Introduzione
In questa lezione prenderemo in considerazione due canti dell’Inferno: il canto 3, che chiude il trittico dei
canti iniziali del poema (il primo canto e, in parte, il secondo sono già stati analizzati in precedenza) e
introduce il lettore al di là del primo regno oltremondano; e il canto 23, il primo dei canti di Malebolge su
cui ci soffermeremo. Attraverseremo dunque tre soglie: la porta infernale, che reca la celebre iscrizione
«Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (con
anafora dell’espressione «Per me si va», ‘passando attraverso di me si va’, ripetuta solennemente tre volte
all’inizio dei primi tre versi del canto terzo); il fiume Acheronte, che delimita l’ingresso all’Inferno vero e
proprio, ai cerchi infernali; e lo strapiombo che separa il cerchio dei violenti dai fossati di Malebolge, che
circondano il pozzo dei giganti e l’abisso di Lucifero, nella parte più profonda della voragine infernale.
Anche quest’ultima delimitazione, il dislivello che divide il settimo e l’ottavo cerchio, segnala un passaggio
di stato, un mutamento di condizione: negli ultimi due cerchi sono infatti puniti i peccati di frode, più gravi
perché coinvolgono in misura maggiore la ragione, l’intelletto umano, la conoscenza. L’Inferno è dunque un
luogo che contiene al proprio interno altri luoghi, e il cammino attraverso questo regno implica un
progressivo internamento nella conoscenza e nell’esperienza del male. Inoltrarsi nel primo regno,
attraversare le soglie dell’architettura e del paesaggio infernale, superare i limiti del cammino, implica un
processo intellettuale-cognitivo che porta a un progressivo approfondimento nella comprensione della
natura umana, dei disegni della provvidenza divina e della conoscenza di sé. Le soglie sono perciò da
interpretare come momenti di passaggio e di crescita intellettuale e morale, per Dante- personaggio e,
auspicabilmente, per il lettore e la lettrice del poema.
Canto III.
Se il primo canto dell’Inferno costituisce il proemio dell’intera Commedia, presentando al lettore alcuni
aspetti generali dell’opera (i personaggi, i luoghi, l’argomento complessivo e la disposizione della materia, il
doppio piano narrativo del viaggio e della scrittura, dell’esperienza e della memoria, la pluralità e la
compresenza dei livelli interpretativi, il ruolo di primo piano della parola e della letteratura, la
partecipazione del lettore all’esperienza narrata ecc.); e se il secondo canto – lo abbiamo visto sia nella
lezione precedente, sia nel sommario della materia del poema contenuto nelle letture obbligatorie, con
possibilità di approfondimento nelle letture facoltative – da un lato costituisce l’esordio vero e proprio della
prima cantica (con l’invocazione alle Muse), dall’altro rappresenta una pausa narrativa grazie alla quale,
attraverso i dubbi espressi da Dante e la risposta di Virgilio, vengono introdotti ulteriori elementi generali
(l’origine divina del viaggio, il ruolo di Beatrice, l’individuazione delle esperienze ultraterrene di Enea e san
Paolo come ideali coordinate entro cui collocare la vicenda che sta per essere narrata, la prefigurazione,
ancorché vaga, dell’altafunzione del viaggio, che si intuisce di natura politica, religiosa, morale e
intellettuale e di grande rilevanza per l’intera umanità, il procedere per dubbi e ragionamenti progressivi,
per interrogativi e osservazioni, la sovrapposizione semantica tra cammino, processi intellettuali e cognitivi
e uso della parola); il terzo canto immette il protagonista – e insieme a lui il lettore e la lettrice – nel primo
regno oltremondano, e offre le prime rappresentazioni del paesaggio infernale, delle pene e delle punizioni
dei dannati, delle anime e delle figure orrifiche che le ‘amministrano’, delle reazioni di Dante di fronte a
queste visioni. L’ingresso nell’aldilà è reso ancor più solenne dalla pausa narrativa del secondo canto e dalla
tensione drammatica creata dai dubbi di Dante e dalle parole di Virgilio, che ritardano il cammino verso il
primo regno e preparano alla visione della porta infernale (a cui si riferisce l’incisione di Gustave Doré che
avete visto prima). Si tratta di uno dei canti più celebri di tutto il poema. A questa fama ha contribuito,
senza dubbio, oltre alla posizione liminare, la concentrazione di versi o emistichi densi e sentenziosi, adatti
a rimanere impressi nella memoria e divenuti in alcuni casi modi di dire diffusi (usati talvolta anche in senso
ironico). Vediamone solo alcuni:
Il canto inizia sotto il segno dell’eternità e della parola imperitura, definitiva, pronunciata ‘una volta per
tutte’, presentando nei primi versi l’iscrizione che compare sulla porta infernale e che non soltanto
stabilisce un limite spaziale tra dimensione umana e dimensione ultraterrena, ma indica anche un
passaggio temporale fra la dimensione del tempo umano, misurabile, transitorio, e la dimensione
dell’eternità («io etterna duro», si legge nei versi posti sulla sommità della porta): allo stesso modo,
come ha osservato Georges Güntert, lungo tutto il canto la versificazione tende a essere lapidaria, netta,
incisiva, densa, sentenziosa, come avviene, appunto, negli esempi citati.
Più in generale, la fama del canto è legata agli episodi, ai personaggi e ai vividi quadri di insieme che
compaiono in successione e che colpiscono l’immaginazione del lettore grazie, anche, all’equilibrio
compositivo della narrazione, in grado di isolare momenti e immagini rilevanti e allo stesso tempo di
trascorrere in modo fluido da un episodio all’altro, da una figura all’altra. Il canto terzo è incentrato infatti
su tre nuclei narrativi principali, tutti e tre ben definiti e individuabili e collegati tra loro da simmetrie e
corrispondenze interne:
1. la raffigurazione della porta infernale;
2. la visione d’insieme delle prime anime dell’Inferno, gli ignavi;
3. l’apparizione di Caronte, nocchiero infernale, che giunge per trasportare al di là del
4. fiume Acheronte le anime dei dannati, le quali arrivano in continuazione e in
5. numero sterminato sulla sponda del fiume.
Li prenderemo in considerazione in successione. Prima di procedere vi segnalo che i link sono attivi, e vi
invito a ingrandire le immagini e a confrontare di volta in volta la traduzione figurativa con il testo del
poema (le illustrazioni degli episodi danteschi sono infatti molto utili sia come commento visivo al testo, sia
come ausilio per la memoria).
La visione della porta infernale e il successivo commento di Dante a questa visione costituiscono il primo
nucleo narrativo del canto (corrispondente ai vv.1-21). Il canto si apre con la celebre iscrizione che sovrasta
la porta infernale. Le prime 3 terzine costituiscono una sorta di “proemio al proemio”:
I terzina = origine, causa prima, condizione, che rendeva necessaria il viaggio oltremondano (smarrimento
nel luogo del peccato)
Nel II canto, invece, i primi 9 versi corrispondono all’esordio specifico della cantica e all’invocazione alle muse.
L’esordio del III canto è analogo a quello dei due canti precedenti, e segnala il momento iniziale dell’ingresso
nella dimensione oltremondana. L’esordio ha uno straordinario effetto drammatico, preparato dalla pausa
narrativa del canto II, che interrompe il cammino: dà spazio ai dubbi di Dante e alle risposte di Virgilio. Tale
tensione narrativa culmina nella visione della porta infernale. I versi che sovrastano la porta sono infatti
collocati all’inizio del canto, senza preambolo, senza elementi introduttivi. Essi sono riportati nella pagina
nello stesso modo in cui si leggono, scolpiti, sulla pietra. Lo sguardo di Dante coincide dunque con lo sguardo
del lettore. I versi del poema rientrano nella missione profetica di Dante e sono voluti ed ispirati da Dio.
INQUADRATURA IN SOGGETTIVO = coincidenza tra lo sguardo di Dante e quello del lettore, che fa sì che il
lettore si immedesimi ancor di più nella narrazione, partecipi al cammino di Dante. Dante sta per essere
ammesso alla conoscenza delle “segrete cose”. L’ingresso all’Inferno è anche un ingresso nella dimensione
della parola, del linguaggio, della scrittura. Attraversare l’Inferno significa anche attraversare idealmente
quelle parole incise sulla porta, entrare all’interno del linguaggio stesso che descrive tale Universo. Dio
infatti è anche la PAROLA, il VERBO. La reazione di Dante a tali parole è lo sgomento, l’attonimento.
Tale viaggio nella lingua, nella letteratura, ha infatti come guida il maggiore poeta dell’antichità, Virgilio, che
è anche ALLEGORIA DELLA LETTERATURA. L’avventura compositiva del poema è materia del poema stesso
la Divina Commedia non è solamente la descrizione del viaggio ultraterreno, ma è anche la descrizione di
come avviene tale descrizione. Il viaggio ha luogo non soltanto all’interno di un luogo concreto (per quanto
immaginario), ma anche all’interno di una costellazione di testi. Nel canto III sono ripresi i momenti iniziali
della discesa di Enea negli Inferi, narrati nel VI libro dell’Eneide. Da Virgilio, ad esempio, Dante riprende la
descrizione di Caronte, e la similitudine finale delle anime che si dirigono verso la sua nave come tante foglie,
staccate per sempre, dall’Albero dell’Umanità, perdute e prive di speranza. Queste riprese, producono,
infatti, un cammino all’interno di un mondo testuale pre-esistente, che è quello dell’Eneide e più in generale
della cultura classica. Questo mondo testuale non viene soltanto percorso a distanza, ma viene modificato
secondo la prospettiva cristiana. Secondo la visione virgiliana le anime possono reincarnarsi, secondo la
visione dantesca, invece, vi è la definitiva perdita della salvezza e l’eterna condanna alle pene infernali.
Dante nel II canto aveva citato i viaggi compiuti da Enea e San Paolo nell’Inferno e nel Paradiso, questi due
modelli corrispondono anche a due modelli di generi e ambiti letterari: poema epico (Enea) e letteratura
religiosa (San Paolo). Ma Dante non è Enea, non è Paolo, e lui stesso lo afferma. Questa dichiarazione di
diversità implica anche un allontanamento dalle corrispondenti modalità narrative. Il poema dantesco,
infatti, rappresenterà il punto di incontro e di convergenza di entrambe, il punto di sublimazione di queste
due polarità testuali-letterarie.
Il secondo nucleo tematico corrisponde alla rappresentazione dei primi dannati, che si trovano al di là della
porta infernale. Superata questa soglia, i primi dati che catturano l’attenzione di Dante sono i lamenti ed i
sospiri. Senza stelle= privazione di luce, è buio, ed anche i dannati sono privi dell’accesso alla luce del cielo.
La commistione di suoni, il tumulto, generano uno SHOCK UDITIVO in Dante e nel lettore. Anche grazie a
questi artifici il lettore viene immerso immediatamente nell’atmosfera infernale. Questa disarticolazione del
linguaggio è anche in contrasto con la parola eterna, lapidaria, della porta infernale. Là avevamo la parola
definitiva, divina; qui abbiamo la parola che regredisce alla condizione animalesca, che perde il valore
comunicativo intellettuale. Le prime anime nel vestibolo infernale: gli ignavi = coloro che in vita non hanno
compiuto né atti malvagi, né atti virtuosi, ma hanno deciso di rimanere indifferenti tanto al bene quanto al
male. Occorre non soltanto evitare il peccato ma anche impegnarsi nel compiere il bene! Per questo motivo
gli ignavi si trovano insieme agli angeli neutrali = angeli che nella lotta tra Dio e il Diavolo non si schierarono
né per il Bene, né per il Male per tale motivo sono rifiutati sia in Inferno che in Paradiso. Gli ignavi sono
coloro che non sono mai stati veramente VIVI, che hanno vissuto senza prendere parte veramente al mondo,
alla vita, sono coloro che hanno vissuto nel mondo da spettatori, senza partecipare alle pene degli altri, senza
assecondare la propensione umana al miglioramento sociale. Prima di varcare la porta dell’Inferno, Virgilio
avvisò Dante che fosse necessario deporre ogni viltà Il timore e lo sgomento di Dante infatti vennero
descritti come un effetto della viltà d’animo, un eccessivo timore che impedisce all’uomo di compiere
imprese virtuose. Si tratta di una predisposizione d’animo certamente molto umana; bisogna dunque evitare
che possa prevalere, e indurre l’individuo a non agire. Dante, tuttavia, decidere di proseguire il cammino,
aderendo così al disegno divino. Dante mostra di disprezzare fortemente gli Ignavi. Questo disprezzo si
manifesta nella punizione di questi dannati, che sono costretti a seguire perennemente uno stendardo, per
contrapposizione alla mancata scelta connessa tra il Bene ed il Male, non attuata in vita, e dunque alla
mancanza di STIMOLI. Sono continuamente punti da sciami di mosconi e vespe, e attorniati da vermi che si
cibano del sangue che scende dalle ferite provocate da questi insetti. I primi dannati introducono il lettore
al concetto di CONTRAPPASSO che caratterizza tutto l’Inferno: la tipologia del peccato e la specificità della
pena è considerata secondo un legame logico di analogia o contrapposizione. Il contrappasso non è solo un
meccanismo narrativo o una punizione; comprendere il legame logico fra peccato e pena permette a Dante,
e per suo tramite al lettore, di conoscere più a fondo il peccato stesso, e di addentrarsi nella definizione del
male e dei suoi meccanismi; ma il DISPREZZO si manifesta anche nella scelta di NON NOMINARE questi
dannati: “non ti curar di loro, ma guarda e passa” privazione dell’individualità, mancanza di distinzione,
confusione delle identità: la sottrazione alla vita implica la sottrazione del nome e della individualità. La scelta
di non nominare interi gruppi di dannati è tuttavia rara nell’Inferno (si tratta di un’eccezione). I primi e gli
ultimi dannati non sono nominati, a sancire così la gravità sociale del peccato commesso, con la conseguente
esclusione di tali dannati dall’Inferno: non sono mai stati vivi, quindi è inutile considerare il nome di coloro
che erano già morti in vita (chi ha vissuto solo per se stesso, per la sola inerzia di essere al mondo). L’unico
ignavo che viene delineato, viene comunque descritto in vagamente: A) Celestino V, il Papa che rinuncia al
pontificato, e quindi ad essere vicario di Dio in terra, sottraendosi dunque dalla propria responsabilità
(conseguente elezione di Bonifacio VIII), oppure B) Ponzio Pilato.
L’ultima parte del canto: sonni e risvegli, soglie e simmetrie. Ad esempio, 3 sono gli interventi di Virgilio del I
Canto, e 3 sono gli interventi di Virgilio nel II canto. La simmetria compositiva del III canto la si coglie stando
attenti all’inizio ed alla fine: la visione della porta infernale (apertura), la visione dell’Acheronte (chiusura). Il
superamento del fiume però è necessario affinchè il viaggio possa proseguire. Dante non spiega come ha
varcato il fiume infernale, vi sono i dannati che si accalcano alla riva del fiume. Ad un certo punto vi è un
tremendo terremoto con vento e lampi, originato da Dio. Al risveglio, Dante si trova già nell’altra sponda, nel
Limbo. Per permettere a Dante di varcare l’altra soglia interviene direttamente il Dio cristiano, che provoca
il terremoto (uno dei segni divini per eccellenza). Il TERREMOTO anticipa: A) la difficoltà del cammino, pieno
di interruzioni, fatiche e forti esposizioni emotive; B) la meta del cammino verrà raggiunta, nonostante le
asperità e la fatica vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. La conoscenza graduale che Dante
apprende, è sempre accompagnata dagli effetti che questa hanno sulla sua coscienza. Si tratta di una
CONOSCENZA EMOTIVAMENTE PARTECIPATA. L’Inferno coinvolge l’animo dell’invididuo e lo sottrae alla
condizione di mero spettatore. Nel canto I si fa riferimento al SONNO DELL’INTELLETTO (DELLE VIRTU’), nel
canto III c’è un altro riferimento al sonno, in questo caso alla PERDITA DI SENSI, a tal scopo gli verrà in
soccorso Dio.
Canto XXIII.
L’Inferno, abbiamo detto, è un luogo che contiene al proprio interno altri luoghi, altri inferni, o meglio
specifiche declinazioni di inferno, e le separazioni geografiche o architettoniche che delimitano i vari spazi
contenuti l’uno nell’altro costituiscono altrettanti passaggi morali. Nella discesa all’Inferno è implicito un
senso di trascinamento inarrestabile verso il basso, più o meno avvertibile, più o meno evidente: il punto
inferiore della voragine, in cui si trova Lucifero, la scaturigine di ogni traviamento, il principio comune a
tutti i singoli peccati, è infatti il luogo della convergenza di ogni manifestazione del male. Tutto precipita
idealmente verso il pozzo dei traditori, verso il ghiaccio dell’ultimo cerchio e la triplice bocca del nemico di
Dio. È con la stravolta immagine trinitaria di questa bocca (luogo orrendamente sovvertito del nutrimento e
della parola) che si chiude la visione dell’Inferno, prima della discesa/risalita lungo il corpo dell’Avversario.
Attorno all’ampia e oscura imboccatura del pozzo dei traditori – che «vaneggia» (ovvero che crea uno
spazio vuoto) al centro e sembra quasi risucchiare lo sguardo nella sua profondità – si estendono i fossati
delle ‘male’ bolge, corrispondenti all’ottavo cerchio.
Fin da subito, Malebolge è descritto espressamente come luogo più interno nella geografia infernale, con
caratteristiche specifiche che diverranno palesi nel corso del viaggio e con una conformazione diversa dai
luoghi precedenti, descritta puntualmente nei primi versi del canto 18 (riportati qui a fianco; potete cliccare
per ingrandire). Ricordate a questo proposito che abbiamo già osservato la struttura di Malebolge nelle
lezioni precedenti, anche attraverso le letture critiche sulla Commedia.
La rappresentazione dei dieci fossati di Malebolge occupa circa 13 canti, più di un terzo della cantica: dal
canto 18 (attenzione, come sempre, alla numerologia: 3x3x2) fino al canto 30 (3x10), con una breve
appendice nel canto 31. Al cambio di spazio geografico e morale corrisponde qui anche un netto cambio di
stile: Malebolge rappresenta, nel complesso e senza escludere momenti di intensa tragicità e sublimità
tematica e formale, il vertice comico-realistico e grottesco del poema, sia per la rappresentazione
degradante dei dannati e delle loro pene, sia per il ricorso a un linguaggio di registro basso e quotidiano,
persino scurrile, sia per il più sensibile riferimento – pur senza ignorare anche modelli altissimi come la
poesia epica e mitologica – alla letteratura comico-satirica e a modelli popolareggianti (non a caso uno dei
riferimenti al poema come «comedia» appare in uno di questi canti). L’altezza stilistica del registro
elevato convive in questa sezione del poema con la più esibita trivialità.
Malebolge è d’altra parte il luogo della massima commistione, della confusione e dell’accostamento di
elementi difformi, della molteplicità e dell’ambiguità, caratteristiche che sono tipiche anche della frode e
di Gerione, il mostro che trasporta Dante e Virgilio sul suo dorso permettendo ai due poeti di superare lo
scoscendimento tra i cerchi settimo e ottavo (Gerione è infatti una «sozza imagine di froda», come si legge
in Inf. 17, v. 7, una creatura con «faccia d’uom giusto», ivi, v. 10, e corpo formato dall’unione di varie
membra bestiali, a simboleggiare l’apparenza retta e benevola di ogni atto di frode e il sovvertimento e la
degradazione della natura umana, e del corpo umano, che hanno luogo in Malebolge).
La sequenza di canti che leggeremo (23-27) è ambientata nella seconda metà di Malebolge, e riguarda in
particolare le bolge VI (con antefatto nella bolgia V), VII e VIII (con un rapidissimo sguardo sulla IX). In
queste bolge, ricordiamo, sono puniti rispettivamente:
i barattieri (bolgia V), sommersi nella pece bollente e afferrati dagli
uncini dei diavoli non appena risalgono in superficie;
gli ipocriti (bolgia VI), condannati a portare pesantissime cappe di
piombo che si presentano dorate all’esterno;
i ladri (bolgia VII), assaliti da serpenti mostruosi che li avvinghiano, li
mordono, li inceneriscono e li costringono a terribili metamorfosi che
sottraggono loro le sembianze umane;
i consiglieri fraudolenti (bolgia VIII), arsi da fiamme che avvolgono
completamente i loro corpi;
i seminatori di discordia (bolgia IX), che vengono mutilati dai colpi di
spada di un diavolo, si ricompongono e tornano in eterno a essere
smembrati.
Iniziamo la lettura con il canto 23, che presenta i dannati della bolgia VI. È l’inizio della seconda metà del
cerchio (bolge VI-X), e questo luogo mediano è segnalato anzitutto da un dato sonoro rilevante: il silenzio.
Nel regno della confusione delle lingue e dei suoni, delle urla e del rumore concitato, si crea
improvvisamente una pausa silenziosa, che sembra segnalare una cesura interna alla sequenza complessiva
di Malebolge, in corrispondenza, appunto, con la metà della struttura del cerchio: il passaggio dalla quinta
alla sesta bolgia. L’antefatto di questo brano, ovvero l’episodio dei diavoli della quinta bolgia, detti
Malebranche, che si scontrano tra loro a causa di un inganno escogitato dal dannato Ciampolo di Navarra,
è già stato presentato nell’ultima lezione in presenza; lo potete rileggere anche attraverso il riassunto del
canto inserito tra i materiali facoltativi. Nella lettura che vi propongo, questo passaggio implica una
accentuazione di alcuni elementi che sono caratteristici di tutto il cerchio, ma che appaiono più evidenti e
coesi in questa sezione; in particolare, acquista maggiore rilevanza, anche in relazione all’intero poema, la
riflessione sulla parola e sul linguaggio: sulla privazione della parola, sull’uso della parola indirizzato non
all’elevazione morale dell’uomo e della società bensì in funzione del peccato e del male, sulla difficoltà della
parola, sulla contraffazione e le ambiguità della parola, sulle virtù salvifiche della parola. È un tema
importante per tutta la sequenza narrativa di Malebolge: pensate al fatto che i primi e gli ultimi dannati di
questo cerchio, mezzani e seduttori da un lato, falsificatori di parola dall’altro, sono puniti per peccati
compiuti soprattutto attraverso la lingua; e che l’appendice alla sequenza di Malebolge, nei primi versi del
canto 31, verte sul tema della parola che ferisce e della parola che cura. Ma è soprattutto nei canti 23-27,
dalla parola ipocrita alla parola dei consiglieri di frode, che questo tema, variamente riproposto e
riformulato, può essere colto in tutta la sua rilevanza etica e sociale, politica e religiosa, come vedremo nei
brani che commenteremo. Prima di iniziare la lettura segnalo che nei materiali facoltativi sono presenti i
riassunti dei canti, utili come introduzione alla lettura integrale dei singoli canti e come ausilio mnemonico.
[VEDI APPUNTI NELLA DIVINA COMMEDIA]
Lezione 9
Proseguiremo nella lettura di questi canti commentando episodi e temi principali e soffermandoci in
particolare sulla complessiva riflessione sulla parola e sul linguaggio che con grande coerenza espositiva
Dante conduce in questa parte del poema: la continuità del cammino compiuto dai due poeti di bolgia in
bolgia si fa qui anche prosecuzione del ragionamento, arricchimento e articolazione del discorso sulla
parola e sulla letteratura che viene sviluppato di pensiero in pensiero, di ponte in ponte, fino a culminare
negli episodi per molti aspetti di complementari di Ulisse (canto 26) e Guido da Montefeltro (canto 27) di
cui ci occuperemo nella prossima lezione.
Il canto 24 è diviso in due parti.
La prima parte comprende i vv. 1-60, e descrive la difficile risalita da parte di Dante e Virgilio dell’argine che
conduce verso la settima bolgia: è una sequenza apparentemente neutra, eppure molto importante per la
comprensione di questa sezione del poema. La risalita lungo le rovine, commenta Dante nel verso centrale
di questa prima parte (v. 31), «Non era via da vestito di cappa»: questa indicazione va riferita anzitutto alla
condizione materiale della scalata sulle rovine, impossibile per chi avesse avuto vesti troppo ampie e
lunghe, ma va letta anche sul piano simbolico, in relazione alla volontà di radicale distanziamento dalla
parola ipocrita e più in generale al percorso di elevazione morale e poetica che Dante sta compiendo.
Ricordate che i dannati che i due poeti stanno lasciando, gli ipocriti, sono rivestiti appunto da pesanti cappe
di piombo.
È interessante considerare inoltre il contrasto tra opposti movimenti, anch’esso concreto e simbolico allo
stesso tempo, che si può cogliere in questi versi: lo sforzo della risalita, del movimento verso l’alto, è
funzionale al proseguimento del cammino verso le bolge successive e perciò verso il basso. Per procedere
più a fondo, dunque, nella comprensione dei meccanismi del male, per narrare la maggiore gravità dei
peccati e per tornare in seguito a ‘risalire’ con l’ascesa e la descrizione poetica del Purgatorio, è
necessario proseguire con rinnovato impegno nell’innalzamento intellettuale e stilistico.
La seconda parte, che comprende i vv. 61-151 ed è aperta da una terzina di raccordo che descrive
brevemente la ripresa del cammino sul ponte di roccia, presenta invece i peccatori della nuova bolgia e i
tormenti a cui sono destinati. Come abbiamo visto, i ladri puniti in questa bolgia - nudi, come sono in
generale i dannati - sono esposti agli assalti dei numerosi serpenti che popolano il fossato: i rettili mostruosi
mordono ferocemente i dannati, li avvinghiano legando loro le mani dietro la schiena, li costringono a
terribili metamorfosi. Fra i peccatori, Dante incontra il pistoiese Vanni Fucci, una delle figure più empie e
degradate dell’intero poema, punito qui per il furto sacrilego degli arredi del duomo di Pistoia e ridotto in
cenere.
cenere dopo essere stato morso da un serpente (l’uomo, ricordiamo, nella tradizione cristiana è appunto
‘polvere e cenere’, e la cenere è tra l’altro simbolo di pentimento e umiliazione, disposizioni d’animo
necessarie per la salvezza).
Il canto 25 inizia nel punto esatto in cui termina il canto precedente: la cesura tra i due canti non implica
dunque qui una ellissi narrativa. In generale, nella Commedia, tra la fine di un canto e l’inizio del canto
successivo trascorre sul piano narrativo un arco di tempo più o meno ampio (e più o meno percepibile, di
volta in volta, da parte del lettore), durante il quale accadono alcuni eventi che l’autore sceglie di
trascurare: in alcuni casi Dante omette completamente gli eventi e non dà al lettore la possibilità di
immaginarli (perché sono del tutto irrilevanti, o al contrario, come avviene nel passaggio tra canto terzo e
canto quarto, perché ritiene opportuno non rivelarli e renderli misteriosi); in altri riassume gli eventi
attraverso rapide allusioni che ‘incapsulano’ un contenuto narrativo più esteso (come avviene alla fine del
canto secondo, dove il verso conclusivo «intrai per lo cammino alto e silvestro» compendia e lascia bene
immaginare, attraverso i due aggettivi, le asperità del cammino che conduce all’ingresso infernale,
rappresentato direttamente all’inizio del canto terzo). Si tratta, naturalmente, di un procedimento
fondamentale per ogni narrazione (non solo letteraria). Tra i canti 24 e 25, invece, non c’è alcuna omissione
narrativa, non trascorre alcun lasso di tempo: l’inizio della narrazione nel canto 25 coincide con l’istante
stesso su cui termina il canto 24, ovvero con la fine delle parole pronunciate da Vanni Fucci.
La netta interruzione dell’azione, che viene suddivisa tra la fine di un canto e l’inizio del canto seguente,
conferisce il massimo rilievo alle ultime parole del dannato, crea quasi un effetto di amplificazione o
rimbombo di quelle parole perverse (l’effetto di amplificazione e l’intento violento di quelle parole sono
espressi efficacemente nell’illustrazione di Alberto Martini che troverete alla fine di questa lezione). In
questo modo, non solo viene sottolineata la drammatica profezia sulla disfatta dei guelfi bianchi, ma viene
rimarcato anche l’atto comunicativo in sé, l’uso distorto e violento della parola e del bene dell’intelletto.
La parola genera in questo caso il male, produce sofferenza, sottrae (cioè ruba, come si conviene ai ladri, e
come del resto ha fatto la parola tentatrice del serpente che provoca il furto della mela nell’Eden)
tranquillità d’animo all’interlocutore (ricordiamo il verso finale del canto 24, «E detto l’ho perché doler ti
debbia!»).
Che si tratti di un uso distorto, rivolto al male, è evidente anche dal fatto che ciò che viene pronunciato per
generare la sofferenza di Dante è una profezia: i dannati hanno infatti una limitata capacità profetica,
vedono in modo sfumato e non nitido i contorni degli avvenimenti futuri; si tratta di un ultimo residuo di
luce divina, fonte di ogni conoscenza, che permane in queste anime create da Dio, ancorché ora dannate.
Vanni Fucci sovverte, per quanto morto e dannato per l’eternità, anche quest’ultimo residuo di conoscenza,
quest’ultima traccia del bene dell’intelletto, utilizzandola appunto per sottrarre serenità nell’interlocutore.
Persino la residua capacità profetica viene utilizzata per compiere il male: un atto, questo, che caratterizza
bene una delle anime più empie e ribelli di tutto l’Inferno.
L’empietà di questo uso della parola e dell’intelletto è ribadita dal gesto osceno che Vanni Fucci indirizza
subito dopo a Dio, come si legge all’inizio del canto 25: il gesto delle fiche, che consiste nel mostrare la
mano chiusa a pugno con il pollice infilato tra l’indice e il medio, con evidente allusione sessuale (non
fatichiamo a immaginare il corrispettivo moderno di questo gesto). Potete visualizzare il gesto
nell’immagine a fianco e in quella seguente, che svolgono entrambe la funzione (come avviene a volte per
le illustrazioni di testi letterari) di chiosa al testo, permettendo di comprendere meglio il significato letterale
dei versi (Vanni Fucci è il primo dannato sulla sinistra in entrambe le miniature). Le serpi, scrive Dante, si
mostrano allora amiche e alleate del poeta e giungono improvvisamente ad assalire Vanni Fucci, a legarlo
più strettamente e a morderlo alla gola come se volessero impedirgli di parlare di nuovo (è un dettaglio
reso in modo ancor più esplicito nella miniatura qui a fianco, che raffigura Vanni Fucci anche nel momento
successivo al gesto osceno mentre viene morsodal serpente direttamente alla bocca). È una esplicita
punizione, appunto, dell’uso perverso della parola su cui ci siamo soffermati; e il tema viene ribadito anche
nell’uscita di scena di Vanni Fucci («El si fuggì che non parlò più verbo»).
Il canto prosegue
con un’invettiva contro Pistoia, città di Vanni Fucci, che anticipa la più
celebre invettiva contro Firenze con cui si apre il canto 26 e l’invettiva,
altrettanto nota, contro Pisa, «vituperio de le genti», che si legge nel
canto 33;
con la rappresentazione del personaggio di Caco, ladro degli armenti di
Ercole, una delle figure che Dante riprende dal repertorio mitologico e
introduce, reimmaginandole in senso cristiano, nell’Inferno;
e soprattutto con la raffigurazione di altri dannati puniti in questa bolgia
e dei tormenti a cui sono sottoposti.
Quest’ultima sequenza presenta altre due metamorfosi provocate dai serpenti: il canto 25 viene infatti
spesso indicato come il canto delle metamorfosi. Le metamorfosi a cui Dante assiste nella settima bolgia
sono dunque tre, anche in questo caso con riferimento al numero della trinità: la prima è quella di Vanni
Fucci nella seconda metà del canto 24, le altre due sono quelle descritte nella lunga sequenza narrativa di
118 versi, senza pause, che va dal v. 34 fino alla fine del canto 25. È uno dei brani in cui più evidente appare
il virtuosismo poetico di Dante, in aperta emulazione del classici, in particolare di Ovidio. Abbiamo già visto
che la risalita delle rovine del ponte può essere interpretata, sul piano simbolico, come invito al
superamento dei limiti della parola e come innalzamento stilistico-poetico: le metamorfosi che stanno per
essere narrate, anticipate dalla prima metamorfosi di Vanni Fucci, rappresentano l’esito ideale di questo
innalzamento, che a sua volta preannuncia l’ulteriore affinamento poetico che sarà necessario per
racchiudere all’interno del poema l’esperienza degli ultimi luoghi dell’Inferno, la risalita del Purgatorio e la
visione mistica del Paradiso. Commentiamo allora questa sequenza.
Il canto 26 dell’Inferno è incentrato sulla figura di Ulisse, l’eroe greco protagonista dei poemi omerici,
tradizionalmente associato agli attributi dell’ingegno e dell’abilità retorica. Tutta la materia del canto
sembra attratta dalla drammaticità e dalla fierezza di questa figura: fin dai primi il versi, il tono e le
immagini preparano l’incontro con Ulisse e l’intenso racconto del suo ultimo viaggio, un vero e proprio
racconto nel racconto, un poema nel poema. Proprio questo racconto di secondo grado (narrato cioè da un
personaggio interno alla narrazione principale) ha reso il canto 26 uno dei più celebri di tutto il poema,
legato, in termini di ricezione, soprattutto alla ‘orazion picciola’ che Ulisse rivolge ai compagni per esortarli
a varcare le colonne d’Ercole, all’esaltazione della conoscenza come mezzo assoluto di elevazione
dell’uomo (letta, spesso, in termini anacronistici e al di fuori del significato dantesco), alla visione moderna
dell’indagine antidogmatica in ogni ambito del sapere, all’immaginario romantico e post-romantico
dell’individuo errante, guidato dal desiderio inarginabile di fare esperienza del mondo e di sé, che si spinge
tragicamente oltre ogni limite della natura e delle convenzioni e che afferma anche con il proprio sacrificio
la libera autodeterminazione dell’uomo e la necessità di sfidare le imposizioni che contrastano le facoltà e
le aspirazioni umane. Il fascino che la ‘orazion picciola’ di Ulisse, con la sua elaborata struttura retorica, ha
esercitato nei secoli su lettori e lettrici è innegabile, e sarebbe senza dubbio interessante soffermarsi a
considerare la storia della ricezione di questo episodio (richiamata anche da Carlo Varotti nel volume Che
cos’è un testo letterario, pp. 12-14); ancor più interessante, tuttavia, e utile anche in una prospettiva
contemporanea, è cercare di comprendere il significato che questo personaggio assume nella visione
dantesca, a cominciare dal fatto che Ulisse è ‘figura’ di Dante. Che cosa significa, in questo caso, il termine
figura?
La nozione di figura, in parte affine a quella di allegoria, deriva dall’esegesi biblica, che vede alcuni
personaggi ed episodi dell’Antico testamento come prefigurazioni di personaggi ed episodi del Nuovo
testamento. A questo proposito viene citato spesso l’esempio di Mosé, che le Sacre scritture presentano
come personaggio storico e allo stesso tempo come figura (cioè prefigurazione, anticipazione, profezia
vivente) di Cristo: la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù compiuta da Mosé e la ‘promessa’ della nuova
patria prefigurano la venuta di Cristo, la liberazione dei fedeli dal peccato originale e la promessa della
salvezza. L’incarnazione di Cristo e la sua vicenda terrena sono l’inveramento della prefigurazione e il
compimento dell’esperienza umana di Mosé, sono gli eventi che danno pieno significato, a ritroso, all’uomo
e all’azione che li hanno anticipati. Questa nozione, come hanno mostrato gli studi di Erich Auerbach, può
essere applicata anche all’interpretazione della Commedia.
In questa prospettiva, ad esempio, Enea, esule che discende agli inferi e che è destinato, per volere divino,
a un’altissima missione etica e politica, è anche figura di Dante e della sua impresa ultraterrena. Allo stesso
modo, anche Ulisse è figura di Dante, sebbene, come vedremo più avanti, in senso negativo. Procediamo
però con ordine e torniamo ora alla materia del canto.
L’esordio del canto 26 riprende le vicende narrate nella bolgia precedente con una risentita invettiva di
Dante contro Firenze, suscitata dalla visione di ben cinque fiorentini all’interno della bolgia dei ladri e
connotata, come scrive Anna Maria Chiavacci Leonardi, dal «suono di dolore, quasi di stanchezza dell’animo
dell’esule [Dante] che pur sempre ama la propria terra, come se il tono che sarà proprio di tutto il canto,
commosso, interiore, raccolto (l’opposto del precedente), si riflettesse all’indietro sul suo inizio».
All’apostrofe contro Firenze (dal celebre esordio antifrastico «Godi Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per
mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande!»), fa seguito il ritorno alla narrazione, con
la descrizione della ripresa del cammino sul ponte che sovrasta l’ottava bolgia. Torna in questo luogo un
particolare già osservato: l’arco di roccia è infatti impervio e malagevole, tanto che Dante deve avanzare
aiutandosi anche con le mani per aggrapparsi agli spuntoni rocciosi. Questa difficoltà ricorda il passaggio tra
la sesta e la settima bolgia: se la faticosa risalita dell’argine precedente poteva essere letta sul piano
simbolico come innalzamento morale e intellettuale, la riproposizione a breve distanza dello stesso tema
indirizza ora il lettore ad associare i due momenti, e a interpretare dunque anche questo passaggio come
continuazione dell’itinerario di affinamento etico ed espressivo e del ripensamento in chiave cristiana
delle forme letterarie classiche.
Giunti sulla sommità dell’arco, Dante e Virgilio contemplano dall’alto la punizione che la sapienza divina ha
destinato ai consiglieri fraudolenti. Il corpo di ognuno di questi dannati è avvolto eternamente dal fuoco, e
la visione dall’alto dell’ottava bolgia illuminata dalla moltitudine di corpi in fiamme, in una sorta di intensa e
sofferta panoramica o carrellata cinematografica, è espressa da una doppia similitudine di sei terzine
(accuratamente suddivise secondo lo schema 3+3) che associa nella prima parte, con tono accorato e
dolente, il fossato a una valle nella quale risplendano fittamente, di sera, le lucciole, e che precisa nella
seconda come ogni fiamma che si muove «per la gola» (la bolgia) avvolga interamente un dannato
sottraendolo alla vista: allo stesso modo, secondo l’episodio biblico, le fiamme del carro di fuoco che rapì il
profeta Elia facendolo ascendere al cielo ancora vivo celarono il suo corpo allo sguardo del discepolo Eliseo,
che meravigliato lo osservava da terra. Torneremo su questo doppio paragone; notiamo per ora che anche
l’ultima terzina della similitudine crea un raccordo con la bolgia dei ladri («tal si move ciascuna per la gola /
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, / e ogne fiamma un peccatore invola», vv. 40-42): le fiamme
sottraggono allo sguardo il dannato, ‘rubano’ le sue sembianze alla vista, con evidente rimando al tema
della narrazione precedente (cfr. «furto», «invola»). Consideriamo allora più da vicino i momenti principali
del canto.
I canti 26 e 27 sono per molti aspetti complementari: il primo è incentrato, come abbiamo visto, sulla
figura di Ulisse, il secondo su Guido da Montefeltro, una delle personalità politiche più importanti dell’età
di Dante, uno dei più noti condottieri del Duecento, uno dei maggiori esponenti della parte ghibellina.
Antico e moderno, letteratura e politica, mito e storia, epica e cronaca si rispecchiano così in questo dittico
di canti dolente e appassionato con cui culmina anche la complessa riflessione sulla parola e sull’uso
individuale e sociale del linguaggio che Dante conduce in questa sezione di Malebolge.
Negli ultimi anni di vita Guido da Montefeltro si convertì e divenne frate francescano: la conversione
rappresentò, per la propaganda di parte guelfa, un grande successo politico ascrivibile a Bonifacio VIII. E
proprio sul rapporto tra queste due figure è incentrato il canto 27: in particolare, sul consiglio che, da
esperto e astuto politico, il Montefeltro diede al papa per porre fine alla guerra privata che quest’ultimo
aveva intrapreso contro la potente famiglia romana dei Colonna.
Un dettaglio
Un tema
Una definizione
Canto XXXIII
L’inferno è amico delle storie, ricorda Jonathan Gottschall in un capitolo del libro L’istinto di narrare. Come
le storie ci hanno resi umani, citando una frase dello scrittore americano Charles Baxter. L’osservazione è
senz’altro vera almeno per le prime due cantiche dantesche, ma trova forse una più profonda applicazione
alla prima parte del canto 33, in cui la narrazione dell’estremo dolore concepibile in terra («e se non piangi,
di che pianger suoli?», v. 42) dà vita a uno degli episodi più famosi e apprezzati di tutta l’opera. Il canto 33 è
infatti dedicato al racconto della morte di Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, accusato
dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini di tradimento politico ai danni della città di Pisa e rinchiuso – con
l’inganno, attesta Dante – insieme a due figli e due nipoti nella torre pisana dei Gualandi (detta ‘della
Muda’, poiché in una parte della torre si tenevano i falconi nel periodo della muta): nella torre, dopo mesi
di prigionia, Ugolino, i figli e i nipoti vennero lasciati morire di fame.
L’incontro con Ugolino e Ruggieri avviene alla fine del canto 32: proseguendo il cammino nel lago ghiacciato
di Cocito – e in particolare nella seconda zona del nono cerchio, detta Antenora, in cui i traditori della patria
sono sommersi con tutto il collo nella ghiaccia, con i volti non reclinati in basso ma esposti al freddo
infernale –, Dante scorge un dannato che addenta e mastica la nuca del dannato vicino a lui. Ha inizio qui
l’ultimo grande incontro di Dante nella prima cantica, prima della visione di Lucifero: il motivo di quella
scena disumana e di quell’eccezionale contrappasso, in cui l’estremo orrore dell’uomo che si ciba dell’uomo
costituisce una immagine essenziale della sostanza di ogni peccato, sarà dichiarato appunto dal racconto
che occupa la prima parte del canto 33.
La seconda parte del canto ospiterà ancora un ultimo incontro, con frate Alberigo dei Manfredi, molto
diverso per tono e intensità drammatica: dopo quest’ultimo dialogo si avranno solo il silenzio, la scomparsa
definitiva del corpo e la privazione del nome che caratterizzano per estrema sottrazione dell’individualità
umana i traditori dei benefattori nell’ultima zona del nono cerchio, Giudecca. Frate Alberigo si trova invece
nella penultima zona, Tolomea, dove i traditori degli ospiti, sempre sommersi nelle acque ghiacciate, per un
aggravio di sofferenza hanno la testa rivolta all’indietro: il vento gelido sprigionato dalle ali di Lucifero
trasforma in ghiaccio anche le loro lacrime, che non potendo sgorgare dagli occhi si induriscono
dolorosamente nelle palpebre. Va osservato che la gerarchia della gravità del peccato nell’ultimo cerchio
infernale dipende dalla maggiore libertà con cui viene instaurato il vincolo di amore e fiducia che il
tradimento giunge a infrangere e sovvertire.
Abbiamo visto che nell’Inferno i peccatori sono rigidamente suddivisivi e che allo stesso tempo è possibile
individuare sottili rimandi, più o meno espliciti, tra peccati diversi che permettono di comprendere più a
fondo le specificità e le implicazioni dei singoli atti malvagi; e abbiamo visto che, anche per questo motivo,
tutto, nell'Inferno, sembra precipitare verso il fondo del pozzo dei traditori, ogni elemento richiama il
principio del male rappresentato da Lucifero. Nella lettura del canto 33 incontrerete perciò anche molti
elementi che abbiamo osservato nella sezione di Malebolge e che ritornano qui variamente declinati.
FACOLTATIVE: Il corpo
La bocca
Gli occhi
Oltre che dal tema della parola e del silenzio, il canto 33 è caratterizzato anche dall’area semantica dello
sguardo, della vista, del buio, degli occhi del pianto (Ugolino, Aberigo).
Lezioni 11-12
Abbiamo visto, con la Commedia, un modello sublime di poema religioso e allo stesso tempo un esempio di
poema che si fa ‘macrogenere’ includendo al proprio interno elementi attinti dal poema epico, dal poema
mitologico, dal poema didattico-allegorico insieme a un’amplissima varietà di forme discorsive (la poesia
lirica, l’orazione, la preghiera, l’invettiva, la tenzone comico- burlesca, la sacra rappresentazione, la
profezia, la visione mistica e allegorica, la parodia sacra, il disputa accademica e teologica ecc.). Come la
Commedia, anche il Furioso, per l’ampiezza e la pluralità delle vicende narrate e dei personaggi, assimila ed
esibisce numerose modalità espressive e contiene idealmente una vasta biblioteca di testi che vengono
richiamati di volta in volta per allusione, citazione diretta, riscrittura, parodia, emulazione. Proprio la
molteplicità unita all’armonia e alla raffinatezza, l’abbondanza unita all’equilibrio formale, la diffrazione
unita alla ricerca di un ordine complessivo sono alcune delle ‘cifre’ caratteristiche del Furioso, tanto a livello
formale quanto a livello tematico e ideologico: questi aspetti hanno contribuito a rendere il poema
cavalleresco di Ariosto non soltanto un unicum nella letteratura europea, ma anche un libro di straordinario
successo fino ai nostri giorni.
Orlando furioso: 1516-1532
Tutta l’attività letteraria e diplomatico-amministrativa di Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474-Ferrara,
1533) gravita intorno alla raffinatissima corte estense di Ferrara: entrato nel 1497 fra i cortigiani stipendiati
a servizio di casa d’Este, nel 1503 Ariosto viene nominato segretario del cardinale Ippolito, che affida al
poeta svariati incarichi amministrativi e diplomatici, mentre dal 1517 è a servizio del duca Alfonso I.
Dal 1522 al 1525 Ariosto ricopre l’incarico di governatore della Garfagnana. Nella seconda metà del
Quattrocento Ferrara è l’altra capitale italiana, insieme a Firenze, della letteratura cavalleresca, e nel corso
del XVI secolo diviene il principale centro di riflessione e diffusione del poema epico-cavalleresco. A Ferrara,
ed espressamente per la corte estense, Matteo Maria Boiardo (Scandiano, 1441- Reggio Emilia, 1494)
compone l’Orlando innamorato, o meglio Inamoramento de Orlando (è quest’ultimo infatti il titolo
originale dell’opera, sebbene già nel Cinquecento inizi a imporsi l’altra dicitura), ampio poema suddiviso in
tre libri di 29, 31 e 9 canti rispettivamente (l’ultimo canto si interrompe però all’ottava 26).
L’Inamoramento de Orlando reinterpreta l’intera tradizione cavalleresca romanza coniugandola
sapientemente con modelli epici e lirici latini. La narrazione di Boiardo procede intrecciando con equilibrio
numerose trame incentrate su episodi amorosi, elementi fantastici, scene di battaglia: la sorprendente
fusione tra questi elementi, e in particolare il felice innesto di elementi amorosi e avventure tipiche della
materia bretone e arturiana nell’orizzonte narrativo carolingio, rappresenta uno dei tratti caratteristici
dell’opera. Il personaggio di Orlando, ad esempio, acquista nel poema un più moderno statuto di
personaggio: principale paladino di Carlo Magno e modello insuperato dei valori cavallereschi,
dell’obbedienza al sovrano, del sacrificio individuale in favore della comunità e in difesa della giustizia,
Orlando si innamora infatti della splendida Angelica, figlia del re del Catai; questo amore distoglie il
paladino dai doveri nei confronti di Carlo, impegnato nella guerra contro l’esercito ‘pagano’, e della corte di
Francia (giungerà ad esempio a scontrarsi con il cugino Rinaldo, anch’egli innamorato di Angelica), e genera
in lui una continua dialettica tra passioni ed emozioni da un lato, rispetto della fedeltà cavalleresca
dall’altro.
Le avventure narrate nell’Inamoramento de Orlando rimangono purtroppo interrotte al principio del canto
nono del terzo libro a causa della discesa in Italia di Carlo VIII di Francia, con il suo esercito, verso il regno di
Napoli (1494), evento che segna l’inizio delle guerre d’Italia; Boiardo muore poco dopo, nello stesso anno, e
non può dunque completare la tela del poema. Nell’ultima ottava dell’Orlando l’autore sospende la
narrazione per rivolgersi direttamente ai lettori; il racconto dei combattimenti e degli amori dei paladini si
squarcia per mostrare come la storia abbia fatto irruzione, violentemente, nella proiezione cortigiana del
poema, come le nuove guerre, con i loro orrori, abbiano messo a tacere l’invenzione e il canto di passate
battaglie:
Mentre che io canto, o Dio redemptore,
Un simbolo
Il primo segno della follia di Orlando è la svestizione delle armi cavalleresche. Provate a interrogarvi, anche
in questo caso, anche sul valore simbolico di questo gesto.
Un artificio
Lezione 13
Olimpia abbandonata.
Ippogrifo.
La liberazione di Olimpia.
Terminato l’episodio di Ruggiero e Angelica con la fuga della donna e l’allontanamento del cavaliere (privo
dell’anello magico e dell’ippogrifo, «che s’avea tratto il morso, / e salia in aria a più libero corso», XI, 13, vv.
7-8), il canto XI prosegue con la narrazione delle successive avventure di Ruggiero (ott. 15-21, vv. 1-4).
Entrato in una selva, Ruggiero assiste a uno scontro tra un gigante e un cavaliere; il gigante, dopo aver
stordito con un colpo il cavaliere, si avvicina all’avversario e gli sfila l’elmo per ucciderlo: Ruggiero si accorge
così che il cavaliere è Bradamante, e corre subito in soccorso dell’amata. Il gigante, che non cerca altra
battaglia, prende a quel punto sulle proprie spalle Bradamante e inizia a fuggire, inseguito da Ruggiero. Il
racconto si interrompe su questo inseguimento: il lettore scoprirà nel canto seguente che il gigante e
Bradamante apparsi nella selva (luogo, abbiamo detto, labirintico e spazio del rimosso) erano soltanto
illusioni create dal mago Atlante per attirare Ruggiero e gli altri cavalieri in un palazzo in cui ogni
personaggio, in una vera e propria mise en abyme dell’intero poema, insegue vanamente le immaginarie
proiezioni dei propri desideri. Come scrive Italo Calvino, «Il poema che stiamo percorrendo è un labirinto
nel quale si aprono altri labirinti», e il palazzo di Atlante costituisce il più riuscito di questi intrichi narrativi,
un «trabocchetto, una sorta di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi»: uno specchio della
dialettica e della interferenza continua tra ordine e caos, senno e passione, distacco ed empatia, equilibrio
e instabilità, gioco e dramma del Furioso.
Tornando al canto XI, dopo la sospensione della storia di Ruggiero il racconto si concentra fino alla fine del
canto su Orlando, che il lettore aveva lasciato, nel canto IX, nell’atto di gettare in mare l’archibugio di
Cimosco: dopo la celebre polemica contro le armi da fuoco (ott. 22-28), le ottave 29-83 narrano l’arrivo di
Orlando presso Ebuda, dove il paladino spera di poter soccorrere Angelica, l’uccisione del mostro marino e
la liberazione di Olimpia. Quest’ultimo episodio è molto importante: Ariosto, qui, non soltanto riformula i
modelli classici, come abbiamo visto, ma riscrive sé stesso a distanza di tempo, riprende dal punto di vista
di personaggi differenti una situazione già narrata in precendenza, rimodulandola e permettendo così al
lettore di cogliere la funzone del racconto pluriprospettico all’interno di tutto il poema, il gioco degli
equivoci, le deviazioni della diegesi, la forza della costruzione mentale delle immagini, gli scambi di persona
(Olimpia sostituita concretamente dalla figlia di Cimosco, Angelica sovrapposta mentalmente a Bradamante
nell’immaginazione di Ruggiero, Olimpia ritrovata da Orlando nel luogo in cui pensava fosse Angelica) e in
generale le somiglianze e le differenze tra individui che agiscono in condizioni analoghe.
Queste vicende sono state riassunte nelle schede introduttive di questa lezione; nel gruppo di slides che
troverete di seguito, con cui concludiamo la lezione, potrete leggere invece alcune osservazioni e
indicazioni di lettura su questo episodio, condotte a partire da una immagine relativa al canto X del Furioso.
Nella figura a fianco potete osservare una illustrazione a tutta pagina del canto XI: notate in particolare
come la diagonale che va dalla fonte in basso a sinistra al vertice opposto colleghi il personaggio di
Ruggiero, raffigurato in primo piano mentre tenta di afferrare Angelica, al personaggio di Orlando, in alto a
destra, raffigurato nelle varie fasi della liberazione di Olimpia, sottolineando così la diversità dei
comportamenti dei due cavalieri e la più chiara virtù – in questa parte del poema – di Orlando. Ricordate
però che se in questo canto Ruggiero è «cieco» e «matto», ed è reso furioso dalla eccessiva passione
amorosa, diventando sempre più fedele, magnanimo e valoroso nel corso del poema, un analogo e ben più
drammatico destino toccherà ad Orlando, come abbiamo visto nel canto XXIII: sul filo della diagonale
dell’illustrazione i due personaggi si corrispondono e si rispecchiano, rimarcando la reversibilità dei destini
e la mutevolezza della sorte che dominano il mondo del Furioso. Nella didascalia potete trovare il link a
una riproduzione dell’immagine con buona definizione, utile per ingrandire la figura, osservare i dettagli e
comprendere meglio le considerazioni di questa sezione (provate anche a esercitarvi, se volete, al termine
della lettura del canto XI, a riconoscere gli episodi principali raffigurati nella illustrazione e i loro rapporti
reciproci); nella slide seguente potete vedere invece un ingrandimento parziale, limitato a due episodi.
Lezione 15