centesimi, non è roba da poco.
- Abbassando la temperatura nel generatore da 90° a 80°, considerando sempre prima una temperatura
di condensazione di 37° e poi una di 45°, noto che la concentrazione ricca diminuisce ulteriormente,
passando rispettivamente a 0.58 e 0.54.
La concentrazione ricca a seconda delle condizioni va da 0.63 a 0.54.
La concentrazione povera invece si determina nel lato assorbitore/evaporatore:
- Consideriamo una temperatura di evaporazione di 4°C, sulla quale non possiamo farci granché in
quanto sotto non ci posso andare per non gelare, sopra non posso andare perché altrimenti il ∆𝑇 sarebbe
troppo piccolo e servirebbero degli scambiatori enormi per ottenere un raffreddamento, quindi 4° è un
valore di temperatura inchiodato sul diagramma. Posso fare scelte diverse sull’assorbitore, passando
da 30° a 40°. Se la temperatura minima è di 30° abbiamo una concentrazione povera di 0.53, se invece
abbiamo una temperatura minima di 40° la concentrazione diventa di 0.58.
Quando andiamo a fare i nostri calcoli sulla portata, al denominatore abbiamo la differenza fra
concentrazione ricca e concentrazione povera. Prendendo la concentrazione ricca minima e la
concentrazione povera massima (0.54-0.58) avremmo addirittura un denominatore negativo, quindi una
portata negativa, il che ovviamente non è possibile. Le condizioni di funzionamento minime richieste
implicano una concentrazione ricca minima di 0,59 a fronte di una concentrazione povera massima di 0.58,
mentre la condizione che annulla il denominatore è quella in cui entrambe le concentrazioni sono pari a
0.58 (quindi 𝑇𝐶 = 37°, 𝑇𝑚𝑎𝑥 = 80°, 𝑇𝑚𝑖𝑛 = 40°), ma avrei appunto una portata infinita. Nel caso reale in
cui ho una concentrazione ricca di 0.59 e una povera di 0.58, la mia portata vale:
𝑐𝑝 0.58
𝑔= = = 58 𝑘𝑔
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 0.01
Mi servono dunque 58 kg di miscela per assorbire 1 kg di vapore. In condizioni migliori al generatore con
una concentrazione ricca di 0.63 la mia portata diventa:
𝑐𝑝 0.58
𝑔= = = 11,6 𝑘𝑔
𝑐𝑟 − 𝑐𝑝 0.05
Variando la concentrazione ricca da 0.58 a 0.63 la portata da gestire è diventata un quinto rispetto alla
precedente e questo mi cambia parecchio dal punto di vista impiantistico per la progettazione di
scambiatori, condotti, valvole, ecc… appare chiaro che una valvola che controlla 58 kg al secondo sarà un
tantino diversa da una che ne controlla 11.6.
I sistemi di regolazione sono molto importanti perché variazioni di temperatura dei fluidi entranti e uscenti
dall’assorbitore e del generatore possono determinare delle variazioni anche di carico: il trasduttore di
temperatura deve comunicare il dato alla centralina la quale deve trasmetterlo ad un attuatore che compie
azioni di allontanamento dalle condizioni di progetto. Abbiamo visto che un livello di concentrazione ricca
alto e un livello di concentrazione povera basso sono importanti per ridurre le dimensioni dell’impianto e
più economico.
Analizziamo il P&I di un impianto ad assorbimento a bromuro di litio.
Nel generatore avviene la produzione di vapore surriscaldato allo stato 1 alla pressione di condensazione
di 67 mbar e alla temperatura di 45°, ma essendo salato produce vapore saturo a 90, quindi abbiamo un
grado di surriscaldamento di 45°. Qui avviene il desurriscaldamento e siamo ancora allo stato vapore di
saturo secco a 45° (titolo = 1) dopodiché andiamo a condensare. Raccolgo il condensato (2), lo porto nella
zona evaporatore/assorbitore attraverso uno strozzamento (laminazione) per avere esattamente quella
caduta di pressione: se tutto funziona come dovrebbe non ho bisogno di una regolazione, bensì
semplicemente di un orificio tarato, messo appunto in fase di collaudo e avviamento dell’impianto. Si
passa dunque alla pressione di evaporazione alla temperatura di 4°. In questa posizione ho
un’atomizzazione, in questa regione entrano le utenze a 12° ed escono a 7°. In (3) abbiamo un serbatoio
di raccolta e attraverso una pompa di ricircolo per far sì che tutto il liquido venga atomizzato.
L’atomizzazione permette superfici di scambio al servizio dell’utenza molto elevate. Abbiamo diversi
dispositivi di controllo in questa zona: le sonde di rilevazione della temperatura LT21 ed LT23. La LT23
controlla la temperatura dell’evaporato (che si mantiene attorno ai 4°C), mentre la LT21 controlla la
temperatura in uscita dell’acqua di raffreddamento (che si mantiene attorno ai 7°C). La sonda LT23 di
fatto dà informazione ad un regolatore il quale agisce in due modi: se l’acqua di raffreddamento abbassa
la temperatura vuol dire che la torre di raffreddamento sta lavorando troppo bene (in giornate un po’ più
fredde) e che quindi abbasso la pressione e la temperatura di saturazione e di conseguenza abbasso anche
la temperatura dell’acqua che ho laminato. Se all’assorbimento ho un liquido più freddo del previsto la
produzione di liquido alla concentrazione povera sta aumentando, se vado ad aprire la valvola ne scarico
una parte nel serbatoio, così facendo prendo una parte di vapore saturo e lo scarico, ovvero lo tolgo
dall’esercizio ed è liquido che non sto più utilizzando per produrre effetto utile, cioè il raffreddamento
delle utenze. Questo vale in entrambi i casi, sia che senta una temperatura bassa nell’evaporatore, quindi
è una regolazione con retroazione semplice oppure che senta una temperatura all’ingresso dell’assorbitore
più bassa e che quindi mi porterà ad una temperatura più bassa anche l’acqua evaporata. 7 è la valvola da
cui parte la soluzione, quando la temperatura è troppo bassa il regolatore viene avvisato, questa valvola si
apre, faccio un’iniezione diretta di acqua calda nell’assorbitore (si apre 8). 9 è lo scambiatore di recupero,
10 è la pompa, 11 è l’assorbitore ausiliario, e ha le stesse funzioni, prende del vapore, prende dell’acqua
di raffreddamento e finiamo in 12 che è il separatore del condensato. Questo piccolo assorbitore, anziché
produrre solo del liquido come fa l’assorbitore principale, produce del liquido più alcune gocce di
condensato, che manda a 13 il recipiente degli incondensabili dove abbiamo una valvola che si apre solo
nel momento in cui andiamo in collegamento con una pompa per vuoto ed estraiamo degli incondensabili.
Ci sono 4 elementi di scambio: generatore, condensatore, evaporatore e assorbitore. Si inseriscono
all’interno dei due contenitori i rispettivi elementi, poi abbiamo due scambiatori alla pressione più bassa e
due scambiatori alla pressione più alta. Dal generatore passo dentro allo scambiatore di recupero tale per
cui, dopo la laminazione, trovo del liquido e non del vapore, dopodiché metto in collegamento, attraverso
filtro e pompa, scambiatore di recupero e zona alla pressione più bassa. Un segnale importante è quello
che viene dato all’ingresso nel generatore, con la sonda 24 che controlla la temperatura all’ingresso del
generatore. Un altro elemento importante è una sonda di temperatura all’uscita del punto freddo: se tale
temperatura fosse eccessiva, preleva del fluido caldo e lo va a mettere dentro all’evaporato, questa sonda
in sostanza regola le valvole 7 e 8, dopodiché ho ancora un elemento che, se andassi a raffreddare sotto il
grado centigrado o se la centralina viene spenta, si va allo scarico termico, quindi si ruota completamente
il circuito di acqua refrigerata e ci porta direttamente all’assorbitore. Ci sono poi varie valvole: la 17 che
effettua un prelievo per la concentrazione ricca, 16 effettua un prelievo per la concentrazione povera.
In questo sistema abbiamo un’alimentazione tramite pompa e una valvola di non ritorno: la pompa è una
pompa centrifuga dinamica rotativa quindi è aperta, per questo motivo viene installata una valvola di non
ritorno per impedire il reflusso. Una volta che abbiamo mandato il flusso al generatore di potenza termica,
arriviamo alla valvola a tre vie: qualora la temperatura all’interno della centrale dovesse essere inferiore o
superiore a un certo valore (70 – 95°C) viene inviato un segnale alla centralina la quale aziona questa
valvola deviatrice che a sua volta chiude la via dritta e apre la via squadra, by-passando l’ingresso
nell’assorbitore. Quando la temperatura è troppo bassa faccio ricircolare all’interno della caldaia finché
non raggiungo il limite inferiore e finché non si raggiunge tale temperatura la pompa ricircola su sé stessa.
Sul ramo di alimentazione dell’acqua calda del gruppo frigorifero ad assorbimento è presente una valvola
deviatrice a tre vie VD. Questa valvola è comandata direttamente dalla centralina del gruppo frigo che,
qualora la temperatura in ingresso superi un valore di soglia (95°C), viene azionata in maniera tale da
chiudere il ramo di ingresso e ricircola verso la fonte calda (bypass gruppo frigo). L’azionamento della
valvola deviatrice è a protezione del gruppo frigorifero ad assorbimento. Il flussostato FL mi dice se il
flusso è regolare, controlla le portate, perché con le sole temperature non riuscirei a capire se la potenza è
quella corretta oppure no.
Nel caso in cui la temperatura di uscita dell’acqua refrigerata risultasse troppo bassa (inferiore a 4°C), la
centralina del gruppo frigorifero ad assorbimento aziona la valvola deviatrice VD (impedendo l’ingresso
di ulteriore acqua calda) e, contemporaneamente, spegne la pompa di circolazione dell’acqua refrigerata.
Andando a vedere il circuito dell’acqua di raffreddamento (quella che va prima all’assorbitore e poi al
condensatore) sopra riportato possiamo notare che ci sono due entrate e due uscite. Si entra attraverso un
elemento unico nello scambiatore dell’assorbitore uscendo dallo scambiatore dell’assorbitore con ritorno
nella torre di raffreddamento, dall’altro lato possiamo avere un’entrata comune, dalla quale si può entrare
nel condensatore. Con le valvole manuali posso equilibrare la portata che va direttamente al condensatore
rispetto a quella che va direttamente all’assorbitore. Se chiudessi una delle due valvole VM non manderei
più acqua all’assorbitore e tutta l’acqua andrebbe al condensatore, viceversa nel caso in cui chiudessi l’altra
valvola VM; abbiamo sempre un temperature transmitter che monitora la temperatura dell’acqua.
Adesso andiamo a vedere i grafici che il costruttore mette a disposizione. La pressione di condensazione
e quella di evaporazione sono fisse, per variarle c’è bisogno di modificare la quantità di condensato, ma
per ora supponiamo che siano fisse per non variare il ciclo frigorifero e per evitare problemi. Se riesco a
mantenere costanti queste pressioni, la concentrazione povera e ricca dipende solo dalla temperatura del
generatore e da quella dell’assorbitore, che sono la massima e la minima del ciclo. Quelle che cambiano
sono le concentrazioni, perché la concentrazione ricca è l’intersezione fra la temperatura massima e la
pressione di condensazione, la concentrazione povera è l’intersezione fra la pressione di evaporazione e la
temperatura minima. Se la temperatura al generatore aumenta la concentrazione ricca aumenta, se la
temperatura all’assorbitore diminuisce la concentrazione povera diminuisce. Dalle concentrazioni dipende
il valore di g, dove g è la portata che va ad assorbire 1 kg di vapore. Nel momento in cui vado a variare le
temperature, aumentando quella al generatore e diminuendo quella all’assorbitore, la portata g sta
diminuendo. La pompa elabora la portata 1 + g , ma se mantengo costante la portata, variando le
temperature, e quindi le concentrazioni e quindi diminuendo g, vuol dire che stiamo producendo più vapor
d’acqua di quello strettamente necessario: il mio liquido g ad esempio riesce ad assorbire il 20% in più di
vapore, quindi 1,2 kg anziché 1 kg. Questo comporta una raccolta di liquido nell’evaporatore più elevata,
quindi sto togliendo dall’altra parte del circuito dell’acqua, e la sto concentrando nel serbatoio di raccolta
dell’evaporatore, ma se sto raccogliendo più condensato sto diminuendo le pressioni da altre parti, e questo
mi va a sballare pressione di condensazione e pressione di evaporazione (a meno che io non vada a
scaricare nell’ambiente acqua calda, inquinando). Posso avere delle prestazioni diverse in funzione delle
temperature che ho: se vado ad abbassare la temperatura all’assorbitore diminuisco il valore della
concentrazione povera ed elaboro più vapor d’acqua, quindi le prestazioni migliorano.
A parità di temperatura dal generatore, a parità di temperatura di uscita dell’acqua refrigerata (7°C) variando
solo la temperatura all’assorbitore, diminuendola ad esempio da 31° a 27°C , ho un aumento della potenza
frigorifera erogata di 4 kW, e da 17 a 21 kW vuol dire che abbiamo oltre il 20% di resa in più. Abbassando la
temperatura all’assorbitore, intrappolo più acqua, quest’acqua viene fatta passare dalla pressione
dell’evaporatore a quella del generatore attraverso una pompa, che non aggiunge e non toglie energia al fluido
(per noi la pompa è isoentalpica). Di conseguenza ci troviamo una quantità di liquido presente nel generatore
più elevata. Se la concentrazione è più elevata a pari potenza avrò una temperatura più bassa, vuol dire che
abbassando la temperatura di evaporazione riesco ad avere un delta T nello scambiatore più elevato, perché
entro sempre a 88°, ma non bolle più a 90° bensì a 80°, quindi la differenza di temperatura nello scambiatore
è più elevato, la capienza dello scambiatore dev’essere più grande, se fornisco più potenza al generatore la
portata di vapor d’acqua prodotto aumenta. Tutto si muove in proporzione alle masse che riesco ad assorbire
e a generare, determinate a loro volta da variazioni di temperatura.
Se aumento la potenza utile del 20% la potenza al generatore aumenta del 20% mantenendo costanti le
temperature nel generatore, quindi il COP rimane costante.
Il grafico sopra riportato mette in relazione la potenza erogata in funzione della portata di acqua mantenendo
costanti le temperature: se fissiamo le temperature e variamo la portata, variamo la potenza inserita. Se entro
con la metà della portata nominale abbiamo un decadimento delle prestazioni del solo 15% perché tutto il
sistema si assesta sulle nuove condizioni.
Il grado idrometrico φ è il rapporto fra la pressione parziale del vapore e la pressione parziale alla saturazione
a quella temperatura, detto in altre parole la quantità di vapore che c’è rispetto a quello che ci potrebbe stare
fino alla saturazione con un grado idrometrico uguale a 1. La pressione del volume di acqua che respiriamo,
dato da acqua più aria, è la somma della pressione parziale dell’acqua e della pressione parziale dell’aria. La
pressione parziale dell’acqua è la pressione che il vapor d’acqua avrebbe se da solo occupasse lo stesso volume.
L’aria che respiriamo è umida, quindi se abbiamo 14 grammi di acqua per kg di aria vuol dire che abbiamo un
certo volume di acqua disperso nell’aria; la pressione parziale che questo vapor d’acqua ha è la pressione che
avrebbe se da solo occupasse lo stesso volume (prendendo quindi il volume che sto considerando togliendoci
l’aria). Per misurare il grado idrometrico prendo due termometri, uno a bulbo secco che misura la temperatura
ad un certo grado idrometrico (ad esempio misuro 26° con φ = 0,7) e un altro a bulbo umido, ovvero un bulbo
con attorno una garzetta imbevuta di acqua pura; il bulbo viene ventilato in aspirazione fino a quando l’aria e
la garza sono alla stessa temperatura; in questo modo l’aria che passa attraverso la garza si umidifica senza
scambiare calore (umidificazione ad entalpia costante) e misuro una temperatura ad un grado idrometrico del
100% (φ = 1)
Se conosco la temperatura del bulbo secco e la temperatura del bulbo umido, sul diagramma parto dalla
temperatura del bulbo umido, vado ad incocciare la curva φ = 1, ritorno su con l’isoentalpica e trovo alla
temperatura di bulbo secco il grado di umidità pari a 0,7. Se aspiro la quantità di aria necessaria a raffreddare
quella quantità d’acqua va a finire che ho acqua che entra a 35°, dell’aria che entra a 25°, l’acqua si raffredda
e arriva a 30°, l’aria si riscalda e arriva a 30° e la temperatura si assesta lavorando sui calori specifici: la potenza
scambiata dall’acqua è 𝑄 = 𝐺𝑐𝑝,𝐻2𝑂 ∆𝑇, la potenza scambiata dall’aria lo stesso, 𝑄 = 𝐺𝑐𝑝,𝑎𝑟𝑖𝑎 ∆𝑇, per arrivare
all’equilibrio devo avere per l’aria una portata che è 4,186 volte quella dell’acqua (𝑐𝑝,𝑎𝑟𝑖𝑎 = 1). Questo vale
se l’aria rimanesse con un valore di titolo costante, e quindi se non cambia massa (se cambia massa cambia
tutto). Se buttiamo dentro tanta aria in più, arriva un certo momento in cui l’acqua che sta scendendo arriva
alla temperatura dell’aria molto prima di uscire dallo scambiatore, dopodiché l’acqua continua il suo percorso
incontrando altra aria che si umidifica, quindi ho fatto entrare aria con un grado idrometrico del 70% e quando
le temperature sono uguali, se continuo a tenerle una a contatto con l’altra, l’aria si umidifica e arriva a
saturazione senza scambiare calore. Nelle torri di raffreddamento l’indicazione fondamentale non è la
temperatura esterna bensì quella di bulbo umido. Se nella parte bassa della torre di raffreddamento vado ad
umidificare e mi porto al 100% di grado idrometrico attraverso un’isoentalpica, vuol dire che l’aria che entra
dentro in realtà appena entra si umidifica e raggiunge la temperatura di bulbo umido, a quel punto si satura e
si troverà a 20° (temperatura bulbo umido) e non più a 25°-26°, quindi scambierà calore con l’aria che le arriva
a 35°. Ecco perché molte volte si garantisce una temperatura dell’acqua all’uscita della torre di raffreddamento
che può essere anche di temperatura inferiore rispetto all’aria esterna. Quindi anche se l’aria fosse a
temperatura molto alta ma con un grado idrometrico basso (0,3-0,4) nel momento in cui si umidifica avrò una
temperatura di bulbo umido che è molto più bassa rispetto a quella di bulbo secco, che è quella che poi fa lo
scambio. Mi affido quindi ad un elemento che è estremamente influenzabile dalle condizioni esterne di
temperatura e grado idrometrico, per cui si fa fatica a mantenere una temperatura costante. Occorre un sistema
che si occupi di mantenere costante il più possibile la temperatura; è per questo che inserisco una sonda
all’uscita dell’assorbitore, perché dalla temperatura di ingresso dell’aria dipende la temperatura minima
nell’assorbitore, e quindi la concentrazione povera.
L’aria entra all’interno della torre, viene filtrata, passa attraverso il nido d’ape, e all’interno del nido d’ape
avviene lo scambio con l’acqua in cui le due temperature si eguagliano, fino alla parte bassa in cui avviene la
saturazione dell’aria. Parte dunque con una temperatura che è la temperatura di rugiada, il dew point.
Dando un’occhiata al data shift di una torre di raffreddamento notiamo che il parametro fondamentale è la
temperatura di bulbo umido, quindi non importa se si entra con aria caldissima e grado idrometrico basso o
con aria un po’ più fredda e grado idrometrico più alto.
Vediamo ora il funzionamento della torre di raffreddamento una volta collegata all’impianto frigorifero.
C’è dell’acqua fredda che viene inviata dalla torre di raffreddamento all’assorbitore, abbiamo due ingressi,
uno all’assorbitore e uno al condensatore, dei 2,55 l/s, 1 l/s va all’assorbitore, i restanti 1,55 l/s vanno al
condensatore, che alla fine si ricongiungono. Ho un controllo di temperatura perché se la temperatura in uscita,
dopo aver ripristinato i 2,55 l/s, non è 35° vuol dire che il raffreddamento è sbilanciato rispetto al
riscaldamento, ciò significa che l’assorbitore assorbe più o meno potenza rispetto a quella che la torre di
raffreddamento è in grado di smaltire. Se ad esempio butto più acqua di quella necessaria nell’assorbitore
raffreddo di più ma non scambia quanto dovrebbe, e l’acqua di raffreddamento all’uscita sarà ad una
temperatura più bassa. Il controllo si fa con due elementi: il primo elemento è un termostato TS che è posto
sulla linea di mandata (dove quindi ho 31°); questo termostato controlla la ventola di aspirazione dell’aria di
raffreddamento. Ci sono tre possibili condizioni di funzionamento in base alle esigenze del committente e dalla
disponibilità economica. Il termostato accende la ventola e la regolazione più semplice è quella ON/OFF. Se
il termostato mi offre due soglie di allarme, alla prima soglia faccio partire una ventola a numero di giri
relativamente basso, se la temperatura dovesse continuare a salire viene azionata anche la ventola a velocità
più elevata. La terza soluzione non prevede un termostato, bensì un trasduttore di temperatura, il quale esce
fuori con un segnale di intervento di 4-20 mA, ovvero viene inviato con un certo intervallo di temperatura, da
un minimo a un massimo, quando raggiungo la temperatura minima esce fuori a 4 mA, quando raggiungo la
temperatura massima esce fuori a 20 mA; il che significa che ho un segnale in continuo che viene trasmesso
all’inverter (convertitore statico di frequenza) il quale è capace di modificare la frequenza di uscita e quindi
controllare la velocità del motore elettrico che governa la ventola. La ventola avrà una velocità proporzionale
all’aria che deve aspirare nel momento in cui mi rendo conto che non riesco a mantenere i 31° in uscita.
La seconda indispensabile funzione di controllo è data da un termostato esterno (per l’aria ambiente); quando
la temperatura scende sotto un certo valore (sotto i 20°), se prima avevo una temperatura di bulbo umido di
26°, adesso con 20° all’esterno avrò una temperatura di bulbo umido di 16° quindi ho calato di 10° le condizioni
di scambio, è quindi difficile che io abbia bisogno del funzionamento di una ventola visto che mi troverò
sicuramente sotto i 31° all’uscita se ho calato di 10° la temperatura di bulbo umido. Quando la temperatura
scende sotto un certo valore, in particolare sotto quella di bulbo umido, si attiva una valvola deviatrice che non
fa rientrare il fluido caldo dentro la torre ma lo by-passa e lo manda sotto. Se nell’assorbitore entra un fluido
raffreddante a 21° anziché a 31° raffreddo di più, la concentrazione povera diventa sempre più povera, avviene
un richiamo enorme di acqua, ed essendo sempre quella, se io la concentro tutta sull’assorbitore mancherà al
generatore, che quindi conterrà una concentrazione ricchissima, e non per la temperatura presente nel
generatore ma per la mancanza di soluto (acqua). Raggiunta la prima soglia dunque il termostato ambiente
apre la valvola deviatrice, raggiunta la seconda soglia invece attiva una resistenza elettrica in modo da scaldare
il fluido e avere all’uscita un valore controllato (che non può essere inferiore a 28°).
La torre di raffreddamento rappresenta un punto di apertura del circuito idraulico: arriva l’acqua da sopra, una
volta atomizzata precipita sotto, dove ho un raccoglitore dal quale parte un tubo che porta ad una pompa con
la quale se ne va via; bisogna dunque vedere se il battente è sufficiente a garantire l’assenza di cavitazione.
Anche se stiamo parlando di acqua raffreddata, è comunque calda, e più l’acqua è calda e più la tensione di
vapore è alta e più rischio di cavitazione ho. Se aspiro acqua a 35° con una pressione inferiore alla pressione
di saturazione ecco che allora ho l’ebollizione dell’acqua e successiva compressione, si formano bolle di
vapore che non appena toccano le pale della pompa riacquista energia e implode su sé stessa. Se il circuito è
aperto, nel momento in cui smetto di pompare con la pompa centrifuga, se la torre si trova ad un livello più
basso rispetto all’impianto, l’acqua refluisce e torna in torre, al che bisogna capire se la torre ha un serbatoio
sufficiente per accogliere tutto il fluido. Ovviamente la risposta è negativa, in quanto la torre viene
dimensionata per accogliere la minima quantità necessaria per essere rilanciata, fare lo spurgo, ecc… Ragion
per cui è fondamentale installare la torre ad un livello sufficientemente alto per evitare allagamenti.
INTEGRAZIONE CALDAIA – FRIGORIFERO AD ASSORBIMENTO
La generazione di potenza termica viene fatta con una caldaia a biomassa, ma non solo, in quanto quest’ultima
è fortemente influenzata da una fornitura esterna; è necessario dunque un elemento ausiliario, che è una caldaia
a metano che funge da elemento di integrazione e soccorso, che riesca a garantirmi la potenza minima
necessaria a far funzionare il sistema. La caldaia a biomassa provvede al solo funzionamento di base, per i
picchi interviene la caldaia a metano di integrazione e soccorso. Queste due caldaie non forniscono
direttamente potenza, ma la forniscono ad uno scambiatore a piastre ad alta efficienza, che ha dei rendimenti
che sono del 97-98%. Ogni volta che interpongo uno scambiatore di alimentazione il pregio della mia energia
cala, la temperatura al secondario si abbassa e per trasportare la stessa potenza c’è bisogno di una portata
maggiore e quindi delle pompe più grandi, tuttavia l’utilizzo di questo oggetto mi libera dagli intervalli di
temperatura, quindi l’utilizzatore può avere la temperatura che vuole e il fornitore può dare la temperatura che
vuole. Il secondo elemento di disgiunzione è un disgiuntore idraulico, per cui posso trasmettere potenza con
un ∆T elevato e una portata bassa e viceversa. Quindi questo accumulatore termico ha due funzioni
fondamentali: una di smorzamento delle differenze fra le richieste e le forniture, se ad esempio in un certo
momento ho una richiesta elevata, l’accumulo inerziale la assorbe.
Anche l’impianto frigorifero avrà un impianto ausiliario di integrazione e soccorso costituito da un impianto a
compressione semplice.
La scelta della caldaia a biomassa come organo di questo impianto va fatta in virtù dei vantaggi che comporta,
come l’economicità del combustibile, e gli svantaggi, come la regolazione. Anche la scelta della caldaia a
metano come integrazione e soccorso va ben calibrata: se si parla di integrazione, è un discorso relativamente
facile, nel senso che una volta che abbiamo definito che una caldaia a biomassa assuma una funzione di base
comprendo il 60/70%, l’integrazione della caldaia a metano è definita per differenza. Per quanto riguarda il
soccorso si deve valutare l’utenza minima che dev’essere mantenuta in caso di emergenza. Una modulazione
eccessiva della regolazione della caldaia a metano va a deprimere in maniera sostanziale quello che è il
rendimento stagionale. La caldaia a metano dal punto di vista tecnico si regola benissimo, basta
un’elettrovalvola che intercetta il metano, una soffiante che smetta di dare aria.
A valle delle caldaie si mette un accumulo inerziale per evitare che il bruciatore, una volta staccato, a causa di
un’utenza che continua a tirare, venga riattaccato immediatamente. Più frequenti sono gli attacchi del
bruciatore più sono gli incombusti, più sono le perdite per dissipazione, e così via.
Altri elementi di grandissima importanza sono le disgiunzioni termiche e idrauliche. Se prendo una caldaia da
1 MW e la vado a dimensionare, da questa uscirà una certa portata d’acqua e ne entrerà un’altrettanta portata
di acqua; ha l’indicazione di temperatura per cui è stata regolata, quindi ad esempio produce acqua a 95° (tipica
del riscaldamento civile). La potenza che questa caldaia riesce a fornire è data dalla portata contenuta
all’interno, per il calore specifico dell’acqua (4,186 kJ/kg°C) per il ∆T (ad esempio di 10°C se esce a 95 e
rientra a 85), quindi la portata è fissata. A valle della caldaia ho uno scambiatore all’interno del quale entra la
portata ed esce la stessa portata, quindi controllando le temperature di entrata e uscita, controllo la potenza
della caldaia. Mandando invece la portata direttamente alle utenze non avrò mai una stima corretta della portata
che entra e che esce. Considerando anche il fatto di avere utenze molto diverse fra di loro, infatti oltre a fornire
acqua calda al generatore dell’impianto frigorifero ad assorbimento, viene fornita acqua per riscaldamento,
utilizzo industriale e per acqua calda sanitaria. La portata è la somma delle portate da fornire a ciascuna utenza
(utenze in serie), la potenza è fissata, a questo punto serve uno scambiatore che realizzi quel ∆T fra ingresso e
uscita. Nel caso dello scambiatore di calore abbiamo una disgiunzione termica, di fatto abbiamo due circuiti
chiusi, ciascuno con la propria portata. Un’altra possibilità è quella di avere una disgiunzione idraulica:
l’accumulo termico, in cui si scaricano tutte le oscillazioni delle utenze, è una specie di serbatoio dal quale le
utenze prelevano una portata e la restituiscono, quindi la portata è la stessa, la temperatura invece è la media
delle temperature al ritorno dalle varie utenze. In questo modo ciascuna utenza può richiedere più o meno
portata rispetto a quella di progetto, a seconda della richiesta, quindi in certe situazioni un’utenza richiede più
portata del massimo, un’altra ne richiede un po’ meno e alla fine tutto torna; purché ovviamente non tutte le
utenze richiedano più della portata massima di progetto. Il disgiuntore idraulico di fatto è un elemento che
serve a compensare queste variazioni ed è molto utilizzato. Il compensatore idraulico (o separatore idraulico)
è un dispositivo utilizzato per collegare insieme un circuito idraulico primario a più circuiti idraulici secondari,
ognuno di essi dotato di una pompa di distribuzione. Nel caso in cui le portate nel circuito primario e secondario
siano identiche, il compensatore idraulico non svolge alcuna funzione, mentre se una delle due correnti ha una
portata superiore all'altra, grazie al compensatore idraulico una parte di tale portata viene indirizzata all'altra
corrente, in modo da equilibrare le due portate. Ricordiamo che ciascuna delle utenze richiede temperature
diverse.
Per quanto riguarda il gruppo frigorifero ad assorbimento, questo è servito da una torre di raffreddamento che
fornisce sia l’assorbitore che il condensatore. Nell’assorbitore abbiamo la situazione più critica, perché dalla
temperatura nell’assorbitore dipende la concentrazione povera di bromuro di litio, quindi un elemento
fondamentale per la dimensione dell’impianto. Anche la produzione di freddo dovrà scontare un accumulo
termico in quanto le considerazioni fatte sulle utenze calde valgono anche per quelle fredde.
In parallelo al gruppo frigorifero ad assorbimento abbiamo solitamente un gruppo frigorifero a compressione,
che funge da unità di integrazione e soccorso.
Come possiamo vedere dal PFD, la torre di raffreddamento ha aria in entrata e in uscita, acqua in uscita a 31°
e acqua in entrata a 35°, quindi possiamo scrivere che la potenza P lato aria è pari a:
𝑃𝑎𝑟𝑖𝑎 = 𝐺𝑎𝑟𝑖𝑎 𝐶𝑝,𝑎𝑟𝑖𝑎 ∆𝑇𝑎𝑟𝑖𝑎
𝑃𝑤 = 𝐺𝑤 𝐶𝑙,𝑤 ∆𝑇𝑤
Potremmo dire in fase di progetto ad esempio che l’aria in ingresso nella torre è un’aria di 30° con un grado
idrometrico del 60%. Nel data sheet della torre non viene dato né T=30° ne φ=0,6, bensì viene dato il dew
point, ovvero temperatura di bulbo umido, che nel caso specifico è di 26°. Ovviamente andando a lavorare sul
dew point e quindi sulla saturazione dell’aria, avremmo una temperatura più bassa rispetto al caso in cui non
dovessimo saturare. Quindi data un ingresso una portata di aria a 30° con un grado idrometrico di 0,6 e ultimati
gli scambi di calore sensibile, ha inizio l’umidificazione fino a raggiungere i 26° (l’umidificazione avviene a
entalpia costante). Ovviamente in uscita dalla torre avrò aria a 31-32° che però non avrà più un grado
idrometrico di 0,6 in quanto il contenuto in essa di acqua sarà aumentato notevolmente. Entrare con aria secca
e lavorare con aria umida aumenta notevolmente il ∆T, facendo lavorare meglio tutto il sistema dal punto di
vista della capacità di scambio.
Dopo aver fatto una piccola panoramica sull’intero sistema di integrazione caldo-freddo, scendiamo nel
dettaglio per capire cosa tiene insieme tutti questi elementi.
Va notato che nell’accumulo caldo ci sono alcuni elementi fondamentali: fondamentalmente l’accumulo
inerziale è un serbatoio in pressione, quindi ci va un vaso di espansione che fa sì che la somma di aria e acqua
presenti all’interno sia un fluido comprimibile. Il volume di acqua è dato da 𝑉 = 𝑉0 (1 + 𝛼𝑇) dove 𝛼 =
coefficiente di dilatazione cubica, e la differenza fra questi due volumi è il primo elemento identificativo della
camera che deve essere riempita di aria (o gas in pressione). Chiaramente dalla variazione di volume dipende
la pressione che deve essere mantenuta entro certi valori.
Sarà necessaria inoltre una valvola di sicurezza, essendo appunto un recipiente in pressione. Il termostato
controlla l’alimentazione del gruppo, come abbiamo visto ci sono dei limiti nella fornitura di potenza termica
(ad esempio nel generatore del gruppo frigorifero abbiamo una 𝑇𝑚𝑎𝑥 = 90° e una 𝑇𝑚𝑖𝑛 = 70°), il termostato
è collegato ad una pompa, se dovessi scendere sotto certi limiti (quindi sotto i 70°), questa pompa smette di
funzionare; attraverso la centralina inoltre, se viene segnalato il superamento del valore di temperatura (90°),
il fluido viene inviato alla valvola deviatrice che lo porta direttamente al ritorno. Rimanere nel range di
temperatura è importante ai fini del rendimento dell’impianto frigorifero, in quanto se butto dentro meno
potenza, tiro fuori meno vapore (a parità di pressione), di conseguenza ottengo meno condensa e quindi meno
laminato. Anche se cambia di poco la temperatura al condensatore, la laminazione viene effettuata sempre fino
a 4°, quello che cambia è la quantità e quindi la potenza che riesco a esprimere nel frigorifero.
Dal termostato quindi vengono settati due livelli di temperatura: quando la temperatura dell’accumulo supera
una certa soglia (ad esempio, 80°C), la pompa si mette in funzione, quindi il sistema era spento, raggiunti gli
80° l’accumulo è pronto per far ripartire il sistema, quindi la pompa torna in funzione alimentando il gruppo
frigorifero. Quando la temperatura scende al di sotto di una seconda soglia (ad esempio, 70°C), la pompa di
circolazione va in stand by, e quindi il gruppo frigorifero ad assorbimento risulta non più alimentato. Ma c’è
anche un altro espetto da considerare: a 70° la concentrazione ricca diventa sempre meno ricca. La
concentrazione ricca scendeva dal generatore, andava nello scambiatore di recupero, veniva laminata e si
portava dentro all’assorbitore. Ma se nell’assorbitore entro con una soluzione ricca povera di bromuro di litio,
questa ha una capacità di assorbire altra acqua modestissima a meno che non vada a raffreddare in maniera
drastica e poiché la pompa a valle dell’assorbitore deve elaborare una portata 1+g che dipende
fondamentalmente dalla differenza fra concentrazione ricca e concentrazione povera, se la concentrazione ricca
diminuisce la portata da elaborare diventa elevatissima e ci vorrebbe una pompa più grande, tuttavia l’impianto
è già stato costruito, quindi non può pompare una portata così grande, bensì pompa la portata per cui è stata
progettata, che è molto minore rispetto a quella che mi servirebbe.
L’accumulo non è direttamente collegato all’impianto che produce energia termica ma scambia calore tramite
uno scambiatore di calore ed un circuito secondario:
Grazie all’accumulo, le utenze possono richiedere una portata che è anche 10 volte quella di progetto,
semplicemente se la portata richiesta aumenta di 10 volte, il ∆T diminuisce di 10 volte (poiché si mantiene la
relazione 𝑃𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎𝑟𝑖𝑜 = 𝑃𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎𝑟𝑖𝑜 ).
C’è da fare un’altra considerazione: se io produco in caldaia acqua a 95° che scambia calore e torna a 90°,
dall’altra parte dello scambiatore entra acqua a 85° ed esce a 90°, io non alimento le utenze con quei 90°, bensì
miscelo quell’acqua con dell’acqua fredda proveniente dalle utenze stesse.
Poiché possono essere presenti più dispositivi per la produzione di potenza termica, andata e ritorno dei sistemi
di raffreddamento convergono, rispettivamente, in un collettore ciascuno. Nel collettore è collegata inoltre la
caldaia a metano di integrazione e soccorso. I collettori alimentano lo scambiatore, il secondario dello
scambiatore. La centralina in figura percepisce che il caldo generato in caldaia non basta e fa partire la pompa
e quindi l’integrazione, quando non raggiungo i valori stabiliti in uscita dalla caldaia a biomassa. Quando
accendo la caldaia, non posso mandare alle utenze acqua fredda, devo prima riscaldare la caldaia, quindi
attraverso la valvola a 3 vie porto a temperatura la caldaia.
Per l’accumulo freddo abbiamo le stesse identiche indicazioni, l’acqua fredda prodotta a 7° entra
nell’accumulo freddo e torna indietro a 12,5°, questo accumulo, con vaso di espansione e valvola di sicurezza,
alimenterà le varie utenze. Se la temperatura dell’acqua refrigerante scende sotto i 4° blocco la circolazione.
Anche nel caso dell’accumulo freddo è presente un termostato che fa partire l’integrazione e soccorso: se la
temperatura all’interno dell’accumulo freddo sale sopra un certo valore questo termostato segnala al frigorifero
di attivare il suo parallelo.
Fra le utenze calde civili abbiamo i ventilconvettori (fan coil o aerotermi), riscaldamento a pavimento e acqua
calda sanitaria. Ovviamente tutto parte dall’accumulo caldo con un prelievo e viene trasferito ai
ventilconvettori e al riscaldamento a pavimento. Se esco dall’accumulo con una temperatura attorno agli 80°
(mandata segnata in rosso), non posso mandare l’acqua a questa temperatura alle utenze, perché probabilmente
le distruggerei, durerebbe poche ore. Prima di entrare nelle utenze ho una valvola a 3 vie, che è esattamente
quella che miscela quest’acqua a 80° con il ritorno del ventilconvettore (un ritorno che sarà attorno ai 40°).
Vediamo quindi che dall’accumulo caldo si spilla solo una piccola quantità di acqua a 80°, quindi alla fine
entrerà nelle utenze a 50° e uscirà a 40°, mentre per l’impianto di riscaldamento questa miscelazione è molto
più critica, infatti nel riscaldamento a pavimento questa miscelazione è assistita da un termostato di sicurezza
che deve intervenire qualora la temperatura superi i 45°, per evitare di compromettere l’integrità dei serpentini
annidati al di sotto del pavimento. I ritorni (segnati in azzurro) confluiscono e ritornano nell’accumulo. Queste
circolazioni di portata vengono scollegate dalla portata che fornisce potenza termica all’accumulo caldo stesso,
semplicemente è la somma delle portate che devo inviare alle mie utenze.
Dopo aver alimentato i ventilconvettori e il riscaldamento a pavimento, vado a riscaldare l’acqua calda
sanitaria: l’acqua calda sanitaria proviene dall’acquedotto, una parte di essa torna all’accumulo caldo come
reintegro per le perdite di pressione, mentre la restante parte entra nel puffer (bollitore). Nel puffer è presente
un serpentino di acqua calda che arriva dalle altre utenze e scalda l’acqua contenuta qua dentro. Qui dentro c’è
un termostato che aziona una pompa, quindi il puffer un serbatoio di accumulo di acqua calda sanitaria
mantenuto ad una certa temperatura (tipicamente 60° per non essere troppo caldo da un lato, ma neanche troppo
freddo per scongiurare la legionella dall’altro). Dal puffer esco con un collettore che va a finire nei rubinetti,
a valle del puffer, prima di arrivare alle utenze, è molto importante la presenza di una valvola a 3 vie, perché
non voglio mandare acqua a 60° alla mia utenza.
COMPRESSORI
Dal punto di vista tecnologico ci sono due grandi categorie di compressori: i compressori volumetrici e i
compressori dinamici. Ciò che utilizzeremo noi per la compressione del gas naturale sarà un compressore a
viti, un compressore volumetrico rotativo, che realizza la compressione innestando due rotori elaborando un
volume e portandolo avanti.
I dinamici possono essere centrifughi o assiali; la caratteristica fondamentale di un compressore dinamico è
quella di essere una macchina aperta, quindi se non mettessimo una valvola di non ritorno, nel momento in cui
questo compressore dovesse smettere di funzionare e se la pressione a valle continua ad essere maggiore di
quella a monte, avremo un reflusso che può essere impedito solo dalla valvola di non ritorno. Quando l’aria
viene introdotta in questa macchina incontra delle pale che la centrifugano verso l’esterno. Quello che fanno
queste macchine è di conferire un incremento di velocità, si trasmette energia cinetica al fluido, che non è
esattamente quello che vogliamo avere, dato che vogliamo un’energia di pressione; per questo sono dotate di
un divergente in cui viene introdotto il fluido, si perde un po’ di energia cinetica, la velocità cala, e per
Bernoulli, se non ci sono perdite, l’energia cinetica si trasforma in energia di pressione.
La pressione totale è uguale alla somma di una pressione dinamica e di una pressione statica:
𝑃 = 𝑃𝑑 + 𝑃𝑠
𝑣2
La pressione dinamica è pari a: 𝑃𝑑 = 2
𝜌 e rappresenta l’espressione cinetica di tutto ciò che può essere
trasformato in pressione. Se la velocità è nulla, la pressione totale coincide con la statica.
Un’altra grande categoria di compressori è rappresentata dai compressori volumetrici alternativi e rotativi (che
possono essere roots, a palette o a viti). In figura vediamo i campi applicativi dei vari compressori:
I volumetrici alternativi si distinguono per pressioni alte e portate basse, i dinamici rotativi per pressioni basse
e portate relativamente elevate.
L’equazione energetica del moto dei fluidi in forma meccanica si esprime come:
Compressore a viti
Come in tutti i compressori volumetrici, si isola un volume di gas, si riduce il volume a disposizione del gas e
si apre una luce allo scarico. In questo caso si hanno un rotore maschio e uno femmina un volume di gas rimane
intrappolato dentro il principio femmina. Quando i due rotori girano (uno mosso da un motore, l’altro
trascinato), il punto di innesto maschio femmina avanza nella direzione della mandata e il volume che sta nel
principio femmina si riduce, comprimendo il gas contenuto. La caratteristica di questi compressori è che la
prevalenza o la pressione che queste macchine riescono a dare è funzione delle resistenze che si trovano a
valle: se a valle del compressore ho un circuito chiuso, magari con una valvola di intercettazione,
potenzialmente potrei raggiungere una pressione a valle infinita, poiché il compressore continua a isolare,
comprimere e portare avanti volumi di gas.
Facciamo ora una comparazione fra i compressori a viti e i compressori alternativi. Nei compressori alternativi
la portata è data sostanzialmente dalla cilindrata, quindi se con pistone e cilindro volessi avere delle portate
elevate dovrei avere un pistone con grosso alesaggio, corsa elevata e grossa cilindrata, quindi le masse in gioco
sono enormi, e dovendo andare dal punto morto inferiore a quello superiore in tempi brevissimi, avendo portate
elevate diventa problematico, a meno che non si utilizzino più pistoni in parallelo, ma a quel punto risolverei
il problema dal punto di vista tecnologico e lo complicherei dal punto di vista economico.
Un altro elemento fondamentale è la lubrificazione e il raffreddamento:
Abbiamo un filtro in aspirazione e una valvola a farfalla che controlla l’aspirazione, motore e compressore.
L’aria viene aspirata dal filtro di aspirazione, viene compressa e all’interno di questo oggetto avviene la
lubrificazione, l’olio viene spruzzato in maniera più possibile uniforme all’interno dell’accoppiamento rotore
maschio-femmina. Allo scarico mi ritrovo una miscela di olio e gas, questo oggetto viene fatto passare
attraverso due filtri (filtro grossolano e filtro fine), che arrestano le sospensioni di goccioline, le raccoglie sul
fondo, le manda a un radiatore che ne cura il raffreddamento e poi nuovamente alla lubrificazione dei rotori.
Non c’è bisogno di nessuna pompa perché il flusso gas-olio si trova alla pressione di mandata.
Tipico diagramma collinare, abbiamo il flusso in 𝑚 3 /𝑠 in ascissa e il rapporto di compressione in ordinata,
parametrizzati in funzione del rendimento della macchina.
Un altro diagramma utile riguarda i rendimenti volumetrici:
Se ho un rendimento volumetrico alto vuol dire che posso prendere una macchina relativamente piccola, se ho
un rendimento volumetrico più basso devo prendere una macchina più grande, con tutto ciò che comporta.
Le rette in alto rappresentano i rendimenti volumetrici geometrici: se ho un rendimento di 4,5 vuol dire che
aspiro 1 𝑚 3 e lo riduco di 4,5 volte geometricamente parlando. Questo diagramma ci da i valori di rendimenti
di compressione e volumetrici in funzione del rapporto di compressione (in ascissa) che arriva fino a 9.
Andiamo ad esaminare gli elementi fondamentali per la compressione di un gas. Innanzitutto sono importanti
le caratteristiche fisico-chimiche del gas, quindi il k, primo fra tutti, ma anche la densità del fluido gioca un
ruolo molto importante.
Quello che rimane al fluido sono circa 70 kW, i restanti sono persi in dissipazione, ma potrei utilizzarmi come
cascame termico per il riscaldamento o raffrescamento.
La variazione entalpica del gas è nulla. Tuttavia, anche se l’entalpia si mantiene costante, il lavoro sul fluido
non è nullo, in quanto utilizzo un lavoro meccanico, quindi utilizzerò la formula del lavoro in forma meccanica
(ovvero l’integrale di vdp). Ciò non vuol dire che l’espressione dh = 0 non sia vera, semplicemente l’energia
fornita al fluido per arrivare a 9 bar è uguale all’energia termica che ho dovuto sottrarre per garantire una
trasformazione a temperatura costante, in altre parole ho sottratto un’energia termica pari all’energia
meccanica che ho dovuto fornire. Quindi il bilancio termico si chiude a zero, ma devo fornire alla macchina
un lavoro in forma meccanica, che la macchina mi restituirà in forma termica. Quindi in definitiva ho speso
una potenza di 221 J/kg. Se riesco ad effettuare una compressione che si avvicina il più possibile a una
trasformazione isoterma non ho speso zero, occorre realizzare un raffreddamento in itinere (durante il percorso)
anziché raggiungere il punto 2is e poi raffreddare fino a 2. Questo raffreddamento in linea è possibile
realizzarlo con un impianto.
Ciò che cambia rispetto al caso 1) sono solamente le condizioni iniziali, quindi la densità e il coefficiente del
gas compresso (in questo caso il metano) con la densità del metano che è poco più della metà di quella dell’aria;
un oggetto che ha volumi specifici più alti (o densità più basse) fa più fatica a farsi comprimere, infatti come
possiamo notare con il metano spendiamo di più in termini di lavoro isoentropico (429 kJ/kg contro i 256 spesi
per l’aria). Tuttavia la potenza fornita al metano è inferiore (288 kW contro i 307 forniti all’aria). Anche la
temperatura di fine compressione è più bassa (212 °C contro i 274), per via di un k pari a 1,3 e che quindi si
ribella di meno alla compressione (essendo più leggero, più un gas è leggero e più gli effetti di dissipazione
diminuiscono). Infine per riportare il metano alla temperatura di 30° dobbiamo asportare una potenza termica
di 276 kW (contro i 293 da asportare all’aria).
Per l’ultimo esempio facciamo un ragionamento inverso rispetto a quello fatto fino ad adesso. Devo prendere
un gas e devo comprimerlo in camera di combustione, la camera di combustione ha una pressione che è quella
a valle del compressore (ipotizziamo circa 20 bar), per cui mi chiedo: quali devono essere le caratteristiche del
gas a monte? Quando realizziamo un impianto di questo tipo è fondamentale decidere quali sono le condizioni
al contorno (pressione e temperatura del gas all’aspirazione), dopodiché è possibile dimensionare la macchina.
Le condizioni iniziali poi si rifletteranno su una curva delle prestazioni a seconda delle condizioni di
aspirazione. Ma non solo: il committente impone anche le condizioni del gas a valle del compressore (ad
esempio p = 20 bar e T = 60°C), al che c’è da chiedersi quale sia il coefficiente n di politropica per raggiungere
quelle condizioni.
Una volta trovate le caratteristiche che deve avere questo fluido (n = 1,061) che sarà quindi un fluido
refrigerante, il problema è solo tecnologico e basato su come inserire questo fluido all’interno della macchina.
Fare questo con un compressore alternativo è estremamente difficile, farlo con un compressore a viti è un
tantino più semplice, perché se spruzzo l’olio di lubrificazione dall’innesto fino all’espulsione di questo fluido
efficacemente posso dire di aver asportato la potenza termica necessaria e aver realizzato una compressione
politropica con n = 1,061.
Il problema è dunque capire quanto olio posso buttare qua dentro, olio che va a finire nell’intercapedine di
questi due elementi, quindi ce ne devo buttare il meno possibile per evitare trafilamenti. Ricordiamo inoltre
che all’uscita dal compressore ho una miscela di olio e gas a 20 bar, effettuo la separazione dell’olio dal gas,
il gas va a finire in turbina e l’olio torna nel circuito di lubrificazione con una pressione che è quella di mandata.
Quindi la portata di olio sarà proporzionale alla differenza di pressione che ottengo fra mandata e aspirazione.
È chiaro che se inserisco l’olio a metà innesto anziché avere una pressione di 20 bar, avrà una pressione di 20-
10 = 10 bar (o addirittura a fine innesto quando ho 18 bar, quindi ho 2 bar per far tornare indietro l’olio), non
sufficiente a ributtare dentro l’olio per una nuova lubrificazione.
IMPIANTI DI COMPRESSIONE DEL GAS NATURALE
Per realizzare la compressione di un gas abbiamo bisogno di tre circuiti separati e distinti: uno è quello di
compressione del gas, l’altro come abbiamo visto è certamente un circuito di raffreddamento dell’olio.
Abbiamo visto che all’interno di un compressore a viti, un circuito di olio è un circuito di lubrificazione e di
raffreddamento, è evidente che quando questo circuito raffredda dovrà a sua volta essere raffreddato, l’olio
non è una sorgente esterna, l’aria è una sorgente esterna, quindi dopo dovremmo scaricare questa potenza
termica dell’olio verso l’esterno. Ma vedremo che questo non viene fatto direttamente sull’olio ma su un
circuito intermedio di acqua e quindi sostanzialmente la catena sarà: compressione del gas, raffreddamento
con dell’olio che verrà raffreddato a sua volta con dell’acqua che viene raffreddata a sua volta dall’aria esterna
e quindi da un radiatore.
Guardiamo le pressioni di progetto e le temperature di esercizio che sono relative alla resistenza del circuito.
Ciò vuol dire che se il circuito gas si trova a 20 bar, non è detto che sia la pressione a cui vado a comprimere,
ma quella alla quale vado a dimensionare i componenti (condotti, valvole, accessori, ecc…) e quindi accertarsi
che non si vada a 20,1 bar perché a quel punto lì vanno fuori garanzia tutti i calcoli che ho fatto per il
dimensionamento. La prima cosa che devo andare a fare è definire quelle che sono le condizioni ambientali,
che devono essere chiare e non controvertibili, indicando le temperature limite per il funzionamento.
La mandata del compressore deve avere una temperatura massima di 85°, ciò vuol dire che dobbiamo andare
a verificare qual è il coefficiente della politropica corrispondente alla trasformazione che andiamo ad operare.
Quindi l’olio che viene mandato all’interno del compressore dovrà essere tale da far uscire un gas a 85° e
questo definisce inequivocabilmente la politropica che sto realizzando.
Lo scarico del gruppo di compressione è a 65°, altra caratteristiche che noi andiamo a garantire al nostro
committente sulla base dei vincoli che abbiamo imposto, una volta che lo abbiamo compresso a 85°, dobbiamo
raffreddarlo fino ad ottenere un’uscita a 65° perché deve entrare in camera di combustione a questa
temperatura. L’olio in ingresso è a 50° e questo è estremamente importante in quanto vanno fatte delle
considerazioni sulla scelta dell’olio: la sua viscosità infatti dipende dal tipo di olio e dalla sua temperatura.
Vado a scegliere un tipo di olio che deve essere lubrificante e raffreddante. Se vado ad inserire fra rotori
maschio-femmina di un compressore a viti un olio troppo viscoso la pressione che quest’olio richiede per
rientrare all’interno dei meandri è enorme perché l’olio è poco fluido. Un olio inserito a pressioni troppo
elevate andrebbe a sbilanciare tutte le spinte del compressore. Temperatura all’aspirazione del compressore
pari a 10°C perché chi fornisce il compressore ha già ben in mente che la temperatura all’aspirazione si riferisce
all’aria esterna. Aspirazione del compressore alla pressione di 0,13 barg, mentre la mandata del compressore
è a 14 barg, il che vuol dire 15 bar assoluti. Quindi abbiamo una compressione fino a 15 bar a fronte di un
progetto di 20 bar, quindi prevediamo anche la possibilità di sovrapressioni in particolari situazioni transitorie.
Per quanto riguarda la rotazione del compressore, abbiamo una velocità di 3000 giri al minuto e senso di
rotazione antiorario. L’olio entra dentro il compressore a 50°, uscirà ad una temperatura pari a quella del gas,
quindi 83°, ho il calore specifico dell’olio, l’unica cosa che mi rimane da sapere è la portata, che decide il
costruttore, perché se immetto una portata elevata avrò bisogno di pressioni elevatissime, ho quindi limitazioni
tecnologiche che dipendono dal fatto che più di tanto non gliene posso mandare (stiamo parlando comunque
di mandare dell’olio fra interstizi che hanno tolleranze dell’ordine del centesimo di millimetro).
Il circuito in giallo è il circuito del gas: attraverso il circuito, il gas entra all’interno del compressore alla
pressione di 0,13 barg e alla temperatura di 8°C. La prima cosa che vado ad inserire è un riduttore di pressione,
perché devo avere delle condizioni definite se voglio garantire una certa portata, seguito da una valvola a
farfalla per regolare il flusso. Immediatamente dopo è obbligatoria una valvola di non ritorno che sezioni il
circuito in caso di reflusso. Il filtro a cartuccia elimina ogni impurità presente nel metano ed è collegato ad un
trasduttore di pressione, in modo tale che quando la pressione a valle del filtro scende sotto un certo valore
vuol dire che il filtro è intasato e quindi sono necessarie operazioni di drenaggio e pulizia. Dopodiché entriamo
dentro al compressore spinto dal motore elettrico. All’interno del compressore entra anche dell’olio ed esce
fuori una miscela di olio e gas alla pressione di 14,5 barg e alla temperatura di 83°.
La corrente di olio e gas entra all’interno di un separatore a gravità: da qui esce una corrente pulita di gas in
cui l’olio non c’è più, e l’olio che ho separato, che esce da sue sezioni ben precise. Le goccioline di olio che
fino a quel momento erano state trasportate pneumaticamente da un gas a 20/25 m/s, una volta all’interno del
separatore grossolano, precipitano nella camera a gravità; in questo modo viene separata la parte grossolana di
olio (≈ 500 𝜇𝑚). Prima di lasciare la zona, la miscela passa attraverso due filtri coalescenti (efficienza del
99,9% a 10 nm) all’interno dei quali riusciamo a separare il gas anche dalle particelle submicroniche di olio
(≈ 0,01 𝜇𝑚). Il separatore grossolano è fondamentale per non intasare i filtri coalescenti con particelle di olio
troppo grandi (ed evitare quindi problemi di manutenzione). In questa zona abbiamo diverse sonde di
temperatura.
Il gas ripulito da ogni particella di olio entra quindi nello scambiatore in cui incontra il circuito dell’acqua di
raffreddamento (circuito blu), che entra a 40° (e a p = 3 barg) ed esce a 50° (e a p = 2,9 barg). Poiché abbiamo
detto che l’impianto è stato progettato in funzione di una temperatura dell’ambiente esterno −10° < 𝑇 < 30°,
vorrà dire che per mandare l’acqua nello scambiatore dovremo prima riscaldarla. Sul circuito dell’acqua a
monte dello scambiatore abbiamo una valvola termostatica che governa la portata in funzione della temperatura
di uscita. All’uscita dello scambiatore dovremo avere un gas a 65°. Il bulbo sensibile della valvola termostatica
viene posizionato all’uscita del gas dallo scambiatore, controlla la temperatura di uscita del gas, e apre e chiude
la valvola: se la temperatura del gas tende ad alzarsi, la valvola tende ad aprirsi per buttare dentro più acqua di
raffreddamento. Nonostante la separazione, ci potrebbero essere ancora tracce submicroniche di olio nel gas,
in condizioni di saturazione, andando a condensazione, quindi ci vuole un altro filtro coalescente per eliminare
le tracce di olio condensato. Da qui esce la corrente di gas pulito che se ne va via; inoltre questo filtro è fatto
apposta per eliminare la cosiddetta gasolina raccolta in forma liquida, molto leggera, in un serbatoio con
galleggiante, che una volta raggiunto un certo valore, viene opportunamente scaricata e smaltita.
Il gas una volta pulito viene misurato in termini di pressione e temperatura attraverso le sonde PT e TT e lo
mando attraverso una valvola di non ritorno (non posso assolutamente permettermi un reflusso) in un recipiente
in pressione, per compensare le vibrazioni del sistema, con valvola a sfera per lo spurgo, naturalmente con una
valvola di sicurezza, per poi finalmente consegnare il gas alla pressione di 14,4 barg e alla temperatura di 65°.
A valle del compressore, se dovesse accadere qualsiasi cosa, sovrapressioni, intasamento dell’olio, ecc…
dobbiamo prevedere due elementi di sicurezza: una valvola solenoide che, al superamento di certi valori di
pressione e temperatura, si va ad aprire e sfoga in atmosfera perdendo metano e bloccando immediatamente il
compressore che smetterà di pompare. Se la valvola solenoide non fosse sufficiente, c’è una valvola di
sicurezza in soccorso, che interviene ad una pressione leggermente superiore a quella della valvola solenoide.
Attraverso la valvola solenoide e la valvola autoregolatrice di pressione rimando all’aspirazione del
compressore il gas che stavo mandando in rete, ho quindi un ricircolo, finché non raggiungo le condizioni
ottimali per far ripartire il ciclo. La valvola autoregolatrice resta chiusa e interviene solo quando ho superato i
20 bar di pressione di progetto, mentre attraverso la valvola solenoide (sul circuito arancione) faccio ricircolare
il gas finché non si raggiungono pressioni e temperature di regime. Raggiunte le condizioni di funzionamento
normale chiudo la valvola solenoide e riprendo a prelevare il gas dal circuito di fornitura (circuito giallo).
Dal separatore a gravità escono due flussi di olio: l’olio separato grossolanamente (quindi la maggior parte)
esce alla pressione di 14,5 barg e alla temperatura di 83°, andrà al pompaggio e poi al raffreddamento. Le
particelle finissime di olio raccolte dai filtri coalescenti (parliamo di portate molto modeste) invece vengono
inviate direttamente al compressore. L’olio grossolano passa attraverso un filtro a cartuccia perché potrebbe
presentare delle impurità e viene inviato a due pompe ad ingranaggi in parallelo per essere sicurissimi che se
ne vada via (non abbiamo valvole di non ritorno da nessuna parte proprio perché queste sono pompe
volumetriche). Dopodiché passo attraverso uno scambiatore a piastre ed esco con un olio a 50° che è
esattamente ciò che mi serve per riportare l’olio all’interno del compressore. Nello scambiatore l’acqua che
raffredda l’olio entra a 40° ed esce a 50°, l’olio invece entra a 83° (temperatura di fine compressione) ed esce
a 50°, che è la temperatura che mi garantisce la viscosità adatta per essere reinserito nel compressore. Dopo
aver misurato pressione e temperatura dell’olio lo filtro per essere sicuro che non sia contaminato da tracce di
ferro (per via degli ingranaggi).
Inoltre ho una valvola a tre vie immediatamente a valle dello scambiatore la quale apre la via squadra a destra,
quando sente che la temperatura dell’olio non è sufficientemente elevata, e by-passo lo scambiatore ad acqua.
Quando la temperatura arriva a regime si apre la via squadra a sinistra e va avanti. Le quantità marginali di
olio, quindi quelle che provengono dai filtri coalescenti del separatore e dal filtro a valle dello scambiatore
acqua-gas (che raccoglie il condensato di olio), vengono portati all’aspirazione del compressore (quest’olio si
trova già alla pressione di mandata, viene nebulizzato e riportato all’aspirazione). Ricordiamo però che le
quantità di olio inviate direttamente al compressore le invio calde (alla temperatura di mandata = 83°), ma
questo non preoccupa perché parliamo comunque di quantità molto modeste. La parte di olio pompata invece
viene introdotta nel circuito di raffreddamento e torna al compressore alla temperatura di regime (50°C).
Se a valle delle pompe la pressione dell’olio è eccessiva, si apre la valvola autoregolatrice di pressione (sul
circuito rosso) e fa ricircolare l’olio finché la pressione non si abbassa ai valori desiderati. Dopo le pompe
l’olio si trova davanti ad un bivio: se si trova già ad una temperatura adeguata di 50° non è necessario farlo
passare per il circuito di raffreddamento, per cui si by-passa lo scambiatore (aprendo la valvola a tre vie) e
inviato direttamente al compressore; altrimenti, come abbiamo detto, passa per lo scambiatore per abbassare
la temperatura fino al valore fissato di 50°.
In figura possiamo vedere il circuito completo dell’acqua (circuito blu), che entra dentro un radiatore a 50°,
che la raffredda fino a 40°, pronta per tornare a raffreddare l’olio nello scambiatore. L’aria che attraversa il
radiatore sarà sicuramente aria esterna e si troverà alla temperatura più bassa possibile (idealmente attorno ai
30° se dobbiamo riportare a 40° un’acqua in ingresso a 50°). Ovviamente non posso fare un circuito in serie
(come nel frigorifero ad assorbimento) per raffreddare sia olio che gas con lo stesso circuito di acqua di
raffreddamento, in quanto voglio dei raffreddamenti molto controllati e in entrambi i casi voglio avere acqua
che entra a 40° e che esce a 50°.
Abbiamo dunque due circuiti in parallelo, comandati dalla valvola termostatica, che si apre o si chiude in
funzione della temperatura del gas. Ovviamente ogni volta che ho dell’acqua che si scalda, ho bisogno di un
vaso di espansione (basta una dilatazione del 2-3% per portarla ad una pressione bestiale). A valle del vaso di
espansione sul circuito dell’acqua abbiamo una pompa centrifuga regolabile con una valvola (mentre una
pompa volumetrica rotativa non può). Ovviamente da valle dello scambiatore a monte della pompa ho una
certa perdita di pressione, che vado a regolare attraverso la valvola. La pompa a sua volta però elabora una
portata che è la somma delle due portate (quella che poi andrà a scambiare calore con l’olio e quella che andrà
a scambiare calore con il gas) e come vengono distribuite queste portate dipende solo dalla valvola termostatica
a monte dello scambiatore acqua-gas: se questa valvola si chiude, tutta la portata elaborata dalla pompa si
riversa nel circuito di raffreddamento dell’olio, viceversa se è completamente aperta ho la massima portata nel
circuito di raffreddamento del gas e la minima portata nel circuito di raffreddamento dell’olio, ma la somma
rimane sempre quella.
Per un accoppiamento motore elettrico – compressore a vite la questione delle vibrazioni è fondamentale,
specialmente per la presenza di un compressore a vite, i quali gli elementi hanno delle tolleranze strettissime.
Le normative ISO definiscono le vibrazioni massime sostenibili da compressori di questo tipo. Per misurare le
vibrazioni ci sarebbe bisogno di un accelerometro, per misurare quindi frequenza, prima armonica, seconda
armonica, ecc… con dispositivi (come gli estensimetri) molto difficili da utilizzare. Per questo la normativa
propone di misurare la vibrazione in mm/s, misurando il periodo che c’è fra un picco e l’altro, e a tal proposito
dice che se siamo sotto i 7 mm/s allora la macchina è stabile, se siamo fra 7 e 11 mm/s il sistema dà
preoccupazione, nel senso che non porta necessariamente ad un failure anticipato del nostro compressore, ma
potrebbe farlo (zona di pericolo); sopra gli 11 mm/s chi fa il collaudo non garantisce il funzionamento corretto
della macchina. Il sistema dev’essere sufficientemente elastico da sopportare le vibrazioni e sufficientemente
rigido da trasmettere coppie elevate e variabili (le coppie allo spunto ad esempio sono elevatissime rispetto
alle coppie di regime).
Filtro a cartuccia all’aspirazione del compressore
Dati di progetto:
- Temperatura gas = 8°C
- Pressione gas = 0,13 barg
- Portata di gas = 0,26 kg/s
- Perdita di pressione massima nel filtro = 100 mbar
- densità gas = 0,777 kg/m^3
- portata volumetrica gas = 0,335 m^3/s = 1200 m^3/h