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Bettoni nel 1807, Dei Sepolcri è un poemetto di Ugo Foscolo in endecasillabi sciolti, dedicato
a Ippolito Pindemonte, come si evince dal verso 16.
L'autore preferì definirlo "carme", e tale denominazione (dal latino CARMEN, poesia) ci
suggerisce il desiderio di avvicinarsi all'antichità, intesa come purezza originaria; oltretutto il
testo esce dopo un silenzio poetico iniziato nel 1803, in cui Foscolo si era soprattutto
dedicato allo studio dei classici. Proprio nella nota finale, il poeta scrive: "Ho desunto questo
modo di poesia da' Greci i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche".
L'occasione della scrittura è costituita dall'editto di Saint-Cloud, del 1804 (applicato in Italia
nel 1806), in cui si regolamentavano le sepolture, per motivi igienici e di decoro, ma anche
per l'applicazione del pensiero rivoluzionario, secondo cui tutti dovevano essere uguali,
anche nella morte.
Come superare il nichilismo di base del suo pensiero? La prima posizione espressa nel testo
è molto chiara: il sepolcro non porta beneficio al defunto, poiché il tempo distrugge tutto. La
discussione attorno all'editto di Saint-Cloud, quindi, evocata a partire dal verso 50, non verte
sul rispetto del morto; la morte infatti non è nulla. Il sepolcro, invece, serve per i vivi, esso ci
dona l'illusione della sopravvivenza, permettendoci il ricordo e ponendosi come centro degli
affetti famigliari e dei valori civili (si nota così l'importanza di due temi che ricorrono in varie
opere di Foscolo, la famiglia e la patria). A questo serve la prima domanda:
Foscolo non esita a dirci che la risposta è semplicemente "no". Recupera tuttavia il senso
importante dell'illusione (v. 24) e in particolare l'idea che "celeste" sia "questa /
corrispondenza d'amorosi sensi".
La rassegna delle tombe della chiesa di Santa Croce a Firenze, quindi, dimostra quanto
esse siano segni di civiltà: Foscolo ricorda Machiavelli, Michelangelo, Galileo, Dante,
Petrarca, Alfieri. La considerazione dei sepolcri, quindi, è per Foscolo squisitamente politica;
non per niente Francesco De Sanctis lo definì poi, nella sua storia della letteratura italiana,
un poeta vate, ruolo che per altro egli stesso si prende se andiamo a riconsiderare i versi
226-234.
A livello formale, spiccano i tratti di armonia e liricità, che vogliono esaltare le grandi figure
evocate; Pietro Giordani ebbe però a dire che si tratta di un "fumoso enigma": l'opera
doveva dare impressione di vastità attraverso l'impiego di un linguaggio aulico e l'impiego di
zone più calme solo per permettere il passaggio da un argomento a un altro.