desiderata, di un sentimento giovanile che arriva al culmine della gioia ed esprime tutto l’attaccamento alla vita da
parte del Boiardo.
GIA’ VIDI USCIR L’ONDE UNA MATINA: Nel secondo libro la situazione si stravolge, e dalle parole di un autore
innamorato e beato che esalta il proprio sentimento e la propria donna, troviamo un Boiardo amareggiato dalle
pene d’amore e dal tradimento dell’amata. Così Antonia diviene solamente ragione di dolore e lamento, crudele e
ingrata, che spinge il poeta ad affermare: “Odi, superba e altera, le mie pene; | Odi la mia rason sol una volta, |
Prima che morte al crudo fin mi mene”.
LIGIADRO VERONCELLO: nell’ultimo libro il Boiardo si riappacifica con sé stesso e con il ricordo della donna amata,
il dolore si è lenito e lascia spazio ai ricordi della passata felicità e ad una dolce malinconia.
INCONTRO CON MORGANTE: Il passo descrive il primo incontro tra Morgante e Margutte, un bizzarro
"mezzogigante" che diventerà suo amico e compare in più di una impresa nei cantari seguenti: Margutte (il nome
era quello dato ai fantocci di legno usati nelle giostre) si presenta come un personaggio empio e malvagio, che si
vanta dei peccati commessi sciorinando uno scombinato "credo" (fatto soprattutto di termini culinari) e che
incarna in un certo senso la "dismisura" largamente presente nel poema, a cominciare dal fatto di essere un
gigante a metà. Margutte infatti ha interrotto il processo di "crescita" fermandosi all'altezza di quattro metri, circa
la metà di quella che si riteneva la statura "normale" dei giganti, figure assai presenti nella letteratura medievale e
alla cui esistenza si credeva storicamente (in passato erano state ritrovate ossa di animali preistorici, attribuite
erroneamente a questi esseri mostruosi). Margutte rappresenta il "complemento" di Morgante, poiché non è
affatto un gigante buono e non crede in alcuna religione, al contrario dello scudiero di Orlando convertito al
Cristianesimo. Margutte si presenta come peccatore incallito e descrive se stesso come un personaggio
paradossale, abnorme nella sua malvagità: anzitutto è scuro in volto, in modo conforme alla rappresentazione
popolare dei giganti (affine a quella dei demoni), poi lui stesso ci dice di essere nato da un "papasso" turco, una
specie di ministro di culto islamico, e da una monaca greco-ortodossa, quindi figlio di un'unione sacrilega che
accosta due popoli tradizionalmente ostili al Cristianesimo (i greci erano malvisti in Occidente e accusati di essere
individui fraudolenti). Il "mezzogigante" ha ereditato i peggiori peccati di entrambi i gruppi etnici, infatti dice di
aver ucciso il padre e di essere partito alla ventura per il mondo in cerca di guai, portando con sé una scimitarra
che è un'arma tipica degli Ottomani; alla domanda di Morgante se sia cristiano o islamico dichiara di non credere in
alcuna religione e aggiunge alcuni commenti ironici sulla fede musulmana, affermando di amare il vino (i precetti
coranici vietano il consumo di alcool) e di considerare per questo Maometto una specie di fantasma, citando anche
Apollo e Trivigante. Le conoscenze sull'Islam in Occidente nei secc. XV-XVI erano assai labili e si pensava
erroneamente che esso fosse un culto pagano, dedito alla venerazione di idoli tra cui Apollo e Tervagante o
Trivigante, divinità di cui si parla anche nelle chansons de geste. Margutte ha parole blasfeme e sacrileghe anche
verso il Cristianesimo, di cui irride la Trinità paragonandola a delle pietanze (la torta, il tortello e il fegatello, poiché
quest'ultimo veniva cucinato avvolto da una foglia di alloro interposta nei vari strati), mentre più avanti dissuade
Morgante dal tentare di convertirlo dichiarandosi un terreno inadatto a "porvi vigna", parodiando la parabola
evangelica dei vignaioli (Matth., 20.1-16).
I peccati elencati da Margutte si possono raggruppare nelle tre attività del gioco d'azzardo, della gola e del sesso,
in modo simile alla poesia comica del Due-Trecento (► TESTO: Tre cose solamente) cui Pulci si ispira e con una
notevole dose di ironia: afferma di essere un giocatore incallito di dadi e di avere spesso perduto ogni suo avere,
mostrando poi una profonda conoscenza dei termini gergali del gioco e dicendosi pronto a barare; confessa di
essere un ghiottone e vanta una maestria non da poco nell'arte culinaria, spiegando come va cucinato il
"migliaccio" (una specie di sanguinaccio di maiale) e il fegatello, così come la lampreda in guazzetto; infine
ammette di essere stato uno sfruttatore di donne e di aver sedotto addirittura delle monache, definendo questi
peccati come tre virtù cardinali, "la gola e 'l culo e 'l dado", cui aggiungerà una quarta e cioè l'abilità come ladro. La
metafora sacrilega prosegue quando Margutte si vanta anche di avere le virtù teologali, ovvero di essere un
falsario, un mentitore, uno spergiuro, un bestemmiatore, di non osservare alcun sacramento liturgico. L'enormità
dei peccati del personaggio è volutamente paradossale e ricorda quella di Ciappelletto nel Decameron, con la
differenza che il protagonista della novella di Boccaccio rendeva una falsa confessione per ottenere l'assoluzione
dal santo frate (► TESTO: Ser Ciappelletto).Il testo presenta un linguaggio composito, ricco di termini gergali e
popolari dovuti allo sperimentalismo dell'autore: Margutte usa tecnicismi propri del gioco dei dadi (122.2-3: "o
fiamma o traversin, testa o gattuccia, / e lo spuntone", il cui senso non ci è del tutto chiaro), parole del gergo dei
ladri (122.5-7: "ne incaco o bado", "far la berta o la bertuccia", "in bestrica"), vocaboli attinenti alla cucina (124.1, "io
pillotto", ungo l'arrosto sullo spiedo; 126.5, "verdemezzo", cotto al sangue; 126.7, "sonar le nacchere", spargere il
sale con le dita come suonando lo strumento musicale). Le voci proverbiali e popolaresche non si contano, a
cominciare da 129.1, "Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe" (ti dico poco rispetto a quando dovrei); 129.3-4, "io
aro... / col cammello e coll’asino e col bue" (compio peccati secondo e contro natura); 131.1, tenere "dell’oche in
pastura" (sfruttare la prostituzione); 138.6, "zara a chi tocca" (guai a chi tocca, dall'arabo "zahr", dado, gioco
d'azzardo); 141.2, andare "col cappello in su gli occhi" (senza la minima vergogna). Morgante e Margutte
formeranno da qui in avanti un bizzarro sodalizio, compiendo alcune imprese eroicomiche tra cui la gara di beffe a
un povero oste, vittima degli scherzi dei due (► TESTO: Morgante e Margutte all'osteria), finché lo stesso
Margutte morirà a causa dello scherzo del compare, che ruberà i suoi stivali facendoglieli trovare indosso a una
scimmia (il "mezzogigante" morirà per le convulsioni a causa del riso irrefrenabile, ► TESTO: Morte di Margutte).
Alla fine del poema Margutte comparirà all'inferno come araldo di Belzebù, quindi con un destino conforme alla
sua tremenda vita di peccatore.
PROEMIO ORLANDO INNAMORATO: L'autore enuncia il tema dell'opera sottolineando subito la novità, ovvero il
fatto che il campione cristiano Orlando si è innamorato e ha compiuto grandi imprese militari non per la fede ma
per la sua donna, fatto non noto poiché tenuto nascosto da Turpino (il leggendario vescovo-guerriero cui si
attribuiva una cronaca delle storie dei paladini). L'enunciazione della materia prosegue con la presentazione di
Gradasso, re indiano che sta marciando verso Occidente con un'armata nel tentativo di conquistare il regno di
Carlo Magno, cosa che verrà narrata più avanti in questo libro; intanto il sovrano franco ha radunato alla corte di
Parigi tutti i guerrieri cristiani e saraceni, essendo stata proclamata una tregua in occasione della Pentecoste. Il
poema si apre con un'allocuzione dell'autore al suo pubblico di corte, designato con l'epiteto "Signori e cavallier"
cui egli si rivolge per narrare le vicende del paladini come fosse un cantastorie e rifacendosi alla tradizione dei
"cantari" medievali: Boiardo sottolinea subito l'assoluta novità del poema, ovvero la trasformazione del paladino
Orlando da "eroe della fede" quale appariva nelle chansons de geste a uomo innamorato, chiarendo che l'amore
vince su tutto e sarà la molla dell'azione epica del poema; l'autore si rifà certamente allo Stilnovo riletto alla luce
del platonismo quattrocentesco, ma anche al motivo dell'amor omnia vincit della lett. classica, in particolare delle
Egloghe di Virgilio. Attribuisce la novità della materia al fatto che Turpino, il leggendario autore di una cronaca
delle vicende dei paladini, avrebbe nascosto questo particolare della vita di Orlando, per non nuocere alla sua
reputazione di guerriero della fede. L'oggetto del desiderio di Orlando sarà la bella Angelica, il personaggio creato
da Boiardo che farà la sua apparizione di lì a poco, in occasione del torneo della "Pasqua rosata". Prima di entrare
nel vivo del racconto, Boiardo anticipa un ulteriore sviluppo narrativo del poema e cioè l'invasione da parte del re
indiano Gradasso del territorio di Francia, nel tentativo di impadronirsi della spada di Orlando (Durindana, la
celebre Durendal della tradizione carolingia) e del cavallo di Ranaldo (Baiardo): il re pagano sarà protagonista
anche dell'Orlando furioso, in cui parteciperà al duello famoso di Lipadusa e ucciderà Brandimarte, prima di essere
a sua volta ucciso da Orlando. Dopo questa anticipazione l'autore introduce la corte di Carlo Magno a Parigi, dove
il sovrano ha indetto un torneo cavalleresco in occasione della Pentecoste (la "Pasqua rosata") cui prendono parte
cristiani e saraceni, avendo sospeso le ostilità in seguito a una sorta di tregua; poche ottave dopo farà la sua
apparizione Angelica, in compagnia del fratello Argalìa e scortata da quattro giganti, giunta dal Catai per mettere
in atto un piano malvagio.
IL CASTELLO DI FRATTA: Le pagine forse più belle delle Confessioni di un italiano sono quelle in cui Carlino, il
protagonista del romanzo, rievoca le sue vicende di ragazzo intraprendente, costretto a vivere in un ambiente
chiuso e retrivo. Ciò che evidenzia in queste pagine, come in tutta la prima parte del romanzo, è la vita nel castello
di Fratta, un vecchio mondo abitudinario e decrepito in cui tutto è scandito sul ritmo lento del passato. Il giovane
Carlino, per sfuggire a questo senso di chiuso, sentì presto l'impulso di andarsene alla ricerca di una vita più
dinamica e tesa al progresso; ma ora, ormai vecchio, ricorda quel mondo e quel castello con la benevola nostalgia
con cui si contempla l'età favolosa dell'infanzia. Da ciò deriva sia il tono narrativo sereno e distaccato, proprio di
una persona ormai lontana dagli avvenimenti che narra, sia l'atteggiamento ironico e un po' canzonatorio dello
scrittore anche nei riguardi sé stesso; ma il personaggio di Pisana è contemplato da lui senza ironia, anzi con
affettuoso rimpianto, così che quell'idillio infantile conserva tutta la sua incantevole ingenuità e freschezza.
LA PISANA: In questo brano la figura di Pisana si delinea con precisione perchè, pur bambina, già mostra i segni del
suo carattere pieno di contraddizioni che, adulta, renderà affascinante e crudele, avida e generosa. Figlia del signor
conte di Fratta e cugina di Carlino, lo tormenta con i suoi capricci e con la sua maliziosa tirannia, suscitando le sue
ribellioni e le sue gelosie, Ma Carlino, anche quando si sdegna con lei, lo fa soltanto per amore e ammirazione ed è
sempre pronto al perdono e alla sottomissione pur di piacerle e di ottenere il suo sorriso. Siamo nel castello di
Fratta, nel Friuli, dove l'ottuagenario narratore ambienta la sua infanzia. Il castello di Fratta, con “la moltitudine dei
fumaioli” e con quella cucina e quel focolare (“i monumenti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della
terra”) è un luogo mitico che ricorre costantemente nel romanzo come centro ideale di ricordi e di poesia.
A SILVIA: canto dedicato a una ragazza che il poeta conobbe realmente, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di
casa Leopardi, morta di tisi nel 1818. Nella fantasia leopardiana Silvia è soprattutto il simbolo della speranza della
giovinezza, fatta di attese, illusioni e delusioni. “A Silvia” non rappresenta una commemorazione funebre, e non è
una canzone per Silvia. Si tratta in realtà di una confessione del poeta. E’ costruita come un dialogo con Silvia. Il
canto si divide in due parti: la prima parte ha carattere rievocativo, incentrato sulla poetica della memoria, la
seconda parte ha carattere riflessivo. Nella prima parte, Leopardi domanda a Silvia se, dopo tanti anni, ricorda
ancora i giorni felici nei quali si affacciava alla giovinezza. Quando anche il poeta aveva nel cuore la fiducia nella vita
e, come Silvia, aveva pensieri piacevoli, speranze e belli gli apparivano il fato e la vita. Tuttavia questo è destinato a
finire per colpa della natura, che promette negli anni della giovinezza e dell’adolescenza, ma poi non mantiene ciò
che ha promesso. Nella seconda parte il poeta fa un paragone tra il destino della ragazza e il suo. Silvia moriva
senza veder fiorire la sua giovinezza, senza poter parlare di amore con le compagne e senza godere delle lodi della
propria bellezza. Con la sua morte, tramontava anche la speranza di felicità di Leopardi. A lui, infatti, come a Silvia,
i fati negarono le gioie della giovinezza, dove sogni e speranze dovrebbero diventare realtà. Svaniti dunque i sogni
con l’apparire della realtà dolorosa, non resta altro che la morte per liberarci dalla miseria e dalle amarezze della
vita.
ALLA LUNA: Dopo un anno il poeta guarda di nuovo la luna, che rischiara la selva del monte Tabor o colle
dell’Infinito. Come un anno prima la luna compariva velata e tremula agli occhi di lui, pieni di lacrime, così gli
compare anche adesso, perché nulla è cambiato nella sua vita, che continua ad essere travagliata e che gli riempie
ancora gli occhi di lacrime. Quando si è nell’età giovanile, dice il poeta, la memoria ha poco spazio dietro di sé e la
speranza, invece, ha davanti a sé un lungo cammino, questo perché le illusioni sono ancora vive e vere, quindi è
piacevole il ricordo del passato, anche se esso fu triste e se il presente è doloroso. Il tema dell’idillio è la dolcezza,
che si prova rievocando il passato, anche se è doloroso, perché se ne evocano tutte le illusioni. In “Alla luna”
troviamo realizzata la poetica della memoria, già utilizzata ed elaborata dal Leopardi attraverso i pensieri sparsi
dello “Zibaldone”. Nella poesia “Alla luna” troviamo il tema del ricordo. Il presente dà il via al ricordo del tempo
passato. Tra i due momenti non c’è frattura: è passato un anno ma non è cambiato niente, il dolore è sempre lo
stesso. Tutto questo è espresso nel v. 9, che esprime questo rapporto passato/presente con i due verbi “era” ed
“è“. Il poeta affida ad una “graziosa luna” le essenze del suo animo.
Il Leopardi dei piccoli idilli, ed in questo caso di “Alla Luna”, si rifugia sul monte Tabor, che gli dà la percezione
dell’Infinito, per lasciarsi andare al ricordo del tempo nel quale era convinto che il domani sarebbe stato migliore.
Nell’immaginario del poeta, la luna è una donna graziosa che allevia il pianto umano, compare per rischiarare la
selva, e per ridare agli occhi del poeta, che sono velati dal pianto, nuovo vigore. Non è solo una predilezione per i
notturni lunari, ma un desiderio di affetto. Nell’opera leopardiana c’è un’immagine di donna che vuole essere
madre, simboleggiata dalla luna.
L’INFINITO: “L’Infinito” è la prima delle poesie che Giacomo Leopardi pubblicò nel 1815, scritta appunto negli anni
della sua gioventù. È composta da 15 endecasillabi sciolti. La lirica indica nel titolo il tema che sarà sviluppato. Le
stesure definitive risalgono al 1818-1819; la poesia è stata poi inserita negli Idilli, pubblicati nel 1926. È un quadro
tutto interiore di straordinaria purezza espressiva, dove le limpide immagini naturali sono quasi un pretesto per
esprimere una vasta meditazione. Il poeta è sul colle Tabor, a Recanati, detto colle dell’Infinito. Un luogo caro al
poeta perché è un posto solitario e silenzioso, dove si può sognare e meditare. Leopardi è seduto sul colle, una
siepe non gli permette di guardare e spaziare sino all’estremo orizzonte. Questo limite dato dalla siepe, permette
però al poeta di lasciarsi andare con l’immaginazione. Si aprono così spazi sterminati, silenzi sovrumani, superiori
cioè all’intendimento umano, e una grande quiete. Questa percezione dell’infinito genera nel poeta un senso di
sgomento religioso per l’intuizione che egli ha di una realtà che lo trascende (vv.1-8). Il fruscio delle foglie mosse
dal vento, lo richiama alla realtà: il poeta fa quindi un confronto tra l’infinito silenzio dello spazio, le stagioni (età)
passate e la stagione presente e viva. Questo confronto dà al poeta l’intuizione dell’infinito temporale, l’idea
stessa dell’eternità. In un primo momento, la percezione dell’infinito, suscita nel poeta un senso di paura, ma poi
passa alla dolcezza del “naufragare”, del perdersi in esso, perché la percezione dell’infinito gli fa perdere, per
qualche istante, il senso dei limiti in cui egli come uomo è chiuso, dandogli il senso di una realtà infinita, eterna.
IL SABATO DEL VILLAGGIO: questo idillo si può dividere in due parti: nella prima parte si descrive il sabato in un
villaggio; sabato è metafora di giovinezza e questa è l’età delle illusioni; nella seconda parte avviene una
descrizione interiore, la descrizione della domenica; domenica è metafora di età adulta, l’età delle disillusioni. Nella
prima parte sembra che il poeta abbia abbandonato il pessimismo, ma negli ultimi versi della seconda parte si nota
che è racchiuso tutto il suo pessimismo. Il poeta ci vuole far capire che il sabato viene vissuto con felicità e gioia,
perché si pensa che il giorno seguente è festa. La domenica viene vissuta con noia e tristezza perché già si pensa al
giorno seguente e a ciò che ci aspetta, il lavoro.
LA GINESTRA: La ginestra o Il fiore del deserto è la lirica che chiude i Canti di Giacomo Leopardi, per una precisa
scelta in quanto funge da testamento spirituale dell’autore. E’ stata composta a Torre del Greco, in provincia di
Napoli, nel 1836. La ginestra o fiore del deserto è il testamento poetico dell’autore. L’unico modo per contrastare il
destino così maligno verso gli uomini è quello di comportarsi come la ginestra. Attorno al fiore ruota tutto il
componimento. Tale pianta si trova alle pendici del Vesuvio. Essa resiste a tutto e diventa il simbolo di una nuova
poesia che auspica la fratellanza tra gli uomini (pessimismo sociale). La ginestra diventa quindi un modello morale
da seguire perché accetta il suo destino senza essere superba e neppure vigliacca: nella sua semplicità sa essere
molto più coraggiosa dell’uomo. Leopardi vuole così lasciare il suo messaggio all’umanità.
La canzone è composta da strofe libere di endecasillabi e settenari. Essa si apre con un verso del Vangelo di
Giovanni (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce“). Leopardi polemizza con quelle persone che
scelgono di vivere in uno stato di ignoranza (nelle tenebre), non tenendo conto dei mali del mondo. La luce
rappresenta quindi la consapevolezza dell’esistenza di tali mali e non va inquadrata dal punto di vista religioso. Il
poeta abbandona le suggestioni indefinite per adottare una poesia più filosofica e razionale e soprattutto
preferisce utilizzare strofe ampie per sviluppare il suo discorso.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE: Il “Dialogo della Natura e di un Islandese” è la più famosa delle
Operette Morali di Giacomo Leopardi, esprime al meglio il pessimismo cosmico leopardiano. Prendendo spunto da
un’opera del filosofo illuminista francese, Voltaire “Storia di Jenni o il saggio e l’ateo” (1775), in cui il filosofo parla
delle minacce naturali, quali gelo e vulcani, a cui sono sottoposti gli islandesi, Leopardi sviluppa l’idea di un
Islandese che viaggia, fuggendo la Natura. Tuttavia arrivato in Africa, in un luogo misterioso ed esotico, incontra
proprio la Natura che stava evitando, con la forma di una donna gigantesca dall’aspetto “tra bello e terribile“. Un
uomo, dopo aver viaggiato molto per varie parti del mondo, per fuggire la Natura arriva un giorno in Africa. Qui gli
compare una donna gigantesca, seduta per terra, con il dorso e il gomito appoggiati ad una montagna, viso bello e
terribile e i capelli nerissimi. A lei che gli domanda chi sia e che cosa cerchi in quei luoghi ancora inesplorati l’uomo
risponde di essere un povero Islandese che sta fuggendo la natura. Quando la donna gli dice di essere la natura
che egli fugge, l’Islandese pronuncia una lunga requisitoria contro di essa, parlando della sua vita di patimenti e
accusandola di essere la causa della sofferenza e dell’infelicità degli uomini. La Natura quindi risponde che il
mondo non è stato fatto per il genere umano e per la sua felicità, anzi se un giorno esso si estinguesse, lei forse
non se ne accorgerebbe. L’Islandese controbatte facendo un esempio. Se fosse invitato da un signore nella sua
villa e all’arrivo in casa fosse maltrattato dai servi e dai figli, rinchiuso in una stanza buia e fredda, ricorderebbe al
signore di essere stato invitato e di non esserci andato di spontanea volontà. Di conseguenza aveva il diritto di non
essere trattato male. La Natura si è comportata con gli uomini allo stesso modo del signore. La natura sì è vero che
non ha fatto il mondo per gli uomini, ma avendoli fatti nascere, non deve renderli infelici e schiavi, ma deve
trattarli umanamente. Allora la Natura gli ricorda che la vita dell’universo è un ciclo perpetuo di trasformazioni
della materia, a cui nulla sfugge. Quindi l’Islandese domanda il perché della vita e dell’universo. Una domanda che
rimane senza risposta, così come avviene nel “un pastore errante dell’Asia”, che sta a significare il mistero
insondabile dell’universo. II dialogo si conclude in maniera brusca per la misera fine dell’Islandese: secondo alcuni,
fu divorato da due leoni, secondo altri, fu preda di un violentissimo vento, che lo ricoprì di sabbia, trasformandolo
in mummia. Questo dialogo svolge il concetto leopardiano della natura matrigna, che è la causa dell’infelicità degli
uomini, perché ha diffuso in essi il desiderio insopprimibile della felicità, pur sapendo di non poterlo mai
mantenere. La scelta a protagonista di un Islandese sta a significare che sono infelici anche coloro che sono vicini
alla natura, alla vita primitiva.
NEVICATA: Carducci lo realizzò in un momento particolarmente buio della sua vita, profondamente addolorato
dall’aggravarsi della malattia dell’amata Lidia (nome con cui Carducci invoca Caterina Cristofori Piva) e poi dalla
morte di quest’ultima. Il poeta inizia la sua poesia raccontando una fitta nevicata che coinvolge la città bolognese
(alla cui identità geografica il poeta allude), venendo giù da un cielo color della cenere. La nevicata attenua in
modo particolare i rumori della città, come il grido della fruttivendola, il cigolio dei carri che passano ed i rintocchi
dell’orologio della torre che sembrano sospiri provenienti da un altro mondo. Al tempo stesso, la neve rende
l’atmosfera spettrale, cancellando ogni segno di vita. La neve, però, ci regala anche un senso di calma e di
ovattato. Alla malinconia del paesaggio invernale si contrappone quello dello stato d’animo del poeta e delle sue
riflessioni sulla fine della vita. Carducci ammira la nevicata da una finestra del suo studiolo, dai suoi versi scaturisce
una spiccata inclinazione intimo-malinconica. Attorno alla torre della piazza, suonano smorzate le ore come gemiti
ultraterreni e uccelli sperduti che picchiano ai vetri appannati, simboleggiando le anime degli amici che assistono il
poeta nella sua ultima ora di vita. Le ombre dei cari morti chiamano il poeta, e ad essi il poeta risponde che presto,
calmato il suo indomito cuore, verrà a riposare nel silenzio e nell’ombra. Carducci attende con serenità il riposo
della morte: nel mondo sotterraneo tutto è silenzio e ombra. Il poeta canta, con romantica modernità di toni e
accenti, il suo sentimento malinconico della vita ed in particolare della morte.
ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D’AUTUNNO: trae spunto da un episodio autobiografico del 1873: la partenza
da Bologna di Lidia (è il nome con cui Carducci canta Carolina Cristofori Piva e prende l’avvio da una descrizione di
qualcosa di concreto e presente per poi aprirsi alla rievocazione del passato. Lo scenario presente descritto non è
per nulla poetico, bensì molto prosaico: si tratta, infatti, di una stazione ferroviaria, introdotta da un paesaggio
quasi spettrale caratterizzato da nuvole, pioggia e fango; il poeta indugia su metafore molto evocative che
ricordano le ardite personificazioni simboliste e, parallelamente, su particolari realistici molto banali e quotidiani
come il biglietto forato dal controllore. Ciò per Carducci ha il preciso compito di sottolineare la tristezza e la
grettezza della vita moderna, simboleggiata dalla stazione ferroviaria, che diventa sempre più un luogo infernale.
Infatti, il treno era stato già utilizzato dal giovane Carducci nell’Inno a Satana come simbolo “bello e terribile” della
modernità, ma qui diventa un emblema totalmente negativo, un “empio mostro”, in quanto il progresso è visto
come portatore di grettezza e di tedio, che rende gli uomini simili a fantasmi. La prima parte tutta negativa apre la
strada alla fantasia del poeta, che richiama alla memoria l’immagine della donna amata, circondata da luce, calore,
voglia di vivere, bellezza: anche il paesaggio rispecchia la gioia del poeta. Alla fine, però, si torna alla tristezza e al
tedio del paesaggio iniziale, simbolo della pena e dell’angoscia esistenziale della vita moderna. Prevalgono,
pertanto, la malinconia di Carducci e il rimpianto per la partenza della donna amata, Lina, chiamata Lidia per un
accostamento al poeta latino Orazio: tutto riporta tristemente alla sua mente i giorni trascorsi insieme alla donna,
ormai inevitabilmente trascorsi, con una perfetta fusione tra la descrizione del paesaggio esteriore e i sentimenti
del poeta.
FANTASIA: In questa ode di versi il poeta indulge al motivo romantico dell'esotismo, la tendenza cioè ad evadere
dalla realtà per rifugiarsi idealmente in paesi lontani nello spazio o nel tempo e dimenticare per un attimo gli
affanni e il peso della vita quotidiana. Egli prende spunto dalla voce della donna amata che ha un suono così dolce
e carezzevole che, a sentirla, egli si estrania dalla realtà e naviga con la fantasia verso terre lontane e vede vaste
distese azzurre e solitarie di mare e di cielo, candidi gabbiani, isole verdi di vegetazione, templi di marmo pario,
cipressi e mirti, marinai che cantano e una nave che in vista del porto ammaina le vele. Poi vede scendere
dall'acropoli e avviarsi verso le spiagge dell'isola di lesbo una lunga schiera ordinata di fanciulle vestite di lunghi
pepli bianchi, che hanno al capo ed in mano rami di alloro e cantano tendendo le braccia verso il poeta-soldato
Alceo, che, piantata l'asta sulla terra della patria, salta giù armato dalla nave reduce dalla guerra vittoriosa. Il tema
dell'ode, composta nell'aprile del 1875, è adombrato in una lettera del 29 giugno 1874 indirizzata a Lidia (il nome
portico della signora Carolina Cristofori Piva, la donna amata dal Carducci), in cui si legge che sull'onde armoniose
della voce di lei egli si lasciava andare verso altri cieli ed altre terre
NOVEMBRE: Il titolo originario della poesia era "San Martino" come l'omonima poesia a cui si è ispirato scritta da
un altro noto poeta italiano, Giosuè Carducci.La prima strofa presenta l’immagine di una giornata di straordinaria
limpidezza e luminosità; sembra primavera, visto che lo sguardo, istintivamente, cerca gli albicocchi in fiore. Nella
seconda strofa subentra l’inganno: altri segnali (il ramo stecchito, il cielo senza uccelli, il terreno cavo ai passi
umani) negano le apparenze iniziali.Nella terza strofa abbiamo la dichiarazione conclusiva: la luce che pareva
anticipare il risveglio primaverile si rivela essere gelida aria che annuncia il sopraggiungere dell’inverno. E’ l’estate
… dei morti: dunque siamo all’inizio di novembre, come già il titolo dichiarava. Lo svolgimento tematico e
psicologico della poesia si attua dunque nel contrasto fra il principio e la conclusione: dai simboli della vita (la
chiarezza del sole, la luminosità dell’aria) si giunge all’estremo opposto, dove la freddezza autunnale diventa un
emblema della morte. Il poeta ha ripreso un motivo lirico antichissimo (la vita umana passa veloce e poi muore,
come le foglie d’autunno della poesia Soldati di Giuseppe Ungaretti), ma lo rilegge con la nuova sensibilità di chi
denuncia l’inganno dei sensi, insufficienti di fronte a una realtà che delude e condanna alla solitudine e alla morte.
ARANO: La prima terzina è ricca di minimi dettagli atmosferici e coloristici: la luminosità delle foglie rossastre, la
nebbia mattutina che, nel freddo, sale fumando dai cespugli. La strofa s'incentra su una sintassi lenta, pausata, con
un tono nostalgico ed evocativo. Non si sa chi sia a compiere l'azione di arare; essa si svolge al campo, non nel
campo per maggiore indeterminatezza. La seconda terzina porta al massimo risalto tale pacatezza dei gesti, che
rammenta una consuetudine antica. La punteggiatura frantuma il discorso e lo costringe a frequenti pause e
improvvise riprese. Il verbo arano, anche con la sua intonazione sdrucciola (accento sulla terz'ultima sillaba),
posticipato rispetto alla prima strofa e collocato in principio del v.4, conferisce alla scena una sfumatura di
monotonia e d'immobile solennità. Tale sensazione viene ripresa e amplificata dalla ripetizione successiva (a lente
grida..le lente - vacche) e dall'aggettivo paziente alla fine del periodo. Nella quartina finale lo sguardo si distoglie
dal lavoro umano ed è invece attratto dal passero avido di gettarsi sui semi e dal canto acuto e scintillante del
pettirosso: due emblemi della vita di natura. A parlare, nella lirica, sono le cose; ma ciò che viene descritto non è
l'aratura, bensì le sensazioni che essa suscita nell'animo: pochi frammenti, pochi gesti, colori e suoni. Lo sguardo di
Pascoli è sempre soggettivo e in tal modo dà più valore a quanto dice. Nessun dettaglio è casuale: in ciascuno si
rispecchia l'animo dell'autore, le sue impressioni. La scena è serena, ariosa, come i pampini rossi sui filari della vite.
Il lavoro è faticoso ma concreto; lo sforzo lentamente ripetuto allontana la preoccupazione per il cibo sempre
scarso e soggetto a mille minacce (in questo caso, gli uccelli che rubano i semi nei solchi).Lo stile è semplice e
dimesso.
LAVANDARE: Il testo potrebbe sembrare, a prima vista, una pura descrizione di vita campestre, quasi un bozzetto
di quelli cari a Verga e ai naturalisti. Il poeta sembra nascondersi al di qua della nebbia che sale dai fossi, dietro i
canti al lavatoio, per proporre due scene che sembrano del tutto slegate. Ma Pascoli sa trarre, dalle situazioni più
comuni, elementi che esprimono inquietudine: una segreta malinconia si diffonde sulle cose della campagna e
nell'animo del lettore. Il messaggio è affidato alla strofa conclusiva. Qui infatti crea il legame che unisce i tre
momenti del testo:
l'immagine dell'aratro abbandonato in mezzo alla campagna si fa il simbolo dell'umana solitudine. Il poeta, proprio
come la contadina lasciata dall'amato (vv.8-9), si rispecchia nell'aratro in mezzo alla maggese:
-L'innamorata è senza compagno (quando partisti , come son rimasta! v.9);
-L'aratro è senza buoi (v.2);
-Anche il poeta, mai nominato peraltro, si ritrova orfano e senza amore. Questa conclusione, peraltro, viene solo
allusa dal significato generale della poesia. La prima strofa raffigura l'aratro insolitamente abbandonato nel campo
che è avvolto da una nebbia leggera. La seconda terzina sposta l'attenzione su una scena completamente diversa:
osserviamo (o meglio, udiamo) lo sciabordare cadenzato delle lavandaie e i tonfi spessi dei panni, con le lunghe
cantilene che ritmano il lavoro. La strofa finale riprende un canto popolare marchigiano. L'ultimo verso ripropone
l'immagine dell'aratro solitario. Raffigura una scena tipica della vita rurale: il lavoro delle lavandaie al lavatoio.
Questa poesia parla di un campo arato solo per metà nel quale al centro è situato un aratro, ma in questo caso l'
aratro ha un doppio significato, ha infatti un significato di solitudine. L'aratro, insieme alle donne di cui parla
Pascoli nella poesia che stanno lavando i panni vicino a questo campo, vengono paragonate ad una donna che è
stata abbandonata dal marito che non tornerà più da lei... ed è questa la solitudine che fa capire che la poesia
rispecchia il decadentismo.
L’ASSIUOLO: in una notte nebbiosa il poeta guarda il cielo, cerca invano la luna, rimira le rade stella. Ma, rispetto a
tale spettacolo, la sua attenzione è continuamente distratta: prima dai lampi che, all’orizzonte, accendono le nubi
nere e cariche di pioggia; poi dalla voce monotona del mare; infine dal fruscio fragoroso delle cavallette. Intanto,
dall’una all’altra strofa, egli ascolta la voce solitaria e lamentosa dell’assiuolo. C’è qualche cosa che turba tanta
pace: non il guizzo dei lampi, non le nuvole nel cielo lontano, ma una voce che si leva triste dai campi: il chiù
dell’assiuolo.
Dapprima il poeta la nota quasi di passaggio, ma poi ripensandoci, prova un sussulto: il cuore ricorda un’antica
sofferenza. La voce dell’uccello notturno pare la voce stessa del suo cuore angustiato. A questo punto anche le
cose all’intorno cambiano aspetto. Sono sempre belle, ma acquistano un tono di tristezza: sulle cime nitide nel
cielo trema ora un sospiro di vento; lo stridio delle cavallette pare il suono dei sistri d’argento, voce che si frange
davanti alla porta dell’oltretomba; e forte come un’eco vicina, ecco il singhiozzo dell’assiuolo, un pianto di morte.
NEBBIA: Pascoli si rivolge alla nebbia personificata, elemento ricorrente della sua poesia, chiedendole di
nascondergli ciò che è lontano nel tempo (le cose passate) e nello spazio (le cose lontane), perché provoca solo
pianto e dolore. La nebbia non è descritta oggettivamente (come, ad esempio, in San Martino di Carducci), bensì
assume un forte significato simbolico, diventando una barriera difensiva che il poeta erge tra sé e il mondo
esterno, affinché lo protegga dall’ignoto e dalla morte, lasciandogli vedere solo ciò che è vicino, le poche e umili
cose rassicuranti perché appartengono al “nido” (la casa, il giardino, le piante, il cane), quindi assicurandogli un
po’ di serenità. La vita viene vista in una luce negativa, mentre l’atteggiamento nei confronti della morte è
ambivalente. Emerge, tuttavia, anche una contraddizione: come dimostra il verso “che vogliono ch’ami e che
vada”, il mondo esterno che da un lato spaventa terribilmente il poeta, dall’altro lo attrae: è molto legato al
“nido”, ma coltiva anche una segreta attrazione per il mondo esterno. Secondo Gianfranco Contini, a ragione,
questa lirica può essere considerata “un’allegoria generale del mondo poetico pascoliano”, perché contiene tutte
le tematiche e le contraddizioni tipiche della sua poetica. La “valeriana” è da intendere come simbolo dell’oblio, la
siepe e il muro dell’orto sono simboli di protezione dal mondo esterno; il cipresso è evidentemente immagine della
morte, mentre il cane rappresenta la fedeltà e gli affetti domestici; la metafora “aeree frane” per indicare il tuono
è molto forte e rimanda ad apocalissi cosmiche. La percezione del poeta va oltre la realtà per sconfinare nel
simbolismo: la precisione dei termini non ha nulla di realistico, ma diventa profondamente evocativa. Le frequenti
ripetizioni conferiscono alla poesia un ritmo cantilenante; il ritmo è continuamente spezzato da punteggiatura,
pause, enjambements.
SERA FIESOLANA: D’Annunzio si rivolge ad un “tu” indeterminato, una figura femminile di cui non viene esplicitato
il nome, ma ogni strofa costituisce sostanzialmente un nucleo a sé stante.
-Il poeta si mette in ascolto del dolce paesaggio collinare, illuminato dalla tenue luce della sera;
-In esso scorge una soffusa malinconia;
-In questa atmosfera rarefatta percepisce la segreta melodia di odori e suoni della natura al tramonto.
Il motivo dominante della lirica è la reciproca compenetrazione fra il paesaggio naturale nell'ora della sera e gli
stati d'animo del poeta. Fra le due dimensioni si stabiliscono segrete corrispondenze. Il tema centrale di Alcyone è
la metamorfosi (mutamento e trasformazione) di tutte le cose. Anche nella Sera fiesolana il ritmo della poesia è
quello della metamorfosi, del mutamento, acceso dalle continue corrispondenze che si generano tra i diversi piani
della realtà. Ne nasce uno scenario che al poeta pare un mistero sacro. Ma quella di D'Annunzio è una religiosità
ben particolare, negata a ogni trascendenza. L'elemento sacrale è dato nel testo, non dall'elevazione spirituale
(dalla terra al cielo), ma da un incessante ( e orizzontale) passaggio di stato (dalla terra alla terra, da una
condizione terrena a un'altra: per esempio, scala / tronco). Così si confondono e si ribaltano continuamente i piani
percettivi; e tutto si risolve in questa continua metamorfosi. Alla fine, l'unico dio dell'universo resta il poeta: l'unico
a conoscere questa legge della metamorfosi universale, l'unico che sappia interamente protendersi nella natura
(fino a confondersi con essa), per pura forza di sensazioni. Il poeta si mette in ascolto, tende allo spasimo la
propria capacità percettiva: è il trionfo della poetica della sensazione. La terza strofa, è infatti impostata
sull'unione tra la natura e l'uomo: la natura che, sempre chiusa nel suo misterioso silenzio, pare esser qui sul punto
di svelare un'arcana verità (infatti il profilo delle colline che s'incurva chiaro nel cielo, come labbra che un divieto
chiuda... ...sembra manifestare il segreto di quella splendida sera che riempie il cuore di pace e di dolcezza), e il
poeta capace di immergersi tutto in essa e di penetrarne ogni segreto. E' questo il preludio al famoso panismo
dannunziano.
PREMESSA SECONDA: Mattia, nel comporre il suo manoscritto, ha seguito il consiglio del suo amico , il Reverendo
don Eligio. Scrive nella chiesa sconsacrata dove si trova il lascito di Monsignore, in attesa che il reverendo cataloghi
e riordini i libri. Mattia cita Copernico e lo maledice : la sua scoperta ha rovinato l’umanità. Da quando l’uomo è
consapevole del fatto che la terra è un’invisibile trottolina, un granellino di sabbia impazzito che gira e gira senza
sapere perché , tutto acquista un’importanza relativa, anche le più gravi calamità.
Don Eligio osserva tuttavia che l’uomo si distrae facilmente e dimentica senza difficoltà la sua fragile natura:
Mattia è d’accordo su questo e sostiene che gli uomini sono capaci di dimenticare rapidamente la loro natura
terrena e di “azzuffarsi per un pezzettino di terra”Mattia vuole dunque raccontare la sua storia: alcuni fatti non
gli faranno onore, ma a lui non importa : EGLI SI PUÒ GIÀ CONSIDERARE INFATTI FUORI DALLA VITA, SENZA
OBBLIGHI E SCRUPOLI DI SORTA.