Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
IL GIARDINIERE TENACE
JOHN LE CARRÉ
IL GIARDINIERE TENACE
(2001)
Traduzione di
Annamaria Biavasco e Valentina Guani
THREEBEES
Api operose per la salute dell'Africa
Era la casa che nei suoi ricordi odiava ogni volta che se
ne allontanava: grande e trascurata, avita in maniera
insopportabile, al numero quattro di un tranquillo viale di
Chelsea, con un giardino che rimaneva ostinatamente
incolto, malgrado le cure amorose che Justin gli prestava
non appena aveva un po' di ferie. Tra i rami della quercia
secca che Tessa gli aveva proibito di abbattere sporgevano
come una zattera mezza marcia i resti della casetta di
quando era bambina, assieme a palloni sgonfi di epoche
passate e brandelli di aquiloni impigliati. C'erano un
cancello di ferro arrugginito, che spinse in mezzo a un
pantano di foglie secche facendo fuggire tra i cespugli il
gatto strabico del vicino. E due ciliegi riottosi di cui si
sarebbe dovuto preoccupare, perché avevano la bolla del
pesco.
Era la casa che aveva temuto tutto il giorno, e anche la
settimana prima, quando scontava la pena ai piani bassi, e
per tutto il tragitto a piedi per le vie di Londra, nel solitario
crepuscolo di quel pomeriggio invernale, mentre cercava di
districarsi nel dedalo di mostruosità che aveva nella testa,
con la borsa di vacchetta che gli batteva contro la gamba.
Era la casa che custodiva parti di lei che non aveva mai
conosciuto e che ormai gli erano precluse per sempre.
Un vento sferzante faceva sbattere la tenda del
fruttivendolo dall'altra parte della strada, sballottando per il
marciapiede le foglie e gli ultimi clienti. Justin, nonostante
il vestito leggero, aveva troppe cose dentro per rendersi
conto del freddo. I gradini piastrellati davanti alla porta
riecheggiarono sotto i suoi passi. Arrivato in cima, si voltò a
guardare senza sapere neanche lui che cosa. Sotto il
bancomat della NatWest era seduto un senzatetto. Un
uomo e una donna discutevano a bordo di un'auto in divieto
di sosta. Un tipo magro con impermeabile e cappello floscio
parlava al cellulare. In un paese civile non si può mai essere
sicuri. La lunetta sopra il portone era illuminata. Non
volendo cogliere nessuno di sorpresa, suonò il campanello e
udì il ben noto trillo rugginoso riecheggiare sul pianerottolo
del primo piano, simile alla sirena di una nave. Chi mi verrà
ad aprire? si chiese, in attesa di sentire dei passi. Aziz il
pittore marocchino con il suo compagno Raoul? Petronilla,
la ragazza nigeriana in cerca di Dio con il suo prete
cinquantenne del Guatemala? Gazon, il macilento medico
francese, accanito fumatore, che aveva lavorato con Arnold
in Algeria e aveva il suo stesso sorriso pieno di rammarico,
lo stesso modo di fermarsi a metà di una frase e
socchiudere gli occhi nel ricordare qualcosa di atroce, in
attesa che la testa si liberasse dell'incubo per ritrovare il filo
del discorso?
Non sentendo né voci né rumore di passi, girò la chiave
nella toppa ed entrò nell'atrio, aspettandosi profumi di
spezie africane, musica reggae alla radio e vivaci
conversazioni di gente che beveva caffè in cucina.
«Ehilà!» gridò. «Sono Justin. Sono io.»
Nessuna risposta, nessuna musica, né odori di cibo né
voci. Nessun rumore, a parte quello attutito del traffico
nella strada antistante e l'eco della sua stessa voce che si
perdeva nella tromba delle scale. L'unica cosa che vide,
invece, fu la testa di Tessa, tagliata all'altezza del collo da un
giornale e incollata su un pezzo di cartone, che lo fissava da
una fila di vecchi barattoli della marmellata pieni di fiori. E,
tra i barattoli, un foglio di carta da disegno opaca, piegato,
che Justin immaginò fosse stato strappato dall'album di
Aziz, con messaggi di cordoglio, d'amore e di addio scritti
dagli inquilini scomparsi di Tessa: 'Justin, non ci sembrava
giusto restare qui', con la data del lunedì precedente.
Ripiegò il foglio e lo rimise tra i barattoli. Restò
sull'attenti, con gli occhi fissi davanti a sé, sbattendo le
palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Posò la borsa di
vacchetta nell'atrio e andò in cucina, sorreggendosi al muro.
Spalancò il frigo. Era vuoto, a parte un flacone di medicine
con il nome di una donna che non conosceva sull'etichetta.
Annie Vattelapesca. Sarà stata una delle ragazze di Gazon. A
tastoni proseguì nel corridoio fino alla sala da pranzo e
accese le luci.
L'orrenda sala da pranzo pseudo-Tudor del padre di
Tessa, con sei sedie ornate di riccioli e stemmi ai due lati
del tavolo, per i suoi amici megalomani e, a capotavola, due
troni ricamati per il re e la regina. Papà sapeva che era
orribile, ma ci era affezionato, e quindi ci sono affezionata
anch'io, gli stava dicendo Tessa. Be', io no, pensa Justin, ma
mi guarderò bene dal dirlo. Nei primi mesi che avevano
passato insieme, Tessa non aveva parlato d'altro che di suo
padre e sua madre finché, sotto l'abile guida di Justin, aveva
cominciato a esorcizzare i loro fantasmi riempiendo la casa
di persone della sua età, più pazze e più allegre possibile:
trotzkisti che avevano studiato a Eton, prelati polacchi
ubriaconi e mistici orientali, più metà degli scrocconi di
questo mondo. Una volta scoperta l'Africa, tuttavia, aveva
calibrato il tiro e casa sua era diventata un rifugio per
volontari introversi e attivisti di tutte le risme. Continuando
a guardarsi intorno, Justin notò con disappunto la fuliggine
accumulata in semicerchio intorno al caminetto di marmo,
sugli alari e sul paracenere. Taccole, pensò. E lasciò
indugiare lo sguardo sul resto della stanza, finché non tornò
a posarsi sulla fuliggine. A quel punto vi concentrò anche la
mente. E non la distolse neppure mentre discuteva tra sé, o
con Tessa, che praticamente era la stessa cosa.
Quali taccole?
Quando?
Il messaggio nell'atrio è datato lunedì.
Il giorno di Ma Gates è il mercoledì. Ma Gates era la
signora Dora Gates, la vecchia tata di Tessa, da sempre
soprannominata Ma.
E se Ma Gates non si sente bene, viene sua figlia
Pauline.
E quando non può Pauline, c'è sempre quella svampita
di sua sorella Debbie.
Era impensabile che una qualunque delle tre avesse
ignorato una chiazza di fuliggine così evidente.
Quindi le taccole dovevano aver lanciato il loro attacco
dopo mercoledì e prima di quella sera.
Quindi, se la casa si era svuotata il lunedì (vedi
messaggio) e Ma Gates aveva fatto le pulizie il mercoledì,
perché nella fuliggine c'era un'impronta chiara e ben
definita di una scarpa da uomo, probabilmente sportiva?
Sulla credenza c'era il telefono e accanto una rubrica.
Tessa aveva scritto il numero di Ma Gates con un pastello
rosso all'interno della copertina. Justin chiamò; rispose
Pauline, che scoppiò a piangere e gli passò la madre.
«Mi dispiace, mi dispiace moltissimo, caro» gli disse Ma
Gates con voce lenta e chiara. «Non ci sono parole per dirle
quanto mi dispiace, signor Justin. Né mai ci saranno.»
Lui cominciò l'interrogatorio: lungo e per forza di cose
gentile, consistente più nell'ascoltare che nel domandare.
Sì, Ma Gates era andata a fare le pulizie mercoledì, come al
solito, dalle nove alle dodici... Era un modo per stare un po'
da sola con Miss Tessa... Aveva pulito come sempre, senza
saltare o dimenticare niente... Aveva pianto un po' e aveva
pregato... E se il signor Justin era d'accordo, le sarebbe
piaciuto continuare come prima, per favore, al mercoledì,
come quando Miss Tessa era viva, non per i soldi, ma per il
ricordo...
Fuliggine? Macché! Sul pavimento della sala mercoledì
non c'era traccia di fuliggine, altrimenti lei l'avrebbe
senz'altro vista e tolta, prima che qualcuno ci mettesse i
piedi sopra. La fuliggine di Londra è così unta! Con quei
camini grandi, lei ci stava attenta! No, no, signor Justin, lo
spazzacamino non aveva certo la chiave di casa.
Sapeva se avevano trovato il dottor Arnold? Perché di
tutti i signori che erano passati per casa, il dottor Arnold era
quello a cui era più affezionata e le cose che dicevano i
giornali erano tutte invenzioni...
«Lei è molto gentile, signora Gates.»
Accendendo la luce del salotto, indugiò con lo sguardo
sugli oggetti che erano e per sempre sarebbero stati di
Tessa: le coccarde delle gare di equitazione di quando era
piccola, la foto della prima comunione e quella del
matrimonio davanti alla chiesetta di Sant'Antonio, all'Elba.
Ma in cima ai suoi pensieri c'era il caminetto. L'interno era
di ardesia, la grata bassa, vittoriana, di acciaio e bronzo, con
i ganci per reggere i ferri. Focolare e grata erano coperti di
fuliggine e c'erano delle strisce nere anche lungo gli steli
d'acciaio delle pinze e dell'attizzatoio.
Ecco un bel mistero della natura, disse a Tessa: due
colonie diverse di taccole che scelgono lo stesso momento
per far cadere della fuliggine dentro due camini diversi.
Come ce lo spieghiamo? Tu in quanto avvocato e io in
quanto specie in via di estinzione?
Ma nel salotto non c'erano impronte. Chi aveva frugato
nel caminetto della sala da pranzo aveva cortesemente
lasciato un'impronta, mentre chi aveva frugato nel
caminetto del salotto – che fosse o meno la stessa persona
– no.
Ma perché mai frugare in un caminetto, o peggio ancora
in due? È vero che per tradizione i caminetti antichi sono
nascondigli ideali per lettere d'amore, testamenti, diari
sconvenienti e sacchetti di sovrane d'oro, ma secondo la
leggenda i caminetti sono anche abitati dagli spiriti. E il
vento si serve dei vecchi camini per raccontare storie,
spesso segrete. Quella sera soffiava un vento freddo che
faceva sbattere le persiane e tremare le porte. Ma perché
frugare proprio in quei due caminetti? I nostri caminetti?
Perché proprio al numero quattro? A meno che,
ovviamente, i caminetti non facessero parte di una più vasta
perquisizione di tutta la casa, attacchi ai fianchi, per così
dire, rispetto all'offensiva principale.
A metà scala si fermò a osservare l'armadietto dei
medicinali di Tessa, un vecchio stipetto italiano di nessun
valore, appeso nel vano delle scale e decorato con una croce
verde che vi aveva dipinto lei stessa. Non per nulla era figlia
di un medico. Lo sportello era socchiuso. Lo aprì del tutto.
Saccheggiato. Scatole di cerotti aperte, garze e buste di
acido borico sparse rabbiosamente dappertutto. Stava per
richiudere lo sportello quando il telefono sul pianerottolo
gli squillò nelle orecchie.
È per te, disse a Tessa. Dovrò dire che sei morta. È per
me, le disse. Dovrò ascoltare delle condoglianze. È la Torta
Paradiso che vuole accertarsi che io abbia tutto ciò che mi
occorre per starmene buono e zitto nel mio trauma. È
qualcuno che ha dovuto aspettare che si liberasse la linea
dopo la mia chilometrica conversazione con Ma Gates.
Alzò il ricevitore e sentì una donna indaffarata, voci
metalliche che riecheggiavano dietro di lei, passi ritmati.
Una donna indaffarata in un posto pieno di gente con il
pavimento di pietra. Una londinese indaffarata con un
accento spiritoso e la voce da pescivendola.
«Pronto? Pronto? Posso parlare con il signor Justin
Quayle, per favore, se è in casa?» In tono cerimonioso,
come se stesse per esibirsi in un trucco con le carte. «C'è,
tesoro, ho sentito...» Rivolta a qualcun altro.
«Sono io.»
«Vuoi parlargli direttamente tu, tesoro?» Tesoro non
voleva. «Sono la fiorista, signor Quayle, chiamo da Jeffrey
di King's Road. Abbiamo una bella composizione di non le
dico che fiori da consegnarle personalmente e
inderogabilmente entro stasera, se è in casa, al più presto, e
non devo dirle da parte di chi... Giusto, tesoro?»
Evidentemente era giusto. «Senta, se le mandassi il ragazzo
adesso, signor Quayle? È questo che volevo sapere. Tra due
minuti è lì, vero, Kevin? Anche meno, se gli offre da bere.»
«Allora lo mandi» disse Justin distrattamente.
Nessuna firma.
Esaminò la busta, la annusò, annusò anche il
cartoncino, ma non sentì nessun odore. Non sapeva che
odore si aspettava di sentire. Portò busta e cartoncino in
cucina, accese un fiammifero e, nella migliore tradizione
dei corsi sulla sicurezza impartiti dal Servizio, li lasciò
bruciare nel lavandino. Quando furono consumati, sbriciolò
la cenere e spinse i frammenti nello scarico, facendo
scorrere l'acqua per più tempo del necessario. Si avviò di
nuovo su per le scale, due gradini alla volta, fino all'ultimo
piano. Non era la fretta a spingerlo, ma la determinazione:
non pensare, agisci. Si trovò di fronte alla porta chiusa della
soffitta. Aveva la chiave pronta in mano. La sua espressione
era risoluta, ma apprensiva. Era un disperato che si
preparava a fare il grande salto. Spalancò la porta ed entrò
nel piccolo corridoio che conduceva a una serie di stanze
ricavate tra comignoli infestati dalle taccole e terrazzini
dove si potevano coltivare piante in vaso e fare l'amore.
Avanzò deciso, con gli occhi semichiusi per non lasciarsi
accecare dal bagliore dei ricordi. Non c'era oggetto, quadro,
sedia o angolo che non appartenesse a Tessa, in cui lei non
dimorasse o da cui non gli parlasse. La pomposa scrivania
del padre, passata a lui il giorno del matrimonio, era nella
solita nicchia. Sollevò la ribalta. Che cosa ti avevo detto?
Saccheggiata.
Aprì con violenza il guardaroba di Tessa e vide cappotti e
vestiti invernali strappati dalle grucce e lasciati a morire
con le tasche rovesciate. Avresti anche potuto appenderli,
tesoro. Sai benissimo che l'ho fatto e che li ha tirati giù
qualcun altro. Frugando tra gli indumenti trovò la vecchia
borsa degli spartiti, quanto di più simile a una cartella
potesse trovare.
«Facciamolo insieme» le disse, questa volta ad alta voce.
Quando stava per andarsene, si fermò a spiarla dalla
porta aperta della camera da letto: era uscita dal bagno ed
era nuda, in piedi davanti allo specchio, con la testa piegata
da una parte per pettinarsi i capelli bagnati. Aveva un piede
scalzo puntato verso di lui, in posa da ballerina, come
faceva sempre quando era nuda. Una mano era sollevata
verso la testa. Guardandola, provò lo stesso indicibile senso
di lontananza che gli dava da viva. Sei troppo perfetta.
Troppo giovane, le disse. Avrei dovuto lasciarti libera.
Stronzate, replicò lei dolcemente, e Justin si sentì molto
meglio.
Scendendo in cucina, al pianterreno, trovò un mucchio
di vecchie copie di 'Kenyan Standard', 'Africa Confidential',
'The Spectator' e 'Private Eye'. Le infilò nella borsa degli
spartiti di Tessa, tornò nell'ingresso, lanciò un'ultima
occhiata all'altarino improvvisato e alla borsa di vacchetta.
La lascio in un posto in cui la possano trovare facilmente,
nel caso non fossero soddisfatti del lavoro fatto stamattina
al ministero, le spiegò, e uscì. Fuori era buio e faceva molto
freddo. Gli ci vollero dieci minuti per arrivare al cinema. La
Sala Due era vuota per tre quarti. Non fece attenzione al
film. Dovette andare due volte nel bagno, con la cartella in
mano, per consultare l'orologio senza farsi vedere. Alle nove
meno cinque uscì dalla porta laterale e si trovò in una
traversa gelida. Un pulmino azzurro parcheggiato lo fissava
e per un attimo Justin immaginò, assurdamente, che fosse
il gippone verde di Marsabit. I fari lampeggiarono. Dietro il
volante era comodamente seduta una sagoma spigolosa con
un berretto da marinaio.
«Salga dietro» gli ordinò Rob.
Justin andò verso il retro del veicolo e vide che la
portiera era già aperta e Lesley che allungava un braccio per
prendere la cartella. Sedendosi su una panca di legno nel
buio più fitto, Justin si ritrovò a Muthaiga, sul furgone
Volkswagen, con Livingstone al volante e Woodrow seduto
di fronte che gli dava ordini.
«La stiamo seguendo, Justin» gli spiegò Lesley. Il tono
nell'oscurità era urgente, ma misteriosamente scoraggiato.
Come se avesse subito una grave perdita. «La squadra di
sorveglianza l'ha seguita fino al cinema e noi ne facciamo
parte. Stiamo controllando l'uscita laterale in caso lei decida
di passare di lì. C'è sempre la possibilità che la preda si
annoi ed esca prima della fine dello spettacolo. Come ha
fatto lei. Ed è quello che riferiremo alla Centrale tra cinque
minuti. Da che parte è diretto?»
«Est.»
«Allora fermi un taxi e vada in direzione est. Noi
riferiremo il numero del taxi. Non la seguiremo per timore
che lei ci riconosca. C'è un'altra macchina che la aspetta
davanti al cinema, più una di riserva in King's Road per
eventuali emergenze. Se decide di andare a piedi o di
prendere la metropolitana, le metteranno alle calcagna due
persone a piedi. Se sceglie l'autobus, saranno contenti
perché nel traffico di Londra non c'è niente di più facile che
rimanere bloccati dietro un autobus. Se entra in una cabina
e fa una telefonata, ascolteranno quello che dice. Hanno
l'autorizzazione del ministero degli Interni, che vale da
qualsiasi telefono lei chiami.»
«Perché?» domandò Justin.
Si stava abituando alla poca luce. Rob aveva posato un
braccio sullo schienale e si era girato all'indietro,
intervenendo nella conversazione con un modo di fare
servile quanto quello di Lesley, ma più ostile.
«Perché ci ha raccontato un sacco di balle» disse.
Lesley stava trasferendo i giornali dalla cartella di Tessa
a un sacchetto di plastica. Ai suoi piedi c'era una pila di
grosse buste, forse una decina. Cominciò a infilarle nella
cartella degli spartiti.
«Non capisco» disse Justin.
«Be', faccia uno sforzo» gli consigliò Rob. «Abbiamo
ordini precisi, chiaro? Noi riferiamo al signor Gridley tutto
quello che lei fa e qualcuno ai piani alti dice perché lo fa,
ma non a noi. Noi siamo la manovalanza.»
«Chi mi ha perquisito la casa?»
«A Nairobi o a Chelsea?» ribatté sardonico Rob.
«A Chelsea.»
«Non è compito nostro. Sappiamo solo che la squadra è
stata mobilitata per quattro ore durante la perquisizione.
Gridley ha messo un poliziotto in divisa sulla porta
nell'eventualità che qualcuno cercasse di intrufolarsi. Caso
mai, era incaricato di dirgli che stavamo indagando su un
furto nel palazzo e di smammare. Ammesso che fosse
veramente un poliziotto, cosa di cui dubito» aggiunse Rob.
«Ci hanno tolto il caso» disse Lesley. «Gridley ci
manderebbe a dirigere il traffico nelle isole Orkney, se
potesse, ma non osa.»
«E non solo il caso» aggiunse Rob. «Ci trattano come se
non esistessimo. Grazie a lei.»
«Non ci perde di vista un attimo» disse Lesley.
«Non ci lascia allontanare nemmeno per pisciare»
precisò Rob.
«Ha mandato altri due a Nairobi per aiutare la polizia
locale nelle ricerche di Bluhm. Stop» disse Lesley. «Basta
agitare le acque. Niente più divagazioni. Fine del discorso.»
«Niente killer a Marsabit, nessun rammarico per nere
moribonde e medici fantasma» rincarò Rob. «Testuali
parole del caro Gridley. E i nostri sostituti non sono
autorizzati a parlarci, per paura che siamo contagiosi. Sono
due idioti a un anno dalla pensione, come Gridley.»
«La situazione è delicatissima e lei c'è dentro» disse
Lesley chiudendo la fibbia della cartella, ma continuando a
tenersela sulle ginocchia. «Fino a che punto nessuno lo sa.
Gridley vuole sapere la storia della sua vita. Chi vede e
dove, chi viene a casa sua, a chi telefona, che cosa mangia e
con chi. Tutti i giorni. Lei è uno dei protagonisti di
un'operazione top-secret, non ci hanno detto altro.
Dobbiamo eseguire gli ordini e farci i fatti nostri.»
«Eravamo a Scotland Yard da dieci minuti e già urlava
che voleva tutti i quaderni, le cassette e le prove sulla
scrivania» raccontò Rob. «Così glieli abbiamo dati. Gli
originali, versione integrale. Dopo aver fatto delle copie,
ovviamente.»
«La premiata ditta ThreeBees non deve mai più essere
nominata, è un ordine» spiegò Lesley. «Prodotti, operazioni
e personale compresi. Nulla che agiti le acque. Amen.»
«Quali acque?»
«Faccia lei» intervenne Rob. «Non ha che l'imbarazzo
della scelta. Curtiss è intoccabile. Sta per concludere un
contratto per una colossale fornitura di armi britanniche ai
somali. Purtroppo per lui esiste un embargo, ma ha trovato
il modo di aggirarlo. È il favorito nella gara per
l'installazione di un avanzatissimo sistema di
telecomunicazioni nell'Africa orientale. Tecnologia
britannica.»
«E io rappresento un ostacolo a tutto questo?»
«Lei rappresenta un ostacolo, punto e basta» replicò
Rob invelenito. «Se lei non ci avesse fatto muro, li
avremmo stesi. Invece ci ritroviamo in mezzo a una strada,
di nuovo al punto di partenza.»
«Loro sono convinti che lei sappia quello che sapeva
Tessa, qualunque cosa fosse» gli spiegò Lesley. «E questo
potrebbe essere pericoloso per la sua salute.»
«Loro chi?»
Ma l'ira di Rob era incontenibile. «È stata una presa per
i fondelli fin dall'inizio, e lei lo sapeva. I Blue Boys se la
ridevano alle nostre spalle, e quei bastardi della ThreeBees
pure. Il suo amico e collega Woodrow ci ha mentito
spudoratamente. E lei anche. Lei era la nostra unica chance
e ci ha preso a calci nei denti.»
«Abbiamo una domanda da farle, Justin» intervenne
Lesley in tono poco meno amareggiato. «Almeno una
risposta diretta ce la deve. Ha un posto dove andare? Un
posto sicuro dove starsene a leggere in pace?
Preferibilmente all'estero?»
Justin tergiversò. «Che cosa succederà quando tornerò a
Chelsea e spegnerò la luce in camera da letto? Voi resterete
davanti a casa?»
«La squadra la accompagnerà fino al portone e si
accerterà che sia andato a letto. Quelli che la pedinano
dormiranno un paio d'ore, quelli che la ascoltano
resteranno attaccati al suo telefono. La squadra di
sorveglianza si ripresenterà domattina presto, pronta per
quando si sveglia. Il momento migliore per lei è tra l'una e
le quattro.»
«Sì, ho un posto dove andare» disse Justin dopo aver
riflettuto un attimo.
«Fantastico!» commentò Rob. «Noi invece no.»
«Se è all'estero, viaggi per terra e per mare» gli suggerì
Lesley. «Appena arriva, spezzi la catena. Prenda autobus di
campagna, treni locali. Si vesta in maniera anonima, si
faccia la barba tutti i giorni, non guardi la gente. Non
noleggi automobili, non metta piede su un aereo, nemmeno
per dei voli interni. Dicono che lei è ricco.»
«È vero.»
«Allora si porti un sacco di contanti. Non usi carte di
credito né traveller's cheque, non tocchi un cellulare. Non
faccia chiamate a carico del destinatario e non dica mai il
suo nome su una linea normale, altrimenti entreranno in
azione i computer. Rob le ha preparato un passaporto e un
tesserino della stampa inglese, del 'Telegraph'. Per trovare
una sua foto abbiamo dovuto telefonare al ministero degli
Esteri e dire che ci serviva per l'archivio. Rob ha amici in
posti dove non dovremmo averne, vero, Rob?» Nessuna
risposta. «Non sono perfetti perché gli amici di Rob non
avevano tempo, vero, Rob? Quindi non li usi per entrare o
uscire dall'Inghilterra, okay?»
«Sì» rispose Justin.
«Lei si chiama Peter Paul Atkinson, giornalista. E si
ricordi di non portare mai con sé due passaporti
contemporaneamente, qualsiasi cosa succeda.»
«Perché fate tutto questo?» chiese Justin.
«Che cosa le interessa?» ribatté furioso Rob dal buio.
«Avevamo un lavoro da svolgere, tutto qui. Non ci va di
averlo perso, così lo diamo a lei perché ne faccia quello che
vuole. Quando ci licenzieranno, magari di tanto in tanto ci
lascerà lavare le sue Rolls-Royce.»
«Forse lo facciamo per Tessa» disse Lesley mettendogli
in mano la cartella. «Ora vada, Justin. Non si è fidato di noi.
E magari aveva anche ragione. Ma se si fosse fidato,
avremmo concluso qualcosa. Di qualunque cosa si tratti.»
Allungò una mano in direzione della portiera. «Stia attento.
Quella è gente che non si fa scrupolo ad ammazzare. Ma di
questo si sarà già accorto.»
Justin si avviò e udì Rob che parlava al microfono.
Candy sta uscendo dal cinema. Ripeto, Candy sta uscendo
con la sua borsetta. La portiera del pulmino sbatté alle sue
spalle. Chiuso, pensò, rimosso. Camminò per un tratto.
Candy cerca un taxi, ed è un maschio.
Justin era in piedi davanti alla finestra a ghigliottina
dello studio di Ham ad ascoltare i rintocchi delle dieci che si
levavano sopra il ringhio notturno della città. Guardava giù
nella strada, tenendosi un po' indietro, in un punto da cui
vedeva facilmente, ma era più difficile essere visti. Sulla
scrivania era accesa una lampada bassa e Ham era seduto
comodamente in un angolo su una poltrona dallo schienale
alto, consumata da generazioni di clienti insoddisfatti. Dal
fiume si alzava una nebbiolina gelida che si condensava
sulle inferriate della cappella di Saint Ethelreda, teatro di
molte discussioni irrisolte tra Tessa e il Creatore. Un
tabellone verde illuminato informava i passanti che la
cappella era stata restituita all'Antica Fede dai padri
rosminiani. Confessioni, benedizioni e matrimoni su
appuntamento. A quell'ora tarda erano rari i fedeli che
andavano su e giù per le scale. Tessa non era fra loro. Sul
pavimento dello studio, posato sul vassoio di plastica che gli
aveva dato Ham, c'era il contenuto della borsa di vacchetta.
Sulla scrivania c'era la cartella degli spartiti di Tessa e,
accanto, ordinatamente raccolti in carpette con il nome
dello studio, le stampe, i fax, le fotocopie, gli appunti presi
al telefono, le cartoline e la corrispondenza che Ham aveva
intrattenuto con Tessa nell'ultimo anno.
«C'è un po' di casino, temo» confessò imbarazzato.
«Non trovo più le sue ultime e-mail.»
«Non le trovi più?»
«Ne le sue né quelle di nessun altro, per la verità. Un
virus mi ha mangiato la casella di posta elettronica e mezzo
disco fisso, il bastardo. Il tecnico ci sta ancora lavorando.
Appena le recupera, te le faccio avere.»
Avevano parlato di Tessa, poi di Meg, poi di cricket, a cui
era riservata una parte del grande cuore di Ham. Justin non
era appassionato di cricket, ma aveva fatto del suo meglio
per sembrare entusiasta. Nella penombra incombeva un
poster di Firenze tutto macchiato.
«Hai ancora quel comodo corriere che va e viene da
Torino tutte le settimane, Ham?» si informò Justin.
«Certo. La ditta è stata rilevata, naturalmente. Ormai
non scampa più nessuno. Sono sempre gli stessi, ma fanno
più casini.»
«E usi ancora quelle belle cappelliere di cuoio con il
nome dello studio che ho visto nella cassaforte
stamattina?»
«Saranno l'ultima cosa a sparire, finché comando io.»
Justin strizzò gli occhi per guardare meglio nella strada
male illuminata. Erano ancora lì: una donna grande e
grossa con un cappottone e un uomo segaligno con le
gambe storte come un fantino appena sceso di sella, un
cappello floscio e una giacca a vento con il bavero tirato fin
sul naso. Studiavano il cartellone di Saint Ethelreda da
almeno dieci minuti, malgrado ciò che poteva dire loro in
una gelida notte di febbraio si potesse mandare a memoria
in dieci secondi. In fondo, a volte, anche in un paese civile
si può essere sicuri.
«Racconta, Ham.»
«Tutto quello che vuoi.»
«In Italia Tessa aveva dei liquidi?»
«A palate. Vuoi vedere gli estratti conto?»
«Non importa. Adesso sono miei?»
«Lo sono sempre stati. Avevate conti cointestati, non ti
ricordi? Quel che è mio è suo, diceva. Avevo cercato di
dissuaderla, ma lei mi aveva mandato a quel paese. Un
classico.»
«Allora il tuo socio di Torino potrebbe mandarmene un
po' in qualche banca, giusto? Se fossi all'estero, per
esempio.»
«Senza problemi.»
«A me o anche a un'altra persona che decido io. Purché
faccia vedere il passaporto.»
«I quattrini sono tuoi, amico. E ne fai quello che vuoi.
Goditeli, l'importante è questo.»
Il fantino appena sceso di sella aveva voltato le spalle al
tabellone e fingeva di osservare le stelle. Il donnone
guadava l'ora. Justin ricordò di nuovo il noiosissimo
istruttore del corso sulla sicurezza. Gli osservatori sono
attori. La cosa più difficile per loro è non fare niente.
«C'è un mio amico, Ham. Non te ne ho mai parlato. Si
chiama Peter Paul Atkinson. Ha la mia totale fiducia.»
«Avvocato?»
«Ma no, ho già te. È un giornalista del 'Daily Telegraph'.
Un vecchio amico dell'università. Voglio dargli una procura
generale. Se tu o il tuo ufficio di Torino doveste mai
ricevere istruzioni da lui, vorrei che vi comportaste
esattamente come se venissero da me.»
Ham si schiarì la voce e si grattò la punta del naso. «Non
è così semplice, Justin. Una procura non si fa con un colpo
di bacchetta magica, cazzo. Bisogna avere la sua firma, i
suoi dati, eccetera. Ci vuole un'autorizzazione ufficiale da
parte tua, autenticata, probabilmente.»
Justin andò verso la poltrona dove era seduto Ham e gli
porse il passaporto di Atkinson perché lo guardasse.
«Forse puoi prendere i dati da qui» suggerì.
Ham guardò prima la foto e, apparentemente senza
cambiare espressione, la confrontò con il volto di Justin.
Poi la guardò di nuovo, lesse i dati e sfogliò le pagine piene
di timbri.
«Ha viaggiato parecchio, il tuo amico» commentò
flemmatico.
«E viaggerà ancora di più, credo.»
«Mi occorre una firma. Non posso fare niente senza la
firma.»
«Aspetta un attimo e la avrai.»
Ham si alzò e, restituendogli il documento, andò
lentamente alla scrivania. Aprì un cassetto, tirò fuori un
paio di moduli dall'aria ufficiale e dei fogli bianchi. Justin
posò il passaporto aperto vicino alla lampada e, sotto gli
occhi di Ham che guardava poco discretamente da dietro le
sue spalle, fece alcune prove prima di dare mandato a Peter
Paul Atkinson, domiciliato presso lo studio Hammond
Manzini di Londra e Torino, di gestire i propri affari.
«Bisogna che sia autenticata» disse Ham. «Ci penso io.»
«C'è ancora una cosa, se non ti dispiace.»
«Cristo.»
«Avrò bisogno di scriverti.»
«Quando vuoi, Justin. Sarò felice di mantenermi in
contatto con te.»
«Ma non qui. Non in Inghilterra. E nemmeno allo
studio di Torino, se non ti dispiace. Se ben ricordo hai uno
sciame di zie italiane. Non potresti chiedere a una di loro di
farti da casella postale? Quando passi da lei, ritiri la posta.»
«Ci sarebbe una vecchia strega che abita a Milano»
rispose Ham rabbrividendo.
«Una vecchia strega a Milano è proprio quello che ci
serve. Potresti darmi il suo indirizzo?»
"Cara Alison,
ti sono molto grato per gli accorti suggerimenti che mi
hai dato durante il colloquio di stamattina. Il ministero ha
sempre mostrato il suo volto umano nei momenti critici e
oggi lo ha confermato. Ho riflettuto su ciò che mi hai
proposto e ho parlato a lungo con gli avvocati di Tessa. A
quanto pare negli ultimi mesi i suoi interessi sono stati
trascurati e urge il mio intervento. Ci sono questioni fiscali
e di domicilio da risolvere, per non parlare della
destinazione delle sue proprietà sia qui sia all'estero. Ho
deciso pertanto di occuparmi prima di tutto di questo e
credo che non mi dispiacerà.
Spero quindi che mi concederai una o due settimane di
tempo per pronunciarmi sulle tue proposte. Quanto al
congedo per malattia, non voglio approfittare
eccessivamente della benevolenza del ministero.
Quest'anno non ho preso ferie e, se non erro, mi spettano
cinque settimane di permesso per il rimpatrio oltre alle
normali ferie annuali. Preferirei utilizzare queste, prima di
ricorrere alla vostra generosità. Ancora grazie".
"Arnold, carissimo,
tu non mi credevi, quando dicevo che la K.V.H. gioca
sporco. Ho controllato. È vero. Due anni fa è stata
denunciata per aver inquinato mezza Florida, dove ha un
grande stabilimento, e se l'è cavata con una semplice
diffida. Prove incontestate presentate dai querelanti
dimostravano che aveva superato la soglia di legge per gli
scarichi tossici del novecento per cento, contaminando aree
protette, paludi, fiumi e spiagge e probabilmente anche il
latte. La K.V.H. ha prodotto gravi danni anche in India, dove
sembra che siano morti per cause analoghe duecento
bambini nella regione di Madras. La sentenza del tribunale
indiano competente verrà emessa tra quindici anni, se non
di più, ammesso naturalmente che la K.V.H. continui a
pagare le persone giuste. È famosa anche come promotrice
della campagna umanitaria lanciata dalle case
farmaceutiche per allungare la durata dei brevetti
nell'interesse di miliardari bianchi sofferenti. Buonanotte,
tesoro. Non dubitare mai più di quello che dico. Sono
immacolata. E tu anche. T."
P.S.: Ghita dice che sono una 'troia' ma, siccome sbaglia
la pronuncia, in bocca a lei suona un po' come gioia.
Baci, Tess (bella gioia)"
APPENDICE A
"D: Ha mai assistito o accompagnato Tessa Quayle nelle
sue spedizioni?
R: A volte, nel week-end o fuori dal mio orario di lavoro,
ho accompagnato Arnold e Tessa nello slum di Kibera e nel
Nord, per prestare assistenza nei dispensari e presenziare
alla somministrazione di farmaci. È di questo che si occupa
la ONG di Arnold. Alcuni dei farmaci che Arnold controllava
erano scaduti da tempo e avevano perso gran parte della
loro efficacia. Altri non erano indicati per i disturbi da
curare. Abbiamo avuto conferma di quello che succede
comunemente in altre parti dell'Africa e cioè che sulle
confezioni destinate al Terzo Mondo indicazioni e
controindicazioni vengono modificate in maniera da
ampliarne il raggio rispetto a quello permesso dalla legge in
Occidente. Per esempio, un analgesico che in Europa o negli
Stati Uniti viene somministrato solo ai malati terminali può
essere prescritto per dolori mestruali o articolari di lieve
entità. Non vengono fornite controindicazioni. Abbiamo
anche riscontrato che persino quando la diagnosi dei medici
africani era corretta, la terapia prescritta era sbagliata
proprio perché le istruzioni erano inaffidabili.
D: La ThreeBees è uno dei distributori a cui si riferisce?
R: Tutti sanno che l'Africa è la pattumiera delle case
farmaceutiche del mondo e la ThreeBees è uno dei più
grossi distributori di prodotti farmaceutici dell'Africa.
D: Dunque si riferisce anche alla ThreeBees?
R: In certi casi era la ThreeBees a distribuire i farmaci a
cui mi riferivo.
D: Colpevole, quindi?
R: Se vuole.
D: In quanti casi? In quale proporzione?
R: (Dopo molta insistenza) In tutti.
D: Può ripetere, per cortesia? Sta dicendo che in tutti i
casi in cui avete riscontrato problemi con un farmaco, a
distribuirlo era la ThreeBees?
R: Non penso che dovrei dire queste cose, se Arnold è
ancora vivo".
APPENDICE B
"D: C'è un prodotto specifico di cui Arnold e Tessa si
occupavano con particolare attenzione, che lei ricordi?
R: Non è giusto. Non è possibile.
D: Ghita. Stiamo cercando di capire perché è stata uccisa
Tessa Quayle e per quale motivo lei ritiene che parlare di
queste cose sia pericoloso per Arnold.
R: Era dappertutto.
D: Che cosa? Ghita, perché piange?
R: Li sterminava. Nei villaggi, nelle bidonville... Arnold
ne era certo. Come farmaco era buono, diceva. In cinque
anni potevano metterlo a punto. Sul principio di fondo non
aveva niente da ridire: era a effetto rapido, poco costoso e
facile da prendere. Ma avevano avuto troppa fretta. I test
erano stati selettivi e non avevano coperto tutti gli effetti
collaterali. Avevano fatto prove su cavie gravide, topi,
scimmie, conigli e cani, senza alcun problema. Ne era sorto
qualcuno quando avevano cominciato a sperimentarlo
sull'uomo, ma succede sempre. È la zona d'ombra di cui
approfittano le case farmaceutiche. L'importante sono le
statistiche e le statistiche dimostrano quello che gli si vuole
far dimostrare. Arnold era convinto che l'avessero fatto per
battere sul tempo la concorrenza. Le leggi e le normative
sono tali e tante che non dovrebbe essere possibile, ma
Arnold diceva che invece lo era, eccome. Un conto è
starsene seduti in un bell'ufficio delle Nazioni Unite a
Ginevra, un conto è essere sul campo.
D: Chi era la casa produttrice?
R: Preferisco non rispondere.
D: Come si chiamava il farmaco?
R: Perché non l'hanno testato con maggiore attenzione?
Non è colpa dei kenioti. Nel Terzo Mondo non si può
chiedere, bisogna prendere quello che ti danno.
D: Era il Dypraxa?
R: (Incomprensibile)
D: Ghita, per favore, si calmi e ci risponda. Come si
chiama questo farmaco, a che cosa serve e chi lo produce?
R: In Africa ci sono l'ottantacinque per cento dei casi di
AIDS del mondo, lo sapevate? Quanti di questi malati
hanno accesso alle cure? L'uno per cento! Non è più un
problema umano, è un problema economico! Questa gente
non è in grado di lavorare. La malattia annienta uomini e
donne, perché qui colpisce gli eterosessuali, motivo per cui
ci sono tanti orfani in giro. Questa gente non è in grado di
dare da mangiare ai figli, di fare assolutamente niente.
Muore e basta!
D: Dunque quello a cui si riferisce è un farmaco contro
l'AIDS?
R: Finché Arnold è vivo non dico niente! Diciamo che è
collegato. Dove c'è la tubercolosi, si sospetta l'AIDS... Non
sempre, ma di solito... O almeno così diceva Arnold.
D: I disturbi di Wanza derivavano da questo farmaco?
R: (Incomprensibile)
D: Wanza è morta a causa di questo farmaco?
R: Finché Arnold è vivo non voglio parlare! Sì, Dypraxa.
Adesso basta, andate via.
D: Perché stavano andando da Leakey?
R: Non lo so! Andate via!
D: Che cosa c'era dietro quel viaggio a Lokichokio? A
parte il seminario sulla presa di coscienza dei ruoli
sessuali?
R: Niente! Basta!
D: Chi è Lorbeer?
R: (Incomprensibile)
RACCOMANDAZIONE
Si richiede formalmente all'Alto Commissariato di
offrire protezione alla testimone in cambio della sua piena
collaborazione. Alla teste dev'essere garantito che qualsiasi
informazione da lei fornita riguardo alle attività di Bluhm e
della defunta Tessa Quayle non verrà utilizzata in maniera
che possa nuocere a Bluhm, supposto che sia ancora vivo.
RIASSUNTO DELL'INCONTRO
"1. Scuse per conto di Sir Kenneth K. Curtiss e della
dottoressa Y. Rampuri.
2. Cordoglio espresso dalla B.B.B. (Crick) per la morte di
Tessa Quayle e viva preoccupazione per la sorte del Dott.
Arnold Bluhm.
B.B.B. (Crick): Questo maledetto paese sta diventando
sempre più pericoloso. Questa storia della signora Quayle è
davvero spaventosa. Era una donna in gamba, si era fatta
un'ottima reputazione qui a Nairobi. In che cosa possiamo
aiutarvi, signori ispettori? Di qualsiasi cosa abbiate bisogno,
non avete che da chiedere. Il presidente vi manda i suoi
saluti e ci ha chiesto di darvi la massima disponibilità.
Nutre grande rispetto per Scotland Yard.
ISPETTORE: Ci risulta che Arnold Bluhm e Tessa
Quayle avessero interpellato ripetutamente la ThreeBees
riguardo a un nuovo farmaco contro la T.B.C. da essa
commercializzato: il Dypraxa.
B.B.B. (Crick): Davvero? Controlleremo. Vedete, la
signora Eber si occupa più che altro di pubbliche relazioni e
io le sono stato affiancato solo temporaneamente in seguito
a una ristrutturazione interna ancora in corso. Il presidente
è convinto che a stare fermi si perda denaro.
ISPETTORE: Dopo questi primi contatti, la signora
Quayle e il dottor Bluhm furono ricevuti da alcuni vostri
rappresentanti. Avete un memorandum di quell'incontro o
altri documenti a esso relativi?
B.B.B. (Crick): Okay, ispettore. Non penso che ci siano
problemi. Siamo qui per aiutarvi. È solo che, quando dice
che la signora Quayle aveva interpellato la ThreeBees, non
saprebbe per caso precisarmi chi o quale ufficio? Perché c'è
più gente alla ThreeBees che api in un alveare, mi creda!
ISPETTORE: La signora Quayle spedì lettere ed e-mail e
telefonò personalmente a Sir Kenneth, al suo ufficio
privato, alla dottoressa Rampuri e a tutti i membri del
consiglio di amministrazione di Nairobi. Ha mandato le
lettere via fax e ha spedito una copia cartacea delle e-mail
anche per posta. Altre le ha recapitate a mano.
B.B.B. (Crick): Ho capito. Bene. Così dovremmo riuscire
a rintracciarle. Immagino che voi abbiate copia della
corrispondenza.
ISPETTORE: Al momento no.
B.B.B. (Crick): Ma sapete da chi furono ricevuti,
immagino.
ISPETTORE: Pensavamo che lo sapeste voi.
B.B.B. (Crick): Che disdetta. Dunque che cosa avete in
mano?
ISPETTORE: Testimonianze scritte e orali che attestano
che foste interpellati dalla signora Quayle, la quale andò
persino a trovare Sir Kenneth nella sua casa sul lago,
l'ultima volta che venne a Nairobi.
B.B.B. (Crick): Davvero? Non ne sapevo niente, devo
dire. L'aveva invitata lui?
ISPETTORE: No.
B.B.B. (Crick): E chi, allora?
ISPETTORE: Nessuno. Si presentò senza invito.
B.B.B. (Crick): Però, che fegato. E fin dove arrivò?
ISPETTORE: Non abbastanza vicino, a quanto sembra,
visto che poco tempo dopo tentò di incontrare Sir Kenneth
qui in sede. Senza riuscirci, peraltro.
B.B.B. (Crick): Sono stupefatto. Be', sì, il presidente ha
molte api che gli ronzano intorno, se mi permette la
battuta. Gente che gli chiede favori, sa? E solo pochissimi
riescono a farsi ricevere.
ISPETTORE: Qui non si trattava di favori.
B.B.B. (Crick): E di cosa?
ISPETTORE: Risposte. A quanto ci risulta, la signora
Quayle presentò a Sir Kenneth una serie di casi clinici che
descrivevano gli effetti collaterali del farmaco su pazienti
conosciuti.
B.B.B. (Crick): Davvero? Ma non mi dica. Non sapevo
che avesse effetti collaterali. La signora è medico? Ha
conoscenze scientifiche? 'Aveva' dovrei dire.
ISPETTORE: Era un cittadino preoccupato, un avvocato,
una persona socialmente impegnata. Si occupava di diritti
civili e aiuti umanitari.
B.B.B. (Crick): Quando parla di 'presentare', che cosa
intende esattamente?
ISPETTORE: La signora Quayle li consegnò "brevi
manu" in questi uffici, all'attenzione di Sir Kenneth.
B.B.B. (Crick): Con tanto di ricevuta?
ISPETTORE: (Gliela mostra)
B.B.B. (Crick): Sì, certo, questo dimostra che consegnò
un plico. Il problema è che cosa c'era dentro. Tuttavia
immagino che voi ne abbiate copia, no? Una serie di casi
clinici... Dovete avercela per forza.
ISPETTORE: Li stiamo aspettando da un momento
all'altro.
B.B.B. (Crick): Sul serio? Bene, perché sarebbe
interessante dare un'occhiata a questi documenti, vero, Viv?
Vedete, il Dypraxa è la nostra ammiraglia, come dice il
presidente. Abbiamo tolto una preoccupazione a un sacco di
genitori e di figli, con quel farmaco. Se però la signora
Quayle aveva qualcosa da ridire sul Dypraxa, è meglio che
lo sappiamo, per porvi rimedio, nel caso. Se il presidente
fosse qui, sono certo che sarebbe il primo a dirlo. Purtroppo
è uno che vive a bordo del suo Gulfstream. Comunque mi
sorprende che non l'abbia voluta ricevere. Non è da lui.
Probabilmente sarà stato troppo impegnato. Perché...
B.B.B. (Eber): Esiste una procedura standard per i
reclami da parte dei clienti riguardo ai prodotti
farmaceutici, vedete. Noi siamo solo i distributori.
Importiamo farmaci e li distribuiamo. Se c'è
l'autorizzazione del governo keniota, naturalmente, e se i
centri medici li usano volentieri. Agiamo unicamente come
intermediari, capite? La nostra responsabilità finisce qui.
Rispondiamo delle condizioni di stoccaggio, questo sì:
temperatura, umidità e via dicendo, ma di tutto il resto
rispondono il produttore e il governo keniota.
ISPETTORE: Che cosa mi può dire delle
sperimentazioni cliniche? Non dovreste farvene carico voi?
B.B.B. (Crick): No, no. Lei non è bene informato su
questo punto, Rob. Non se parliamo di una
sperimentazione strutturata, in doppio cieco, e così via.
ISPETTORE: E allora di che cosa parliamo?
B.B.B. (Crick): Non si sperimenta un farmaco quando è
già commercializzato in un determinato paese come, in
questo caso, il Kenya. Non si fa. Una volta che un farmaco
viene distribuito in un paese con l'appoggio totale del
ministro della Sanità, ormai è fatta.
ISPETTORE: Allora quali sperimentazioni, quali test,
quali prove conducete, se ne conducete?
B.B.B. (Crick): Senta, moderi il tono, okay? Se parliamo
di confermare i risultati di un farmaco valido come questo,
in vista della distribuzione in un altro paese importante –
fuori dal mercato africano – per esempio gli Stati Uniti,
okay, allora è vero che indirettamente quello che stiamo
facendo qui può chiamarsi sperimentazione. In quel senso
soltanto, però. Nel senso della preparazione a eventuali
sviluppi futuri, cioè al momento in cui la ThreeBees e la
K.V.H. entreranno nel nuovo mercato cui alludevo. Mi
segue?
ISPETTORE: Non proprio. Stavo aspettando la parola
'cavia'.
B.B.B. (Crick): Quello che posso dirle è che,
nell'interesse di tutte le parti in causa, per certi versi ogni
paziente rappresenta un esperimento a vantaggio di un
bene più grande. Non stiamo parlando di cavie. Lasci
perdere.
ISPETTORE: E per 'bene più grande' lei intende il
mercato americano?
B.B.B. (Crick): Ma non diciamo stronzate! Senta, quello
che ho detto è che ogni risultato, ogni volta che registriamo
un dato o un paziente, teniamo e analizziamo tutto a
Seattle, Vancouver e Basilea. Per il futuro. Per la futura
validazione del prodotto nel caso volessimo registrarlo
altrove. In maniera da garantire la massima sicurezza. Per
di più il ministero della Sanità keniota è dalla nostra parte.
ISPETTORE: Nel senso che vi dà una mano a far sparire
i cadaveri?
P. R. OAKEY: Rob, lei non ha mai detto una cosa simile.
Noi non abbiamo sentito nulla. Doug è stato molto sincero
e disponibile nel fornirvi informazioni. Forse fin troppo
disponibile. Lei non crede, Lesley?
ISPETTORE: Dunque che cosa ne fate dei reclami? Li
cestinate?
B.B.B. (Crick): Nella maggior parte dei casi, Lesley, li
inoltriamo direttamente alla casa madre, la Karel Vita
Hudson. E poi o rispondiamo a chi ha sporto il reclamo
secondo le linee guida suggeriteci dalla K.V.H., oppure
risponde la K.V.H. direttamente. A ognuno il suo mestiere.
Le cose stanno così, Rob. Possiamo fare altro per voi?
Volete che ci rivediamo quando avrete la documentazione?
ISPETTORE: Ancora un minuto, se non vi dispiace. A
quanto ci risulta, Tessa Quayle e il dottor Arnold Bluhm
vennero personalmente qui nel novembre scorso, su vostro
invito, su invito della ThreeBees, intendo, per parlare degli
effetti, positivi o negativi, del Dypraxa. Consegnarono a
vostri rappresentanti i casi clinici che avevano
precedentemente inviato a Sir Kenneth Curtiss. Secondo lei
non esiste materiale relativo a quell'incontro, nemmeno i
nominativi dei vostri rappresentanti che vi parteciparono?
B.B.B. (Crick): Mi sa dire la data precisa, Rob?
ISPETTORE: Da un'agenda risulta che la ThreeBees
aveva convocato la signora Quayle e il dottor Bluhm il 18
novembre alle ore 11.00. L'appuntamento era stato fissato
tramite l'ufficio della dottoressa Rampuri, il vostro direttore
marketing, che al momento pare sia assente per motivi di
famiglia.
B.B.B. (Crick): Non ne sapevo niente, a dire la verità. E
tu, Viv?
B.B.B. (Eber): Neanch'io, Doug.
B.B.B. (Crick): Aspettate. Potrei guardare sull'agenda di
Yvonne.
ISPETTORE: Buona idea. Le diamo una mano.
B.B.B. (Crick): Un attimo di pazienza, vi prego. Prima
bisogna che Yvonne mi autorizzi, naturalmente. È una
donna che non scherza. Non andrei mai a spulciare nella
sua agenda senza il suo okay. Come non verrei a spulciare
nella sua, Lesley.
ISPETTORE: La chiami, per favore. Le dica che siamo
stati noi a insistere.
B.B.B. (Crick): Non posso, Rob.
ISPETTORE: Perché?
B.B.B. (Crick): Perché vede, Rob, Yvonne è andata a un
matrimonio molto importante con il suo fidanzato. A
Mombasa. Sono questi i motivi di famiglia, capite? Ed è una
donna piuttosto irascibile, ve lo dico io. Immagino che se va
bene potremo contattarla lunedì. Non so se vi è mai
capitato di andare a un matrimonio a Mombasa, ma vi
assicuro che...
ISPETTORE: Lasciamo perdere l'agenda. Dove sono i
documenti che le hanno consegnato?
B.B.B. (Crick): L'elenco dei casi clinici, intende?
ISPETTORE: Fra le altre cose.
B.B.B. (Crick): Be', per i casi clinici e la discussione
tecnica di sintomi, indicazioni e posologia – gli effetti
collaterali – come dicevamo poc'anzi, Rob, bisogna
rivolgersi al produttore. Cioè a Basilea, o a Seattle, o a
Vancouver. Insomma, è un casino. Saremmo dei 'criminali'
se non sottoponessimo immediatamente dati di questo
genere ai nostri esperti. Degli 'irresponsabili'. Vero, Viv?
Non si tratta solo di politica aziendale: qui alla ThreeBees è
il Vangelo. No?
B.B.B. (Eber): Certamente. Non c'è alcun dubbio, Doug.
È il presidente che vuole così. Appena sorge il minimo
problema, si chiama la K.V.H.
ISPETTORE: Mi state dicendo che non avete un
archivio? Ma è incredibile, ve ne rendete conto?
B.B.B. (Crick): Le stiamo dicendo che abbiamo capito le
vostre esigenze e vedremo di fare qualcosa per recuperare
questo materiale. Questo non è un ufficio pubblico, Rob, e
neanche Scotland Yard. Siamo in Africa, perdio! Non
passiamo il tempo ad archiviare scartoffie, anche perché
abbiamo un sacco di altre cose da fare e...
P. R. OAKEY: Vorrei fare due precisazioni, se
permettete. Anzi, tre. Posso prenderle in esame una per
una? Prima di tutto vorrei sapere se siete proprio certi che
questo incontro fra la signora Quayle, il dottor Bluhm e i
rappresentanti della ThreeBees sia effettivamente
avvenuto.
ISPETTORE: Come ho già detto, abbiamo una prova
documentaria, scritta di pugno di Bluhm. Sulla sua agenda è
segnato l'appuntamento, fissato tramite l'ufficio della
dottoressa Rampuri per il 18 novembre.
P. R. OAKEY: Un conto è prendere un appuntamento e
un altro è rispettarlo, Rob. Speriamo che la dottoressa
Rampuri abbia buona memoria. Riceve moltissima gente.
Vi pare? Poi vorrei chiarire se, a quanto vi risulta, questi
presunti casi clinici cui fate riferimento erano di tono
oppositivo. È possibile che ci fosse nell'aria una minaccia di
denuncia? Da viva, mi risulta che la signora Quayle fosse
una donna senza peli sulla lingua, dico bene? E in più era
avvocato. Pare inoltre che il dottor Bluhm avesse compiti di
sorveglianza sull'industria farmaceutica. Non stiamo
parlando di persone impreparate.
ISPETTORE: E anche se il loro intento fosse stato
battagliero? Se un farmaco uccide, la gente ha diritto di
essere battagliera.
P. R. OAKEY: Be', evidentemente, Rob, se la dottoressa
Rampuri aveva intuito che c'era qualcosa di simile nell'aria,
o peggio ancora, se lo aveva intuito il presidente, tanto più
se aveva ricevuto del materiale scritto, il che è ancora tutto
da vedere, la loro prima reazione sarebbe stata dirottarli agli
avvocati della società. Dovremmo controllare anche lì.
Giusto, Doug?
ISPETTORE: Credevo che fosse lei l'avvocato della
società.
P. R. OAKEY: (Scherzoso) Sono l'ultima risorsa, Rob.
Non la prima. Io costo troppo.
B.B.B. (Crick): Le faremo sapere qualcosa, Rob. È stato
un piacere. La prossima volta, vediamoci a pranzo. Le
consiglio di non farci troppo affidamento, comunque. Noi
non passiamo il tempo ad archiviare documenti. Abbiamo
molta carne al fuoco e, come dice sempre il presidente,
siamo dei duri. È così che siamo diventati quello che siamo.
ISPETTORE: Se potete concedermi ancora un minuto
per favore, signor Crick, desidereremmo parlare con il
signor, o dottor, Lorbeer, di origine tedesca, svizzera o forse
olandese. Purtroppo non conosciamo il nome di battesimo,
ma ci risulta che abbia contribuito alla diffusione del
Dypraxa qui in Africa.
B.B.B. (Crick): Da che parte sta, Lesley?
ISPETTORE: Ha importanza?
B.B.B. (Crick): Be', sì. Se Lorbeer è un medico, come voi
ritenete, è alquanto probabile che lavori per la casa
produttrice, piuttosto che per noi. La ThreeBees non ha
molti rapporti con i medici. Noi non siamo specialisti, ci
occupiamo della parte commerciale, delle vendite. Quindi
penso che le converrebbe rivolgersi alla K.V.H. anche per
questo, Les.
ISPETTORE: Senta, mi dica soltanto se lo conosce o no.
Non siamo né a Vancouver, né a Basilea, né a Seattle. Siamo
in Africa. Questo è un farmaco che commercializzate voi,
nella vostra zona. Lo importate, lo pubblicizzate, lo
distribuite e lo vendete. Vi diciamo che questo Lorbeer ha
avuto molto a che fare con il vostro farmaco qui in Africa.
L'avete sentito nominare o no?
P. R. OAKEY: Credo che abbiate già avuto la risposta,
Rob. Rivolgetevi ai produttori.
ISPETTORE: E una certa Kovacs, probabilmente
ungherese?
B.B.B. (Crick): Anche lei medico?
ISPETTORE: L'ha già sentita nominare? Lasci perdere
se è medico o no. Avete mai sentito parlare di una certa
Kovacs? Nel contesto della commercializzazione di questo
farmaco?
B.B.B. (Crick): Fossi in lei, Rob, cercherei sull'elenco del
telefono.
ISPETTORE: Vorremmo parlare anche con la dottoressa
Emrich, che...
P. R. OAKEY: Sembra proprio che abbiate fatto un buco
nell'acqua, ispettori. Mi dispiace di non potervi essere di
maggiore aiuto. Abbiamo cercato di venirvi incontro in ogni
modo, ma purtroppo non è giornata".
FARMA
generalità
contaminazione
terzo mondo
enti di controllo
corruzione
azioni legali
contanti
protesta
ipocrisia
trial
menzogne
coperture
MORBO
storia
Kenya
terapie
novità
roba vecchia
ciarlatani
SPERIMENTAZIONE
Russia
Polonia
Kenya
Messico
Germania
Mortalità conosciuta
Wanza
A Mombasa?
O a Lamu, trecento chilometri più a nord, lungo la
costa?
Justin tornò al tavolo e questa volta scelse il rapporto
scritto da Lesley su BLUHM, ARNOLD MOISE, MEDICO,
PRESUNTA VITTIMA O ASSASSINO. Nessuno scandalo,
nessun matrimonio, nessuna relazione nota, nessuna
convivenza "more uxorio" accertata. Ad Algeri aveva vissuto
in un ostello per giovani medici di entrambi i sessi, in una
stanza singola. Presso la sua ONG non risultava nessun
partner. Il parente più prossimo era la sorellastra belga,
residente a Bruges. Arnold non aveva mai richiesto rimborsi
spese altro che per sé, assegni familiari o alloggi per più di
una persona. Il suo appartamento razziato di Nairobi era
definito da Lesley «casto e monacale». Bluhm ci abitava da
solo e non aveva domestici. «Conduceva una vita priva di
qualsiasi comfort, acqua calda compresa.»
Poscritto polemico:
"La T.B.C. uccide più madri di ogni altra malattia. In
Africa sono sempre le donne a pagare il prezzo. Wanza era
una cavia ed è diventata una vittima. Come interi villaggi di
Wanza".
"Caro Ham,
questa è la prima di quella che spero sarà una lunga
serie di lettere alla tua cara zietta. Non voglio sembrarti
lacrimoso ma se dovessi finire sotto un autobus, vorrei che
consegnassi personalmente tutti i documenti al più
implacabile e spietato fra i tuoi colleghi, lo pagassi
profumatamente e scatenassi un inferno. Così renderemo a
Tessa il favore più grande che possiamo farle. Tuo
Justin"
15.
"Cara Ghita,
non ho avuto modo di dirti quanto bene ti voleva Tessa e
quanto le piaceva stare con te. Ma lo sai anche tu. Grazie di
tutto ciò che le hai dato.
Vorrei chiederti una cosa, ma ti prego di farla solo se te
la senti. Se ti dovesse capitare di andare a Lokichokio,
vorrei che ti mettessi in contatto con un'amica di Tessa, una
sudanese di nome Sarah. Parla inglese ed è stata a servizio
presso una famiglia inglese durante il mandato britannico.
Forse lei potrebbe illuminarci sul vero motivo per cui Tessa
e Arnold sono andati a Loki. È solo una sensazione, ma con
il senno di poi mi sembra che fossero partiti con più
entusiasmo di quanto potesse giustificare un seminario
sulla presa di coscienza dei ruoli sessuali per le donne
sudanesi! Se è così, Sarah potrebbe sapere qualcosa.
Tessa praticamente non chiuse occhio la notte prima di
partire ed era straordinariamente commossa, persino per
una come lei, quando ci salutammo. Fu quello che Ovidio
chiama 'un addio definitivo' anche se credo che nessuno dei
due potesse prevedere che lo sarebbe stato veramente.
Allego un indirizzo in Italia a cui puoi scrivermi se ne avessi
occasione. Ma ti prego di non fare nulla più di quanto tu ti
senta di fare. Ancora grazie.
Con affetto
Justin"
'Vado a piedi.'
Si avviò, tenendosi al centro della strada, con un occhio
sui cespugli di rododendro sempre più scuri lungo il
marciapiede. Ogni cinquanta metri c'era un lampione.
Scrutava i tratti in ombra tra un cono di luce e l'altro. L'aria
della sera profumava di mele. Arrivato in fondo alla discesa
si avvicinò alla Mercedes ferma e passò a una decina di
metri dal cofano. Nell'abitacolo non c'erano luci accese.
Davanti erano seduti due uomini, ma a giudicare dalle
sagome immobili non erano gli stessi due che aveva visto
passare poco prima. Continuò a camminare e l'auto lo
superò. Justin la ignorò, ma ebbe la sensazione che gli
uomini non ignorassero lui. La Mercedes giunse a un
incrocio e svoltò a sinistra. Justin girò a destra, nella
direzione delle luci del centro. Passò un taxi e il tassista lo
invitò a salire.
«Grazie, grazie» gli gridò Justin cordialmente «ma
preferisco andare a piedi.»
Non ebbe risposta. Adesso era su un marciapiede, sul
bordo. Attraversò un altro incrocio e imboccò una via molto
illuminata. Seduti sui portoni c'erano ragazzi e ragazze dallo
sguardo vacuo; agli angoli uomini con il giubbotto di pelle,
che parlavano al cellulare. Attraversò altri due incroci e vide
l'albergo.
Nella hall c'era la solita, inevitabile confusione serale.
Era appena arrivata una delegazione di giapponesi, con i
flash che scattavano e i facchini che caricavano mucchi di
costose valigie nell'unico ascensore. Nel mettersi in coda,
Justin si tolse l'impermeabile e se lo piegò sul braccio,
coprendo con cura la busta di Birgit nella tasca interna.
Quando arrivò l'ascensore, si fece da parte per far passare
prima le signore. Fu l'unico a scendere al terzo piano. Lo
squallido corridoio con le luci giallastre gli ricordò l'Uhuru
Hospital. Da tutte le stanze proveniva il rumore del
televisore acceso. La sua era la trecentoundici. La chiave era
una scheda di plastica con una freccia nera stampata. Il
frastuono di tutti quei televisori accesi
contemporaneamente lo irritava moltissimo e gli fece
venire una gran voglia di reclamare. Come faccio a scrivere
a Ham con questo fracasso? Entrò nella camera, posò
l'impermeabile su una sedia e vide che il responsabile di
quel baccano era il suo televisore. Dovevano averlo acceso
le cameriere nel rifare la stanza ed essersi dimenticate di
spegnerlo prima di uscire. Andò verso l'apparecchio. Era
sintonizzato su uno di quei programmi che detestava in
modo particolare: un cantante semisvestito urlava a
squarciagola in un microfono per la delizia di un pubblico di
giovani in estasi, mentre sullo schermo scendeva della neve
illuminata.
E quella fu l'ultima cosa che vide quando si spensero le
luci: fiocchi di neve che cadevano davanti ai suoi occhi. Su
di lui calò la notte. Fu raggiunto da un pugno e si sentì
stringere alla gola. Mani sconosciute gli inchiodarono le
braccia lungo i fianchi, gli ficcarono in bocca un pezzo di
stoffa ruvida, gli afferrarono le ginocchia con una presa da
rugby. Le gambe gli cedettero e temette di aver avuto un
infarto. Questa teoria trovò conferma quando un secondo
pugno lo colpì allo stomaco togliendogli l'ultimo po' di fiato
che gli restava, perché provò a gridare e non successe nulla,
non aveva più voce né respiro e il bavaglio lo soffocava.
Sentì delle ginocchia che gli si appoggiavano sul petto,
qualcosa che gli si stringeva intorno al collo. Pensò a un
cappio e immaginò che stessero per impiccarlo. Ebbe una
lucida visione di Bluhm inchiodato a un albero. Sentì odore
di dopobarba e ripensò al profumo di Woodrow e a quando
aveva annusato la sua lettera d'amore per sentire se aveva
lo stesso odore. Per un rarissimo attimo Tessa fu assente
dalla sua memoria. Giaceva a terra sul fianco sinistro e la
stessa cosa che lo aveva colpito allo stomaco, di qualunque
cosa si trattasse, lo colpì con forza spaventosa all'inguine.
Lo avevano incappucciato, ma non ancora impiccato, ed era
sempre sdraiato sul fianco. Il bavaglio gli provocava dei
conati ma, non potendo uscire dalla bocca, il vomito gli
rifluiva in gola. Mani sconosciute lo girarono sulla schiena
e gli allargarono le braccia, mettendolo con le nocche sulla
moquette e i palmi all'insù. Vogliono crocifiggermi come
Arnold. Ma non lo stavano crocifiggendo, non ancora: gli
torcevano le mani e il dolore, alle braccia, al petto e alle
gambe e al ventre, era più terribile di quanto avesse mai
immaginato di poter provare. Vi prego, pensò, non la mano
destra, altrimenti come faccio a scrivere a Ham?
Evidentemente udirono la sua invocazione, perché il dolore
cessò e una voce di uomo con accento tedesco, forse di
Berlino, piuttosto colta, diede ordine di girare di nuovo il
porco su un fianco e di legargli i polsi dietro la schiena e
l'ordine venne eseguito.
«Signor Quayle, mi sente?»
Era la stessa voce, ma questa volta in inglese. Justin non
rispose. Non per maleducazione, ma perché era finalmente
riuscito a sputare il bavaglio e stava vomitando di nuovo, e
il vomito gli colava sul collo e nel cappuccio. Il rumore della
televisione si affievolì.
«Ora basta, signor Quayle. Deve smetterla, okay?
Altrimenti farà la fine di sua moglie. Ha sentito? Vuole
essere punito ancora, signor Quayle?»
Il secondo Quayle fu accompagnato da un altro terribile
calcio nei testicoli.
«Forse è diventato un po' sordo. Le lasciamo un
bigliettino, okay? Sul letto. Così, quando si sveglia, lo legge
e non si dimentica. Poi se ne torna in Inghilterra, capito?
Basta far domande, okay? Torni a casa e faccia il bravo. La
prossima volta la ammazziamo come Bluhm. Sarà una
morte lenta e dolorosa. Capito?»
Un ultimo calcio perché si mettesse bene in testa la
lezione, poi Justin sentì la porta che si chiudeva.
"Carissima Ghita,
il comandante McKenzie sta nel tucul Entebbe, che è il
numero quattordici dalla parte della pista di atterraggio.
Portati una torcia per quando si spengono i generatori. Ti
aspetta con piacere per le nove, dopo cena. È un
gentiluomo, quindi non temere. Ti prego di dargli questo
biglietto, così sarò sicura che verrà prudentemente
eliminato. Abbi cura di te e ricordati le tue responsabilità
per quanto riguarda la discrezione.
Sarah"
Ma era stata sua moglie a portarlo fin lì. Era stata lei a
liberargli le mani, a togliergli il cappuccio. Lei lo aveva
aiutato ad alzarsi in ginocchio e a raggiungere piano piano il
bagno. Con il suo incoraggiamento, Justin era riuscito a
tirarsi su, anche se non del tutto, appoggiandosi alla vasca
da bagno, ad aprire il rubinetto della doccia e a bagnarsi la
faccia, la camicia e il collo della giacca perché sapeva – era
stata lei a dirglielo – che se si fosse spogliato non ce
l'avrebbe più fatta a rivestirsi. La camicia era sporca di
vomito e anche la giacca era macchiata, ma era riuscito a
ripulirle alla bell'e meglio. Aveva sonno, ma lei non lo aveva
lasciato dormire. Aveva cercato di pettinarsi, ma non era
riuscito a distendere a sufficienza le braccia. Aveva la barba
di un giorno, ma doveva tenersela. Quando si era alzato in
piedi, aveva avuto un giramento di testa, ma per fortuna era
arrivato al letto senza cadere. Su consiglio di Tessa, mentre
giaceva in un seducente dormiveglia, aveva evitato di tirare
su il telefono e chiamare il concierge o chiedere assistenza
medica alla dottoressa Birgit. Non ti fidare di nessuno, gli
aveva raccomandato Tessa, e lui le aveva ubbidito. Aveva
aspettato che il mondo si raddrizzasse e poi si era alzato di
nuovo in piedi per appoggiarsi barcollando alla parete
opposta, grato delle dimensioni ridotte della stanza.
Aveva lasciato l'impermeabile su una sedia. C'era
ancora. Con sua sorpresa, c'era anche la busta che gli aveva
consegnato Birgit. Aveva aperto l'armadio e controllato la
cassaforte: era chiusa. Aveva composto la data del suo
matrimonio rischiando di svenire dal dolore a ogni cifra che
doveva inserire; la cassaforte si era aperta e Justin aveva
visto il passaporto di Peter Atkinson che dormiva beato al
suo interno. Con le mani doloranti, ma apparentemente
senza nessuna frattura, lo aveva preso e se lo era messo
nella tasca interna della giacca. Si era infilato con fatica
l'impermeabile e in qualche modo era riuscito ad
abbottonarlo, prima al collo e poi in vita. Avendo deciso di
viaggiare leggero, aveva solo una borsa a tracolla. I soldi
c'erano ancora. Aveva preso il necessaire per radersi dal
bagno e camicie e biancheria dal comò e li aveva gettati
nella borsa. Sopra aveva appoggiato la busta di Birgit e
quindi aveva chiuso la cerniera. Quando si era messo la
tracolla sulla spalla, aveva lanciato un grido di dolore.
L'orologio segnava le cinque del mattino e sembrava
funzionare. Era uscito prudentemente nel corridoio e,
appoggiandosi al muro, aveva raggiunto l'ascensore. Al
pianterreno aveva incontrato due donne in costume turco
che passavano un aspirapolvere industriale. L'anziano
portiere di notte sonnecchiava dietro il banco della
reception. Chissà come, Justin gli aveva dato il numero
della stanza e gli aveva chiesto il conto, poi si era infilato
una mano in tasca, aveva contato le banconote e gli aveva
lasciato una lauta mancia «con tanti auguri di Natale in
ritardo».
«Posso prenderne uno?» gli aveva domandato poi con
una voce a lui sconosciuta, indicando il portaombrelli di
ceramica accanto alla porta.
«Prego, prego. Quanti ne vuole» aveva risposto il
vecchio.
L'ombrello aveva un robusto manico di frassino che gli
arrivava all'altezza dei fianchi. Appoggiandovisi, aveva
attraversato la piazza vuota e raggiunto la stazione. Si era
fermato a prendere fiato prima di affrontare la scala che
portava nell'atrio e si era ritrovato a fianco il portiere
dell'albergo. Stupito, per un attimo aveva creduto che fosse
Tessa.
«Ce la fa?» gli aveva chiesto premuroso il vecchio.
«Sì.»
«Vuole che le faccia il biglietto?»
Justin si era voltato e gli aveva fatto cenno di prendere i
soldi dalla tasca. «Zurigo» aveva detto. «Solo andata.»
«Prima classe?»
«Certamente.»
La Svizzera era un sogno di bambino. Quarant'anni
prima i suoi genitori lo avevano portato in vacanza in
Engadina, dove avevano alloggiato in un bellissimo hotel in
un tratto di bosco fra due laghi. Non era cambiato niente.
Nemmeno il lucido parquet, i vetri colorati o la "chƒtelaine"
dal volto severo che gli aveva mostrato la camera. Dal
lettino sul balcone Justin osservò gli stessi laghi che
brillavano al sole del tramonto e lo stesso pescatore sulla
barca a remi nella nebbia. I giorni passarono senza che li
contasse, fra visite alle terme e il macabro rintocco del gong
che annunciava cene solitarie in mezzo a coppie di anziani
coniugi che chiacchieravano a bassa voce. In una stradina di
vecchi chalet un pallido dottore e la sua assistente gli
medicarono le ferite. «Ho avuto un incidente d'auto» spiegò
Justin. Il dottore aggrottò le sopracciglia e la sua giovane
assistente scoppiò a ridere.
La sera veniva convocato dal suo mondo interiore, come
sempre gli accadeva da quando Tessa era morta. Chino sullo
scrittoio intarsiato, nel bovindo, a scrivere pervicacemente a
Ham con la mano piena di lividi o a seguire i travagli di
Markus Lorbeer raccontati da Birgit per poi riprendere la
sua cronaca d'amore, Justin cominciava a provare un senso
di compiutezza. Se Lorbeer il penitente era nel deserto a
espiare la propria colpa nutrendosi di locuste e miele
selvatico, anche Justin era solo con il proprio destino. Ma
era risoluto. E, per certi oscuri versi, purificato. Non aveva
mai pensato che al termine della sua ricerca ci fosse un
lieto fine. Non era mai stato neppure sfiorato dall'idea che
potesse esserci un lieto fine. Fare propria la missione di
Tessa – imbracciare la sua bandiera e adottare il suo
coraggio – era già un obiettivo sufficiente per lui. Tessa era
stata testimone di una mostruosa ingiustizia e aveva preso
posizione contro di essa. Anche Justin l'aveva vista, benché
troppo tardi. E la battaglia di Tessa era diventata la sua.
Tuttavia, quando ricordava l'eterna notte del cappuccio
nero e l'odore del proprio vomito, quando passava in
rassegna i lividi che gli erano stati sistematicamente
procurati, le impronte ovali gialle e bluastre simili a note
musicali che aveva sul torace, sulla schiena e sulle cosce,
provava una comunanza diversa. Sono uno di voi. Non curo
più le rose mentre voi bisbigliate davanti a tazze di tè verde.
Non dovete più abbassare la voce quando mi avvicino. Sono
seduto a tavola con voi, dico anch'io di sì.
Il settimo giorno pagò il conto e, senza nemmeno
pensare a che cosa stava per fare, prese un pullman e un
treno alla volta di Basilea e della favolosa valle del Reno
dove i colossi farmaceutici hanno i loro castelli. E lì, da un
palazzo affrescato, spedì una grossa busta alla vecchia zia di
Ham a Milano.
E camminò. Aveva male dappertutto, ma camminò lo
stesso. Prima lungo una salita lastricata che conduceva al
centro storico con i suoi campanili, le antiche case, i
monumenti ai liberi pensatori e ai martiri dell'oppressione.
Poi, dopo essersi debitamente rammentato dell'eredità che
sperava di aver raccolto da loro, tornò sui propri passi verso
la riva del fiume. Da un parco giochi alzò lo sguardo
incredulo verso il regno di cemento dei miliardari della
farmaceutica, verso le loro caserme senza volto schierate
contro il nemico. Gru color arancio si spostavano incessanti
sopra di loro. Bianche ciminiere simili a silenziosi minareti,
con la cima a scacchi, a strisce o a colori vivaci per essere
viste dagli aerei di passaggio, scaricavano i loro invisibili
fumi nel cielo scuro. Ai loro piedi si estendevano binari
ferroviari, scali di smistamento, parcheggi per camion e
banchine, protetti da un muro di Berlino ciascuno, con
tanto di filo spinato e graffiti.
Spinto da una forza che aveva ormai smesso di cercare
di definire, Justin attraversò il ponte e, come in sogno, vagò
per una squallida terra desolata di caseggiati fatiscenti,
negozi di vestiti usati e operai immigrati con gli occhi
infossati che passavano in bicicletta. Piano piano si ritrovò,
come attratto da una calamita, davanti a quello che a prima
vista poteva sembrare un bel viale alberato dietro a un
cancello tanto ecologicamente coperto di rampicanti che
quasi non si vedevano i portoni di rovere al di là, con la
pulsantiera e la cassetta della posta di ottone lucido. Fu solo
quando alzò lo sguardo sempre più in alto, fino ad arrivare
al cielo sopra di lui, che Justin si accorse dell'immenso
trittico di torri unite da corridoi sospesi. La facciata era
linda come un ospedale, le finestre di vetro e rame. Dietro a
ciascuna di quelle mostruosità architettoniche si innalzava
una ciminiera bianca, nitida come una matita puntata verso
il cielo, sulla quale campeggiava una lettera in oro che ne
occupava tutta la lunghezza e occhieggiava come una
vecchia amica: K.V.H.
Quanto tempo rimase lì, da solo, invischiato come un
insetto ai piedi delle tre torri, non lo sapeva nemmeno lui. A
tratti gli pareva che le ali dell'edificio stessero per chiudersi
e schiacciarlo, a tratti invece che gli cadessero addosso. Si
sentì mancare la terra sotto i piedi e si ritrovò seduto su
una panchina in uno spiazzo di terra battuta dove donne
prudenti portavano a spasso il cane. Sentì un odore lieve ma
pervasivo e per un istante ritornò con la mente all'obitorio
di Nairobi. Per quanto tempo dovrei vivere qui, si chiese,
per non sentire più questa puzza? Doveva essere calata la
sera perché le finestre con le intelaiature di rame
cominciarono a illuminarsi. Intravide muoversi delle
sagome e lampeggiare dei puntini azzurri. Perché sono
seduto qui? le chiese continuando a guardare. A che cosa
penso, a parte te?
Tessa era lì, vicino a lui, ma per una volta non aveva una
risposta pronta. Sto pensando al tuo coraggio, si rispose da
solo. Sto pensando che tu e Arnold vi siete messi da soli
contro tutto questo, mentre il buon vecchio Justin badava
che il terreno nelle aiuole del suo giardino fosse abbastanza
sabbioso per le tue fresie gialle. Sto pensando che non credo
più in me stesso e in quello che ho rappresentato. C'è stato
un periodo in cui, come le persone che lavorano in questo
palazzo, il tuo Justin era fiero di sottomettersi al giudizio
severo di una volontà collettiva, che lui chiamava 'Patria' o
'Dottrina dell'uomo ragionevole' o, con qualche perplessità,
'Causa superiore'. C'è stato un periodo in cui credevo che
fosse utile che un uomo – o una donna – perisse per il bene
di molti. Lo chiamavo sacrificio, dovere, o necessità. C'è
stato un periodo in cui potevo fermarmi fuori dal ministero
degli Esteri la sera, guardare le finestre illuminate e
pensare: buona serata da Justin, tuo umile servo. Sono un
ingranaggio di un motore grande e potente e ne sono fiero.
Servo, dunque sento. Invece adesso l'unica cosa che sento è
che tu si sei messa contro tutti loro e, com'era prevedibile,
hanno vinto loro.
«Peter?»
Justin si svegliò di soprassalto e guardò l'ora. Erano le
nove di sera. Aveva lasciato penna e taccuino accanto al
telefono.
«Sono io.»
«Sono Lara.» In tono lamentoso.
«Ciao, Lara. Dove ci possiamo vedere?»
Un sospiro. Malinconico, esausto, che ben si adattava
alla voce malinconica da slava. «Non è possibile.»
«Perché?»
«Davanti a casa mia c'è un'automobile. A volte mandano
un furgone. Guardano e ascoltano tutto. Incontrarsi con
discrezione è impossibile.»
«Dove sei adesso?»
«In una cabina del telefono.» Lo disse come se temesse
di non uscirne viva.
«Ti stanno tenendo d'occhio anche in questo
momento?»
«Non vedo nessuno, ma è buio. Grazie delle rose.»
«Possiamo vederci dove vuoi tu. A casa di amici. Fuori
città, se preferisci.»
«Hai la macchina?»
«No.»
«E come mai?» In tono di rimprovero e di sfida.
«Non ho i documenti giusti.»
«Chi sei?»
«Te l'ho detto, un amico di Birgit. Un giornalista inglese.
Ti spiegherò meglio quando ci vedremo.»
Lara riattaccò. Justin aveva la pancia in subbuglio e
doveva andare al gabinetto, dove però il telefono non
arrivava. Aspettò finché non ne poté più e corse nel bagno.
Con i pantaloni all'altezza delle caviglie sentì suonare il
telefono. Fece tre squilli, ma quando Justin tirò su la
cornetta, non c'era nessuno. Si sedette sul bordo del letto e
si prese la testa fra le mani. Non sono capace. Che cosa
fanno le spie? Che cosa farebbe l'astuto Donohue? Con
questa eroina ibseniana all'altro capo del filo,
probabilmente farebbe come me, se non peggio. Guardò di
nuovo l'ora, temendo di aver perso la cognizione del tempo.
Si tolse l'orologio e lo posò accanto alla penna e al taccuino.
Quindici minuti. Venti. Trenta. Che cosa diavolo le è
successo? Si rimise l'orologio al polso, perdendo la pazienza
nel riagganciare il cinturino.
«Peter?»
«Dove ci possiamo incontrare? Dove vuoi tu.»
«Birgit ha detto che sei suo marito.»
O Dio mio. Ti prego, fa' che non sia la fine del mondo. O
Gesù.
«Te l'ha detto per telefono?»
«Non ha fatto nomi. 'È suo marito.' Nient'altro. È stata
molto discreta. Perché non mi hai detto che eri suo marito?
Non avrei pensato che la tua fosse una provocazione.»
«Volevo dirtelo dopo, faccia a faccia.»
«Telefono alla mia amica. Non dovresti mandarmi le
rose. È un'esagerazione.»
«Che amica? Lara, sta' attenta a cosa le dici. Io sono
Peter Atkinson, giornalista. Sei ancora nella cabina?»
«Sì.»
«La stessa di prima?»
«Non mi stanno sorvegliando. D'inverno sorvegliano
solo dalla macchina. Sono pigri. Non ci sono macchine in
giro.»
«Hai abbastanza monete?»
«Ho una scheda.»
«Non usare schede, usa le monete. Hai chiamato Birgit
con una scheda?»
«Non è importante.»
Erano le dieci e mezzo quando richiamò. «La mia amica
sta assistendo a un intervento» spiegò senza scusarsi. «Un
intervento complicato. Ho un'altra amica. È disponibile. Se
hai paura, prendi un taxi fino da McDonald's e poi prosegui
a piedi.»
«Non ho paura. Sono prudente.»
Per l'amor di Dio, pensò, prendendo nota dell'indirizzo.
Non ci siamo mai visti, le ho mandato un'esagerazione di
rose e stiamo battibeccando come due innamorati.