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Comunicazione integrata
e reputation management
Prefazione
di Paolo Boccardelli
Capitolo 1
L’impresa di fronte alle sfide globali:
il contesto complesso e il ruolo della comunicazione
di Gianluca Comin
Capitolo 2
L’importanza della comunicazione per il business
di Gianluca Giansante
Capitolo 3
Soft power
di Gianluca Comin
Capitolo 4
La comunicazione:
un approccio integrato e strategico
di Gianluca Comin e Sara Mazzarella
4.1. Introduzione
4.2. L’accountability e la comunicazione d’impresa
4.3. Il ruolo della comunicazione per consolidare la corporate reputation
4.4. La comunicazione integrata: una visione d’insieme
4.5. Le aree della comunicazione integrata
4.6. Le prospettive della comunicazione integrata
Capitolo 5
La disintermediazione della comunicazione politica
di Nicolò Scarano
Capitolo 6
La convergenza fra marketing e comunicazione
di Paolo Iammatteo
6.1. Quando eravamo una “p”. Un tuffo nella storia della pubblicità
6.2. Il digitale sovverte lo scenario. Nuovi media per nuovi consumatori
6.3. Il nuovo ruolo del communication manager
6.4. Dal prodotto al brand e dal brand alla s.p.a.: il caso Postepay
Capitolo 7
La corporate communication
di Michele Samoggia Zerbetto e Antonio Vella
7.1. Premessa
7.2. Corporate communication: una definizione
7.3. L’obiettivo della corporate communication: la reputazione
7.4. Gli strumenti per un’efficace comunicazione istituzionale
7.5. L’evoluzione della corporate communication
Capitolo 8
La comunicazione economico-finanziaria
di Lorenza Pigozzi
Capitolo 9
La comunicazione interna
di Sara Mazzarella
9.1. Introduzione
9.2. Il ruolo della comunicazione interna nella creazione di valore condiviso
9.3. Gli ambiti della comunicazione interna
9.4. Le direttrici del sistema di comunicazione interna
9.5. Gli obiettivi strategici della comunicazione interna
9.6. Gli strumenti di comunicazione interna
9.7. La pianificazione della comunicazione interna
Capitolo 10
Public Affairs e Lobbying
di Michelangelo Suigo
Capitolo 11
La comunicazione di crisi
di Gianluca Comin e Giuseppe Stamegna
11.1. Introduzione
11.2. La crisi
11.3. Crisis management
Capitolo 12
La comunicazione politica
di Alberto Di Majo e Gianluca Giansante
12.1. Introduzione
12.2. Che cos’è e quando nasce la comunicazione politica?
12.3. Un cambio di paradigma: dalla conversione alla mobilitazione
12.4. Il web e la politica condivisa
12.5. Le campagne elettorali si vincono con le emozioni
12.6. Ricerca: sondaggi e focus group
12.7. Lo storytelling
12.8. La comunicazione politica online
Capitolo 13
La comunicazione culturale
di Elena Di Giovanni
Capitolo 14
Cultura della sostenibilità e responsabilità sociale: un asset per le imprese
di Donato Sambugaro
14.1. Introduzione
14.2. Evoluzione storica e sviluppi della responsabilità sociale: dalla CSR
allo CSV
14.3. Nuove prospettive: dalla corporate social responsibility al corporate
social impact
Capitolo 15
La responsabilità sociale d’impresa, asset strategico delle imprese moderne
di Roberto Olivi
15.1. Introduzione
15.2. BMW Italia e il progetto “specialmente”
15.3. Conclusioni
Capitolo 16
Comunicare il non profit
di Antonio Barone
STRUMENTI
Capitolo 17
Il brand management
di Carlotta Ventura
Capitolo 18
Introduzione alle tecniche di advertising
di Sara Mazzarella
18.1. Introduzione
18.2. L’evoluzione della pubblicità: dalle origini ai giorni nostri
18.3. L’advertising: definizione e finalità
18.4. La classificazione delle tipologie di advertising
18.5. La pianificazione della campagna pubblicitaria
18.6. La pianificazione del contenuto del messaggio pubblicitario
18.7. Focus: i canali media
Capitolo 19
Percorsi pubblicitari
di Luca Josi
19.1. Premessa
19.2. La scoperta della pubblicità
19.3. La scoperta del testimonial
19.4. Verso il successo
Capitolo 20
Comunicare per eventi
di Alfredo Accatino
Capitolo 21
Le relazioni con i media
di Alberto Di Majo e Gianluca Giansante
Capitolo 22
Sponsorizzazioni
di Chiara Scilhanick
Capitolo 24
Ricerche di mercato e big data
di Lorenzo Pregliasco
24.1. Introduzione
24.2. Trasformazioni dell’ecosistema
24.3. Le fasi della ricerca di mercato
24.4. Conclusioni
Capitolo 25
Unconventional communication
di Isabella Borrelli
25.1. Introduzione
25.2. Che cos’è il guerrilla marketing
25.3. Interdiscorsività comunicativa, rivoluzionare il linguaggio
25.4. Strategie e tecniche di comunicazione non convenzionale
25.5. Conclusioni
Capitolo 26
Il fund raising
di Sara Mazzarella
26.1. Introduzione
26.2. Il fund raising: una definizione
26.3. I principi generali e lo “scambio di reciprocità”
26.4. Gli attori coinvolti nel processo di fund raising
26.5. La pianificazione del fund raising: il processo
INSIGHT
Capitolo 27
Public speaking
di Alberto De Sanctis
Capitolo 28
Il word of mouth
di Bianca Minniti
Capitolo 29
Il corporate storytelling
di Sara Mazzarella
29.1. Introduzione
29.2. Le origini e l’evoluzione dello storytelling
29.3. Il corporate storytelling: definizione ed elementi costitutivi
29.4. Gli ambiti applicativi del corporate storytelling
29.5. Il mondo digitale come cassa di risonanza dello storytelling
29.6. Il futuro dello storytelling: alcuni spunti per affrontare le sfide del
digitale
Capitolo 30
Leadership
di Alberto De Sanctis
30.1. Introduzione
30.2. Gli stili di leadership di Daniel Goleman: l’intelligenza emotiva e il
leader efficace
30.3. La leadership situazionale
30.4. Open leadership
Capitolo 31
Neuromarketing e comunicazione politica: dialogare con le menti delle
persone tra razionalità ed emozioni
di Caterina Garofalo e Francesco Gallucci
31.1. Introduzione
31.2. Neuropolitica e reazioni emotive
31.3. Dialogare con la parte inconscia del cervello delle persone
31.4. Le principali tecnologie del neuromarketing
31.5. Evoluzione e diffusione del neuromarketing
31.6. Modelli predittivi e processi cerebrali
Capitolo 32
Il ruolo e la figura del Chief Communication Officer
di Davide Cefis
Capitolo 33
Il futuro della comunicazione
di Giampaolo Colletti
33.1. Introduzione
33.2. La comunicazione contemporanea: il fenomeno del brand activism
33.3. La comunicazione coinvolgente: la dittatura dell’experience
33.4. La comunicazione nascosta: il boom del dark social
33.5. La comunicazione per tutti: “Davide e Golia” nello stesso agone
digitale
33.6. La comunicazione disintermediata: fare i conti col “potere editoriale
diffuso”
33.7. La comunicazione video-centrica: il futuro fatto di video, video, video
33.8. La comunicazione dal cuore verde: l’effetto greta thunberg e i brand
“eco-guerrieri”
Ringraziamenti
PREFAZIONE
DI PAOLO BOCCARDELLI1
Con queste parole, nel 2008 la Regina d’Inghilterra, in visita alla London
School of Economics, chiese ad un gruppo di luminari universitari come
mai nessuno di loro fosse stato in grado di predire la crisi economica. Sette
anni prima, Prakash Loungani, economista del IMF pubblicava una ricerca
in cui sottolineava l’imbarazzante realtà delle previsioni sui macrotrend
economici che, con un tasso di fallimento di oltre il 100%, sono state in
grado di predire solo 2 recessioni su 1503. Ma la difficoltà di raggiungere
previsioni certe non riguarda solo il settore economico, sembra infatti che
anche nel campo della politica le cose non vadano meglio. Definiti come
“scarsamente migliori delle congetture”4 gli studi sui futuri trend politici
fatti da importanti istituti universitari sembrano avere esigue probabilità di
essere veritieri. Nonostante i numerosi paper e dossier che nel corso
dell’ultimo secolo hanno provato l’inaffidabilità delle previsioni, ogni anno
assistiamo alla pubblicazione di innumerevoli studi che ci vogliono
raccontare il mondo in cui vivremo. Per natura umana, o necessità, sembra
proprio che non possiamo astenerci dall’interrogarci sul futuro.
E così, tenendo a mente che del domani non v’è certezza, ho deciso di
iniziare questo libro parlando di alcuni macrotrend che sembrano
accompagnarci nei prossimi anni (e forse decenni), la cui comprensione è
imprescindibile in particolare per la comunicazione d’impresa.
Populismi, cambiamenti climatici e demografici, digitalizzazione. Questi
sono alcuni dei fenomeni che stanno influenzando e impatteranno sempre di
più sul nostro modo di vivere, lavorare e anche, perché no, di comunicare.
Prima di descriverli singolarmente, ci tengo a sottolineare che, nonostante
siano diversi tra loro, hanno un fattore comune che li lega: la
comunicazione disintermediata. Se prima, per essere informati di un
disastro ambientale, si doveva attendere il giornale del giorno dopo, oggi lo
possiamo leggere online, commentare su Instagram, condividere su
Facebook. I nuovi sistemi di comunicazione sfidano i divari geografici e
temporali accorciando le distanze e disintermediando le comunicazioni.
Questi nuovi sistemi moltiplicano le fonti di informazione che non sono più
solo a capo di governi, istituzioni, aziende ma diventano comuni e diffuse.
È finita l’era in cui possiamo gestire tutto con un comunicato stampa e un
articolo di giornale. Le informazioni, vere o false, circolano provocando
conseguenze inaspettate. Il ruolo della comunicazione assume quindi
un’importanza centrale.
Senza perdere di vista quanto detto sul tema delle previsioni,
approfondire i macrotrend è utile per capire il perimetro e le regole in cui la
nuova comunicazione gioca la sua partita.
Figura 1. Quota media di voti per i partiti populisti dal 1980 al 2018
Fonte: Timbro Authoritarian Populism Index 2019.
Figura 2. Confronto percentuale di voti per i partiti populisti 2008-2018
Fonte: Timbro Authoritarian Populism Index 2019.
Il fenomeno dei flussi migratori rappresenta uno dei principali fattori che
contribuiscono alla diversità della popolazione e della forza lavoro e per
questo motivo necessita di essere affrontato in maniera sistematica e attenta
al fine di favorire sinergie costruttive.
Per decenni gli esperti hanno ammonito i governi sui rischi connessi ai
cambiamenti climatici e sulle conseguenze che questi avranno sulla società
e sull’economia. Oggi il riscaldamento globale è diventato un tema di
importanza primaria: le politiche per la difesa dell’ambiente possono
invertire il trend del surriscaldamento solo se attuati in maniera integrata e
puntuale. Per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi e mantenere
l’aumento della temperatura media al di sotto di 2°C20, sarà necessario
infatti che le emissioni globali di gas serra diminuiscano drasticamente
entro il 2020, per poi scendere allo zero netto entro il 2050. Se ciò non
accadrà, le previsioni non sono confortanti: 1,6 miliardi di persone vivranno
in zone torride, 800 milioni in zone a rischio alluvione, mentre 215 milioni
si stabiliranno negli slum di più di 490 città21.
I cambiamenti climatici, oltre a rappresentare una sfida per gli individui e
la società, sono anche un tema caldo dal punto di vista delle performance
aziendali. Indipendentemente dal settore di appartenenza, sono in aumento
le pressioni esercitate dagli stakeholder. Consumatori, fornitori, compagnie
assicurative, comunità e governi locali sono in grado di influenzare i
processi aziendali e di mettere in difficoltà finanziarie le singole aziende. La
nuova attenzione all’ecologia costringe i player economici a ripensare
processi e priorità per ridurre il proprio impatto sull’ambiente.
La sensibilità collettiva non solo sta cambiando ma viene anche
comunicata ai decision maker economici e istituzionali in modo diverso. Un
esempio? Greta Thunberg, sedicenne svedese che nell’agosto del 2018 si è
seduta davanti al parlamento svedese tutti i giorni per tre settimane, non
andando a scuola, e protestando per la mancanza di azioni decisive del
governo per contrastare i cambiamenti climatici. Una protesta che è
cominciata in Svezia ed è diventata un movimento globale che a colpi di
#FridaysForFuture e #Climatestrike ha portato migliaia di studenti e
genitori a manifestare davanti ai parlamenti di tutto il mondo.
Proprio a livello di macropolitiche, possiamo individuare due tipi di
approcci al cambiamento climatico. Il primo è quello della mitigation ed è
l’insieme degli sforzi, tecnologici, individuali e politici volti a limitare
l’aumento della temperatura almeno al di sotto dei 2 gradi, soglia sopra la
quale gli scienziati prevedono cambiamenti devastanti: fino ad adesso è
risultato un obiettivo estremamente difficile da raggiungere. Le attuali
politiche globali ed europee per la mitigazione degli effetti dei cambiamenti
climatici partono dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui
Cambiamenti Climatici22 (UNFCCC), che prevede di non superare i 2°C di
aumento della temperatura superficiale media globale rispetto al periodo
preindustriale. Per fare ciò, le emissioni globali devono essere ridotte del
50% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050 per poi raggiungere lo zero
entro la fine del secolo.
Il secondo approccio è quello dell’adaptation, ossia anticipare gli effetti
negativi dei cambiamenti climatici adottando misure appropriate alla
prevenzione o alla minimizzazione dei danni che possono causare o
sfruttare le opportunità che possono sorgere. Rispondere in maniera
strutturata può consentire di prevenire le conseguenze negative per la
sicurezza delle città e per grandi masse di popolazione. Misure come
l’adeguamento dei codici di costruzione alle condizioni climatiche future e
agli eventi meteorologici estremi, la costruzione di linee di difesa contro le
inondazioni, l’innalzamento dei livelli degli argini, lo sviluppo di colture
resistenti alla siccità sono importanti strumenti per rispondere al cambio
climatico. In generale la gestione delle sfide ambientali travalica la
sovranità di un singolo stato, diventando una issue che può essere risolta
solo attraverso strategie di cooperazione internazionale e con il
coinvolgimento del mondo delle imprese.
“Da LEGO Group vogliamo avere un impatto positivo sul mondo che ci circonda e stiamo
lavorando duramente per creare fantastici prodotti di gioco per bambini, fatti con materiali
sostenibili. Siamo orgogliosi che i primi pezzi LEGO realizzati con materie plastiche di origine
sostenibile siano in produzione e quest’anno saranno presenti nelle scatole LEGO. Questo è un
primo grande passo nel nostro ambizioso impegno a produrre tutti i mattoncini LEGO usando
materiali sostenibili”28.
Queste sono le parole di Tim Brooks, Vice President Environmental Responsibility di LEGO
Group, azienda danese che si posiziona al secondo posto, dopo Rolex, nella classifica stilata
annualmente dal Reputation Institute29.
Il nome LEGO è l’abbreviazione delle due parole danesi “LEg GOdt”, che significa “gioca bene”,
un mantra che l’azienda ha seguito per oltre 80 anni accompagnando svariate generazioni di
costruttori di tutto il mondo senza mai perdere la propria rilevanza. LEGO ha sviluppato
partnership strategiche che le hanno permesso di essere sempre al passo con i tempi, ottenendo la
licenza per trasformare in cubetti di plastica Harry Potter, Star Wars e i Simpson. L’azienda è stata
in grado di cogliere uno dei più importanti macrotrend globali, ossia la crescente sensibilità per i
temi ambientali, e grazie alle sue iniziative in quest’ottica è riuscita a conquistare la fiducia di
nuovi stakeholder in tutto il mondo. Il lancio dei nuovi mattoncini eco-friendly ha conquistato
consumatori, investitori, stakeholder istituzionali che hanno riconosciuto il grande l’impegno
sociale dell’azienda.
Il mondo della comunicazione sta affrontando una sfida legata alla cultura
manageriale per la quale il mantenimento di una relazione costante tra
l’azienda e i propri stakeholder viene spesso considerata una voce di costo
invece che una leva per incrementare il business e il fatturato. Il ruolo della
comunicazione istituzionale si sta però affermando come un elemento
sempre più strategico all’interno di un mondo connesso e globalizzato, e è
urgente per le aziende, come per i personaggi pubblici, le organizzazioni e i
governi, affrontare in maniera strategica e strutturata il mondo che li
circonda.
Il mondo in cui viviamo presenta una complessità sempre maggiore,
mentre le aziende sono spesso portate a ridurre i livelli di lettura. Un caso
rischioso è quello che va sotto il nome di Expert Trap16: una visione del
mondo dall’interno del proprio mercato, propria degli esperti di un
determinato settore, che oscura la visione d’insieme e il punto di vista del
grande pubblico. Ad esempio, una storia difficile che porta una famiglia a
non poter pagare un mutuo e a perdere la casa può risultare, dal punto di
vista di un contabile, principalmente come un mancato introito per la banca,
senza la carica emotiva legata a questo avvenimento. In un caso come
questo, dal punto di vista del mercato bancario la famiglia morosa è in torto,
mentre dall’esterno la prospettiva del pubblico potrebbe vedere nella banca
l’ente che si accanisce contro una storia tragica.
È necessario ricordare, quindi, quanto afferma Daniel Diermeier: “La
reputazione è essenzialmente pubblica. È diretta da terze parti che hanno i
loro interessi” e, in un mercato che si basa sulla reputazione, è
fondamentale essere coscienti della situazione e di come questa viene
percepita o narrata dalle terze parti. E, soprattutto, di come si può
raccontare il proprio punto di vista nel modo migliore o agire per
modificare il proprio operato alla luce di una visione più ampia della
vicenda, che tenga conto anche del punto di vista esterno all’azienda.
1. Gianluca Giansante è manager della comunicazione e delle relazioni istituzionali, fin dalla
fondazione fra i partner di Comin & Partners. In precedenza è stato responsabile Comunicazione e
Relazioni digitali della Regione Lazio e ha svolto attività di consulenza per la Presidenza del
Consiglio (Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria) e il Consiglio Superiore della Magistratura.
Insegna presso il dipartimento di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli e nei master della Luiss
Business School e della School of Government. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Linguaggi
Politici e Comunicazione presso l’Università La Sapienza di Roma e ha svolto attività di ricerca post
lauream in Comunicazione Strategica presso l’Universidad Complutense di Madrid. È autore di La
comunicazione politica online (Carocci, 2014), tradotto anche in inglese e spagnolo. Ha pubblicato
inoltre Le parole sono importanti (Carocci, 2011) e diversi saggi sul linguaggio politico e la
comunicazione.
2. Black E.L., Carnes T.A., “The market value of corporate reputation”, Corporate Reputation
Review, vol. 3, Issue 1, January 2000, pp. 31-42.
3. Cole S., “The Impact of Reputation on Market Value”, World Economics, vol. 13 (3), July -
September 2012.
https://www.reputationdividend.com/files/4713/4822/1479/Reputation_Dividend_WEC_133_Cole.pd
f.
4. The Economist (Intelligence Unit), The Year in Crisis: 2016.
https://eiuperspectives.economist.com/sites/default/files/images/Exec%20Summary-Final.pdf
5. Naìm M., La fine del potere, Mondadori, Milano, 2013.
6. Diermeier D., Reputation Rules: Strategies for Building Your Company’s Most Valuable Asset,
McGraw-Hill Education, New York, 2012.
7. Baron D.P., Diermeier D., “Introduction to the special issue on nonmarket strategy and social
responsibility”, Journal of Economics & Management Strategy, 16(3), 2007, pp. 539-545; Diermeier
D., “Private Politics: A Research Agenda”, The Political Economist: Newlettter of the APSA Section
on Political Economy, 14(2), 2007, pp. 1-9.
8. Frank M.M., Hoffman A., Entity Choices for a Socially Responsible Business, University of
Virginia Darden School Foundation, 2019; Sharp Paine L., Value Shift: Why Companies Must Merge
Social and Financial Imperatives to Achieve Superior Performance, McGraw-Hill, New York, 2003;
Vogel D., The Market for Virtue: The Potential and Limits of Corporate Social Responsibility, The
Brookings Institution, Washington, DC, 2006.
9. Kramer R.M., Porter M., “Strategia e società. Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo e la
Corporate Social Responsibility”, Harvard Business Review, 1, 2007, pp. 5-22.
10. Brondoni S.M., Maggioni V., Rendoli A., Testa F., Il Sistema delle risorse immateriali d’impresa:
cultura d’impresa, sistema informativo e patrimonio di marca, Giappichelli, Torino, 2004.
11. Tower Watson, 2013-2014 Change and Communication ROI Study, 2013.
12. Baron P.D., Business and its Environment, Pearson, Boston, 2003.
13. Baron P.D., “Analysis of the nonmarket environment: the four i’s”, in Baron P.D., Business and
its Environment, Pearson, Boston, 2003.
14. Shotts K.W., “Political Risk as a Hold-Up Problem: Implications For Integrated Strategy”,
Advances in Strategic Management, vol. 34, 2016, pp. 57-85.
15. Busse M., Hefeker C., “Political risk, institutions and foreign direct investment”, European
Journal of Political Economy, 23(2), 2007, pp. 397-415.
16. Diermeier D., Reputation Rules: Strategies for Building Your Company’s Most Valuable Asset, cit.
CAPITOLO 3
Soft power
DI GIANLUCA COMIN
“È più facile attrarre gli altri verso la democrazia che costringerli a essere
democratici”1. Così Joseph Nye, professore all’Università di Harvard e
ideatore del concetto di soft power, definisce la gerarchia fra il potere
dell’influenza e quello della coercizione. Già Max Weber, nel saggio
Economia e società, aveva analizzato il concetto di potere sottolineando
come esso sia ascrivibile ad un insieme complesso di interazioni e forme e
come sia esercitabile con diversi mezzi: dalla minaccia, alla sanzione,
passando per una serie di meccanismi di coercizione2.
Se prima la finalità della politica estera risiedeva nell’espansionismo
sfrenato, lo scoppio di due conflitti mondiali ha favorito l’istituzione di
organi di controllo e coordinamento come l’ONU, con l’obiettivo di
prevenire le criticità ed evitare l’insorgere di nuovi conflitti. Grazie
all’utilizzo della diplomazia come principale strumento di relazioni
internazionali, è stata spianata la strada ad un nuovo tipo di potere: il soft
power, ovvero la capacità di influenzare il comportamento altrui non
attraverso la coercizione, ma utilizzando la persuasione.
Nel nostro tempo, in cui le relazioni internazionali sono caratterizzate da
elevati livelli di interdipendenza, il soft power diviene protagonista
indiscusso di strategie e negoziazioni. Senza dubbio, infatti, il nuovo
scenario globale richiede flessibilità, capacità di adattamento e resilienza,
data la costante mutevolezza delle relazioni e l’emergere di nuovi
stakeholder, portatori di specifici interessi. La risoluzione delle grandi
problematiche internazionali trascende le competenze e le capacità di un
singolo governo nazionale di assumere iniziative che possano avere un
impatto rispetto a numerosi macrotrend globali. I mutamenti climatici, i
grandi cambiamenti demografici, le grandi questioni sociali e lo sviluppo
tecnologico che caratterizzano il nostro tempo oltrepassano infatti la sfera di
influenza di una singola nazione. In questo scenario, in cui il potere diretto
diminuisce di importanza e diventa chiaro che esiste una via più efficace per
esercitare la propria influenza, la celebre domanda di Stalin “Quante
divisioni ha il Papa?”3 rimane emblematica ancora oggi. In un mondo iper-
connesso, il potere diventa capacità di influire sulle decisioni dei leader e di
assicurare stabilità al complesso di istituzioni che permettono la
sopravvivenza sia della singola nazione che della stabilità geopolitica
internazionale.
Se l’hard power di un Paese è facilmente misurabile attraverso la sua
potenza bellica, il soft power è quasi intangibile e punta a suscitare
ammirazione e fascino, basandosi fortemente sul carisma. Ammaliare gli
altri è un’arte complessa che può rivelarsi estremamente potente e che si
serve di strumenti come i valori largamente riconosciuti, le istituzioni
legittimate agli occhi della comunità internazionale e una cultura eclettica in
grado di affascinare gli altri. Il soft power si declina con un’abile e credibile
capacità di proiettare un’immagine positiva e specifica di sé al fine di
instaurare solide relazioni.
Le nazioni fanno spesso leva sul proprio bacino culturale per favorire una
comunicazione efficace con altri stakeholder: letteratura, arte, tradizioni
culinarie, istruzione sono solo alcuni degli strumenti usati per promuovere
lo scambio e l’emulazione. Ma le sole caratteristiche distintive non bastano:
è necessaria una strategia comunicativa basata sulla coerenza e sulla
credibilità, volta ad accrescere l’attrattività.
La Norvegia, ad esempio, ha creato una strategia concentrata su un
singolo messaggio: il Paese nordico è portatore di pace nel mondo4. Con un
forte impegno, anche economico, nelle attività internazionali a sostegno
della pace e nelle missioni umanitarie5 in Sri Lanka, Colombia e nel Medio
Oriente, la Norvegia porta avanti politiche pubbliche coerenti con la sua
comunicazione. Naturalmente non tutte le attività interne svolte dalla
Norvegia sono allineate con l’immagine dei “portatori di pace”: un
controllo assoluto sarebbe innaturale ma, nella visione d’insieme, la
Norvegia proietta, grazie ad un forte coordinamento tra comunicazione e
politiche pubbliche, un’immagine coerente capace di rafforzare il suo soft
power6.
Un altro valido esempio è rappresentato dagli Stati Uniti, il paese che è
riuscito ad attrarre i migliori talenti provenienti da tutto il mondo grazie
all’idea del grande “sogno americano”7. Nei suoi scritti, Josef Joffe
sosteneva che il soft power americano fosse diventato più importante degli
stessi asset militari ed economici. Era successo ciò che Nye aveva predetto:
gli altri volevano ciò che l’America voleva.8 Ma anche una tale influenza
può essere danneggiata: in un sondaggio della BBC del 20079 il soft power
americano, dopo l’invasione dell’Iraq, aveva subito un importante declino
dato che la percezione generale del Paese risultava negativa.10 L’american
dream era passato in secondo piano, offuscato dalle controverse scelte
militari e politiche. Come disse Nye, volendo sottolineare il ruolo dei media
nelle relazioni internazionali, “è la storia più forte a vincere”. La
promozione di un’immagine positiva e coerente è resa difficile sia dalle
differenze culturali sia dai nuovi mezzi digitali, che, riducendo il costo e i
tempi di trasmissione delle informazioni, rendono più facile condividere
notizie positive e negative. La rete, amplificando le interazioni e
raggiungendo all’istante i target di riferimento, è ormai diventata un
importante strumento di rafforzamento del soft power grazie alle possibilità
che offre di condividere informazioni e favorire i rapporti informali tra
Paesi.
“A truly Global Britain is possible, and it is in sight... We have the greatest soft power in the
world, we sit in exactly the right time zone for global trade, and our language is the language of
the world”20.
Con queste parole nell’ottobre 2016 Theresa May chiariva l’importanza del soft power nel piano
Brexit. La strategia comunicativa inglese rappresenta una delle migliori best practice europee in
termini di soft power: nel 2018, anno in cui i media di tutto il mondo hanno monopolizzato
l’attenzione globale sull’uscita dall’Unione Europea, la Gran Bretagna si è classificata al primo
posto nel Global Ranking of Soft Power 201821, realizzato da Portland e dall’USC Center on
Public Diplomacy. Sorge quindi spontanea la domanda su come la Gran Bretagna sia stata in
grado di offuscare il tema dell’#hardbrexit, puntando l’attenzione su tematiche slegate dall’evento
europeo dell’anno. Uno dei più importanti esempi di esercizio del soft power inglese è quello
relativo all’istruzione: le scuole e gli atenei inglesi si distinguono in tutto il mondo per il loro
prestigio. Si pensi, ad esempio alla presenza capillare nel mondo dei dipartimenti del British
Council, baluardo non solo della lingua, ma anche della cultura inglese.
Un ulteriore elemento di forza del potere britannico è rappresentato dal football. Da sempre
elemento facilitatore di relazioni internazionali, lo sport è il fattore con cui un Paese può entrare
in contatto con il mondo comunicando, facendo leva su valori condivisi. Il football, e in
particolare la Premier League22, ha giocato un ruolo fondamentale nel periodo post-Brexit: con
uno dei campionati più popolari al mondo e un accordo di copertura televisiva internazionale, la
reputazione e l’influenza della Gran Bretagna verso l’estero hanno raggiunto il grande pubblico
internazionale riunendolo attorno agli stessi principi sportivi.
Un altro caso emblematico di soft power per la Gran Bretagna è stato il matrimonio reale del
2018. Assistito da 18 milioni di inglesi e più di 2 miliardi di persone in tutto il mondo, è stato
l’evento mediatico più seguito nell’ultimo decennio. Durante la cerimonia sono stati mandati 4
milioni di tweet, raggiungendo un picco di 40.000 tweet al minuto durante il sermone23. L’evento
mostra un’Inghilterra ricca e orgogliosa delle proprie tradizioni, ma al contempo aperta e
innovativa.
Il British Foreign Policy Group indica, in una sezione dedicata alle opportunità del 2019, la
Cricket World Cup24 come un’occasione per rafforzare il soft power inglese. Si evince che il
motivo della forza del soft power inglese non risiede nelle singole risorse (l’English tea, la
famiglia reale ecc.) ma in una strategia coordinata e olistica che si occupa di rafforzare
l’immagine positiva nel post-Brexit. La May ha evidenziato come il soft power britannico giochi
un ruolo fondamentale nell’economia del Paese, anche grazie alle numerose alleanze, amicizie e
partnership consolidate in tutti i continenti. Per questo motivo, parte del budget statale è stato
stanziato al fine di promuovere “i valori britannici” in tutto il mondo. In conclusione, il caso
Brexit è un esempio concreto e contemporaneo di come una strategia di comunicazione possa
rafforzare il proprio soft power e limitare eventuali crisi.
Con 52 milioni di turisti nel 2018, 53 siti UNESCO (la più alta
concentrazione al mondo), opere d’arte riconosciute in tutto il mondo e una
cultura culinaria tra le più apprezzate, l’Italia sembrerebbe avere tutte le
carte in regola per esercitare il proprio soft power a livello internazionale.
Nella classifica Portland, il Belpaese appare però in tredicesima posizione e
viene da interrogarsi se l’instabilità politica, l’ascesa del populismo e la
“non-crescita” possano oscurare il potenziale intrinseco dell’Italia.
Il soft power italiano si esprime in una cultura e in una storia conosciute e
apprezzate a livello internazionale, il cui valore viene rappresentato dagli
Istituti di Cultura diffusi in tutto il mondo: dalle scuole di lingua italiana e
dalle aziende che promuovono ed esportano lo stile unico del “Made in
Italy”. L’Italia, molto attiva nella promozione internazionale della propria
cultura, ha ottenuto un grande successo nell’organizzazione dell’Expo, che
ha ospitato 21,5 milioni di persone25. Anche la costituzione di squadre di
caschi blu dell’UNESCO a difesa del patrimonio culturale mondiale
dimostra la volontà dell’Italia di giocare un ruolo sempre più attivo sulla
scena culturale globale.
Nel “Primo Rapporto sul Soft Power italiano”26 è possibile osservare
come alcune esperienze (come ad esempio la creazione dell’Istituto
Leonardo quale unico istituito per la cultura italiana all’estero, la
realizzazione del programma “Young Leaders” sul modello utilizzato da
altri Paesi per consolidare i rapporti con le future classi dirigenti dei Paesi
emergenti, il rilievo dato all’agenzia per la promozione all’estero e
l’internazionalizzazione delle imprese italiane (ICE), la costituzione di un
Digital Hub all’interno del ministero degli Esteri per fornire nuovi
strumenti ai professionisti italiani) abbiano contribuito alla promozione del
soft power italiano. Un ulteriore elemento caratterizzante del soft power
dell’Italia è legato alla “gastro-diplomazia” italiana. Nel 2010, la dieta
mediterranea è stata dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO e
considerata “un bene immateriale caratterizzato da una serie di competenze,
conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione, la
raccolta, la pesca, […] e la condivisione e il consumo di cibo […]. La dieta
mediterranea enfatizza i valori dell’ospitalità, del vicinato, del dialogo
interculturale e della creatività e rappresenta un modo di vivere guidato dal
rispetto della diversità”27. Quello che mangiamo è sia fonte di nutrimento
sia un concentrato di ideali, tradizioni, valori che rappresentano la cultura
d’origine. Spontaneamente ammirata e copiata, la cucina italiana, è stata
recentemente coinvolta in una strategia di soft power attraverso la
“Settimana mondiale della cucina Italiana”28 che ha coinvolto 300 sedi
diplomatico-consolari nel mondo, attraverso l’organizzazione di eventi
dedicati alla promozione della cultura alimentare. Corsi di cucina e
degustazioni sono diventati strumenti chiave per esportare sia i prodotti
tipici italiani nel mondo sia il lifestyle italiano. Lifestyle che non si limita al
food ma spazia dall’arte, al design, fino all’artigianato.
Le motivazioni della tredicesima posizione italiana nel ranking del soft
power risiedono non solo nell’instabilità economica, che da sempre cattura
l’attenzione mediatica, ma anche nell’assenza di una strategia comunicativa
coordinata volta a trasmettere il soft power italiano all’estero. Il “potere
dolce” non è automaticamente generato dalle risorse a cui lo associamo, ma
va comunicato in modo strutturato e coerente anche attraverso l’utilizzo dei
canali digitali che ingaggiano un’audience più ampia e creano facili
connessioni emotive. In conclusione, la comunicazione, spesso dimenticata,
è l’arma più efficace per vincere la battaglia del soft power e posizionarsi in
uno scenario internazionale sempre più fluido.
“We should increase China soft power, give a good Chinese narrative and
better communicate China message to the world”29. Così, nel 2014, il
presidente Xi Jinping definiva il nuovo corso della Cina nella sfida al soft
power. Già attivo in questo campo dal 2007, il governo cinese ha promosso
investimenti crescenti per migliorare e comunicare un’immagine positiva
della Cina e della sua cultura arrivando a spendere circa 10 miliardi di
dollari30 in attività di soft power all’anno. Come si è declinata la strategia
cinese per il soft power? In primo luogo, è importante citare gli Istituti
Confucio31, 475 in tutto il mondo, in cui vengono organizzati corsi di
calligrafia, lingua e cucina cinese. Sempre sul fronte degli investimenti per
la cultura, nel 2018, la Cina ha ospitato 440.000 studenti internazionali
impegnati in corsi di studio superiore. In secondo luogo, il governo cinese
ha promosso l’internazionalizzazione della propria News Agency, Xinhua,
che, raggiungerà il numero di 200 sedi32 dislocate in tutti i Paesi del mondo
entro il 2020. CCTV, la televisione di Stato, manda in onda programmi in
cinese, francese, arabo, spagnolo e russo raggiungendo un pubblico sempre
più ampio con uno storytelling predefinito e controllato. Infine, l’ultimo
tassello della strategia cinese risiede negli aiuti umanitari, che si articolano
attraverso investimenti in infrastrutture in Africa con un supporto di 41
miliardi di dollari33 alla New Develompent Bank (presente in Brasile,
Russia, India e Sud Africa). Ma nonostante gli investimenti organizzativi ed
economici, la Cina arriva al ventisettesimo posto della classifica sul soft
power34 di Portland, praticamente in fondo.
Gli effetti del soft power sono difficili da misurare concretamente ma
senza dubbio il Paese non trasmette un’immagine coerente: le criticità
legate all’inquinamento, alla violazione dei diritti umani, alla limitazione
della libertà d’espressione e informazione e ai vari scandali legati più in
generale alla violazione dei diritti civili, minano il soft power cinese. Va
riconosciuto il fatto che le strategie si accumulano nel tempo, strato dopo
strato, e non producono effetti immediati. Ma il problema delle attività della
Cina è la mancanza di coerenza. L’immagine che viene comunicata è
contrastante: le campagne per la protezione dei panda si scontrano con
immagini di città immerse nei fumi industriali, gli scambi universitari
vengono confrontati con percorsi formativi che sfiniscono gli studenti e
restrizioni nell’uso dei social, gli investimenti umanitari in Africa sono
minati dalla totale violazione di diritti umani.
In conclusione, l’effort cinese può essere preso come modello per la
strutturazione di una campagna e per la comprensione di un importante
dettaglio: l’immagine che una nazione proietta all’esterno deve essere
coerente e armoniosa con la propria realtà locale.
3.5. CONCLUSIONI
4.1. INTRODUZIONE
Alla base del processo si trova l’identity aziendale, il fattore che definisce
il sistema dei valori dell’impresa, la sua vision e la mission aziendale.
L’identità rappresenta un fattore endogeno all’organizzazione (soggetto al
controllo e alla discrezionalità delle scelte aziendali), con cui essa diffonde
all’esterno la propria cultura, ovvero i principi condivisi e le credenze circa
ciò che è importante o irrilevante, e la sua strategia, ovvero il piano
generale d’azione su come raggiungere obiettivi e le mosse da compiere.
L’identità è un valore che si costruisce su un arco temporale non breve,
necessario affinché gli stakeholder possano conoscere a fondo
l’organizzazione e sviluppare nei suoi confronti un giudizio consolidato e
stabile. Essa può tuttavia essere oggetto di fluttuazioni nel tempo, a causa di
agenti esterni oppure interni che possono determinare dei mutamenti
all’impresa. È quindi indispensabile per comprendere la capacità di
adattamento dell’organizzazione nel contesto in cui opera e per decidere se
rafforzare il proprio percorso o apportare modifiche alle proprie strategie.
Diversamente dall’identità, che non necessariamente corrisponde a ciò
che viene percepito dall’ambiente esterno, l’immagine rappresenta
l’insieme dei valori percepiti nel breve termine dagli stakeholder. Essa si
traduce in valori di stima, di rispetto, fiducia e credibilità nell’agire
dell’organizzazione e, pur essendo uno strumento di breve termine, assume
peculiare rilevanza nel processo di reputation building e deve essere
attentamente monitorato: trattandosi di un fattore di breve termine, che può
essere soggetto a cambiamenti anche repentini e drastici, comporta il rischio
che si diffonda un messaggio differente da quello che l’impresa intendeva
fornire di sé. Di conseguenza può rappresentare una minaccia in grado di
alterare i valori alla base della reputazione aziendale.
La corporate reputation rappresenta, pertanto, il frutto della consonanza
tra i valori che descrivono l’impresa, la sua vision e la mission (individuati
attraverso il concetto di identità aziendale) e quelli che vengono trasmessi e
percepiti dall’esterno (racchiusi nel concetto di immagine). Essa si
concretizza nelle concezioni e nelle impressioni consolidate nella mente
degli stakeholder ed è il risultato di ciò che l’organizzazione ha fatto nel suo
percorso di crescita, delle sue idee, delle operazioni e delle scelte su quali
variabili investire maggiormente. Solo a fronte di un processo sistematico di
reputation building, infatti, sarà possibile mantenere invariata la percezione
dell’organizzazione anche a fronte di eventi critici che potrebbero minare la
stabilità del giudizio di rispetto e credibilità su un’organizzazione.
Il classico dilemma per chi fa ricerca sui media riguarda la relazione tra il
mezzo (media) utilizzato per trasmettere un messaggio e il messaggio
stesso, ovvero il modo in cui essi dipendono l’uno dall’altro. Un postulato
molto noto di Marshall McLuhan10, “il mezzo è il messaggio”, definiva
un’identità tra media e messaggio, in un momento (l’anno 1967) in cui la
televisione era l’incontestata regina di ogni tipo di comunicazione. Secondo
quel postulato, un mezzo come la televisione ha in sé caratteristiche così
potenti che queste rimangono necessariamente incapsulate all’interno del
messaggio trasmesso dal media stesso. Lo stesso accadde molti decenni
prima, quando “il telegrafo portò a dei cambiamenti nella natura stessa del
linguaggio”11.
McLuhan “diede il la” allo sviluppo di altre interpretazioni analitiche
come la teoria della mediazione12, ma la sua intuizione fu più tardi
sorpassata dal tempo e dall’avvento dei nuovi media digitali, che ha
permesso invece una ibridazione del messaggio, una cosiddetta
“comunicazione crossmediale”13. Il sociologo spagnolo Manuel Castells
sostiene infatti che “oggi il messaggio è il mezzo, perché è il tipo di
messaggio che vogliamo trasmettere, con l’insieme di possibilità e
l’interoperatività tra tutti i diversi media, che determina il modo in cui
realmente moduliamo e trasmettiamo quel messaggio attraverso un mezzo.
Per questo si deve raggiungere il momento dell’ipertestualità,
dell’interattività, dell’interoperatività in diverse forme di
comunicazione”14.
Le tipologie di media, insomma, sono oggi così numerose e diversificate
da spostare di nuovo il bilancino del potere sul messaggio invece che sul
mezzo. E se il messaggio ritrova importanza, se il contenuto ritorna
padrone, è il loro autore a recuperare potere a sua volta. Molti recenti studi
hanno inoltre riconosciuto come negli scorsi decenni ogni aspetto della vita,
della cultura e delle relazioni umane sia stato largamente influenzato
dall’ambiente mediatico e dalle sue prerogative: questo processo è definito
da diversi studiosi dei media, tra cui Hjarvard 200415 e Schulz16 come
mediatizzazione.
Couldry definisce la mediazione, concetto analogo, come “l’effetto
complessivo dei media nelle società contemporanee, la differenza
complessiva che i media determinano attraverso la loro azione nel nostro
mondo sociale”17, mentre Strömbäck18 definisce così la mediatizzazione
della politica: “Ciò che realmente importa è se i mass media costituiscano i
canali più importanti per lo scambio di informazioni e la comunicazione tra
le persone e gli attori politici”.
Al giorno d’oggi, il predominio dei mass media nella comunicazione
politica è ancora senza dubbio reale, ma la questione più importante da
indagare è piuttosto come questa condizione possa influenzare il modo in
cui vengono portati avanti i processi politici. Couldry19 prende ad esempio
il governo del New Labour britannico, che sotto la leadership di Tony Blair
era solito tenere le sue riunioni di gabinetto non tanto per definire i
provvedimenti dopo lunghe e concitate discussioni, ma piuttosto per attirare
l’attenzione dei media su brevi dichiarazioni già decise precedentemente.
Meyer20 utilizza proprio questo caso per descrivere il modo in cui i
media cambiano la realtà intrinseca della politica, mentre Strömbäck li
definisce “adattamenti strategici [adottati] dagli attori politici per
incorporare razionale mediatico nelle loro stesse operazioni”21.
Mazzoleni22 la identifica come “logica mediatica” (media logic23), ed è
ciò che influenza e talvolta guida le forze politiche, ma soprattutto i singoli
politici quando si muovono nell’arena pubblica.
Seguendo la media logic, il mondo dell’informazione è di fatto il palco
centrale dello spettacolo politico su cui gli attori – gli stessi politici – danno
forma alle loro mosse e modulano i loro messaggi seguendo gli argomenti
più seguiti in quel preciso momento, che sono anche i più “redditizi” per i
media, i giornali e le TV24. Una delle più grandi capacità che un politico
deve avere, in questo ambiente, è l’abilità di mantenere pubbliche relazioni
positive con intermediari culturali come i giornalisti e le redazioni dei
quotidiani più importanti25.
Quello governato dalla media logic è un mondo in cui i media portano
avanti due funzioni fondamentali della sfera pubblica26 legate alla politica:
la definizione dell’agenda (ovvero dei temi più rilevanti del dibattito
pubblico) e la selezione degli attori politici che sono più notiziabili e
attrattivi per il pubblico. In questa sfera pubblica costruita dai media,
notiamo una differenziazione netta tra i soggetti mediatici (che appaiono sui
media) e gli altri, una distinzione che Dyer27 nota tra “star e spettatori” o,
rispettivamente, tra attori politici e cittadini28.
L’elettorato, in questo contesto, non si differenzia molto da un pubblico
televisivo: esso non è realmente in grado di influenzare l’agenda, e agisce
su un piano differente in cui la comunicazione interpersonale non può
disturbare la “politica mediata” (Strömbäck 2008, p. 231). Secondo
Cook29, tuttavia, “i politici possono [...] vincere la battaglia con i media,
entrando nel ciclo delle notizie così come desiderano, ma poi finiscono per
perdere la guerra nel momento in cui gli standard di notiziabilità
cominciano a diventare i criteri primari per valutare le questioni, le politiche
e la politica”.
La disintermediazione, insomma, non è altro che una strategia per fuggire
dalla media logic e virare verso una “seconda era mediatica, in cui la realtà
diventa multipla” anziché dominata da un centro mediato30 e governato dai
media. Il campo di battaglia, qui, è l’intrinseca “legittimità dei mass
media”: quanto saranno rappresentativi, questi, nei prossimi anni? Ce lo
spiega chiaramente Schulz31: grazie a un panorama mediatico in costante
cambiamento, “gli attori politici, invece che doversi adattare alla media
logic, possono bypassare i mass media e usare i loro stessi canali per
comunicare direttamente con il pubblico e con i loro specifici target”.
5.9.2. Alla ricerca della voce dei cittadini: email e messaggi di testo
6.1. QUANDO ERAVAMO UNA “P”. UN TUFFO NELLA STORIA DELLA PUBBLICITÀ
La vera sfida della competitività per qualsiasi impresa oggi risiede nel saper perseguire non più il
valore dei prodotti e nemmeno il valore delle soluzioni, bensì il valore delle esperienze
individuali […] e, allo stesso tempo, sapersi dotare della necessaria flessibilità e lungimiranza per
poter accedere non più solo alle risorse interne all’azienda, ma per imparare ad accedere alle
risorse disponibili nella catena dei fornitori, a quelle risiedenti nella comunità dei consumatori, in
una parola alle risorse disponibili ovunque nel mondo8.
6.4. DAL PRODOTTO AL BRAND E DAL BRAND ALLA S.P.A.: IL CASO POSTEPAY
7.1. PREMESSA
In una società in cui i consumatori sono più attenti non solo alla qualità dei
prodotti, ma anche alla sostenibilità, ambientale e sociale, dei prodotti o
servizi che consumano e utilizzano e in un contesto in cui le informazioni
sono sempre più accessibili, le imprese hanno iniziato a sviluppare azioni e
strumenti per integrare le istanze ambientali, sociali ed etiche degli
stakeholder all’interno delle proprie strategie.
Alla base vi è la convinzione che un rapporto di fiducia reciproco tra
azienda e stakeholder, basato sulla trasparenza, costituisca il presupposto
fondamentale per conseguire i risultati che l’azienda si prefigge,
anticipando eventuali situazioni di crisi o danni reputazionali.
Tale approccio rappresenta l’ultima tappa di un processo, iniziato con la
corporate social responsibility, volto ad integrare in modo sempre più
profondo i concetti di sostenibilità nel business.
Lo stakeholder engagement viene realizzato effettuando una mappatura
del peso attribuito da ciascuno stakeholder ai diversi parametri che
influiscono sulla reputazione aziendale, in modo da ricavarne indicazioni
utili a supporto della pianificazione strategica di business e
all’individuazione di aree di intervento prioritarie in campo sociale e
ambientale. Il risultato di questo sforzo viene spesso pubblicato in un
bilancio sociale che mira a rappresentare la dimensione sociale verso cui la
politica aziendale tende e il valore aggiunto generato a beneficio degli
stakeholder.
Il NIS
In Italia il Network Information System (NIS) è il primo strumento e canale
di comunicazione al mercato. Ai sensi dell’art. 113-ter del TUF e delle
relative disposizioni di attuazione contenute nel regolamento Consob n.
11971/1999, gli emittenti quotati utilizzano i sistemi di diffusione delle
informazioni regolamentate (SDIR), autorizzati dalla Consob, per
diffondere al pubblico le informazioni regolamentate.
Le aziende italiane quotate hanno quindi l’obbligo di adesione al circuito
NIS, circuito telematico predisposto e gestito da Borsa Italiana per la
trasmissione delle informazioni societarie price sensitive.
Tutti i comunicati ricevuti da Borsa Italiana attraverso il NIS vengono
automaticamente archiviati e trasformati in Avviso di Borsa e, pubblicati
quotidianamente sul sito internet della Borsa. Il circuito provvede, inoltre, a
ritrasmettere automaticamente i comunicati immessi ai sensi dell’art. 2.7.1,
comma 1 (comunicati c.d. price sensitive) alle agenzie di stampa collegate
al circuito, contestualmente alla ricezione. Nel caso in cui il comunicato
venga trasmesso durante le negoziazioni, l’invio alle agenzie di stampa
viene effettuato entro i 15 minuti successivi al ricevimento. La Borsa
Italiana si riserva, tuttavia, la facoltà di ritardare la trasmissione del
comunicato alle agenzie di stampa, al fine di valutare l’opportunità di una
sospensione dalle negoziazioni degli strumenti finanziari emessi
dall’emittente.
Oggi, rispetto a soli due anni fa, all’interno di queste sezioni si trovano le
registrazioni audio/video delle conference call, oppure la possibilità di
fruizione dei principali dati economico-finanziari dell’azienda raccontati
attraverso infografiche, la visualizzazione della copertura dei titoli: in
estrema sintesi, i primi importanti segnali di uno sviluppo di nuove forme
più interattive per fruire di informazioni price sensitive.
Una delle dirette conseguenze è stata che quest’anno il 70% delle aziende
del campione ha registrato un aumento della propria performance, con una
crescita del punteggio medio di 4,4 punti rispetto allo scorso anno (e una
media totale italiana di 43,5 punti su 100), uno degli incrementi più
significativi nella storia della ricerca e di molto superiore alla crescita
europea (1,5).
Come detto, sicuramente una delle complessità che già oggi influiscono
sul flusso di comunicazione price sensitive e di conseguenza su quello
dell’informazione finanziaria è la problematica delle fake news. Questo è
un punto centrale per cui le piattaforme di comunicazione proprietarie delle
singole aziende quotate – non solo i siti web ma anche le properties social –
diventeranno sempre più fonte di riscontro sulla veridicità o meno di una
notizia.
9.1. INTRODUZIONE
La gamma di strumenti che nel corso del tempo sono stati impiegati
nell’ambito della comunicazione interna è estremamente ampia e variegata,
tanto che non è possibile definire un modello univoco in base al quale
decidere quali possono considerarsi preferibili in quanto maggiormente
idonei alla diffusione delle informazioni all’interno dell’azienda. Essi
possono essere cartacei o digitali, di carattere formale o informale.
La sfida principale pertanto non riguarda quali strumenti utilizzare nel
processo di comunicazione interna, quanto piuttosto in che modo utilizzarli
per raggiungere gli obiettivi stabiliti. La domanda nasce dal fatto che, a
parità di altre condizioni, le modalità in cui i messaggi verranno recepiti e
interpretati possono variare in funzione delle particolari circostanze
ambientali in cui sono trasmessi o del numero e dell’entità degli step
intermedi che si frappongono fra l’emittente e il ricevente.
Gli strumenti di comunicazione interna sono tipicamente classificati in
funzione dell’entità di informazioni trasmesse. Essi si possono distinguere
in strumenti “caldi” e “freddi”6. Gli strumenti caldi sono utilizzati per
sviluppare maggiore coinvolgimento, per rendere i dipendenti partecipi dei
processi aziendali, per attenuare le conflittualità, o semplicemente per
stimolare un clima proattivo e si caratterizzano per il fatto di indirizzare
messaggi nei confronti di tipici target di soggetti. Essi vengono impiegati
principalmente nell’ambito della comunicazione valoriale e assumono un
linguaggio tipicamente informale e colloquiale, finalizzato a sviluppare un
legame emotivo tra il dipendente e l’organizzazione di cui fa parte. Le
informazioni trasmesse saranno tipicamente informazioni “di relazione”.
Esempi sono l’archivio storico o il museo aziendale, i social media interni,
ecc.
Viceversa, gli strumenti di comunicazione “fredda” hanno la finalità di
informare e/o di trasmettere con efficacia notizie, procedure e disposizioni,
nei confronti di un pubblico ampio ed eterogeneo, in tempi rapidi e al fine
di ottimizzare il processo organizzativo. Essi si caratterizzano per il fatto di
definire dei flussi informativi standardizzati e spesso unidirezionali
(orizzontali, verticali e/o trasversali). Essi vengono tipicamente impiegati
nell’ambito della comunicazione gestionale e formativa, sebbene possano
essere impiegati anche nell’ambito della comunicazione valoriale (come nel
caso dei loghi aziendali. Gli strumenti freddi assumono un linguaggio che
nella maggior parte dei casi è di tipo formale e descrittivo e le informazioni
trasmesse saranno tipicamente informazioni “di contenuto”. Esempi sono le
lettere, le circolari, la rassegna stampa.
Nella Tab. 9 si riporta una sintesi dei principali strumenti di
comunicazione interna7.
Tabella 9. Focus su alcuni dei principali strumenti di comunicazione interna
Nostra elaborazione.
L’analisi del clima organizzativo può pertanto interessare diverse fasi del
processo di sviluppo dell’organizzazione, trattandosi di un’attività di
particolare rilevanza tanto nei momenti di stabilità dell’ambiente
organizzativo, per il miglioramento complessivo dell’organizzazione del
lavoro e della qualità della vita organizzativa, quanto in fasi di criticità,
laddove sussista un senso di frustrazione e sfiducia nei confronti della stessa
organizzazione, che potrebbero innescare tensioni o fenomeni di repulsione
da parte dei dipendenti. D’altro canto, l’analisi del clima organizzativo può
essere preliminare a configurare scenari di cambiamento anche nell’ipotesi
in cui l’organizzazione decida deliberatamente di introdurre nuove
procedure o interventi organizzativi mirati al perseguimento di particolari
obiettivi.
In definitiva, tale attività è indispensabile per indagare le percezioni
relative alla struttura organizzativa, per comprendere i valori che sono alla
base delle relazioni tra le diverse unità organizzative, con lo scopo di
individuare i punti di forza e risolvere le eventuali aree di criticità con
azioni di miglioramento.
L’esigenza di utilizzare gli degli strumenti più adeguati nasce dal grado di
eterogeneità delle fattispecie per cui si sviluppa un piano di comunicazione.
I mezzi utilizzati per comunicare, il numero e la qualità delle riunioni
interne, le occasioni di scambio e di incontro, gli stili di leadership
utilizzati, sono elementi che contribuiscono a loro volta a delineare la
qualità del “clima” organizzativo. Gli strumenti del piano di comunicazione
potranno essere quindi11:
- formali e informali;
- tecnici o relazionali;
- formativi o motivazionali;
- verbali o scritti;
- tradizionali o tecnologici;
- trasmissivi o inferenziali;
- “caldi” o “freddi”.
Nel nostro Paese il fenomeno lobbistico viene molto spesso percepito come
un fenomeno negativo o, comunque, non trasparente.
Ciò, in parte, va ricondotto al fatto che, a differenza del modello
anglosassone, quello italiano è contraddistinto dal costituzionalismo di tipo
giacobino. Nel costituzionalismo giacobino, è il decisore pubblico che
riesce ad individuare l’interesse generale senza alcuna intermediazione fra i
vari interessi; quindi in tal quadro la legge è opera del Parlamento che già di
per sé è espressione di tutti i cittadini, e quindi di tutti i loro interessi18.
Tale principio è stato suggellato dopo la Rivoluzione Francese con la
legge Le Chapelier, del 14 giugno del 1791, ai sensi della quale si proibiva
ai cittadini di associarsi per la difesa dei propri interessi particolari poiché
non correva nessuna differenza tra interesse dei gruppi e l’interesse generale
dello Stato; infatti, “non è permesso ad alcuno di ispirare ai cittadini un
interesse intermedio, separandoli dalla cosa pubblica con spirito di
corporazione”. Da ciò deriva che lo Stato è superiore ai cittadini e per il
bene pubblico non ha bisogno di interagire con i gruppi di interesse poiché
questi sono rappresentati nelle istituzioni19.
Un altro fattore che non ha permesso l’affermarsi del fenomeno lobbista
nel nostro Paese è quello relativo all’architettura politico-costituzionale e
alla sua origine. I Padri costituenti, infatti, nel formulare l’art. 49 della
Costituzione, secondo cui “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare
la politica nazionale”, avevano piena memoria di quanto accaduto nel corso
del ventennio fascista, quando furono aboliti i ministeri e le decisioni
venivano assunte dalle corporazioni. La loro intenzione era quindi quella di
affidare un ruolo chiave ai partiti, rendendoli intermediari degli interessi tra
cittadini e istituzioni, per evitare l’affermarsi di un nuovo sistema
corporativistico prevaricatore20.
Fino alla recente storia repubblicana, gli organi istituzionali non hanno
quindi voluto regolamentare perfettamente il lobbismo, in quanto esso
veniva inteso come un esempio di una partecipazione attiva della società
civile all’interno del processo istituzionale, attraverso la rappresentazione di
interessi specifici. Compito, questo, affidato dalla Costituzione e ricoperto,
almeno fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica21, dai partiti di
massa che fungevano da raccoglitori di interessi della società e li
trasferivano verso gli organi istituzionali. Questa situazione si è incrinata
solo a partire dagli anni Novanta, e, in particolar modo, dallo scoppio dello
scandalo di “Mani Pulite”.
Sotto il peso degli scandali legati all’inchiesta “Mani pulite”, i partiti
hanno iniziato a perdere la loro sostanziale rappresentatività. A ciò si sono
aggiunti una sempre più forte legislazione di derivazione europea e
l’intensificarsi del ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza, che
sposta gli equilibri istituzionali a favore dell’esecutivo.
Interessante, in tale contesto, risulta anche l’evoluzione giurisprudenziale
della Corte costituzionale, che in diverse sentenze ha superato i concetti che
legavano il sistema italiano a quello giacobino e successivamente ha ridotto
il ruolo predominante dei partiti, avvicinando sempre più gli eletti agli
elettori.
Le prime sentenze del 197422, ove i giudici costituzionali erano chiamati
ad esprimersi in merito alla costituzionalità dell’articolo sul divieto di
diritto di sciopero politico perché aveva quale scopo quello di influenzare le
istituzioni, hanno visto i giudici esprimersi dichiarando incostituzionale tale
articolo, poiché è diritto dei cittadini, riconosciuto dagli artt. 2, 3, 18 e 49
Costituzione, interagire con e influenzare il decisore pubblico, purché tali
attività non siano finalizzate a sovvertire l’ordine costituzionale.
Altra sentenza rilevante è del 200423, quando la Corte costituzionale ha
rigettato il ricorso del governo sullo Statuto della Regione Emilia-Romagna,
nella parte in cui introduceva la cosiddetta “istruttoria legislativa aperta”,
secondo cui i decisori regionali, in fase di progetto di legge, potevano
confrontarsi con i gruppi di interessi. In questo caso, la Corte costituzionale
ha affermato il diritto di intermediazione fra gruppi di pressione e decisore
pubblico, sostenendo il diritto costituzionale degli interessati a partecipare
alla decisione pubblica, ribadendo tuttavia che la decisione finale spetta al
decisore pubblico, ed è questo che ne ha la responsabilità.
Ad ogni modo, è solo dopo la fine dei grandi partiti di massa che i gruppi
di pressione sono iniziati a uscire dal perimetro partitico per affermarsi
sempre più nella società come interlocutori autonomi. Al contempo, sono
iniziate ad arrivate le prime proposte di legge organica per quanto riguarda
la rappresentanza degli interessi.
Tuttavia, ad oggi, non esiste ancora una legge organica che disciplini
l’attività di lobbying. Una serie di leggi, approvate nel corso degli anni,
hanno disciplinato in modo eterogeneo e totalmente indiretto ciò che un
lobbista non può fare, definendo fin dove può spingersi la sua azione. Si
parla, infatti, di una “regolamentazione strisciante ad andamento
schizofrenico”24, che ha cercato di regolamentare l’attività di lobbying
attraverso norme di minima portata e che non rappresentavano la reale
portata del fenomeno lobbistico.
Il contesto italiano si dimostra quindi estremamente intricato, composto
da norme approvate, disapplicate e nuovamente approvate con una nuova
normativa e incapace di arrivare, almeno per il momento ad una soluzione
di accettabile trasparenza riguardo ai rapporti tra privati e cosa pubblica,
poiché oltre alla legge organica sulle lobby, manca una normativa adeguata
sul finanziamento della politica, anche attraverso think tank e fondazioni,
che renda i finanziamenti privati totalmente trasparenti attraverso
l’obbligatorietà del rendiconto dei finanziamenti privati alle campagne
elettorali per ogni candidato.
Nonostante ciò, negli ultimi anni sono stati fatti diversi passi in avanti per
regolamentare e rendere più completa la normativa sul lobbying.
L’adozione della relazione di Analisi di Impatto della Regolamentazione
(AIR), ad esempio, permette, in linea teorica, di fare un’analisi completa su
come potrà influire una normativa nel contesto della società, sottolineando
aspetti positivi e negativi.
Grande importanza riveste poi l’adozione di un registro per i lobbisti
all’interno di alcuni ministeri, tra cui quello dello sviluppo economico e
quello delle politiche agricole alimentari e forestali e del turismo, e
all’interno della Camera dei deputati e in molte istituzioni regionali.
Con specifico riferimento all’esperienza della Camera dei deputati, si
ricorda che l’iscrizione al Registro dei portatori di interessi è volontaria e
prevede una serie di diritti e obblighi per gli iscritti. Da un lato, infatti, gli
iscritti hanno diritto ad avere un badge di riconoscimento e a poter circolare
in alcuni locali specificamente individuati di Montecitorio; dall’altro lato,
gli iscritti hanno l’obbligo di dichiarare gli interessi che si vanno a
rappresentare e di redigere una relazione annuale sulle attività svolte e sugli
incontri realizzati all’interno della Camera dei deputati.
Utile inoltre ricordare che il Regolamento istitutivo del Registro prevede
il divieto di revolving door; infatti, il lobbista per iscriversi al Registro deve
“non aver ricoperto negli ultimi dodici mesi cariche di governo né aver
svolto il mandato parlamentare”. Da ricordare è poi l’inserimento di reati
riguardanti l’esercizio di pressioni illecite nella legge anticorruzione del
201225 e, ancor più recentemente nella cosiddetta legge “Spazza-corrotti”
del 2018, che ha introdotto la nuova fattispecie di reato di traffico di
influenze illecite26.
Tutte queste iniziative hanno permesso un primo passo verso lo sviluppo
di una nuova legge organica che imporrà una normativa definitiva e delle
misure omogenee sia per tutte le istituzioni pubbliche, sia per i lobbisti
stessi, che però non sembra ancora pronta per essere varata.
L’attività del lobbista di cui sin qui si è trattato si realizza con l’impiego di
determinati strumenti impiegati sia per l’attività di back office, ovvero di
predisposizione interna dei contenuti da esportare, sia per l’attività di
comunicazione verso l’esterno.
Con specifico riferimento all’attività di back office, essenziale nella prima
fase del lavoro del lobbista di cui si è parlato in precedenza, gli strumenti
principali sono un adeguato database di contatti, il calendario dei lavori
istituzionali, i resoconti dei lavori istituzionali e avere una mappa chiara dei
cosiddetti “rapporti di potere e di affiliazione”.
Il database dei contatti è forse lo strumento base di un lobbista; senza di
esso sarebbe davvero difficile immaginare come un lobbista potrebbe
muoversi tra gangli istituzionali.
Contempla nominativi, recapiti e dati relativi ai principali decision maker,
influencer, giornalisti agli opinion leader. Da esso è utile ricavare una
mailing list, da tenere costantemente aggiornata, da impiegare quando sia
necessario ingaggiare i decisori su una determinata questione, sia in
maniera diffusa, sia selettiva.
Il calendario dei lavori istituzionali è invece lo strumento che consente al
lobbista di muoversi tempestivamente per riuscire a veicolare le proprie
istanze in maniera efficace. Nel calendario dei lavori, infatti, sono annotate
le molteplici scadenze e tempistiche relative all’attività delle istituzioni e
degli interlocutori pubblici di riferimento.
I resoconti dei lavori istituzionali, con particolare riferimento a quelli
parlamentari d’aula e delle commissioni, rappresentano uno strumento
estremamente utile, da cui spesso si possono trarre informazioni non
reperibili altrove, almeno con lo stesso tempismo, e, soprattutto, dove si
possono verificare con ragionevole certezza le informazioni che spesso si
apprendono nel corso dei propri contatti e incontri quotidiani.
Altro strumento utile a costruire la propria strategia di lobbying e per
bilanciare meglio il proprio posizionamento e i propri messaggi è la
mappatura dei cosiddetti “rapporti di potere e di affiliazione”, attraverso la
quale si possono descrivere, magari declinandoli per le diverse tematiche di
interesse, i soggetti influenti, i rapporti di reciproca influenza, le prese di
posizione, le alleanze e le eventuali coalizioni.
Con tali elementi, utilizzati e dosati in modo adeguato, è sicuramente
possibile definire al meglio una strategia di lobbying da esportare verso gli
interlocutori esterni, politici e non.
Anche tale attività di “esportazione” dei contenuti, finalizzata
evidentemente a portare gli interlocutori sulla propria posizione con
riferimento a una determinata tematica, richiede al lobbista di possedere e
saper impiegare determinati strumenti, quali position paper, dossier, policy
brief, testi tecnici, playbook, audizioni parlamentari e incontri con i decisori
pubblici.
I position paper sono uno degli strumenti di comunicazione più diffusi. Si
tratta di documenti sintetici su una tematica specifica, che contengono una
descrizione del quadro generale in cui il tema si è sviluppato, delle forze
coinvolte, delle loro posizioni e del relativo peso, del dibattito in corso e,
infine, della posizione dell’organizzazione rappresentata dal lobbista che le
veicola. Essendo documenti ad uso esterno, destinati a decisori pubblici,
giornalisti e influencer, devono essere scritti in modo semplice e chiaro,
senza acronimi o tecnicismi, non devono contenere informazioni riservate
che non possono essere rese pubbliche (a tal proposito, particolare
attenzione va certamente prestata nei casi di informazioni rilevanti per i
mercati finanziari quando si ha a che fare con imprese quotate) e,
soprattutto non devono essere auto-referenziali e, quindi, dare per scontate
informazioni di contesto o di dettaglio note al lobbista, ma che potrebbero
non essere condivise dai destinatari del documento.
Simili nella struttura, ma diversi nell’uso, sono i dossier, ovvero
documenti che recano una serie di informazioni sulla tematica di
riferimento, sulle relative posizioni dei decisori pubblici e degli influencer e
sugli argomenti e sui dati a supporto della posizione ivi contenuta, ma che
sono destinati ad un utilizzo quasi esclusivamente interno
all’organizzazione interessata.
Sempre destinati ad un uso interno, sono poi i policy brief, ovvero
documenti che analizzano dichiarazioni e prese di posizione dei decisori
pubblici su un determinato tema.
Oltre agli strumenti di approfondimento sin qui analizzati, vi sono poi
quegli strumenti cosiddetti tecnici che incorporano a tutti gli effetti le
istanze del lobbista: le proposte di legge, gli emendamenti e gli atti di
sindacato ispettivo (interrogazioni, risoluzioni, mozioni e ordini del giorno).
Tali strumenti rappresentano in ogni caso proposte di lavori istituzionali che
vengono sottoposte ai decisori pubblici per facilitare la loro adesione
all’iniziativa proposta dal lobbista, qualora la condividono nello spirito.
Resta naturalmente ferma la responsabilità ultima di tali atti, qualora fatti
propri dai decisori istituzionali, in capo alla politica, da cui ne dipendono le
sorti.
Tornando agli strumenti comunicativi nella piena disponibilità del
lobbista, uno strumento interessante è rappresentato dal playbook, ovvero
da una sintesi scritta di circa una pagina, in stile cartella stampa, della
questione, con dati, con la posizione rappresentata e con gli argomenti
chiave a sostegno di tale posizione. Tale strumenti potrebbe essere inteso
come una sorta di evoluzione del position paper, con lo scopo specifico di
fornire elementi sintetici, precisi e immediatamente comprensibili ad un
decisore o influencer che tipicamente ha con poco tempo a disposizione per
l’approfondimento.
Strumento peculiare, per origine e rilevanza, è poi rappresentato dalle
audizioni parlamentari che consentono l’esposizione da parte di un
rappresentante dei portatori di interesse della propria posizione in
Parlamento. Un’audizione può essere richiesta dal Legislatore oppure
suggerita dall’organizzazione stessa che ha interesse alla formalizzazione
parlamentare della propria visione su una determinata questione. In
occasione di un’audizione, l’organizzazione può depositare agli atti anche
materiale di approfondimento sul tema trattato.
Trattasi di uno strumento molto rilevante in virtù della portata in termini
di audience difficilmente raggiungibile con gli altri strumenti, ma che
espone anche al rischio di essere soggetti di domande e approfondimenti
non preparati e condivisi ex ante.
Infine, altro strumento cui si ricorre comunemente è quello degli incontri
istituzionali, che, seppur con una minore visibilità, consentono di esportare
efficacemente al decisore pubblico una determinata visione, peraltro in una
situazione di maggiore comfort.
Anche tale strumento, tuttavia, deve attenersi a regole precise. Durante gli
incontri istituzionali, infatti, devono essere forniti fatti e informazioni
obiettive, devono essere presentati tutti gli interessi e le posizioni
attualmente dibattute, compresi i punti di vista contrari e le relative contro
argomentazioni, ogni argomento deve essere spiegato separatamente,
avendo cura di essere brevi per lasciare il tempo a domande
dell’interlocutore e deve essere lasciato (contestualmente o in seguito)
qualcosa di scritto (playbook, position paper, testo tecnico), con i recapiti
per poter essere prontamente ricontattati, qualora dovessero essere ritenuti
opportuni approfondimenti o chiarimenti.
Il novero degli strumenti a disposizione del lobbista è quindi numeroso e
vario. Sta sempre alla sensibilità e al buon senso del suo utilizzatore saperli
impiegare e dosare avendo riguardo al contesto e all’interlocutore con cui ci
si relaziona di volta in volta.
10.5.6. Lobby diretta e lobby indiretta (advocacy)
Con gli elementi sin qui esposti, si è cercato di chiarire a cosa ci si riferisce
quando si parla di lobby e di analizzare in cosa consiste (o meglio, in cosa
dovrebbe consistere) l’attività del lobbista.
In tale disamina, più volte, in modo più o meno esplicito, ci si è riferiti al
legame tra lobby e mondo istituzionale e, quindi, politica. Tra il mondo
della lobby e la politica intercorre, infatti, un rapporto molto stretto. Non a
caso nella elaborazione di una strategia di lobby si tiene sempre conto della
possibilità di analizzare il contesto politico cercando di arrivare al proprio
obiettivo parlando in modo diretto con il decisore pubblico.
Di qui, si potrebbe cogliere una distinzione tra due modi di fare lobby: la
lobby diretta e quella indiretta.
La lobby diretta consiste nell’elaborazione di una strategia che permetta
di portare avanti gli interessi del lobbista agendo direttamente con il
decisore pubblico. La fase di lobbying diretta si concretizza attraverso
contatti o incontri con i rappresentanti istituzionali ai quali il portatore
d’interesse si rivolge, e attraverso la redazione di documenti, volti a
convincere il decision maker della validità della propria proposta.
Già con la lobby diretta emerge quindi in modo chiaro la faccia legata alla
comunicazione del fenomeno lobbistico, che, in questo caso, va considerata
come comunicazione istituzionale collegata a informazioni e
approfondimenti o documentazioni volti a confutare una determinata
posizione o a sostenerne l’affermazione.
Vi è poi un’altra declinazione del fenomeno lobbistico che passa per la
lobby indiretta. In questo caso il lobbista non rivolge la sua attenzione ai
processi decisionali ma cerca di agire indirettamente sul decisore pubblico
attraverso l’advocacy istituzionale.
Nella lobby indiretta i lobbisti “chiedono aiuto alla comunità per
influenzare i politici”28, ma per arrivare a coinvolgere la società c’è
bisogno di una grande capacità di conoscenza e uso dei media, nonché di
una strategia comunicativa più avanzata e facile da raggiungere.
Esempio tipico di lobby indiretta sono le cosiddette grassroots
campaigns, ovvero quelle campagne di comunicazione “dal basso”, la cui
strategia è quella di arrivare direttamente alla radice della società per poi
farvi crescere un’esigenza o un’idea specifiche29.
Tali iniziative sono costruite attraverso campagne di comunicazione volte
appunto a sensibilizzare comunità locali, gruppi di interesse e opinione
pubblica, per suscitare la loro conseguente pressione nei confronti delle
istituzioni e dei decisori pubblici.
Per riuscire efficacemente, tali iniziative devono riuscire a mobilitare
persone interessate alle tematiche trattate e devono incidere su persone
disponibili a manifestare le proprie opinioni con un gesto concreto (andare a
una manifestazione, firmare una petizione, inviare una e-mail, ecc.). Esse
richiedono strumenti di coordinamento, come social network, direct
mailing, siti web e forum, attraverso i quali indirizzare le persone verso una
condotta condivisa, atta ad incidere sul decisore pubblico.
La lobby diretta e quella indiretta non vanno considerate come
contrapposte, ma, al contrario, rappresentano molto spesso due canali
diversi da impiegare congiuntamente per raggiungere un unico obiettivo.
Infatti, molto spesso, è difficile incidere sul processo decisionale solo
attraverso iniziative di lobby diretta, in quanto il massimo risultato si ottiene
quando il politico è convinto a portare fino in fondo la battaglia del lobbista,
come fosse una propria battaglia.
Le due facce della lobby si integrano quindi l’un l’altra e sono molto
spesso necessarie per la realizzazione di un’unica strategia. In tal senso,
associazioni, fondazioni e think tank30 hanno spesso il ruolo di analizzare
la politica e le implicazioni economiche che essa comporta dando quindi
degli spunti di riflessione su cui poter lavorare.
Sotto certi aspetti, la lobby diventa quindi un modo per poter espandere
conoscenza di un determinato fenomeno e, in alcuni casi, sensibilizzazione
dell’opinione pubblica riguardo una specifica tematica. Si rafforza, quindi,
il concetto della lobby come attività di comunicazione tout court.
10.6. CONCLUSIONI
Nelle pagine che precedono si è offerta una chiave di lettura del fenomeno
lobbista che, oltre ad indagarne i confini e le origini, ha cercato di fare
ordine tra i suoi principali ingredienti, suggerendo quello che si ritiene
essere il loro migliore impasto possibile.
Sarà certamente apparso con evidenza al lettore il legame stretto tra
attività di lobbying e società, principalmente mediato dalla politica che la
rappresenta, ma anche – e sempre più – in forma diretta, in considerazione
del sempre maggiore protagonismo della collettività nella vita delle
istituzioni.
Se con la politica tradizionale, quella di impostazione costituzionale, dove
i grandi partiti fungevano da grande filtro tra cittadini, corpi intermedi e
istituzioni, la lobby diretta era sufficiente per rappresentare un determinato
interesse al decisore pubblico, la crisi del sistema partitico della Prima
Repubblica e, con essa, dei corpi intermedi, ha richiesto al lobbista di
ricorrere a strumenti innovativi e alternativi, che si riassumono facilmente
nella categoria della lobby indiretta. Si parla di lobby moderna.
E se si volesse equiparare la lobby a una forma d’arte, dopo quella
moderna, dovremmo parlare di quella contemporanea, ovvero quella in
divenire, che ancora si fatica a comprendere e descrivere. Stiamo, infatti,
vivendo un momento storico-politico caratterizzato da una forte diffusione
dei movimenti o partiti “populisti”, che, soprattutto attraverso l’impiego dei
nuovi strumenti di comunicazione offerti dai social network, parlano
direttamente e continuamente con il popolo, utilizzando il suo linguaggio e
intestandosi le sue istanze e battaglie, lasciando talvolta da parte lo
strumento del compromesso politico, che in passato caratterizzava – almeno
apparentemente – l’operato del decisore pubblico.
Tali nuove modalità comunicative (senza intermediazione e con assoluta
continuità) e il nuovo linguaggio della politica richiedono evidentemente un
nuovo approccio della lobby che, diversamente, resterebbe ferma
nell’incapacità di incidere sulle scelte istituzionali.
In un certo senso, si potrebbe dire che, l’attività di lobbying dovrà essere
reindirizzata proprio verso la cittadinanza che, grazie al potere della rete
potrebbe incidere sul processo decisionale pubblico più efficacemente
rispetto agli interlocutori istituzionali tradizionali.
Anche in questo caso, l’interrogativo sta nel come riuscire efficacemente
a “ingaggiare” l’opinione pubblica. Accanto agli strumenti più tradizionali
della stampa e delle pubblicazioni di articoli relativi a un tema specifico, si
fa sempre più strada il ricorso ai social network e, spesso, anche il
coinvolgimento di influencer attivi su un determinato tema, seguiti sui
social network proprio dal target di interesse del lobbista che vi ricorre.
Un altro strumento di recente implementazione è quello dei deliberative
pools, ovvero sondaggi su un campione ampio di popolazione target, che,
successivamente, viene ristretto. Al campione ristretto viene quindi data
l’opportunità di partecipare a tavoli di discussione con gli esperti di settore
in modo da instaurare la discussione sul tema spiegandone le potenzialità e
confrontandosi su eventuali problematiche che potrebbero sorgere. Tale
strumento permette teoricamente di prevedere quali potrebbero essere i
problemi riguardo uno specifico tema, consentendo all’organizzazione
interessata di intervenire tempestivamente per evitarli o limitarli. Inoltre,
nel caso in cui l’organizzazione interessata fosse un’impresa, si segnala che
l’impiego di tale strumento porta una visibilità positiva all’impresa stessa,
mostrandola disponibile al confronto sia sugli aspetti positivi sia su quelli
negativi che potrebbero sorgere33, e quindi facendola percepire come più
aperta e vicino ai consumatori e ai cittadini.
Influencer e deliberative pool sono solo alcuni degli strumenti a cui
probabilmente dovrà ricorrere il lobbista contemporaneo che vuole
conservare l’efficacia della propria azione nel nuovo contesto socio-
politico.
Saranno ancora molti i mezzi di comunicazione e di influenza che il
lobbista dovrà e potrà sviluppare per migliorare la propria azione, ma
certamente saper ascoltare e rispettare il contesto, per interpretarlo e quindi
rispondergli tempestivamente e adeguatamente è la regola generale più
importante che un buon lobbista deve sempre rispettare.
Può mutare, infatti, l’estrinsecazione concreta dell’azione di lobbying, ma
il modus resterà il medesimo anche con gli interlocutori del domani.
1. Michelangelo Suigo è senior vice president Government Affairs in Leonardo S.p.A. da aprile 2019.
Laureato in Economia e Commercio all’Università degli Studi di Roma La Sapienza, è giornalista
pubblicista dal 2001. Dal 1995 al 1999 ha lavorato al Senato della Repubblica come esperto di
tecnica legislativa, occupandosi di telecomunicazioni, emittenza radiotelevisiva, industria, trasporti e
lavori pubblici. Nel 1998 ha conseguito il diploma al master in studi superiori legislativi ISLE
(Istituto per la documentazione e gli studi legislativi). Entrato in Omnitel, poi Vodafone Italia, nel
dicembre 1999, ha assunto ruoli di crescente responsabilità fino ad assumere quello di Head of
Governmental & Institutional Affairs, ricoperto fino a marzo 2019. Docente di Lobbying e Public
Affairs nei principali master in Lobbying e Comunicazione di impresa (tra cui Luiss Business School,
Sole 24 Ore Business School, Università di Tor Vergata, Suor Orsola Benincasa e LUMSA), ha
collaborato con il settimanale Il Corriere delle Telecomunicazioni e con il mensile MT – Management
& Telecomunicazioni, redigendo articoli per le pagine economiche e normativo-istituzionali. Già
consigliere di amministrazione di Civita e del Centro Studi Americani, è tra i fondatori del think tank
La Scossa, del quale è stato presidente per due mandati, da maggio 2015 ad aprile 2019.
2. Antonucci M.C., Rappresentanza degli interessi oggi, Carocci, Pisa, 2011, p. 20.
3. Petrillo P., corso di Teorie e tecniche del lobbying, Università Luiss Guido Carli e Luiss Business
School, Roma.
4. Mazzei G., Lobby della trasparenza. Manuale di relazioni istituzionali, Centro Doc. Giornalistica,
Roma, 2009: “Nel 1832 il sostantivo Lobby veniva utilizzato per descrivere il comportamento
‘persuasivo’ di alcuni soggetti nei confronti i deputati del Campidoglio dello Stato di New York ad
Albany” in Petrillo P., Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobby nel diritto pubblico
comparato, Giuffrè, Milano, 2011, p. 197.
5. Petrillo P., corso di Teorie e tecniche del lobbying, cit.; Petrillo P., Democrazie sotto pressione, cit.,
p. 127 e ss.
6. Nel primo caso si tratta delle cosiddette “norme verso l’esterno”; nel secondo delle “norme verso
l’interno”, in Petrillo P., corso di Teorie e tecniche del lobbying, cit.; Petrillo P., op. cit., p. 91 e ss.
7. Lobbying Disclosure Act, Office of the Clerk, U.S. House of Representatives, Section. 3,
Definitions, (7), Lobbying Activities. The term “lobbying activities” means lobbying contacts and
efforts in support of such contacts, including preparation and planning activities, research and other
background work that is intended, at the time it is performed, for use in contacts, and coordination
with the lobbying activities of others.
8. Petrillo P., corso di Teorie e tecniche del lobbying, cit.; Petrillo P., .op. cit., p. 223 e ss.
9. Public law 95-521, Oct. 26, 1978, Title V, “Post employment conflict of interest”.
10. Petrillo P., corso di Teorie e tecniche del lobbying, cit.; Petrillo P., .op. cit., p. 31 e ss.
11. Code of Conduct and Rules of the House, www.parliament.uk.
12. Trattato sull’Unione Europea, art. 11, par. 2: “Le istituzioni mantengono un dialogo aperto,
trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile.” Cfr. anche Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea, art. 154, che prevede, al par. 1, che “la Commissione ha il
compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello dell’Unione e prende ogni misura
utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti”.
13. OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), Public governance and
territorial development directorate public governance committee, Lobbyists, government and public
trust: promoting integrity by self-regulation, 2009.
14. Petrillo P., Democrazie sotto pressione, cit., p. 283 e ss.; Parlamento europeo, Members’
Research Service and Transparency Unit, “EU Transparency Register” (2014 e oltre),
https://ec.europa.eu/transparencyregister/public/homePage.do.
15. Draetta U., Elementi di diritto dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano, 2009.
16. VI. Measures in the event of non-compliance with the code of conduct: “18. Non-compliance
with the code of conduct by registrants or by their representatives may lead, following an
investigation paying due respect to the principle of proportionality and the right of defence, to the
application of measures laid down in Annex IV such as suspension or removal from the register and,
if applicable, withdrawal of the badges affording access to the European Parliament issued to the
persons concerned and, if appropriate, their organisations. A decision to apply such measures may
be published on the register’s website”. […] Interinstitutional Agreements […].
17. Petrillo P., Democrazie sotto pressione , cit., p. 253 e ss.
18. Petrillo P., corso di Teorie e tecniche del lobbying, cit.
19. Trasparency International Italia Associazione contro la corruzione, Lobbying e democrazia: la
rappresentanza degli interessi in Italia, novembre 2014; OECD, Lesson learnt from implementing the
OECD Recommendation on Lobbying, 2014; Di Majo L., La rappresentanza in declino: partiti
politici e gruppi di pressione nelle procedure democratiche, 25 luglio 2016.
20. Petrillo P., Democrazie sotto pressione, cit., p. 24 e ss.; Trasparency International Italia
Associazione contro la corruzione, op. cit.; Di Majo L., op. cit.
21. Il periodo di tempo che va dall’inizio dell’Italia repubblicana (1946) fino agli scandali
conseguenti all’inchiesta “Mani Pulite” (1992) della procura del tribunale di Milano che spazzò via
una parte della classe politica dell’epoca e sancì la fine dei grandi partiti di massa.
22. Corte Costituzionale, sentenze n. 1 e n. 290 del 1974.
23. Corte Costituzionale, sentenza n. 379 del 2004.
24. Petrillo P., Democrazie sotto pressione, cit., p. 307 e ss.
25. Legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
26. Legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica
amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e
movimenti politici”.
27. CPI (Corruption Perceptions Index) rilasciato il 29 gennaio 2019 da Transparency International e
diffuso nel nostro Paese da Transparency International Italia.
28. Zumbo D., Assistente parlamentare: dalla storia del diritto alle moderne strutture di lobby,
youcanprint, 2012.
29. A titolo esemplificativo, si cita il caso di “Sì, Torino va avanti”, iniziativa lanciata da sette
“madamine” torinesi pro-TAV, con forte spinta social e manifestazioni di piazza (piazza Castello
novembre 2018-gennaio 2019).
30. Enti che raggruppano al loro interno importanti esperti di settore e personalità autorevoli che
riflettono sui temi legati principalmente alla politica e all’economia.
31. Zumbo D., op. cit.
32. Si veda, ad esempio, il caso del disegno di legge sulla concorrenza approvato dal Consiglio dei
Ministri nel marzo 2015, in costanza del quale è stata lanciata un’ampia campagna social e numerosi
hashtag, come ad esempio #rottamalatutela, che ha totalizzato oltre 1,25 milioni di tweet.
33. Fishkin J., What is deliberative polling?, http://cdd.stanford.edu/what-is-deliberative-polling/.
CAPITOLO 11
La comunicazione di crisi
DI GIANLUCA COMIN E GIUSEPPE STAMEGNA1
11.1. INTRODUZIONE
11.2. LA CRISI
Il crisis manager
In modo trasversale al Comitato di Crisi c’è la figura del crisis manager, del
pilota che – spesso da consulente esterno – guida l’organizzazione nella
situazione di difficoltà. Il crisis manager assume un ruolo di comando nel
condurre, avvisare e supportare la struttura manageriale nel periodo critico.
Nonostante sia una figura tanto discussa quanto rara, oggi è una risorsa
essenziale per ogni impresa. La scelta di questo soggetto deve avvenire in
tempi non sospetti, così da consentire l’integrazione all’interno della
struttura aziendale nei momenti di calma, quando non vi è alcuna traccia di
disagio. Il principale compito di ogni crisis manager consiste nell’educare il
team sviluppando best practice condivise, attraverso le quali fronteggiare
l’emersione di un evento negativo. Sebbene negli anni le tipologie di crisi
abbiano assunto le forme più svariate, un crisis manager deve essere sempre
in grado di sviluppare un piano di azione adeguato alle varie circostanze,
per difendere l’immagine del gruppo. Una delle sue principali responsabilità
consiste proprio nel coordinare la gestione dei rapporti con i media,
cercando di massimizzare il flusso di informazioni e contenendo l’effetto
nefasto che una “perturbazione” può avere sulla credibilità aziendale.
Il direttore della comunicazione
Spesso è lui – se è un manager di alto profilo e rappresenta la linea della
proprietà o degli azionisti – ad assumere la leadership del lavoro all’interno
del comitato, fissando le priorità e decidendo l’intervento di un crisis
manager esterno. Spetta al direttore della comunicazione giudicare le
informazioni raccolte e supervisionare il lavoro degli altri componenti del
team. In pratica è colui che detta i tempi e risponde ai vertici (presidente,
amministratore delegato e membri del Consiglio di Amministrazione).
Capita spesso che sia il direttore della comunicazione a dichiarare lo stato di
emergenza e a tenere i contatti dietro le quinte con la stampa e le televisioni
che si occupano dell’evento avverso.
Il portavoce
Per gestire l’impatto pubblico con gli stakeholder e comunicare verso
l’esterno, esiste la figura del portavoce. È lui il volto della società in grado
di interpretare e veicolare esternamente i contenuti predisposti dal comitato
di crisi. Non è necessario che sia l’amministratore delegato, il presidente o
il principale azionista, ma spesso si ricorre a tecnici esperti o allo stesso
capoufficio stampa. Esistono però alcune eccezioni in cui deve essere
coinvolto il vertice della società:
- in caso di eventi particolarmente gravi e rilevanti, quando cioè la
situazione impone una piena e diretta assunzione di responsabilità da parte
dei vertici;
- qualora un amministratore delegato (o un presidente) disponga di una
personalità rassicurante, di una capacità di chiarezza, simpatia ed empatia
verso i media, di un’abilità nel parlare in televisione o partecipare a dibattiti
e talk show. In questo caso è consigliabile che un manager di vertice possa
anche interpretare il ruolo di portavoce.
Gli operativi
L’efficacia di una risposta alla crisi dipende dalla capacità dei diversi
componenti del comitato di lavorare in sintonia, mobilitandosi,
coinvolgendo e motivando i colleghi, e facendo circolare le informazioni
così che tutti ne possano disporre per le proprie attività. Agli operativi
compete l’analisi dei messaggi prima dell’approvazione finale, la raccolta e
il processo di analisi delle informazioni dalle diverse aree, il reporting
orario o quotidiano delle azioni svolte.
Particolare importanza tra gli operativi hanno gli addetti stampa, il cui
compito è di avere il contatto diretto con i giornalisti dei diversi mezzi di
informazione. L’ufficio stampa deve:
- possedere una chiara e aggiornata mailing list dei giornalisti;
- conoscere come lavorano i giornalisti dei diversi mezzi di informazione:
i tempi televisivi sono diversi da quelli di un quotidiano, mentre
l’aggiornamento richiesto a un sito web di informazione è certamente più
frequente di un bollettino radiofonico;
- essere capace di predisporre i comunicati stampa e il press kit, che
contengono tutte le informazioni sull’azienda utili a rendere facile
l’acquisizione di notizie da parte dei giornalisti;
- essere preciso e accurato, ma allo stesso tempo rapido e incisivo.
I due principali errori nei quali un’azienda può incorrere mentre fronteggia
una crisi reputazionale sono quelli di mentire e tacere. Nel caso in cui
un’organizzazione dovesse diffondere notizie che non corrispondono alla
verità dei fatti, perderebbe inevitabilmente di credibilità, incorrendo in una
doppia crisi: reale e reputazionale. Nel secondo caso, il silenzio può essere
interpretato come una esplicita ammissione di colpevolezza o un tentativo
di coprire informazioni che metterebbero in imbarazzo la struttura, dando
vita a una serie di congetture che potrebbero far percepire ai pubblici di
riferimento una situazione peggiore di quella che c’è nella realtà.
Il portavoce dovrà quindi essere attento a generare un flusso continuo e
coerente di informazioni verso tutti i media di riferimento, senza tralasciare
alcun elemento e rispettando i tempi giornalistici. Le relazioni con i media
non sono una funzione che si può attuare attraverso regole scritte e
codificate. Secondo Toni Muzi Falconi, questi sarebbero i consigli per una
positiva gestione dei rapporti con la stampa7:
- essere sempre onesti;
- dare sempre al giornalista un valore aggiunto;
- indirizzare l’informazione solo verso chi è interessato a riceverla;
- nell’argomentare un tema occorre sempre partire dall’interesse del
giornalista, seguito da quello del lettore, mai da quello di chi si rappresenta;
- avere come obiettivo un articolo corretto, non necessariamente
favorevole;
- non fare menzione di una notizia se non si desidera che venga
pubblicata.
Una relazione efficace con i media è il primo passo verso la risoluzione dei
problemi, ed è l’elemento essenziale di ogni piano di gestione della crisi. Di
seguito un vademecum che può permettere di evitare che eventi negativi
degenerino in un danno enorme per la reputazione:
1) L’interazione con i media e gli stakeholder deve essere aperta e onesta:
per garantirsi il più ampio numero di consensi è sempre bene considerare il
punto di vista dei consumatori.
2) La reazione del gruppo all’evento deve essere immediata. L’azienda
che riuscirà a intraprendere azioni di recovery durante le fasi embrionali
dell’evento è in grado di diminuirne il danno. In questo modo si riuscirà a
intaccare la copertura del numero di persone coinvolte nell’eredità negativa
che la difficoltà si lascia alle spalle, ampliando la base di simpatizzanti nei
confronti della società in questione.
3) È importante utilizzare sempre un unico portavoce. In caso contrario si
rischia di diffondere versioni dei fatti contrastanti e ambiguità nelle
dichiarazioni rilasciate. Piuttosto che diminuire gli effetti si espone
l’organizzazione a critiche da parte di media, stakeholder e opinione
pubblica.
4) Le armi più efficaci a disposizione degli addetti alla gestione sono i
fatti. Le imprese rischiano di subire gravi danni rilasciando dichiarazioni
basate sulla conoscenza incompleta e approssimativa di ciò che sta
accadendo.
5) Mai mentire. Anche solo una bugia detta ai media, al target audience o
alle istituzioni può mettere in difficoltà la società, minando l’attendibilità di
tutte le comunicazioni emesse.
6) È importante stabilire e mantenere i contatti con i principali gruppi di
interesse. Gli stakeholder possono decretarne il fallimento o il successo in
una fase di criticità acuta. Prima di qualsiasi considerazione, è importante
capire la natura della crisi e, di conseguenza, determinare le figure coinvolte
in questo processo.
La conclusione di una crisi deve avere un peso specifico rilevante al pari del
suo avvio, perché si possa sedimentare nella percezione dell’opinione
pubblica. È per questo fondamentale prevedere, anche in questa fase, una
corretta informazione che ne dia il corretto rilievo su due livelli distinti: uno
interno, in cui vengono coinvolti i dipendenti, e uno esterno, attraverso i
media e i canali digitali, comunicando con tutti i soggetti interessati.
Dopo la crisi, il monitoraggio del contesto di riferimento, della rassegna
stampa e del web dovrà proseguire per almeno un anno, a seconda della
gravità dell’evento che si è appena superato. Questo per prevenire ogni
“ricaduta” ed essere pronti nel caso in cui l’organizzazione tornasse
all’attenzione, anche per un breve periodo, dei media o dell’opinione
pubblica.
L’apprendimento post-crisi è un momento decisivo per imparare da
quanto avvenuto. Le conoscenze acquisite, infatti, non devono andare
disperse, bensì diventare patrimonio di tutta l’azienda. In primis, vanno
aggiornati tutti gli strumenti utili alla prevenzione e alla preparazione a un
evento negativo, indicando le modalità con cui captare i segnali di crisi e
individuare le aree vulnerabili, integrando le competenze all’interno del
Comitato di Crisi e affinando le procedure di relazione con i media.
L’ultimo passaggio deve consistere nella realizzazione di un report
dettagliato di quanto accaduto nel corso della crisi. Il documento deve
contenere quanto messo in campo in quella fase, cosa è stato comunicato e
quali documenti sono stati prodotti:
- sintesi delle attività svolte;
- materiali media;
- rassegna stampa;
- relazione sui costi sostenuti;
- valutazione finale del danno.
È in questi casi che si misura la tenuta nervosa e la preparazione del management a un evento di
crisi inaspettato. La prima mossa di comunicazione del Comitato di Crisi coordinato da
Castellucci, che nel frattempo aveva visto l’ingresso di un crisis manager esterno, è stato
rivolgersi alle famiglie delle vittime e alla città di Genova, non rispondendo alle polemiche e
mostrandosi aperti al dialogo con tutti i soggetti coinvolti. Quattro giorni dopo il drammatico
evento, Castellucci e l’allora presidente della società, Fabio Cerchiai, in una conferenza stampa a
cui partecipano media provenienti da tutto il mondo, presentano un pacchetto di misure a
sostegno delle famiglie delle vittime e della città di Genova, comprendente la possibilità di
ricostruire il ponte in 9 mesi, per un investimento totale di 500 milioni di euro.
Nei giorni e nelle settimane successive, si verifica un’escalation sul piano della polemica politica:
il governo accusa di fatto Autostrade di essere responsabile della tragedia, minacciando di ritirare
la concessione e lasciando intendere che la Convenzione che regola il rapporto tra Stato e
concessionario sia molto sbilanciato verso la società. L’azienda decide di adottare, anche in
questo caso, un atteggiamento mediato, evitando di utilizzare toni negativi rispetto alle accuse che
venivano poste, ma rispondendo punto per punto con i fatti.
E così, ogni mattina dal 14 agosto, al settimo piano di via Bergamini dove hanno sede gli
headquarter di Autostrade, l’ufficio più affollato è quello del Comitato di Crisi, dove una tragedia
probabilmente unica nel suo genere sul piano aziendale viene affrontata con un modello di
gestione anglosassone, che prevede il coinvolgimento delle maggiori agenzie di comunicazione,
con ambiti di intervento distinti e definiti, coordinate dal crisis manager esterno.
Conclusa la prima fase della crisi, cioè quella della gestione dell’emergenza, il primo atto
concreto di Autostrade per ripristinare la propria reputazione e smentire le inesattezze emerse
nella polemica politica, è quello di pubblicare sul proprio sito web il testo integrale della
Convenzione che regola i rapporti tra Stato e concessionario dell’autostrada. Per trasparenza, ma
anche per mostrare una sollecitudine e un’apertura totale a dare tutte le risposte agli stakeholder
di riferimento, fino all’opinione pubblica.
Dalla pubblicazione sul sito della Convenzione, alla diffusione pubblica del progetto per la
ricostruzione del Ponte, fino alla costruzione di un importante fronte di consenso a Genova con la
Confindustria genovese e i comitati degli sfollati, arrivati ad invocare a gran voce che il ponte
venisse ricostruito da Autostrade e non da soggetti terzi, nel corso dei mesi il Comitato di Crisi ha
lavorato su fronti molteplici per ristrutturare i rapporti con i pubblici di riferimento che, a causa
dell’imprevedibile evento e delle polemiche che ne sono emerse, per forza di cose aveva rischiato
di essere compromesso.
Ma l’azione comunicativa più rilevante è stata un’operazione trasparenza realizzata sul sito della
società, un vero e proprio fact-checking che ha messo a disposizione di tutti gli utenti dati, fatti e
spiegazioni tecniche tese a smentire le numerose fake news circolate sul tema Ponte Morandi.
Tutte le attività messe in campo dall’attivazione della cabina di regia della crisi, sviluppate su tutti
gli ambiti della comunicazione – dalle media relations alla comunicazione interna, passando per
un sapiente utilizzo degli strumenti digitali e delle relazioni istituzionali – e volte alla
collaborazione con le vittime dell’incidente senza mai scadere nella polemica, hanno permesso al
gruppo di ripristinare la propria reputazione.
Un caso di crisis management davvero interessante e attuale, che ha visto coinvolti anche il
settore legale, l’ufficio stampa, la comunicazione interna e tutte le prime linee dell’azienda. Per
Autostrade non si è solamente conclusa la gestione ben riuscita di una crisi di dimensioni
significative, ma è stata aperta una strada del tutto nuova, come con la storica chiusura
dell’operazione che ha portato a integrare Abertis – la società autostradale spagnola – all’interno
del Gruppo, rendendolo a tutti gli effetti un colosso globale.
1. Giuseppe Stamegna è consultant per la comunicazione e le relazioni con i media in Comin &
Partners. Dopo gli studi in Giurisprudenza e la specializzazione in Marketing & Corporate
Communication, ha maturato una solida esperienza negli ambiti della comunicazione finanziaria,
istituzionale e di crisi. Ha iniziato il suo percorso professionale lavorando ad alcune campagne
elettorali in Italia e in Europa, tra cui quella per l’ex presidente della Repubblica Francese, François
Hollande. Successivamente, dopo un’esperienza in Aida Partners Ogilvy PR, nel 2016 è entrato in
Comin & Partners. Tiene corsi di formazione e docenze universitarie sulla comunicazione, sulle
relazioni con i media e sulla gestione delle crisi reputazionali.
2. Espressione associata alle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate.
3. Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011.
4. Victor Mair, filologo e professore di Lingua e Letteratura cinese all’Università della Pennsylvania,
ha dichiarato nel 2009: “There is a widespread public misperception, particularly among the New
Age sector, that the Chinese word for ‘crisis’ is composed of elements that signify ‘danger’ and
‘opportunity’. I first encountered this curious specimen of alleged oriental wisdom about ten years
ago at an altitude of 35,000 feet sitting next to an American executive. … While it is true that ‘wēijī’
does indeed mean ‘crisis’ and that the ‘wēi’ syllable of ‘wēijī’ does convey the notion of ‘danger’, the
‘jī’ syllable of ‘wēijī’ most definitely does not signify ‘opportunity’. … The ‘jī’ of ‘wēijī’, in fact,
means something like ‘incipient moment’; crucial point (when something begins or changes). Thus, a
‘wēijī’ is indeed a genuine crisis, a dangerous moment, a time when things start to go awry. A ‘wēijī’
indicates a perilous situation when one should be especially wary.”
5. Pastore A., Vernuccio M., Impresa a comunicazione. Principi e strumenti per il management,
Apogeo, Milano, 2013.
6. Norsa L., Risk, issue and crisis management, Ipsoa, Milano, 2009.
7. Muzi Falconi T., “Toni Muzi Falconi: cinquant’anni di relazioni pubbliche”, FERPI (Federazione
Italiana Relazioni Pubbliche), 11 luglio 2011.
8. Poma L., Vecchiato P., Come comunicare la crisi: strategie e case history per salvaguardare la
business continuity e la reputazione, Il Sole 24 Ore, Milano, 2012.
CAPITOLO 12
La comunicazione politica
DI ALBERTO DI MAJO1 E GIANLUCA GIANSANTE
12.1. INTRODUZIONE
Un uomo o una donna si dimostra un buon candidato quando è in grado di farti ridere, di
commuoverti fino alle lacrime, di esprimere i valori condivisi in una maniera che ti fa sentire un
brivido nella schiena, di pronunciare un elogio funebre o parlare di una tragedia nazionale e
provocarti un groppo in gola, di criticare l’avversario con una battuta tagliente [...] e di scatenare
un senso di indignazione morale così potente da spingerti a desiderare di andare alle urne domani
stesso. Questo è il carisma. È Franklin D. Roosevelt. È Ronald Reagan. È Bill Clinton9.
Adattarsi alle esigenze, alle aspettative e alle necessità di chi ascolta non è
dunque una forma di manipolazione ma una condicio sine qua non della
politica, che si rende ancora più necessaria nel contesto sociale e mediatico
che abbiamo descritto. Cosa significa adattarsi all’uditorio oggi? In un
contesto di scarsa attenzione per la politica è necessario procedere
innanzitutto a una semplificazione del linguaggio politico, per renderlo
comprensibile anche a una larga fascia della popolazione che non ha
dimestichezza con il lessico tecnico della politica.
La semplificazione, tuttavia, è operazione tutt’altro che semplice, come
notava già Cicerone nell’Oratore, § 76, descrivendo lo stile attico,
caratterizzato proprio dalla semplicità e dalla moderazione, che riproduce il
parlar comune: “Quelli che lo ascoltano, benché essi siano proprio inetti a
parlare, tuttavia confidano di poter parlare in quel modo. Infatti, la tenuità
del dire sembra facile a imitarsi almeno per chi lo pensa ma non lo è per chi
lo prova”.
Una comunicazione efficace non è soltanto la semplificazione dello stile
di cui parla Cicerone ma va oltre: si avvale di un complesso di tecniche che,
insieme con la facilità di comprensione, riescono ad ottenere effetti anche al
livello della memorizzazione e della persuasione, venendo ricordate in
maniera più agevole e massimizzando gli effetti persuasivi.
Cicerone, nell’Oratore, § 134, attribuisce un ruolo di primo piano alle
metafore perché “esse per rapporto di cose trasportano gli animi e li
traggono e li muovono qua e là; e questo movimento del pensiero
velocemente agitato produce già da solo un piacere”. Gli sviluppi delle
scienze del linguaggio hanno confermato l’intuizione di Cicerone: la
metafora è un’importante caratteristica del discorso persuasivo perché
permette di mediare fra il conscio e l’inconscio, fra cognizione ed
emozione16.
Perché dunque a una fra le tante figure retoriche viene attribuito un potere
così ampio nel discorso e nella persuasione? Qualcuno potrebbe pensare che
si tratta di una divagazione letteraria, di un discorso per esteti della politica,
ma non è così. Negli ultimi trent’anni le scienze cognitive hanno proposto
una teoria alternativa a quelle che intendevano la metafora come strumento
linguistico, ipotizzavano cioè che la metafora si potesse ridurre al livello
letterale, semantico o pragmatico.
La metafora non è uno strumento semplicemente decorativo del
linguaggio, una figura dell’immaginazione poetica, un artificio retorico. È
invece un modo di rappresentare e organizzare il nostro mondo17. La sua
potenza deriva dalla capacità di descrivere un concetto astratto,
difficilmente comprensibile, paragonandolo a un altro concetto, concreto,
visibile. In sintesi, la metafora svolge un ruolo cognitivo, come aveva già
riconosciuto Aristotele.
I discorsi metaforici sono iconici, visibili, più facilmente comprensibili e
memorizzabili di quelli che privilegiano i termini astratti, teorici,
immateriali, lontani dalla nostra quotidianità, che richiedono un alto livello
di concentrazione da parte dell’ascoltatore, facendo affidamento sullo
sforzo del pubblico che, lo abbiamo visto in precedenza, in questa fase
storica è sempre meno coinvolto dal discorso e dal processo politico.
Comprendere l’importanza della metafora è fondamentale per chiunque si
occupi di politica o di comunicazione. È un’arma potentissima e, come tutti
gli strumenti del genere, è a doppio taglio: non sapendola maneggiare, ci si
può far male.
12.6. RICERCA: SONDAGGI E FOCUS GROUP
12.7. LO STORYTELLING
Quest’elezione è un momento di svolta – la possibilità per i nostri leader di rispondere alle sfide
di questo periodo impegnativo e di mantenere fede alle promesse fatte al nostro popolo. Negli
ultimi 20 mesi ho viaggiato per tutto il Paese e Michelle e io abbiamo incontrato tantissimi
americani che aspettano con impazienza un cambio reale e duraturo che migliori le loro vite. Le
loro storie sono storie americane, storie che riflettono lo stato della nostra Unione. Mi piacerebbe
presentarvi alcune di queste persone stasera.
La maggior parte dei politici apre un profilo web perché “non si può non
esserci”; molti hanno iniziato per dare un’immagine di dinamismo e di
modernità, altri perché ne hanno intuito il potenziale. Ma come si possono
sfruttare al meglio i media digitali? Non si può dare una risposta univoca.
Internet, come qualsiasi tecnologia e ogni mezzo di comunicazione, non ha
un impiego predefinito ma serve per le necessità che, in un certo momento,
sono utili per chi li utilizza, nel nostro caso i politici.
Di tanto in tanto torna d’attualità il dibattito che possiamo riassumere con
la frase “internet sposta voti?”. Il tema del cambiamento del comportamento
elettorale è una questione articolata, con diversi elementi concorrenti; il
comportamento di voto rappresenta infatti una delle vicende più complesse
da prendere in esame. Ma alcuni punti fermi ci sono. La domanda, posta in
questi termini, ha poco senso. I voti non si “spostano”, nel senso che è
molto difficile convincere qualcuno che in passato ha votato un certo partito
o un certo candidato a farlo per lo schieramento avversario. E di certo è
impossibile farlo con un tweet o un post su Facebook; né aumentare la
quantità di contenuti pubblicati può sortire effetti migliori.
Ma internet non serve a questo. Pensare che possa “spostare voti” è
l’espressione di un atteggiamento riduttivo, nel senso che riduce le
potenzialità del mezzo. Con il web, infatti, si può fare molto di più, si
possono “spostare le persone”. Si può, cioè, coltivare un rapporto di fiducia
con le persone nel corso del tempo, informare i cittadini sulle attività
realizzate, sulle proprie proposte, rispondere alle critiche che si ricevono. E
quindi instaurare una relazione duratura con un gruppo di persone che
saranno i propri primi sostenitori, con l’attivismo, partecipando a iniziative
di volontariato o anche semplicemente parlando bene del candidato (o
dell’organizzazione) con i loro familiari o colleghi di lavoro. In questo
senso possiamo rispondere che sì, se usato correttamente internet può
portare molta visibilità, accrescere la partecipazione e contribuire a
costruire consenso e quindi, ovviamente, a far crescere il numero di voti che
un partito o un candidato ricevono. E lo sanno bene i candidati nelle
competizioni più piccole – ad esempio, i consiglieri comunali o
circoscrizionali – dove gli effetti delle attività svolte sono più facilmente
misurabili e l’accesso a TV e stampa è più complesso da ottenere e talvolta
marginale. Una comunicazione online ben organizzata può fare la differenza
fra una campagna anonima e un’avventura che suscita la passione e la
partecipazione di un grande gruppo di persone. Tutto questo può essere
riprodotto, ovviamente in scala più ampia, pure al livello di una campagna
regionale o nazionale, anche beneficiando delle sinergie generate dalla
visibilità che il web può generare sui media tradizionali28.
Che la rete contribuisca a cambiare la politica è un punto su cui
concordano molti studiosi, ma è utile domandarsi come influiscano le nuove
tecnologie. Come già visto in precedenza, l’effetto principale è infatti quello
di uno spostamento del centro di interesse, dalla politica al cittadino. La
possibilità di interagire, fare domande, esprimere pubblicamente pareri
critici, guidare movimenti d’opinione e determinare scelte politiche
comporta un passaggio importante.
La politica perde il proprio ruolo dominante, è costretta a cedere quote di
potere, a scendere dal piedistallo su cui i mass media l’avevano posta e a
confrontarsi con i cittadini. Può anche scegliere di non farlo, ma si espone,
senza possibilità di reazione, al giudizio dei cittadini, che hanno ora uno
strumento più forte per manifestare la loro opinione. Con questo non
vogliamo dire che prima non ne avessero. La chiacchiera al bar o sul lavoro,
la critica o la lode erano possibili anche in precedenza. Solo che ora sono
più visibili, possono crescere e raggiungere un’eco di massa. E questo ha un
effetto innegabile sui processi politici.
C’è una caratteristica che accomuna il comportamento dei politici sul
web, indipendentemente dall’orientamento, dal Paese di provenienza, dal
fatto di essere al governo o all’opposizione. La quasi totalità usa il web
come se fosse in televisione: parla, esprime la propria opinione, espone le
proprie idee, ma non ascolta, non risponde alle critiche, non interagisce con
gli altri. Se interagisce, lo fa per cercare di avere ragione, di prevalere
sull’altro e, se non ci riesce, litiga, s’infuria, polemizza e a volte arriva –
addirittura – a insultare i cittadini.
Nella maggior parte dei casi la politica sul web adotta una strategia di
comunicazione unidirezionale, non c’è feedback, non c’è partecipazione.
Tutti gli studi sull’argomento sono concordi su questo punto29. Di certo ci
sono eccezioni30 ma costituiscono casi isolati. La rete e il web 2.0
permettono possibilità di interazione inedite: i politici possono oltrepassare
i canali e le mediazioni giornalistiche tradizionali; per la prima volta è
possibile creare una relazione con ogni singolo cittadino, ascoltare i suoi
bisogni, rispondere alle sue domande, stimolare la partecipazione di
ciascuno. Ma gli attori politici, che pure colgono le implicazioni di questi
nuovi media, non riescono, nella pratica quotidiana, a sfruttarne le
possibilità: usano il web per comunicare in modo unidirezionale31 o per
cercare di essere ripresi dai media32. Anche quando i politici non adottano
pratiche completamente unidirezionali perdono comunque l’occasione di
sfruttare le possibilità del web 2.0, rimanendo in una sorta di terra di mezzo
che due studiosi britannici hanno chiamato, con una definizione molto
eloquente “web 1.5”33. È un atteggiamento le cui implicazioni sono gravi e,
quel che è peggio, non sono del tutto percepite dagli attori politici, che ne
sminuiscono l’importanza. Una considerazione ci aiuta a metterne a fuoco
la portata: Se mentre un sindaco passeggia per strada, un cittadino gli
facesse una domanda e lui non si fermasse a rispondere, che cosa
pensereste? È quello che accade sul web quando un politico non risponde
alle domande dei cittadini. Talvolta si pensa ai fenomeni online come a
fenomeni virtuali, non esistenti, ma chi si azzarderebbe a pensare a quello
che accade al telefono come a qualcosa di non reale?34
Ma è un altro elemento che dovrebbe farci riflettere più di tutti: gli utenti
della rete non sono cittadini come tutti gli altri. Sono soprattutto coloro che
parlano di politica con altre persone a utilizzare il web per informarsi:
questo significa che “i contenuti ricevuti, scambiati e diffusi in rete possono
poi essere rimessi in circolo nella comunicazione interpersonale e quindi
internet può avere effetti indiretti”35.
In altre parole, chi si informa sul web, poi condivide spesso le
informazioni che ha acquisito e le riflessioni che ha maturato con i propri
familiari, colleghi e amici. Ne parla al bar, in ufficio o in palestra,
diventando un leader d’opinione, proprio perché, essendo più informato e
attento, ha maggiore probabilità di essere considerato affidabile e credibile.
Internet non è più solo un’esperienza confinata al pc, ma è sempre più
integrato nella nostra vita quotidiana, una componente costante delle nostre
giornate36, che influenza sempre di più comportamenti e scelte che
compiamo “offline”.
La diffusione sempre maggiore della rete e la rapida evoluzione nei
comportamenti del pubblico impongono dunque un ripensamento delle
modalità di comunicazione politica: i politici devono iniziare a valorizzare
di più il pubblico e la cultura partecipativa che si trova sulla rete. Ma in che
modo?
Come abbiamo già visto, la rete determina un passaggio importante nella
comunicazione non solo perché i cittadini possono esprimersi e dare
visibilità alle proprie opinioni, ma anche perché si rafforza la possibilità di
scegliere i contenuti. Viene meno la forza broadcast dei media tradizionali,
capaci di imporre con maggiore vigore i propri contenuti nell’ambito di
possibilità di scelta limitate. In politica questo scenario generava l’idea che
le campagne elettorali potessero risolversi con una serie di affissioni nei
trenta giorni prima del voto, qualche decina di migliaia di volantini inviati
per posta e qualche “ospitata” in TV. Questo modello si scontra con uno
scenario radicalmente mutato: diminuisce l’attenzione dei cittadini per la
politica e, allo stesso tempo, aumentano gli stimoli che competono per
catturare un bene scarsissimo: l’attenzione umana. Il risultato: manifesti
ignorati, volantini cestinati, politici in TV schivati.
Sono ormai lontani i tempi in cui la politica (e lo stesso vale per
istituzioni, aziende, associazioni) poteva considerare il lavoro di
comunicazione concluso semplicemente spendendo budget enormi su
strumenti sempre più raffinati per “bombardare” i cittadini con messaggi sul
proprio candidato o sul proprio “prodotto”. Oggi quel metodo, un tempo
efficace, è diventato semplicemente “spam”, un messaggio indesiderato.
Per costruire consenso non basta “comunicare”, non serve travolgere il
proprio interlocutore con idee, opinioni, battute e citazioni dotte. È
necessario, invece, promuovere un rapporto di scambio e creare un legame
di fiducia. In altre parole, bisogna costruire una relazione con le persone. E
la rete, da questo punto di vista, offre enormi opportunità. È necessario
costruire messaggi che non invadano lo spazio di vita delle persone, non
interrompano il flusso di attività quotidiane. È necessario pensare e
realizzare modalità nuove di comunicazione, che chi vede voglia leggere e
magari trovi così interessanti da volerle condividere con i propri amici. E,
soprattutto, bisogna cambiare l’atteggiamento con cui ci si rivolge alle
persone: non cercare subito di monetizzare i propri sforzi in termini di
consenso, non cercare di “vendere”.
La comunicazione online non è una “caccia” al voto, ma somiglia molto
di più alla lenta coltivazione di una pianta. Bisogna dare valore,
informazioni utili, spunti di riflessione, che poi genereranno, con il tempo,
anche consenso, partecipazione, attivismo. Il nuovo scenario che i media
digitali hanno contribuito a creare comporta la necessità di ripensare tutta la
comunicazione politica. Questo significa che non è più sufficiente “lanciare
il proprio messaggio in rete” come si faceva con un’apparizione in TV o un
volantino, ma bisogna trovare modalità nuove: essere presenti, ascoltare,
rispondere alle domande, alle critiche, agli stimoli. Non si può utilizzare la
rete con gli schemi dei media tradizionali, ma l’uso del web va inserito in
una strategia che soddisfi l’aspettativa di trasparenza, apertura e dialogo che
il digitale ha generato. È una cosa banale e non dovrebbe essere necessario
scriverla, ma è una regola che viene violata un milione di volte e quindi è
utile ripeterla: è fondamentale rispondere ai messaggi che si ricevono. Varie
ricerche lo dimostrano: i politici non rispondono; pare assurdo ma è così.
Secondo uno studio di Cristian Vaccari37 condotto nel corso di una
campagna elettorale, il 72,5% dei politici non lo ha fatto. Per chi pensasse
che si tratti di una caratteristica tutta italiana, di un indice del nostro ritardo
culturale, è utile sottolineare che si tratta di una ricerca condotta su sette
paesi: Australia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Stati
Uniti. Le implicazioni non sono banali: “le norme della conversazione sono
violate se non si riceve una risposta. Chi ha inviato un messaggio si sente
trascurato se non riceve una replica o un segno di attenzione dopo l’invio
[…]. L’implicazione per i candidati e le loro campagne online è che
rischiano di dare ai partecipanti un’impressione negativa se non rispondono
ai messaggi via e-mail”38.
Ovviamente l’interazione non può esaurirsi nella risposta ai messaggi, ma
nella valorizzazione dei contenuti prodotti da altri alla richiesta di opinioni
ai membri della comunità, fino al coinvolgimento in progetti di decisione
partecipata. La capacità di creare una relazione con i propri elettori
costituisce una bussola per orientarsi nella difficoltà delle scelte quotidiane.
Certo il confronto diretto e senza filtri con il pubblico rappresenta sempre
un elemento di preoccupazione e di timore. Il primo istinto di qualunque
politico, ma anche di qualsiasi manager d’azienda e amministratore
pubblico, di fronte a un commento negativo è: “Ma non si può cancellare?”.
Si tratta di un istinto irrazionale e ancestrale, come quello di scappare di
fronte a un pericolo o a una minaccia. Ma, come spesso accade, farsi
guidare dalla paura non è la soluzione migliore.
I commenti critici, infatti, se gestiti bene, sono tutt’altro che negativi:
portano valore alla conversazione perché permettono di dare la propria
opinione su un tema che magari molti conoscono e che suscita perplessità in
tanti, non solo in chi lo ha espresso. Se un commento negativo viene
cancellato, la persona che ha posto quella domanda (o quella critica) e tutti
quelli che hanno avuto lo stesso dubbio rimarranno fermi nel loro
scetticismo o addirittura lo accresceranno, pensando che “se non risponde
allora ha davvero torto” oppure “visto? Quindi ha davvero commesso quel
fatto”. Se invece si decide di rispondere si ha l’occasione di esprimere il
proprio punto di vista su quella vicenda e di convincere quella persona. È
un’occasione unica, che né la TV né i giornali concedono: rispondere ai
dubbi dei cittadini. È quindi importante coglierla. C’è chi crede che sia
meglio stare lontani dal web perché “lì c’è tanta gente che non ha niente da
fare e che è pronta a criticarti”; in altre parole, si ritiene che stare lontano
dal web preservi dalle critiche. Ma è vero il contrario: le critiche ai politici e
alle istituzioni ci sono comunque – al bar, sul posto di lavoro, in palestra –,
solo che sul web la politica ha gli strumenti e la possibilità di difendersi.
Ovviamente è opportuno stare attenti a quello che si pubblica perché, a
differenza di quanto accade con i mezzi tradizionali, che nel momento in cui
sono stati consumati finiscono, il web rimane lì, potenzialmente per sempre.
Questa caratteristica della rete comporta alcune accortezze. La prima: se si
fa un errore bisogna ammetterlo. Come nella vita “reale”, non serve a nulla
continuare a difendere l’indifendibile, arrampicarsi sugli specchi e trovare
ogni argomento possibile per provare ad avere ragione. Può pagare nei talk
show ma non sul web. Questo significa anche non barare, non comprare
follower, fan, non creare profili falsi e adoranti. Se si viene scoperti è finita.
Ed è molto probabile che ciò accada. Una seconda accortezza: se una
persona è debole su un tema non dovrebbe provare a dare l’impressione di
essere forte. Si tratta di una regola generale della comunicazione politica
che è ancora più valida sul web. Se le persone pensano che un politico sia
freddo e distaccato ma abbia dalla sua il pregio di essere molto preparato, è
inutile pubblicare qualche foto personale per provare a “riscaldare” il suo
profilo.
Nessuna campagna di comunicazione cambierà l’idea che le persone
hanno di lui. È molto meglio, invece, rafforzare i tratti positivi del suo
profilo, in questo caso l’aspetto della competenza. In questo senso
l’autenticità è un valore molto apprezzato sulla rete, per esempio nello stile
della comunicazione. Se nella vita quotidiana sei un signore serio e
compassato, sulla rete sarai poco credibile se proverai a fare il giovane che
ammicca con emoticon e punti esclamativi. Di certo un tocco più leggero e
personale può essere utile, come quello che si userebbe in una
conversazione informale. Ma senza esagerare. Anche in questo caso i social
media mostrano modalità di funzionamento del tutto analoghe a quelle della
vita “reale”, perché – è utile ricordarlo – dietro gli schermi ci sono delle
persone. Quindi, se si vuole stabilire una relazione basata sulla fiducia è
meglio presentarsi per quello che si è ed essere sinceri: è il modo migliore
per farsi apprezzare e anche per aprirsi e cogliere l’opportunità del
confronto come stimolo per migliorare sé stessi e il proprio lavoro.
Il web va inserito, però, in un contesto più ampio, da solo non può
rispondere a tutte le necessità della politica: servono un candidato onesto e
con una buona immagine, una strategia efficace, un’organizzazione rodata,
un gruppo di collaboratori di qualità e un budget adeguato. Né, tantomeno,
si può pensare che il web risolva tutte le dimensioni della comunicazione.
La strategia online deve andare di pari passo con gli altri strumenti, ad
esempio deve dare visibilità a quello che accade nel mondo “offline”, agli
eventi della campagna, o creare progetti che permettano di generare la
copertura degli altri media.
In questo senso è paradigmatico l’esempio del Movimento 5 stelle,
fondato nel 2009 da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio39. Varie sono
le ragioni del suo successo. Fra queste c’è ovviamente la capacità di aver
costruito un “partito” che si è trasformato da movimento online in
movimento offline40. Ma il suo percorso, oltre alla rete, si è rafforzato
grazie ai libri, agli spettacoli teatrali, agli interventi in piazza, agli eventi
mediatici, come la traversata a nuoto dello stretto di Messina.
Ovviamente, la crescita di un candidato o di un’organizzazione politica
non dipende solo dai media e dalla capacità di costruire consenso. Per avere
successo serve un’idea politica forte e condivisa da un largo gruppo di
persone: non si può creare un sentire collettivo dal nulla usando la rete. Ma
si può dare a idee, esigenze e sensibilità diffuse nell’opinione pubblica un
punto di incontro e di visibilità e un’occasione per organizzarsi ed elaborare
un piano di azione comune. Grillo, Casaleggio e gli attivisti a 5 Stelle hanno
saputo farlo: hanno dato vita un progetto politico che ha spinto tanti
cittadini a contribuire alla definizione delle priorità da realizzare nel Paese.
Ultima avvertenza. Molti enfatizzano l’aspetto gratuito della rete: aprire
un account sui social network non costa nulla, creare un sito nemmeno e si
possono curare i propri contenuti da sé, senza bisogno di spendere denaro.
Questa visione, assolutamente corretta, nasconde alcuni elementi di grande
importanza. Innanzitutto, stare sul web richiede un investimento di tempo e
di risorse umane. Se si gestisce il web in prima persona, per trarre davvero
vantaggio dalla rete è necessario un impegno responsabile. Non basta
pubblicare il proprio post su Facebook e poi dimenticarsene. Occorre
trovare il tempo per leggere i commenti e rispondere alle domande e alle
critiche.
Se la campagna ha dimensioni più grandi, invece, sarà utile prevedere la
collaborazione di uno staff. In principio erano “i simpatici ragazzi del web”,
giovani e dinamici. Questa realtà è ormai un lontano ricordo; oggi le
aziende del digitale sono colossi che hanno determinato nuovi modelli di
business e di consumo e internet è un settore economico con regole e
professionalità proprie. Per costruire una strategia web non basta più
l’amico “smanettone”, ma servono conoscenze precise e un approccio di
metodo che non si può (più) improvvisare. È un lavoro professionale, che
richiede una o più persone – a seconda delle dimensioni della campagna – a
tempo pieno. È un lavoro che ha bisogno di professionalità preparate,
altrimenti si possono generare autogol clamorosi. Gli strumenti della
comunicazione online sono, infatti, solo apparentemente semplici, ma
richiedono una gestione complessa, perché coinvolgono tutte le competenze
della comunicazione e della politica: dalla scelta delle notizie
all’elaborazione dei contenuti, dalla preparazione di dichiarazioni alla
produzione, selezione e pubblicazione di foto e video. Fino ad arrivare al
compito più difficile: la risposta ai cittadini, che rappresenta la vera grande
sfida del web.
Questo straordinario risultato fu reso possibile grazie agli strumenti tecnologici sviluppati dallo
staff di Howard Dean, prima come candidato alle presidenziali statunitensi e poi come presidente
del Partito democratico. Per la vittoria di Obama furono essenziali le piattaforme sviluppate in
quegli anni, come VoteBuilder e PartyBuilder.
Fu una strategia completamente opposta a quella adottata da Hillary Clinton, che, essendo
favorita, riteneva poco interessante promuovere pratiche innovative. I membri più importanti
dello staff affidarono quindi al web un compito in negativo: non fare nulla che potesse mettere in
pericolo il vantaggio della candidata nei sondaggi e nel supporto da parte delle élite e dei grandi
donatori. Questa cautela ha generato una strategia nella quale il web era essenzialmente uno
strumento di comunicazione e non di organizzazione o di raccolta fondi (ibid.).
1. Alberto Di Majo, giornalista e saggista, è responsabile del servizio politico del quotidiano Il
Tempo. Laureato in Filosofia, si occupa soprattutto di comunicazione politica e marketing. È cultore
della materia all’università Luiss Guido Carli, dove collabora con la cattedra di Strategie della
comunicazione e Tecniche della pubblicità. È stato tra i primi a raccontare il Movimento 5 Stelle in
Grillo for president e Virus. Dizionario essenziale del M5S. Ha pubblicato anche Andate a lavorare! I
mille coloriti insulti degli italiani contro i politici e Che fai... li cacci? I dissidenti e la fine della
democrazia. Il suo ultimo libro è Love Politik. Quando la politica diventa marketing. Il suo blog è
dimajoinpeggio.wordpress.com.
2. Deaver M., Herskowitz M., Behind the Scenes, William Morrow, New York, 1987.
3. Blumler J.G., Kavanagh D. (1999), “The Third Age of Political Communication: Influences and
Features”, Political Communication, 16, 3, 2010, pp. 209-30.
4. Norris P., A Virtuous Circle, Cambridge University Press, Cambridge, 2000.
5. Issenberg S., The victory lab. The secret science of winning campaigns, Random House Digital,
New York, 2012; Sinclair B., Mcconnell M., Mitchelson M. R., “Local canvassing. The efficacy of
grassroots voter mobilization”, Political Communication, 30, 1, 2013, pp. 42-57.
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Milano, 2008.
7. Damasio A., L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995.
8. Westen D., op. cit., p. 27.
9. Ibid., p. 260.
10. Lakoff G., The Political Mind: Why You Can’t Understand 21st Century American Politics with
an 18th Century Brain, Viking, New York, 2008, p.11.
11. Bodei R., La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma, 1997, p. 78.
12. Perelman C., Olbrechts-Tyteca L., Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi,
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13. Eco U., “Il linguaggio politico”, in Beccaria G.L. (a cura di), I linguaggi settoriali in Italia,
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14. Mortara Garavelli B., Manuale di retorica, Bompiani, Milano, 2008 (11ª ed.), p. 10.
15. Bruner K.F., “Of Psychological Writing”, Journal of Abnormal and Social Psychology, XXXVII,
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16. Charteris-Black J., Politicians and Rhetoric: The Persuasive Power of Metaphor, Palgrave
Macmillan, Basingstoke, 2005.
17. Lakoff G., Johnson M., Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 1998 (3ª ed.).
18. Newman B.I., “Il marketing politico negli Stati Uniti. Una rassegna della letteratura”, in Mellone
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19. Salmon C., Storytelling, Fazi, Roma, 2008.
20. Boehlert E., “The TV Ad that Put Bush to the Top”, Salon, 5 novembre 2004,
http://www.salon.com/2004/11/05/bush_ads_5/.
21. Brooks P., “Stories Abounding”, The Chronicle of Higher Education, 23 marzo 2001,
https://www.chronicle.com/article/Stories-Abounding/26828.
22. Calabrese O., Come nella boxe. Lo spettacolo della politica in TV, Laterza, Roma-Bari, 1998.
23. Grandi R., Vaccari C., Elementi di comunicazione politica. Marketing elettorale e strumenti per
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24. Pléh C., “Narrativity in Text Construction and Self Construction”, Neohelicon, XXX, 1, 2003, pp.
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25. Van Zoonen L., Entertaining the Citizen: When Politics and Popular Culture Converge, Rowman
& Littlefield, Lanham (MD), 2005.
26. Lakoff G., op. cit.
27. Geninasca J., “Il seme e il regno”, in Fabbri P., Marrone G. (a cura di), Semiotica in nuce, vol. II,
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28. Chadwick M.B., The Hybrid Media System: Politics and Power, Oxford University Press,
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29. Castells M., “Communication, power and counter-power in the network society”, International
Journal of Communication, 1, 1, 2007, pp. 238-66; Vaccari C., La politica online. Internet, partiti e
cittadini nelle democrazie occidentali, il Mulino, Bologna, 2012; Blumler J.G., “Mediatizzazione in
declino?”, Comunicazione Politica, 1, 2009 pp. 11-15; Jackson N.A., Lilleker D.G., “Building an
architecture of participation? Political parties and web 2.0 in Britain”, Journal of Information
Technology & Politics, 6, 3-4, 2009, pp. 232-5;. Epifani S. et al., Manuale di comunicazione politica
in rete. Costruire il consenso nell’era del web 2.0, Apes, Roma, 2011; Stringa P., Blogdemocrazia.
Come si forma oggi l’opinione pubblica, Carocci, Roma, 2011; Cioni E., Marinelli A. (a cura di), Le
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2010; Parisi L., Rega R., “La comunicazione degli attori politici tra disintermediazione e media
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http://daily.wired.it/news/internet/2013/08/22/numeri-facebook-italia-vincos-65487.html.
31. Blumler J.G., “Mediatizzazione in declino?”, Comunicazione Politica, 1, 2009, pp. 11-15.
32. Castells M., “Communication, power and counter-power in the network society”, International
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33. Jackson N.A., Lilleker D.G., “Building an architecture of participation? Political parties and web
2.0 in Britain”, Journal of Information Technology & Politics, 6, 3-4, 2009, pp. 232-50
34. Amenduni D., “Partecipazione alla vita politica in Italia: da dove ripartire”, intervento agli Stati
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35. Vaccari C., La politica online. Internet, partiti e cittadini nelle democrazie occidentali, il Mulino,
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36. Couldry N., Livingstone S.M., Markham T., Media consumption and public engagement. Beyond
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37. Vaccari C., op. cit.
38. Stromer-Galley J., Foot K.A., “Citizen perceptions of online interactivity and implications for
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39. Casaleggio G., Fo D., Grillo B., Il Grillo canta sempre al tramonto. Dialogo sull’Italia e il
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40. Biorcio R., “Le tre ragioni del successo del Movimento 5 Stelle”, Comunicazione Politica, 1,
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41. Kreiss D., Taking our country back. The crafting of networked politics from Howard Dean to
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CAPITOLO 13
La comunicazione culturale
DI ELENA DI GIOVANNI1
Nel corso della storia numerosi regimi politici hanno sfruttato la relazione
fra potere e cultura nel tentativo di controllare e influenzare l’espressione
culturale e consolidare il loro potere. Nella prima metà del Novecento
dittature come il regime fascista in Italia e quello nazista in Germania
attuarono un rigido controllo sulla cultura, abolendo la libertà di stampa e di
associazione e censurando quanto non conforme ai principi fondamentali
del regime.
La cultura giocò un ruolo politico fondamentale nella Germania nazista di
Hitler: la diffusione di un certo tipo di musica, di storia, di filosofia e di arte
costituirono una parte fondamentale della strategia nazista e contribuirono a
mantenere il consenso popolare, anche nei periodi in cui le sorti della guerra
sembravano avverse e la leadership del Führer era messa a dura prova. La
comunicazione culturale era utilizzata per diffondere in maniera capillare la
propaganda nazista e spingere il popolo ad amare e adorare la nazione.
Secondo le parole dello studioso francese Eric Michaud, i nazisti usavano la
cultura per rendere “il genio della razza visibile a quella razza”14 ossia per
diffondere l’idea che una Germania culturalmente ricca sarebbe stata
possibile solo una volta sconfitti tutti i nemici della nazione. Fu così che
anche tramite la cultura i nazionalsocialisti tentarono di alimentare l’idea
della superiorità della “razza ariana” creando un binomio inscindibile tra
cultura e potere.
Nel 1933 venne istituito il Ministero del Reich per l’istruzione pubblica e
la propaganda con l’obiettivo di controllare la vita culturale della nazione
sotto la guida intransigente di Joseph Goebbels. L’istituzione della Camera
della Cultura del Reich, organismo corporativo articolato a sua volta in sette
diverse camere dedicate alle diverse arti, servì per imporre leggi sempre più
strette sulla produzione culturale e per bandire tutto ciò che non rientrava
nel progetto nazionalsocialista. Citando il ministro Goebbels durante uno
dei suoi famosi discorsi annuali al Rally di Norimberga: “L’importanza che
la leadership nazionalsocialista ha riposto nella propaganda è chiara da
quando è stato istituito un ministero per l’illuminazione popolare e la
propaganda poco dopo aver preso il potere. Questo ministero è interamente
nello spirito del nazionalsocialismo e proviene da esso. L’aver riunito
l’organizzazione delle manifestazioni di massa, della stampa, del cinema,
della radio, della letteratura, del teatro, ecc. è solo il lato meccanico della
questione, non è tanto che tutti questi mezzi siano in una mano.
L’importante è che questa mano sappia padroneggiarli e controllarli”15.
In netto contrasto con le tendenze dell’arte moderna degli anni Venti e
Trenta – astrattismo, espressionismo e surrealismo – l’estetica nazista segue
la corrente del realismo classico, impegnata a valorizzare concetti come la
semplicità della vita contadina, la famiglia e il coraggio sul campo di
battaglia, temi affini alle cosiddette virtù tedesche di rigore, sacrificio
personale e purezza della “razza ariana”. Questi canoni, approvati e
promossi dal regime nazista, vennero presentati nella “Grande Esposizione
d’Arte Tedesca” del 1937 alla Casa d’Arte Tedesca di Monaco.
Le produzioni artistiche che si contrapponevano al modello professato dal
regime, definite decadenti e corrotte, furono invece esibite nella mostra
intitolata “Mostra di arte degenerata”. Fra gli artisti presenti all’esibizione:
Max Ernst, Marc Chagall, Paul Klee e Vassily Kandinsky. Nello stesso anno
Goebbels ordinò la confisca di migliaia di opere “degenerate” provenienti
da musei e collezioni in tutta la Germania e molti di questi pezzi furono poi
distrutti o venduti all’asta pubblica.
Il caso della Germania nazista mostra quanto l’estetica tedesca introdotta
dal nazismo contribuì al consolidamento del regime politico di Hitler e alla
diffusione dei suoi valori. Il potere esercitato in ambito culturale e artistico
riuscì, durante la dittatura del Führer, a plasmare l’identità culturale di un
intero Paese.
Anche dopo il periodo buio del nazionalsocialismo, la Germania usa la
cultura come strumento strategico di politica estera per l’apertura delle
frontiere. Nel 1951 nacque il Festival Internazionale del Cinema di Berlino,
chiamato “Berlinale”. Quest’ultima è riconosciuta a livello internazionale
come una delle manifestazioni culturali dedicate all’arte cinematografica
più prestigiose del mondo. Concepita all’inizio della Guerra Fredda come
“vetrina del mondo libero”, la Berlinale rappresenta un importante
momento di scambio interculturale al quale ogni anno partecipano più di
30.000 persone.
Il Festival di Berlino è considerato uno degli eventi cinematografici più
impegnati politicamente. Certamente legata ai temi dei film scelti, la
Berlinale deve questa fama anche al forte legame costruito con la città che
la ospita e con la sua storia, caratterizzata da profonde ferite e periodi di
rinascita.
Il Festival, infatti, ha sempre rappresentato un luogo di incontro fra
culture e Paesi di tutto il mondo, capace di resistere alle tensioni
geopolitiche che nel corso del tempo hanno influito nella ricostruzione di
Berlino. Tre eventi in particolar modo hanno segnato la storia del festival: la
costruzione del muro nel 1961, evento che interruppe le proiezioni
organizzate nella zona est di Berlino, la caduta del muro nel 1989 e la
conseguente riapertura del Festival nell’area, e la creazione nel 2000 della
Potsdamer Platz, la piazza che ospita oggi il quartier generale della
Berlinale. Durante queste tumultuose fasi, il Festival di Berlino ha
continuato a proporre programmazioni coraggiose e in controtendenza,
offrendosi spesso come unico foro di dibattito e confronto portando
all’attenzione del grande pubblico temi che non avrebbero trovato spazio
nei media tradizionali. La Berlinale ha fatto conoscere al mondo intero
l’anima guerriera della città di Berlino, comunicando attraverso i film in
concorso messaggi che altrimenti non sarebbero riusciti a superare muri
culturali e fisici.
14.1. INTRODUZIONE
15.1. INTRODUZIONE
Avere uno scopo più grande. È questo il mantra che oggi si sta diffondendo
tra i manager e le imprese che hanno l’ambizione di esercitare un ruolo di
leadership a livello globale e garantirsi un successo sostenibile nel medio-
lungo periodo. Questo significa che la responsabilità sociale d’impresa o
CSR (corporate social responsibility) come viene comunemente detta, sta
diventando un asset fondamentale delle aziende di oggi. E questo aspetto è
diventato così strategico che la stessa valutazione aziendale da parte degli
stakeholder si fonda, in buona parte, su di esso.
Larry Fink, CEO di BlackRock, la più grande società di investimento nel
mondo con sede a New York, che gestisce un patrimonio totale di oltre 6
mila miliardi di dollari, di cui un terzo in Europa, ha dichiarato nella lettera
di fino anno del 2018:
Every Company must not only deliver financial performance, but also show how it makes a
positive contribution to society. Without a sense of purpose no company can achive its full
potential. It will ultimately lose the license to operate from key-stakeholder. It will succumb to
short-terms pressures and sacrifice the long-term growth2.
Ma questa visione non arriva soltanto dalle aziende più moderne o dai
manager più illuminati. Se affrontiamo l’argomento dal punto di vista dei
consumatori, con particolare attenzione alle nuove generazioni, arriviamo
alla stessa conclusione.
I consumatori un tempo mettevano il prodotto al centro del loro processo
di acquisto con percentuali vicine al 70%. Oggi scelgono prima il marchio e
l’azienda (oltre il 60%) e poi il prodotto.
Questo significa che bisogna essere percepiti in modo positivo in tema di
innovazione, posto di lavoro, governance, cittadinanza (responsabilità
sociale d’impresa), leadership e performance e che avere un prodotto
eccellente non è più sufficiente per garantirsi il successo sul mercato. A
queste sette dimensioni razionali, secondo il modello teorizzato da
Reputation Institute, ne vanno aggiunte poi quattro di tipo emozionale, ma
non per questo di minor valore: stima, ammirazione, fiducia e sensazione.
Il modello di valutazione sviluppato da Reputation Institute
(www.reputationinstitute.com), società leader mondiale nella ricerca e
consulenza specializzata in corporate reputation management e fondata da
Charles Fombrun e Cees Van Riel nel 1997. Ogni anno il Reputation
Institute realizza il più importante studio sulle migliori aziende nel mondo,
pubblicato da Forbes. I Paesi che prendono parte a questa indagine sono 40
e la rilevanza dello studio ha un impatto molto elevato per le marche perché
si associa a prestazioni finanziarie di assoluto livello il benchmark nel
mercato.
Questa ricerca, in sintesi estrema, mostra come le aziende si suddividano
tra quelle che hanno una reputazione scarsa (da 0 a 39), debole (40-59),
moderata (60-69), forte (70-79) ed eccellente (da 80 in su). Al crescere della
reputazione, aumentano conseguentemente le propensioni di acquisto e
raccomandazione, ma anche la voglia di lavorare per quel brand, piuttosto
che ad investire o a concedere il beneficio del dubbio in caso di crisi.
E in questo contesto quanto pesa la responsabilità sociale? Molto. Se
guardiamo al modello indicato nella Fig. 24, possiamo vedere come un
tema quale la Citizenship sia uno dei sette driver della reputazione e come
alcuni aspetti che rientrano nella CSR siano inclusi anche in tematiche
come Governance e Workplace.
Figura 24. Il modello di Reputation Institute
Fonte: Reputation Institute, 2018.
Quasi un miliardo e mezzo di euro (1,412 mld) investiti in azioni di CSR (Corporate Social
Responsibility) dalle aziende italiane che hanno scommesso sul loro ruolo di responsabilità
sociale. Cioè il 25% in più rispetto al dato del 2015 (1,122 mld). L’85% delle aziende ha scelto di
scommettere sulla CSR (era l’80% nel 2015), un valore quasi doppio, rispetto a quello di sedici
anni fa, quando iniziò la rilevazione dell’Osservatorio Socialis3.
E ancora:
Più di 200mila euro (209mila per l’esattezza) la media di spesa/investimento nel 2017 per le
imprese italiane: +18,7% rispetto al 2015, quando la cifra media per azienda era ferma a 176mila
euro. La previsione di spesa 2018 per azienda arriva a 267mila euro (+27,8%). Nell’impegno
attivo in CSR si registrano vistose differenze di comportamento tra i settori economici; quelli più
attivi sono: il chimico della gomma/plastica, il meccanico/auto, il finance, il commercio,
l’elettronica/informatica/telecomunicazioni. L’incidenza dell’impegno in attività di CSR è
maggiore tra le aziende quotate in Borsa.
Questi dati ci indicano con assoluta chiarezza che il trend è in forte crescita
e che quella che un tempo era ritenuta una tematica fortemente legata al
tema della beneficenza o della charity, che spesso non veniva neppure
comunicata in modo attivo (per prudenza o timore di strumentalizzazioni),
oggi è strategicamente entrata a far parte dei valori fondanti e degli asset di
ogni azienda che voglia stare sul mercato e puntare ad un ruolo di
leadership.
Oggi i consumatori si attendono, sempre più, prese di posizione forti e
decise da parte dei marchi più forti presenti sul mercato sui grandi temi
quali la sostenibilità, l’inclusione sociale, il rispetto, il dialogo
interculturale, le pari opportunità e via dicendo.
Gli investimenti in percorsi di responsabilità e sostenibilità sono ormai avvertiti come necessari,
anche grazie alla spinta dei consumatori – ha spiegato Roberto Orsi, Direttore dell’Osservatorio
Socialis – e stanno mettendo radici nelle organizzazioni che vogliono stare sul mercato in maniera
più efficace e duratura. La sfida ora è far diventare la CSR più popolare, riconoscibile e
contagiosa, premiando chi forma il personale, è coerente, condivide a tutti i livelli, ascolta gli
stakeholder, comunica e informa, programma e misura la responsabilità sociale4.
Approfondendo altri aspetti del Rapporto Socialis, si evince che metà delle
aziende che hanno investito in CSR sono convinte che per ricavare
soddisfazione da queste attività sia indispensabile coinvolgere tutti i livelli
aziendali, così da diffondere la cultura della responsabilità dal top
management a tutti i dipendenti. Inoltre, 4 su 10 ritengono che sia
indispensabile formare il personale e far crescere comportamenti
responsabili duraturi. Il 35% mira alla costruzione di strategie di CSR
coerenti con i piani industriali.
L’importanza della responsabilità sociale delle imprese (RSI) e della trasparenza è in aumento. Le
aziende sono sottoposte a crescenti pressioni per soddisfare le richieste dei consumatori in merito
al rispetto degli standard sociali tra il personale e i fornitori, condizioni di lavoro eque e sicure e
un uso rispettoso dell’ambiente e delle risorse naturali. La sigla IOOI, abbreviazione di “Input –
Output – Outcome – Impact”, presenta uno strumento per valutare e quindi dimostrare gli impatti
degli investimenti in istruzione, salute e attività di CSR simili. Il metodo è stato sviluppato da
Bertelsmann Stiftung in collaborazione con PricewaterhouseCoopers e varie altre società.
E ancora:
I cittadini sono sempre più preoccupati per la trasparenza delle aziende e la loro responsabilità
sociale. Condizioni di lavoro giuste e sicure, salari equi, standard sociali, uso sostenibile delle
risorse naturali o rispetto di severi regolamenti ambientali influenzano il comportamento dei
consumatori. Un numero crescente di aziende pertanto incorpora l’impegno sociale e investe nelle
attività di responsabilità sociale per assumersi la responsabilità sociale. Le aziende potrebbero
investire in progetti educativi o sanitari, ma gli impatti sono difficili da misurare. L’acronimo
IOOI presenta uno strumento per valutare questi impatti.
L’input include tutti i mezzi e le risorse che sono investiti dalla società per
implementare un’attività di CSR pianificata, cioè risorse umane, finanziarie
e materiali. L’output si riferisce a servizi che possono essere raggiunti con
l’input disponibile. Il risultato copre gli effetti ottenuti per un gruppo target
dalle attività di CSR. L’impatto si riferisce agli effetti che possono essere
raggiunti per la società a lungo termine.
Un altro tema che merita di essere accennato, ma che necessiterebbe di
una trattazione dedicata e approfondita, è quello dei brand ambassador che
oggi rivestono un ruolo fondamentale per temi delicati e strategici come la
responsabilità sociale d’impresa.
Dal punto di vista della comunicazione, infatti, avere un personaggio che
possa e sappia incarnare i valori in cui l’azienda crede e per i quali si
impegna in modo serio e continuativo per la società, è molto importante, per
non dire fondamentale. Per limitarsi al BMW Group, la presenza di Alex
Zanardi come brand ambassador mondiale e pilota BMW ha consentito
all’azienda di parlare di inclusione sociale e capacità di andare oltre i propri
limiti con grande credibilità e concretezza. Zanardi, attraverso le
competizioni in pista, i record mondiali di triathlon, le innumerevoli
medaglie olimpiche e mondiali nelle competizioni di para-ciclismo, la
partecipazione diretta a progetti di responsabilità sociale in Italia e nel
mondo, ha contribuito in modo importante a testimoniare i valori nei quali
crede in BMW Group e a raccontare i settori nei quali l’azienda è
impegnata e quali risultati abbia ottenuto. Nelle pagine seguenti, porteremo
alcuni esempi del suo coinvolgimento nel progetto SpecialMente.
Da ultimo, non possiamo non parlare dei canali di comunicazione. Oggi
strategia di CSR, impegno di risorse e misurazione dei risultati non possono
essere disgiunti da una strategia multicanale di comunicazione. In questo
senso nessun canale va trascurato o sottovalutato. Earned media, cioè tutti i
mezzi di comunicazione che vengono coinvolti nelle tradizionali attività di
una direzione comunicazione e ufficio stampa; paid media, quelli interessati
dalle campagne di advertising dell’impresa; owned media, vale a dire tutti i
canali di comunicazione dell’azienda (siti, social media, piattaforme), ma
anche la customer experience, devono essere visti come opportunità per
comunicare le proprie iniziative e i risultati ottenuti.
Se rammentiamo quanto scritto poco fa, che i clienti oggi scelgono i
prodotti partendo dai marchi e dai valori che esprimono e nei quali vogliono
riconoscersi, risulta evidente quanto oggi sia fondamentale comunicare e
raccontarsi. Del resto, lo storytelling è diventato un elemento
imprescindibile di ogni azienda e lo è anche della corporate social
responsibility. È utile in questa sede ricordare la definizione che di
storytelling è stata data dallo scrittore e fondatore della Scuola Holden,
Alessandro Baricco: “Sfila via i fatti dalla realtà: quel che resta è
storytelling”. La responsabilità sociale d’impresa deve partire dai fatti, ma
deve poi essere narrata coinvolgendo tutti gli stakeholder possibili a partire
da quelli interni all’azienda.
Finora abbiamo effettuato una panoramica dei principali temi legati alla
responsabilità sociale d’impresa, avvalendoci del supporto di ricerche, studi
e strumenti di analisi, ora entriamo nel concreto, parlando del programma
SpecialMente di BMW Italia che è diventato un punto di riferimento nel
nostro Paese per l’organicità dell’approccio e i risultati raggiunti.
15.3. CONCLUSIONI
Così come in molti campi del nostro presente, un elemento vincente anche
nel mondo del non profit è quello di far leva sulla forza delle esperienze
utilizzando una forma di comunicazione che definiremo esperienziale e che
ha l’obiettivo di immergere il più possibile l’utente del messaggio nella
situazione, nel luogo geografico che si intende raccontare.
Corredare i messaggi di contenuti multimediali aiuta a raggiungere
l’obiettivo dell’immedesimazione, un meccanismo molto simile a quello
che in termini psicoanalitici viene definito transfert. Bisogna sempre
cercare di ridurre le distanze tra quello che si racconta e la persona a cui lo
si racconta. Proviamo a fare qualche esempio. Nel raccontare vicende legate
agli animali, in particolare ai mammiferi è bene scegliere immagini in cui si
vedono bene gli occhi, in special modo se l’animale è protagonista della
storia che si sta raccontando. Attraverso gli occhi è possibile facilitare la
connessione empatica tra la storia e chi la legge e così facendo accelerare il
meccanismo di condivisione e di sostegno della causa.
Lo stesso procedimento si può utilizzare, nel caso di organizzazioni che si
occupano di questioni umanitarie, raccontando povertà, miseria e drammi
attraverso gli occhi delle persone che li subiscono. Questa modalità
narrativa di solito facilita il paragone fra la situazione del protagonista della
storia e l’utente a cui è indirizzata e, facendo leva su una analisi
comparativa inconscia, predispone l’utente a sposare la causa con maggiore
consapevolezza forza e convinzione.
Ma non ci sono solo storie tristi e tragedie da raccontare. La
comunicazione esperienziale è estremamente valida anche nel racconto
della bellezza e del lavoro che fa chi la protegge. Riuscire a far visitare,
anche solo virtualmente, ambienti incontaminati o beni architettonici e
culturali salvati dall’incuria e dal declino, mostrarne lo splendore che torna
ad essere protagonista è di per sé un elemento positivo, in grado di
caratterizzare con grande forza la comunicazione di una organizzazione non
profit. Esperienza significa anche partecipazione, un concetto che proprio
con l’esplosione dei social network, ha ibridato ogni forma di
comunicazione.
Negli ultimi anni si è passati dall’informazione monodirezionale che
formava l’opinione pubblica senza la possibilità di interazioni (una notizia
diffusa da un quotidiano o da un telegiornale non permettono la possibilità
di confronto tra chi la pubblica e chi la legge) alla comunicazione
bidirezionale che mette in relazione pressoché istantanea l’autore con
l’utente. I commenti e la loro gestione sono diventati uno dei nodi centrali
della comunicazione moderna da cui proprio le organizzazioni del terzo
settore non possono prescindere. Non rispondere o dare risposte sbagliate
rischia non solo di compromettere il rapporto con l’autore del commento
ma anche con tutte le altre persone che transitano sul contenuto pubblicato.
Ecco perché la gestione delle risposte è un’attività estremamente delicata e
che richiede grande attenzione e grande delicatezza. Bisogna però fare
attenzione a non diventare ostaggio dei “polemici a tutti i costi” che
tendono a costruire strumentalmente i contenuti per far crescere la propria
visibilità o per placare le proprie frustrazioni.
Quando i messaggi sono estremamente polemici nonostante siano state
date delle risposte esaustive bisogna evitare di farsi incastrare in un “ping
pong” polemico che vede, di default, l’organizzazione più grande perdente.
16.9. L’IMPORTANZA DEI TESTIMONIAL E DEI MEDIA “POPOLARI”
Un vecchio detto giornalistico recita “una buona notizia non è una notizia”.
E la lettura di giornali e siti web, i notiziari sulle radio e sulle TV oppure
l’analisi dell’interesse dei media rispetto ai contenuti proposti, sembrerebbe
dare ragione a questo antico adagio. Tuttavia, nella comunicazione in
ambito non profit, le buone notizie, quando riguardano l’organizzazione che
le diffonde, non solo hanno un grande valore ma devono essere promosse
con forza. Rappresentano, infatti, la prova che il sostegno ricevuto ha dato
buoni frutti permettendo di raggiungere un risultato concreto, non importa
se parziale. Anzi proprio quando i risultati sono parziali bisogna rilanciare
la comunicazione sul progetto specifico in modo da persuadere la base di
riferimento a sostenere con maggior convinzione il progetto o
l’organizzazione.
Le buone notizie sono anticorpi rispetto all’impotenza che spesso si
percepisce nei confronti delle grandi emergenze del nostro tempo.
Accreditare queste emergenze come irrisolvibili avrebbe soltanto un effetto
negativo in grado di far rimbalzare automaticamente sia la call to action (la
richiesta di mobilitarsi) sia il sostegno alle attività delle realtà che si
occupano di quelle emergenze. Ecco perché alle denunce e al racconto delle
situazioni problematiche bisogna sempre alternare la narrazione dei risultati
positivi raggiunti oppure degli esempi di chi si spende (o si è speso) per una
causa, a costo anche di gravi sacrifici. I modelli positivi producono
emulazione, quelli negativi rischiano di produrre frustrazione e
rassegnazione: sentimenti che vanno nella direzione opposta agli obiettivi
che si pone chi comunica i messaggi del mondo non profit.
16.12. L’ESPERIENZA DEL WWF ITALIA
“Products are made in the factory, but brands are built in the mind”.
Iniziare un capitolo che tratta di brand con questo aforisma di Walter
Landor definisce e semplifica enormemente la questione: prima di tutto
chiarisce la necessaria distinzione tra brand, cioè la sintesi dell’identità
profonda dell’organizzazione, e il logo, cioè il segno distintivo, visuale
dell’organizzazione stessa. Spesso confusi o scambiati nei ruoli, dove il
brand si costruisce nella mente, mentre il logo si scolpisce nella memoria.
Il brand, parlando in termini linguistici, è al tempo stesso il significante e
il significato dell’azienda (organizzazione, partito, Stato…), un attributo di
forma unificante e unificatore che agisce da collegamento verso gli
stakeholder esterni e da collante tra i dipendenti, basandosi su unitarietà di
valori tangibili e intangibili che ne caratterizzano la promessa (c.d. brand
promise). Per ottenere questo difficile risultato è necessario avere molto
chiara la vision dell’azienda (“perché lo facciamo”), la mission (“che cosa
facciamo”), i values (“come lo facciamo”) per definire una brand strategy –
e in assoluto la company strategy – durevole e proiettata al futuro.
Questa metodologia, applicata da Interbrand in una delle operazioni di
rebranding più importanti in Italia negli ultimi anni2, ha la capacità di
ridurre a poche, apparentemente semplici, domande le questioni chiave che
caratterizzano il posizionamento della marca sul mercato nel medio periodo.
Queste domande poste ai vertici delle organizzazioni “costringono” a una
riflessione che è imprescindibile per la scrittura della strategia e della brand
promise a cui tutti i lavoratori dell’azienda devono aderire, in cui forma è
sostanza nei comportamenti agiti quotidianamente.
Alla marca attiene quindi un ruolo fondamentale nella creazione e difesa
del vantaggio competitivo, costituendo un asset aziendale di natura
immateriale dotato di attributi del tutto particolari. Essendo identificabile
consente di instaurare legami intangibili con il consumatore, comunicando
valori, messaggi e attributi che concorrono a determinare l’identità
dell’offerta e quell’insieme inscindibile di benefici funzionali e simbolici
che esprimono la value proposition. È il cliente che in ultima istanza
riconosce e attribuisce valore distintivo al brand, nel prezzo che è disposto a
pagare e nella frequenza di acquisti e riacquisti che definiscono il rapporto.
David Aaker nel 1991 con il suo modello della brand equity3 identifica le
dimensioni a cui è legato il valore della marca (Fig. 29).
Figura 29. Modello della brand equity. Le 4 dimensioni a cui è legato il valore della marca
Nostra elaborazione.
Figura 31. Metodologia Interbrand applicata al rebranding TIM: la brand promise centrale nella organizzazione dell’azienda
Nostra elaborazione.
Come abbiamo avuto modo di ripercorrere nel corso del capitolo, il brand
è elemento di sintesi concettuale dell’azienda (organizzazione, partito…), il
significato/significante della compagnia. Come illustrato nell’immagine, la
brand promise è perno organizzativo e si deve ritrovare coerentemente
attraverso tutti i touch point della customer experience, dai prodotti e servizi
commercializzati, ai brand ambassador intesi come tutti gli operatori front
line (venditori, call center…), canali di vendita e display e ovviamente la
communication strategy.
Recentemente si è sviluppato il concetto di marketing omnichannel che,
rappresentando la molteplicità di modalità attraverso cui un cliente entra in
contatto con il prodotto, sottolinea la prassi di integrare la molteplicità di
canali (dal cosiddetto show-rooming al moderno web-rooming) per creare
una customer experience coerente. Le aziende devono abbattere le barriere
tra i canali e unificarne obiettivi e strategie. Ossia devono focalizzarsi sulla
creazione di uno sforzo coordinato, che tenga conto della liquidità dei mezzi
e delle esperienze seamless offline e online per convincere i clienti a
compiere l’atto di acquisto e a reiterarlo in seguito. Il minor numero di
discontinuità possibile devono trovarsi nel funnel dall’informazione alla
conversione in acquisto. La semplicità deve essere parola chiave attraverso
tutti i passaggi del customer journey per ottenere il risultato di passare dalla
brand awareness alla brand advocacy e quindi al riacquisto del prodotto.
Figura 32. Il funnel di conversione dalla conoscenza della marca al riacquisto del prodotto
Nostra elaborazione.
18.1. INTRODUZIONE
L’advertising rappresenta una delle otto leve del cosiddetto marketing mix9,
con cui si fa generalmente riferimento al paradigma che racchiude in sé
l’insieme degli strumenti di marketing, i quali vengono coordinati tra di loro
per il raggiungimento degli obiettivi prefissati nella comunicazione
commerciale.
L’advertising è lo strumento per trasferire informazioni sulle
caratteristiche dei prodotti e servizi realizzati, con l’obiettivo di favorire
l’acquisto da parte dei consumatori. Conseguentemente, rispetto alle altre
leve del marketing mix, la definizione generica di advertising si basa sui
seguenti elementi10:
- forma di comunicazione impersonale;
- persuasività del messaggio trasmesso;
- presenza di un soggetto che svolga la funzione di sponsor;
- pagamento di una somma di denaro11;
- utilizzo di canali media per la diffusione del messaggio;
- esistenza di un gruppo di soggetti con caratteristiche/aspettative simili
cui sia destinato il messaggio pubblicitario;
- coerenza del messaggio con il marketing mix e con la strategia
complessiva d’impresa.
Una volta fornita una definizione generale di cosa debba intendersi per
advertising e identificati i possibili ambiti e i parametri per la
classificazione delle sue varie rappresentazioni, entriamo “nel vivo” del
processo: cercheremo infatti di definire le fasi operative su cui si basa la
pianificazione di una campagna pubblicitaria, gli strumenti di volta in volta
utilizzati e i criteri con cui stabilire il momento più adatto per ogni fase del
processo.
Anzitutto, partiamo con una definizione. La campagna pubblicitaria
rappresenta l’insieme delle attività promozionali – sviluppate in coerenza
con il piano di marketing – rivolte ai consumatori con l’obiettivo di
provocarne una reazione e trovare una soluzione per gli obiettivi strategici o
tattici dell’azienda12.
18.5.1. Il ruolo dell’agenzia pubblicitaria
La televisione
Punti di forza: la televisione permette di coniugare elevati livelli di
copertura e frequenza. Allo stesso tempo, essa si caratterizza per il costo
relativamente ridotto del singolo contatto e per l’elevata velocità di
penetrazione sul mercato.
Punti di debolezza: la televisione si caratterizza per una ridotta selettività
del target e per inadeguatezza rispetto alla trasmissione di concetti lunghi e
articolati.
La stampa
Punti di forza: la stampa (quotidiana e periodica) rappresenta un canale
caratterizzato da autorevolezza e credibilità. Essa presuppone elevata
flessibilità dal punto di vista geografico, dei tempi di prenotazione degli
spazi e di consegna dei materiali.
Punti di debolezza: la stampa presenta elevati costi per contatto ed è
inidonea a garantire modalità di comunicazione “interattive” con il target
cui è destinata.
La radio
Punti di forza: la radio si contraddistingue rispetto agli altri mezzi
pubblicitari per l’elevata duttilità (ossia, capacità di raggiungere pubblici
diversi in differenti momenti della giornata) e per l’utilizzo di un tone of
voice di tipo informale. Come nel caso della televisione, tale canale si
caratterizza per un ridotto costo per singolo contatto, essendo in grado di
raggiungere elevati livelli di copertura.
Punti di debolezza: essa è inidonea a garantire modalità di comunicazione
“interattive” con il target cui è destinata.
Il cinema
Punti di forza: il cinema si caratterizza per elevate potenzialità espressive e
di coinvolgimento, per elevata copertura geografica.
Punti di debolezza: legati all’assenza di un sistema comunicativo di
rilevazione super partes e per l’elevato costo per singolo contatto.
19.1. PREMESSA
Figura 35. Parodie dello spot TIM per altri scopi comunicativi
Siamo partiti dalla fine. Dal risultato. Avere prodotto attenzione e
memoria.
Sì, perché credo che il nostro mestiere non sia né quello di confezionare
arte popolare, né di migliorare qualità intrinseche dell’offerta: siamo,
solamente, coloro che devono produrre la massima attenzione sui contenuti
dell’offerta della propria azienda.
Un esempio banale: focalizziamoci sull’ultimo volo serale che collega
due città di pendolari del business. La platea dei passeggeri sarà costituita
da manager provati da un’intensa giornata di lavoro, abituati a essere
bombardati da decine di tentativi di richiamo della loro attenzione in cui
centinaia di informazioni chiedono di essere considerate una più urgente
dell’altra. Bene, qual è la dinamica che gli si para davanti a ogni decollo?
La rilettura, da parte di un assistente di volo, delle procedure di sicurezza da
mandare a memoria. E quali sono i rari casi in cui l’attenzione degli astanti
si risveglia dal torpore? Quelle in cui le caratteristiche fisiche e gestuali
dello speaker, uomo o donna, risvegliano la curiosità di chi ha ascoltato
innumerevoli volte quel messaggio.
Ecco, il nostro obiettivo non è molto diverso: dobbiamo produrre
attenzione in un pubblico bombardato da centinaia di stimoli, che legge
ogni interruzione commerciale come un’occasione di riposo dalla
concentrazione verso il contenuto che ha scelto, volontariamente, di seguire.
Mettere la nostra offerta nelle migliori caratteristiche di attenzione è il
nostro goal.
Figura 36. Sven Otten, ballerino dello spot TIM, con l’Uomo vitruviano e il monoscopio RAI.
La premessa era che avevamo una contrazione del budget. Vale per i
testimonial, vale per le produzioni e soprattutto vale per l’investimento
media. Di conseguenza, se hai meno risorse, devi evitare inutili dispersioni;
se hai meno mezzi, devi concentrarti sui momenti che pensi possano avere
più memorabilità e tutto della tua comunicazione deve parlarsi e rimandare
sempre al tuo brand: lo devono fare i tuoi colori, la tua musica, la tua
grafica, il tuo protagonista. E soprattutto, devi scegliere i luoghi dove farti
vedere. Devi scegliere gli snodi dove pensi passeranno tutti.
Per questo, decidiamo di lanciare il nostro spot in quello che tutti noi
consideriamo il nostro Super Bowl istituzionale: prima del messaggio a reti
unificate del Presidente della Repubblica.
Ogni gruppo di vaste dimensioni ha vocazioni centrifughe che noi italiani
preferiamo tradurre, filosoficamente, in guicciardinismo: cioè ognuno tende
a inseguire il suo particulare. Ma se hai tante dita, per quanto forti, non
saranno mai molto efficaci se la mano rimane aperta. Così, se hai meno
investimenti, ti conviene forse raccoglierli per colpire meglio; quindi, cerchi
di collegare e uniformare il format di tutte le tue comunicazioni, il tuo
messaggio visivo e sonoro per tutte le tue offerte consumer e business:
stesso testimonial, stesso mood, stessi cromatismi, stessa colonna sonora.
Seguendo questo ragionamento, decidiamo di annullare ogni spazio
media non primario e ci concentriamo sugli eventi: meno spazi, ma di
maggiore visibilità. Decidiamo, quindi, di passare dall’essere main sponsor
a sponsor unici del Festival di Sanremo. Sanremo è un unicum che non ha
uguali nella comunicazione planetaria: trovare il 50% di una nazione che
guarda lo stesso spettacolo, per cinque ore, per cinque giorni consecutivi, è
un evento assai raro.
E come si caratterizza un evento così evento? E soprattutto, come si
valorizzano le telepromozioni, che solitamente rimandano a un prodotto
minore della fabbrica televisiva? Si porta il paradosso al proprio vertice e lo
si sensibilizza ragionando che, se si è in possesso di una campagna che
funziona e si sta per diventare protagonisti del programma evento dell’anno,
non è possibile andare in onda con delle telepromozioni dal tenore di uno
squallido promo industriale. Rinunciamo per questo motivo a calcare la
scena con le quattro telepromozioni a cui avremmo avuto diritto ogni sera,
concentrandoci su una sola per serata e convertendo gli altri spazi in
equivalenti occasioni media durante il programma.
Proviamo, quindi, a fare uno spettacolo nello spettacolo e tentiamo di
aggiungere ulteriori elementi di memorabilità. Dunque, chiamiamo
un’Amica, con tutte le A maiuscole, amica che mi aveva scritto di aver
apprezzato lo spot, e le si chiede se, in qualunque modo, le piacerebbe
partecipare a questa campagna affidandoti qualcosa di lei. Perché se vuoi
presentarti al tuo meglio, non cerchi una voce, ma la voce.
E l’Amica, Mina, ti risponde regalandoti l’intuizione di cantare
l’acronimo del tuo brand: TIM TIM TIM. Confesso che non avrei mai avuto
la sfrontatezza di domandare alla principale interprete italiana di musicare il
nome della nostra azienda (e a rifletterci non sembrano esistere casi simili
in altri Paesi).
È lei, quindi, che inventa il nostro sound branding, amalgamando l’intera
nostra comunicazione con la sua voce, fornendoci un altro elemento
essenziale nella costruzione del ricordo. E soprattutto accetta di cantare la
nostra canzone. Così, produciamo questa prima telepromozione e
ambientiamo il nostro musical, non casualmente, in quella New York degli
anni Venti all’origine dello swing, realizzando tutto questo a poco meno di
15 giorni dal Festival. Realizziamo. Perché il punto, infatti, non