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Lezione 8

Introduzione
In questa lezione prenderemo in considerazione due canti dell’Inferno: il canto 3, che chiude il trittico dei
canti iniziali del poema (il primo canto e, in parte, il secondo sono già stati analizzati in precedenza) e
introduce il lettore al di là del primo regno oltremondano; e il canto 23, il primo dei canti di Malebolge su
cui ci soffermeremo. Attraverseremo dunque tre soglie: la porta infernale, che reca la celebre iscrizione
«Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (con
anafora dell’espressione «Per me si va», ‘passando attraverso di me si va’, ripetuta solennemente tre volte
all’inizio dei primi tre versi del canto terzo); il fiume Acheronte, che delimita l’ingresso all’Inferno vero e
proprio, ai cerchi infernali; e lo strapiombo che separa il cerchio dei violenti dai fossati di Malebolge, che
circondano il pozzo dei giganti e l’abisso di Lucifero, nella parte più profonda della voragine infernale.
Anche quest’ultima delimitazione, il dislivello che divide il settimo e l’ottavo cerchio, segnala un passaggio
di stato, un mutamento di condizione: negli ultimi due cerchi sono infatti puniti i peccati di frode, più gravi
perché coinvolgono in misura maggiore la ragione, l’intelletto umano, la conoscenza. L’Inferno è dunque un
luogo che contiene al proprio interno altri luoghi, e il cammino attraverso questo regno implica un
progressivo internamento nella conoscenza e nell’esperienza del male. Inoltrarsi nel primo regno,
attraversare le soglie dell’architettura e del paesaggio infernale, superare i limiti del cammino, implica un
processo intellettuale-cognitivo che porta a un progressivo approfondimento nella comprensione della
natura umana, dei disegni della provvidenza divina e della conoscenza di sé. Le soglie sono perciò da
interpretare come momenti di passaggio e di crescita intellettuale e morale, per Dante- personaggio e,
auspicabilmente, per il lettore e la lettrice del poema.

Canto III.
Se il primo canto dell’Inferno costituisce il proemio dell’intera Commedia, presentando al lettore alcuni
aspetti generali dell’opera (i personaggi, i luoghi, l’argomento complessivo e la disposizione della materia, il
doppio piano narrativo del viaggio e della scrittura, dell’esperienza e della memoria, la pluralità e la
compresenza dei livelli interpretativi, il ruolo di primo piano della parola e della letteratura, la
partecipazione del lettore all’esperienza narrata ecc.); e se il secondo canto – lo abbiamo visto sia nella
lezione precedente, sia nel sommario della materia del poema contenuto nelle letture obbligatorie, con
possibilità di approfondimento nelle letture facoltative – da un lato costituisce l’esordio vero e proprio della
prima cantica (con l’invocazione alle Muse), dall’altro rappresenta una pausa narrativa grazie alla quale,
attraverso i dubbi espressi da Dante e la risposta di Virgilio, vengono introdotti ulteriori elementi generali
(l’origine divina del viaggio, il ruolo di Beatrice, l’individuazione delle esperienze ultraterrene di Enea e san
Paolo come ideali coordinate entro cui collocare la vicenda che sta per essere narrata, la prefigurazione,
ancorché vaga, dell’altafunzione del viaggio, che si intuisce di natura politica, religiosa, morale e
intellettuale e di grande rilevanza per l’intera umanità, il procedere per dubbi e ragionamenti progressivi,
per interrogativi e osservazioni, la sovrapposizione semantica tra cammino, processi intellettuali e cognitivi
e uso della parola); il terzo canto immette il protagonista – e insieme a lui il lettore e la lettrice – nel primo
regno oltremondano, e offre le prime rappresentazioni del paesaggio infernale, delle pene e delle punizioni
dei dannati, delle anime e delle figure orrifiche che le ‘amministrano’, delle reazioni di Dante di fronte a
queste visioni. L’ingresso nell’aldilà è reso ancor più solenne dalla pausa narrativa del secondo canto e dalla
tensione drammatica creata dai dubbi di Dante e dalle parole di Virgilio, che ritardano il cammino verso il
primo regno e preparano alla visione della porta infernale (a cui si riferisce l’incisione di Gustave Doré che
avete visto prima). Si tratta di uno dei canti più celebri di tutto il poema. A questa fama ha contribuito,
senza dubbio, oltre alla posizione liminare, la concentrazione di versi o emistichi densi e sentenziosi, adatti
a rimanere impressi nella memoria e divenuti in alcuni casi modi di dire diffusi (usati talvolta anche in senso
ironico). Vediamone solo alcuni:

 «Per me si va ne la città dolente»


 «tra la perduta gente»
 «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate»
 «Qui si convien lasciare ogne sospetto»
 «mi mise dentro a le segrete cose»
 «c’hanno perduto il ben de l’intelletto»
 «che visser sanza ’nfamia e sanza lodo»
 «non ragionam di lor, ma guarda e passa» (spesso citato nella alterazione popolare
 non ti curar di lor, ma guarda e passa )
 «l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto»
 «a Dio spiacenti e a’ nemici sui»
 «questi sciaurati, che mai non fur vivi»
 «Guai a voi, anime prave!»
 «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare».

Il canto inizia sotto il segno dell’eternità e della parola imperitura, definitiva, pronunciata ‘una volta per
tutte’, presentando nei primi versi l’iscrizione che compare sulla porta infernale e che non soltanto
stabilisce un limite spaziale tra dimensione umana e dimensione ultraterrena, ma indica anche un
passaggio temporale fra la dimensione del tempo umano, misurabile, transitorio, e la dimensione
dell’eternità («io etterna duro», si legge nei versi posti sulla sommità della porta): allo stesso modo,
come ha osservato Georges Güntert, lungo tutto il canto la versificazione tende a essere lapidaria, netta,
incisiva, densa, sentenziosa, come avviene, appunto, negli esempi citati.
Più in generale, la fama del canto è legata agli episodi, ai personaggi e ai vividi quadri di insieme che
compaiono in successione e che colpiscono l’immaginazione del lettore grazie, anche, all’equilibrio
compositivo della narrazione, in grado di isolare momenti e immagini rilevanti e allo stesso tempo di
trascorrere in modo fluido da un episodio all’altro, da una figura all’altra. Il canto terzo è incentrato infatti
su tre nuclei narrativi principali, tutti e tre ben definiti e individuabili e collegati tra loro da simmetrie e
corrispondenze interne:
1. la raffigurazione della porta infernale;
2. la visione d’insieme delle prime anime dell’Inferno, gli ignavi;
3. l’apparizione di Caronte, nocchiero infernale, che giunge per trasportare al di là del
4. fiume Acheronte le anime dei dannati, le quali arrivano in continuazione e in
5. numero sterminato sulla sponda del fiume.

Li prenderemo in considerazione in successione. Prima di procedere vi segnalo che i link sono attivi, e vi
invito a ingrandire le immagini e a confrontare di volta in volta la traduzione figurativa con il testo del
poema (le illustrazioni degli episodi danteschi sono infatti molto utili sia come commento visivo al testo, sia
come ausilio per la memoria).
La visione della porta infernale e il successivo commento di Dante a questa visione costituiscono il primo
nucleo narrativo del canto (corrispondente ai vv.1-21). Il canto si apre con la celebre iscrizione che sovrasta
la porta infernale. Le prime 3 terzine costituiscono una sorta di “proemio al proemio”:

I terzina = origine, causa prima, condizione, che rendeva necessaria il viaggio oltremondano (smarrimento
nel luogo del peccato)

II terzina = scrittura del poema, rievocazione memoriale ed intellettuale dell’esperienza vissuta

II terzina = prefigurazione del BENE che dovrà scaturire dal viaggio

Nel II canto, invece, i primi 9 versi corrispondono all’esordio specifico della cantica e all’invocazione alle muse.

L’esordio del III canto è analogo a quello dei due canti precedenti, e segnala il momento iniziale dell’ingresso
nella dimensione oltremondana. L’esordio ha uno straordinario effetto drammatico, preparato dalla pausa
narrativa del canto II, che interrompe il cammino: dà spazio ai dubbi di Dante e alle risposte di Virgilio. Tale
tensione narrativa culmina nella visione della porta infernale. I versi che sovrastano la porta sono infatti
collocati all’inizio del canto, senza preambolo, senza elementi introduttivi. Essi sono riportati nella pagina
nello stesso modo in cui si leggono, scolpiti, sulla pietra. Lo sguardo di Dante coincide dunque con lo sguardo
del lettore. I versi del poema rientrano nella missione profetica di Dante e sono voluti ed ispirati da Dio.
INQUADRATURA IN SOGGETTIVO = coincidenza tra lo sguardo di Dante e quello del lettore, che fa sì che il
lettore si immedesimi ancor di più nella narrazione, partecipi al cammino di Dante. Dante sta per essere
ammesso alla conoscenza delle “segrete cose”. L’ingresso all’Inferno è anche un ingresso nella dimensione
della parola, del linguaggio, della scrittura. Attraversare l’Inferno significa anche attraversare idealmente
quelle parole incise sulla porta, entrare all’interno del linguaggio stesso che descrive tale Universo. Dio
infatti è anche la PAROLA, il VERBO. La reazione di Dante a tali parole è lo sgomento, l’attonimento.
Tale viaggio nella lingua, nella letteratura, ha infatti come guida il maggiore poeta dell’antichità, Virgilio, che
è anche ALLEGORIA DELLA LETTERATURA. L’avventura compositiva del poema è materia del poema stesso
la Divina Commedia non è solamente la descrizione del viaggio ultraterreno, ma è anche la descrizione di
come avviene tale descrizione. Il viaggio ha luogo non soltanto all’interno di un luogo concreto (per quanto
immaginario), ma anche all’interno di una costellazione di testi. Nel canto III sono ripresi i momenti iniziali
della discesa di Enea negli Inferi, narrati nel VI libro dell’Eneide. Da Virgilio, ad esempio, Dante riprende la
descrizione di Caronte, e la similitudine finale delle anime che si dirigono verso la sua nave come tante foglie,
staccate per sempre, dall’Albero dell’Umanità, perdute e prive di speranza. Queste riprese, producono,
infatti, un cammino all’interno di un mondo testuale pre-esistente, che è quello dell’Eneide e più in generale
della cultura classica. Questo mondo testuale non viene soltanto percorso a distanza, ma viene modificato
secondo la prospettiva cristiana. Secondo la visione virgiliana le anime possono reincarnarsi, secondo la
visione dantesca, invece, vi è la definitiva perdita della salvezza e l’eterna condanna alle pene infernali.

Dante nel II canto aveva citato i viaggi compiuti da Enea e San Paolo nell’Inferno e nel Paradiso, questi due
modelli corrispondono anche a due modelli di generi e ambiti letterari: poema epico (Enea) e letteratura
religiosa (San Paolo). Ma Dante non è Enea, non è Paolo, e lui stesso lo afferma. Questa dichiarazione di
diversità implica anche un allontanamento dalle corrispondenti modalità narrative. Il poema dantesco,
infatti, rappresenterà il punto di incontro e di convergenza di entrambe, il punto di sublimazione di queste
due polarità testuali-letterarie.
Il secondo nucleo tematico corrisponde alla rappresentazione dei primi dannati, che si trovano al di là della
porta infernale. Superata questa soglia, i primi dati che catturano l’attenzione di Dante sono i lamenti ed i
sospiri. Senza stelle= privazione di luce, è buio, ed anche i dannati sono privi dell’accesso alla luce del cielo.
La commistione di suoni, il tumulto, generano uno SHOCK UDITIVO in Dante e nel lettore. Anche grazie a
questi artifici il lettore viene immerso immediatamente nell’atmosfera infernale. Questa disarticolazione del
linguaggio è anche in contrasto con la parola eterna, lapidaria, della porta infernale. Là avevamo la parola
definitiva, divina; qui abbiamo la parola che regredisce alla condizione animalesca, che perde il valore
comunicativo intellettuale. Le prime anime nel vestibolo infernale: gli ignavi = coloro che in vita non hanno
compiuto né atti malvagi, né atti virtuosi, ma hanno deciso di rimanere indifferenti tanto al bene quanto al
male. Occorre non soltanto evitare il peccato ma anche impegnarsi nel compiere il bene! Per questo motivo
gli ignavi si trovano insieme agli angeli neutrali = angeli che nella lotta tra Dio e il Diavolo non si schierarono
né per il Bene, né per il Male per tale motivo sono rifiutati sia in Inferno che in Paradiso. Gli ignavi sono
coloro che non sono mai stati veramente VIVI, che hanno vissuto senza prendere parte veramente al mondo,
alla vita, sono coloro che hanno vissuto nel mondo da spettatori, senza partecipare alle pene degli altri, senza
assecondare la propensione umana al miglioramento sociale. Prima di varcare la porta dell’Inferno, Virgilio
avvisò Dante che fosse necessario deporre ogni viltà Il timore e lo sgomento di Dante infatti vennero
descritti come un effetto della viltà d’animo, un eccessivo timore che impedisce all’uomo di compiere
imprese virtuose. Si tratta di una predisposizione d’animo certamente molto umana; bisogna dunque evitare
che possa prevalere, e indurre l’individuo a non agire. Dante, tuttavia, decidere di proseguire il cammino,
aderendo così al disegno divino. Dante mostra di disprezzare fortemente gli Ignavi. Questo disprezzo si
manifesta nella punizione di questi dannati, che sono costretti a seguire perennemente uno stendardo, per
contrapposizione alla mancata scelta connessa tra il Bene ed il Male, non attuata in vita, e dunque alla
mancanza di STIMOLI. Sono continuamente punti da sciami di mosconi e vespe, e attorniati da vermi che si
cibano del sangue che scende dalle ferite provocate da questi insetti. I primi dannati introducono il lettore
al concetto di CONTRAPPASSO che caratterizza tutto l’Inferno: la tipologia del peccato e la specificità della
pena è considerata secondo un legame logico di analogia o contrapposizione. Il contrappasso non è solo un
meccanismo narrativo o una punizione; comprendere il legame logico fra peccato e pena permette a Dante,
e per suo tramite al lettore, di conoscere più a fondo il peccato stesso, e di addentrarsi nella definizione del
male e dei suoi meccanismi; ma il DISPREZZO si manifesta anche nella scelta di NON NOMINARE questi
dannati: “non ti curar di loro, ma guarda e passa” privazione dell’individualità, mancanza di distinzione,
confusione delle identità: la sottrazione alla vita implica la sottrazione del nome e della individualità. La scelta
di non nominare interi gruppi di dannati è tuttavia rara nell’Inferno (si tratta di un’eccezione). I primi e gli
ultimi dannati non sono nominati, a sancire così la gravità sociale del peccato commesso, con la conseguente
esclusione di tali dannati dall’Inferno: non sono mai stati vivi, quindi è inutile considerare il nome di coloro
che erano già morti in vita (chi ha vissuto solo per se stesso, per la sola inerzia di essere al mondo). L’unico
ignavo che viene delineato, viene comunque descritto in vagamente: A) Celestino V, il Papa che rinuncia al
pontificato, e quindi ad essere vicario di Dio in terra, sottraendosi dunque dalla propria responsabilità
(conseguente elezione di Bonifacio VIII), oppure B) Ponzio Pilato.

L’ultima parte del canto: sonni e risvegli, soglie e simmetrie. Ad esempio, 3 sono gli interventi di Virgilio del I
Canto, e 3 sono gli interventi di Virgilio nel II canto. La simmetria compositiva del III canto la si coglie stando
attenti all’inizio ed alla fine: la visione della porta infernale (apertura), la visione dell’Acheronte (chiusura). Il
superamento del fiume però è necessario affinchè il viaggio possa proseguire. Dante non spiega come ha
varcato il fiume infernale, vi sono i dannati che si accalcano alla riva del fiume. Ad un certo punto vi è un
tremendo terremoto con vento e lampi, originato da Dio. Al risveglio, Dante si trova già nell’altra sponda, nel
Limbo. Per permettere a Dante di varcare l’altra soglia interviene direttamente il Dio cristiano, che provoca
il terremoto (uno dei segni divini per eccellenza). Il TERREMOTO anticipa: A) la difficoltà del cammino, pieno
di interruzioni, fatiche e forti esposizioni emotive; B) la meta del cammino verrà raggiunta, nonostante le
asperità e la fatica vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. La conoscenza graduale che Dante
apprende, è sempre accompagnata dagli effetti che questa hanno sulla sua coscienza. Si tratta di una
CONOSCENZA EMOTIVAMENTE PARTECIPATA. L’Inferno coinvolge l’animo dell’invididuo e lo sottrae alla
condizione di mero spettatore. Nel canto I si fa riferimento al SONNO DELL’INTELLETTO (DELLE VIRTU’), nel
canto III c’è un altro riferimento al sonno, in questo caso alla PERDITA DI SENSI, a tal scopo gli verrà in
soccorso Dio.

Canto XXIII.
L’Inferno, abbiamo detto, è un luogo che contiene al proprio interno altri luoghi, altri inferni, o meglio
specifiche declinazioni di inferno, e le separazioni geografiche o architettoniche che delimitano i vari spazi
contenuti l’uno nell’altro costituiscono altrettanti passaggi morali. Nella discesa all’Inferno è implicito un
senso di trascinamento inarrestabile verso il basso, più o meno avvertibile, più o meno evidente: il punto
inferiore della voragine, in cui si trova Lucifero, la scaturigine di ogni traviamento, il principio comune a
tutti i singoli peccati, è infatti il luogo della convergenza di ogni manifestazione del male. Tutto precipita
idealmente verso il pozzo dei traditori, verso il ghiaccio dell’ultimo cerchio e la triplice bocca del nemico di
Dio. È con la stravolta immagine trinitaria di questa bocca (luogo orrendamente sovvertito del nutrimento e
della parola) che si chiude la visione dell’Inferno, prima della discesa/risalita lungo il corpo dell’Avversario.
Attorno all’ampia e oscura imboccatura del pozzo dei traditori – che «vaneggia» (ovvero che crea uno
spazio vuoto) al centro e sembra quasi risucchiare lo sguardo nella sua profondità – si estendono i fossati
delle ‘male’ bolge, corrispondenti all’ottavo cerchio.
Fin da subito, Malebolge è descritto espressamente come luogo più interno nella geografia infernale, con
caratteristiche specifiche che diverranno palesi nel corso del viaggio e con una conformazione diversa dai
luoghi precedenti, descritta puntualmente nei primi versi del canto 18 (riportati qui a fianco; potete cliccare
per ingrandire). Ricordate a questo proposito che abbiamo già osservato la struttura di Malebolge nelle
lezioni precedenti, anche attraverso le letture critiche sulla Commedia.
La rappresentazione dei dieci fossati di Malebolge occupa circa 13 canti, più di un terzo della cantica: dal
canto 18 (attenzione, come sempre, alla numerologia: 3x3x2) fino al canto 30 (3x10), con una breve
appendice nel canto 31. Al cambio di spazio geografico e morale corrisponde qui anche un netto cambio di
stile: Malebolge rappresenta, nel complesso e senza escludere momenti di intensa tragicità e sublimità
tematica e formale, il vertice comico-realistico e grottesco del poema, sia per la rappresentazione
degradante dei dannati e delle loro pene, sia per il ricorso a un linguaggio di registro basso e quotidiano,
persino scurrile, sia per il più sensibile riferimento – pur senza ignorare anche modelli altissimi come la
poesia epica e mitologica – alla letteratura comico-satirica e a modelli popolareggianti (non a caso uno dei
riferimenti al poema come «comedia» appare in uno di questi canti). L’altezza stilistica del registro
elevato convive in questa sezione del poema con la più esibita trivialità.
Malebolge è d’altra parte il luogo della massima commistione, della confusione e dell’accostamento di
elementi difformi, della molteplicità e dell’ambiguità, caratteristiche che sono tipiche anche della frode e
di Gerione, il mostro che trasporta Dante e Virgilio sul suo dorso permettendo ai due poeti di superare lo
scoscendimento tra i cerchi settimo e ottavo (Gerione è infatti una «sozza imagine di froda», come si legge
in Inf. 17, v. 7, una creatura con «faccia d’uom giusto», ivi, v. 10, e corpo formato dall’unione di varie
membra bestiali, a simboleggiare l’apparenza retta e benevola di ogni atto di frode e il sovvertimento e la
degradazione della natura umana, e del corpo umano, che hanno luogo in Malebolge).
La sequenza di canti che leggeremo (23-27) è ambientata nella seconda metà di Malebolge, e riguarda in
particolare le bolge VI (con antefatto nella bolgia V), VII e VIII (con un rapidissimo sguardo sulla IX). In
queste bolge, ricordiamo, sono puniti rispettivamente:
 i barattieri (bolgia V), sommersi nella pece bollente e afferrati dagli
 uncini dei diavoli non appena risalgono in superficie;
 gli ipocriti (bolgia VI), condannati a portare pesantissime cappe di
 piombo che si presentano dorate all’esterno;
 i ladri (bolgia VII), assaliti da serpenti mostruosi che li avvinghiano, li
 mordono, li inceneriscono e li costringono a terribili metamorfosi che
 sottraggono loro le sembianze umane;
 i consiglieri fraudolenti (bolgia VIII), arsi da fiamme che avvolgono
 completamente i loro corpi;
 i seminatori di discordia (bolgia IX), che vengono mutilati dai colpi di
 spada di un diavolo, si ricompongono e tornano in eterno a essere
 smembrati.
Iniziamo la lettura con il canto 23, che presenta i dannati della bolgia VI. È l’inizio della seconda metà del
cerchio (bolge VI-X), e questo luogo mediano è segnalato anzitutto da un dato sonoro rilevante: il silenzio.
Nel regno della confusione delle lingue e dei suoni, delle urla e del rumore concitato, si crea
improvvisamente una pausa silenziosa, che sembra segnalare una cesura interna alla sequenza complessiva
di Malebolge, in corrispondenza, appunto, con la metà della struttura del cerchio: il passaggio dalla quinta
alla sesta bolgia. L’antefatto di questo brano, ovvero l’episodio dei diavoli della quinta bolgia, detti
Malebranche, che si scontrano tra loro a causa di un inganno escogitato dal dannato Ciampolo di Navarra,
è già stato presentato nell’ultima lezione in presenza; lo potete rileggere anche attraverso il riassunto del
canto inserito tra i materiali facoltativi. Nella lettura che vi propongo, questo passaggio implica una
accentuazione di alcuni elementi che sono caratteristici di tutto il cerchio, ma che appaiono più evidenti e
coesi in questa sezione; in particolare, acquista maggiore rilevanza, anche in relazione all’intero poema, la
riflessione sulla parola e sul linguaggio: sulla privazione della parola, sull’uso della parola indirizzato non
all’elevazione morale dell’uomo e della società bensì in funzione del peccato e del male, sulla difficoltà della
parola, sulla contraffazione e le ambiguità della parola, sulle virtù salvifiche della parola. È un tema
importante per tutta la sequenza narrativa di Malebolge: pensate al fatto che i primi e gli ultimi dannati di
questo cerchio, mezzani e seduttori da un lato, falsificatori di parola dall’altro, sono puniti per peccati
compiuti soprattutto attraverso la lingua; e che l’appendice alla sequenza di Malebolge, nei primi versi del
canto 31, verte sul tema della parola che ferisce e della parola che cura. Ma è soprattutto nei canti 23-27,
dalla parola ipocrita alla parola dei consiglieri di frode, che questo tema, variamente riproposto e
riformulato, può essere colto in tutta la sua rilevanza etica e sociale, politica e religiosa, come vedremo nei
brani che commenteremo. Prima di iniziare la lettura segnalo che nei materiali facoltativi sono presenti i
riassunti dei canti, utili come introduzione alla lettura integrale dei singoli canti e come ausilio mnemonico.
[VEDI APPUNTI NELLA DIVINA COMMEDIA]
Lezione 9
Proseguiremo nella lettura di questi canti commentando episodi e temi principali e soffermandoci in
particolare sulla complessiva riflessione sulla parola e sul linguaggio che con grande coerenza espositiva
Dante conduce in questa parte del poema: la continuità del cammino compiuto dai due poeti di bolgia in
bolgia si fa qui anche prosecuzione del ragionamento, arricchimento e articolazione del discorso sulla
parola e sulla letteratura che viene sviluppato di pensiero in pensiero, di ponte in ponte, fino a culminare
negli episodi per molti aspetti di complementari di Ulisse (canto 26) e Guido da Montefeltro (canto 27) di
cui ci occuperemo nella prossima lezione.
Il canto 24 è diviso in due parti.
La prima parte comprende i vv. 1-60, e descrive la difficile risalita da parte di Dante e Virgilio dell’argine che
conduce verso la settima bolgia: è una sequenza apparentemente neutra, eppure molto importante per la
comprensione di questa sezione del poema. La risalita lungo le rovine, commenta Dante nel verso centrale
di questa prima parte (v. 31), «Non era via da vestito di cappa»: questa indicazione va riferita anzitutto alla
condizione materiale della scalata sulle rovine, impossibile per chi avesse avuto vesti troppo ampie e
lunghe, ma va letta anche sul piano simbolico, in relazione alla volontà di radicale distanziamento dalla
parola ipocrita e più in generale al percorso di elevazione morale e poetica che Dante sta compiendo.
Ricordate che i dannati che i due poeti stanno lasciando, gli ipocriti, sono rivestiti appunto da pesanti cappe
di piombo.
È interessante considerare inoltre il contrasto tra opposti movimenti, anch’esso concreto e simbolico allo
stesso tempo, che si può cogliere in questi versi: lo sforzo della risalita, del movimento verso l’alto, è
funzionale al proseguimento del cammino verso le bolge successive e perciò verso il basso. Per procedere
più a fondo, dunque, nella comprensione dei meccanismi del male, per narrare la maggiore gravità dei
peccati e per tornare in seguito a ‘risalire’ con l’ascesa e la descrizione poetica del Purgatorio, è
necessario proseguire con rinnovato impegno nell’innalzamento intellettuale e stilistico.
La seconda parte, che comprende i vv. 61-151 ed è aperta da una terzina di raccordo che descrive
brevemente la ripresa del cammino sul ponte di roccia, presenta invece i peccatori della nuova bolgia e i
tormenti a cui sono destinati. Come abbiamo visto, i ladri puniti in questa bolgia - nudi, come sono in
generale i dannati - sono esposti agli assalti dei numerosi serpenti che popolano il fossato: i rettili mostruosi
mordono ferocemente i dannati, li avvinghiano legando loro le mani dietro la schiena, li costringono a
terribili metamorfosi. Fra i peccatori, Dante incontra il pistoiese Vanni Fucci, una delle figure più empie e
degradate dell’intero poema, punito qui per il furto sacrilego degli arredi del duomo di Pistoia e ridotto in
cenere.
cenere dopo essere stato morso da un serpente (l’uomo, ricordiamo, nella tradizione cristiana è appunto
‘polvere e cenere’, e la cenere è tra l’altro simbolo di pentimento e umiliazione, disposizioni d’animo
necessarie per la salvezza).

Il canto 25 inizia nel punto esatto in cui termina il canto precedente: la cesura tra i due canti non implica
dunque qui una ellissi narrativa. In generale, nella Commedia, tra la fine di un canto e l’inizio del canto
successivo trascorre sul piano narrativo un arco di tempo più o meno ampio (e più o meno percepibile, di
volta in volta, da parte del lettore), durante il quale accadono alcuni eventi che l’autore sceglie di
trascurare: in alcuni casi Dante omette completamente gli eventi e non dà al lettore la possibilità di
immaginarli (perché sono del tutto irrilevanti, o al contrario, come avviene nel passaggio tra canto terzo e
canto quarto, perché ritiene opportuno non rivelarli e renderli misteriosi); in altri riassume gli eventi
attraverso rapide allusioni che ‘incapsulano’ un contenuto narrativo più esteso (come avviene alla fine del
canto secondo, dove il verso conclusivo «intrai per lo cammino alto e silvestro» compendia e lascia bene
immaginare, attraverso i due aggettivi, le asperità del cammino che conduce all’ingresso infernale,
rappresentato direttamente all’inizio del canto terzo). Si tratta, naturalmente, di un procedimento
fondamentale per ogni narrazione (non solo letteraria). Tra i canti 24 e 25, invece, non c’è alcuna omissione
narrativa, non trascorre alcun lasso di tempo: l’inizio della narrazione nel canto 25 coincide con l’istante
stesso su cui termina il canto 24, ovvero con la fine delle parole pronunciate da Vanni Fucci.
La netta interruzione dell’azione, che viene suddivisa tra la fine di un canto e l’inizio del canto seguente,
conferisce il massimo rilievo alle ultime parole del dannato, crea quasi un effetto di amplificazione o
rimbombo di quelle parole perverse (l’effetto di amplificazione e l’intento violento di quelle parole sono
espressi efficacemente nell’illustrazione di Alberto Martini che troverete alla fine di questa lezione). In
questo modo, non solo viene sottolineata la drammatica profezia sulla disfatta dei guelfi bianchi, ma viene
rimarcato anche l’atto comunicativo in sé, l’uso distorto e violento della parola e del bene dell’intelletto.
La parola genera in questo caso il male, produce sofferenza, sottrae (cioè ruba, come si conviene ai ladri, e
come del resto ha fatto la parola tentatrice del serpente che provoca il furto della mela nell’Eden)
tranquillità d’animo all’interlocutore (ricordiamo il verso finale del canto 24, «E detto l’ho perché doler ti
debbia!»).
Che si tratti di un uso distorto, rivolto al male, è evidente anche dal fatto che ciò che viene pronunciato per
generare la sofferenza di Dante è una profezia: i dannati hanno infatti una limitata capacità profetica,
vedono in modo sfumato e non nitido i contorni degli avvenimenti futuri; si tratta di un ultimo residuo di
luce divina, fonte di ogni conoscenza, che permane in queste anime create da Dio, ancorché ora dannate.
Vanni Fucci sovverte, per quanto morto e dannato per l’eternità, anche quest’ultimo residuo di conoscenza,
quest’ultima traccia del bene dell’intelletto, utilizzandola appunto per sottrarre serenità nell’interlocutore.
Persino la residua capacità profetica viene utilizzata per compiere il male: un atto, questo, che caratterizza
bene una delle anime più empie e ribelli di tutto l’Inferno.
L’empietà di questo uso della parola e dell’intelletto è ribadita dal gesto osceno che Vanni Fucci indirizza
subito dopo a Dio, come si legge all’inizio del canto 25: il gesto delle fiche, che consiste nel mostrare la
mano chiusa a pugno con il pollice infilato tra l’indice e il medio, con evidente allusione sessuale (non
fatichiamo a immaginare il corrispettivo moderno di questo gesto). Potete visualizzare il gesto
nell’immagine a fianco e in quella seguente, che svolgono entrambe la funzione (come avviene a volte per
le illustrazioni di testi letterari) di chiosa al testo, permettendo di comprendere meglio il significato letterale
dei versi (Vanni Fucci è il primo dannato sulla sinistra in entrambe le miniature). Le serpi, scrive Dante, si
mostrano allora amiche e alleate del poeta e giungono improvvisamente ad assalire Vanni Fucci, a legarlo
più strettamente e a morderlo alla gola come se volessero impedirgli di parlare di nuovo (è un dettaglio
reso in modo ancor più esplicito nella miniatura qui a fianco, che raffigura Vanni Fucci anche nel momento
successivo al gesto osceno mentre viene morsodal serpente direttamente alla bocca). È una esplicita
punizione, appunto, dell’uso perverso della parola su cui ci siamo soffermati; e il tema viene ribadito anche
nell’uscita di scena di Vanni Fucci («El si fuggì che non parlò più verbo»).
Il canto prosegue
 con un’invettiva contro Pistoia, città di Vanni Fucci, che anticipa la più
 celebre invettiva contro Firenze con cui si apre il canto 26 e l’invettiva,
 altrettanto nota, contro Pisa, «vituperio de le genti», che si legge nel
 canto 33;
 con la rappresentazione del personaggio di Caco, ladro degli armenti di
 Ercole, una delle figure che Dante riprende dal repertorio mitologico e
 introduce, reimmaginandole in senso cristiano, nell’Inferno;
 e soprattutto con la raffigurazione di altri dannati puniti in questa bolgia
 e dei tormenti a cui sono sottoposti.
Quest’ultima sequenza presenta altre due metamorfosi provocate dai serpenti: il canto 25 viene infatti
spesso indicato come il canto delle metamorfosi. Le metamorfosi a cui Dante assiste nella settima bolgia
sono dunque tre, anche in questo caso con riferimento al numero della trinità: la prima è quella di Vanni
Fucci nella seconda metà del canto 24, le altre due sono quelle descritte nella lunga sequenza narrativa di
118 versi, senza pause, che va dal v. 34 fino alla fine del canto 25. È uno dei brani in cui più evidente appare
il virtuosismo poetico di Dante, in aperta emulazione del classici, in particolare di Ovidio. Abbiamo già visto
che la risalita delle rovine del ponte può essere interpretata, sul piano simbolico, come invito al
superamento dei limiti della parola e come innalzamento stilistico-poetico: le metamorfosi che stanno per
essere narrate, anticipate dalla prima metamorfosi di Vanni Fucci, rappresentano l’esito ideale di questo
innalzamento, che a sua volta preannuncia l’ulteriore affinamento poetico che sarà necessario per
racchiudere all’interno del poema l’esperienza degli ultimi luoghi dell’Inferno, la risalita del Purgatorio e la
visione mistica del Paradiso. Commentiamo allora questa sequenza.

Il canto 26 dell’Inferno è incentrato sulla figura di Ulisse, l’eroe greco protagonista dei poemi omerici,
tradizionalmente associato agli attributi dell’ingegno e dell’abilità retorica. Tutta la materia del canto
sembra attratta dalla drammaticità e dalla fierezza di questa figura: fin dai primi il versi, il tono e le
immagini preparano l’incontro con Ulisse e l’intenso racconto del suo ultimo viaggio, un vero e proprio
racconto nel racconto, un poema nel poema. Proprio questo racconto di secondo grado (narrato cioè da un
personaggio interno alla narrazione principale) ha reso il canto 26 uno dei più celebri di tutto il poema,
legato, in termini di ricezione, soprattutto alla ‘orazion picciola’ che Ulisse rivolge ai compagni per esortarli
a varcare le colonne d’Ercole, all’esaltazione della conoscenza come mezzo assoluto di elevazione
dell’uomo (letta, spesso, in termini anacronistici e al di fuori del significato dantesco), alla visione moderna
dell’indagine antidogmatica in ogni ambito del sapere, all’immaginario romantico e post-romantico
dell’individuo errante, guidato dal desiderio inarginabile di fare esperienza del mondo e di sé, che si spinge
tragicamente oltre ogni limite della natura e delle convenzioni e che afferma anche con il proprio sacrificio
la libera autodeterminazione dell’uomo e la necessità di sfidare le imposizioni che contrastano le facoltà e
le aspirazioni umane. Il fascino che la ‘orazion picciola’ di Ulisse, con la sua elaborata struttura retorica, ha
esercitato nei secoli su lettori e lettrici è innegabile, e sarebbe senza dubbio interessante soffermarsi a
considerare la storia della ricezione di questo episodio (richiamata anche da Carlo Varotti nel volume Che
cos’è un testo letterario, pp. 12-14); ancor più interessante, tuttavia, e utile anche in una prospettiva
contemporanea, è cercare di comprendere il significato che questo personaggio assume nella visione
dantesca, a cominciare dal fatto che Ulisse è ‘figura’ di Dante. Che cosa significa, in questo caso, il termine
figura?
La nozione di figura, in parte affine a quella di allegoria, deriva dall’esegesi biblica, che vede alcuni
personaggi ed episodi dell’Antico testamento come prefigurazioni di personaggi ed episodi del Nuovo
testamento. A questo proposito viene citato spesso l’esempio di Mosé, che le Sacre scritture presentano
come personaggio storico e allo stesso tempo come figura (cioè prefigurazione, anticipazione, profezia
vivente) di Cristo: la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù compiuta da Mosé e la ‘promessa’ della nuova
patria prefigurano la venuta di Cristo, la liberazione dei fedeli dal peccato originale e la promessa della
salvezza. L’incarnazione di Cristo e la sua vicenda terrena sono l’inveramento della prefigurazione e il
compimento dell’esperienza umana di Mosé, sono gli eventi che danno pieno significato, a ritroso, all’uomo
e all’azione che li hanno anticipati. Questa nozione, come hanno mostrato gli studi di Erich Auerbach, può
essere applicata anche all’interpretazione della Commedia.
In questa prospettiva, ad esempio, Enea, esule che discende agli inferi e che è destinato, per volere divino,
a un’altissima missione etica e politica, è anche figura di Dante e della sua impresa ultraterrena. Allo stesso
modo, anche Ulisse è figura di Dante, sebbene, come vedremo più avanti, in senso negativo. Procediamo
però con ordine e torniamo ora alla materia del canto.
L’esordio del canto 26 riprende le vicende narrate nella bolgia precedente con una risentita invettiva di
Dante contro Firenze, suscitata dalla visione di ben cinque fiorentini all’interno della bolgia dei ladri e
connotata, come scrive Anna Maria Chiavacci Leonardi, dal «suono di dolore, quasi di stanchezza dell’animo
dell’esule [Dante] che pur sempre ama la propria terra, come se il tono che sarà proprio di tutto il canto,
commosso, interiore, raccolto (l’opposto del precedente), si riflettesse all’indietro sul suo inizio».
All’apostrofe contro Firenze (dal celebre esordio antifrastico «Godi Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per
mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande!»), fa seguito il ritorno alla narrazione, con
la descrizione della ripresa del cammino sul ponte che sovrasta l’ottava bolgia. Torna in questo luogo un
particolare già osservato: l’arco di roccia è infatti impervio e malagevole, tanto che Dante deve avanzare
aiutandosi anche con le mani per aggrapparsi agli spuntoni rocciosi. Questa difficoltà ricorda il passaggio tra
la sesta e la settima bolgia: se la faticosa risalita dell’argine precedente poteva essere letta sul piano
simbolico come innalzamento morale e intellettuale, la riproposizione a breve distanza dello stesso tema
indirizza ora il lettore ad associare i due momenti, e a interpretare dunque anche questo passaggio come
continuazione dell’itinerario di affinamento etico ed espressivo e del ripensamento in chiave cristiana
delle forme letterarie classiche.
Giunti sulla sommità dell’arco, Dante e Virgilio contemplano dall’alto la punizione che la sapienza divina ha
destinato ai consiglieri fraudolenti. Il corpo di ognuno di questi dannati è avvolto eternamente dal fuoco, e
la visione dall’alto dell’ottava bolgia illuminata dalla moltitudine di corpi in fiamme, in una sorta di intensa e
sofferta panoramica o carrellata cinematografica, è espressa da una doppia similitudine di sei terzine
(accuratamente suddivise secondo lo schema 3+3) che associa nella prima parte, con tono accorato e
dolente, il fossato a una valle nella quale risplendano fittamente, di sera, le lucciole, e che precisa nella
seconda come ogni fiamma che si muove «per la gola» (la bolgia) avvolga interamente un dannato
sottraendolo alla vista: allo stesso modo, secondo l’episodio biblico, le fiamme del carro di fuoco che rapì il
profeta Elia facendolo ascendere al cielo ancora vivo celarono il suo corpo allo sguardo del discepolo Eliseo,
che meravigliato lo osservava da terra. Torneremo su questo doppio paragone; notiamo per ora che anche
l’ultima terzina della similitudine crea un raccordo con la bolgia dei ladri («tal si move ciascuna per la gola /
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, / e ogne fiamma un peccatore invola», vv. 40-42): le fiamme
sottraggono allo sguardo il dannato, ‘rubano’ le sue sembianze alla vista, con evidente rimando al tema
della narrazione precedente (cfr. «furto», «invola»). Consideriamo allora più da vicino i momenti principali
del canto.
I canti 26 e 27 sono per molti aspetti complementari: il primo è incentrato, come abbiamo visto, sulla
figura di Ulisse, il secondo su Guido da Montefeltro, una delle personalità politiche più importanti dell’età
di Dante, uno dei più noti condottieri del Duecento, uno dei maggiori esponenti della parte ghibellina.
Antico e moderno, letteratura e politica, mito e storia, epica e cronaca si rispecchiano così in questo dittico
di canti dolente e appassionato con cui culmina anche la complessa riflessione sulla parola e sull’uso
individuale e sociale del linguaggio che Dante conduce in questa sezione di Malebolge.
Negli ultimi anni di vita Guido da Montefeltro si convertì e divenne frate francescano: la conversione
rappresentò, per la propaganda di parte guelfa, un grande successo politico ascrivibile a Bonifacio VIII. E
proprio sul rapporto tra queste due figure è incentrato il canto 27: in particolare, sul consiglio che, da
esperto e astuto politico, il Montefeltro diede al papa per porre fine alla guerra privata che quest’ultimo
aveva intrapreso contro la potente famiglia romana dei Colonna.
Un dettaglio

Una similitudine (1)


Una similitudine (2)

Un tema

Una definizione
Canto XXXIII
L’inferno è amico delle storie, ricorda Jonathan Gottschall in un capitolo del libro L’istinto di narrare. Come
le storie ci hanno resi umani, citando una frase dello scrittore americano Charles Baxter. L’osservazione è
senz’altro vera almeno per le prime due cantiche dantesche, ma trova forse una più profonda applicazione
alla prima parte del canto 33, in cui la narrazione dell’estremo dolore concepibile in terra («e se non piangi,
di che pianger suoli?», v. 42) dà vita a uno degli episodi più famosi e apprezzati di tutta l’opera. Il canto 33 è
infatti dedicato al racconto della morte di Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, accusato
dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini di tradimento politico ai danni della città di Pisa e rinchiuso – con
l’inganno, attesta Dante – insieme a due figli e due nipoti nella torre pisana dei Gualandi (detta ‘della
Muda’, poiché in una parte della torre si tenevano i falconi nel periodo della muta): nella torre, dopo mesi
di prigionia, Ugolino, i figli e i nipoti vennero lasciati morire di fame.
L’incontro con Ugolino e Ruggieri avviene alla fine del canto 32: proseguendo il cammino nel lago ghiacciato
di Cocito – e in particolare nella seconda zona del nono cerchio, detta Antenora, in cui i traditori della patria
sono sommersi con tutto il collo nella ghiaccia, con i volti non reclinati in basso ma esposti al freddo
infernale –, Dante scorge un dannato che addenta e mastica la nuca del dannato vicino a lui. Ha inizio qui
l’ultimo grande incontro di Dante nella prima cantica, prima della visione di Lucifero: il motivo di quella
scena disumana e di quell’eccezionale contrappasso, in cui l’estremo orrore dell’uomo che si ciba dell’uomo
costituisce una immagine essenziale della sostanza di ogni peccato, sarà dichiarato appunto dal racconto
che occupa la prima parte del canto 33.
La seconda parte del canto ospiterà ancora un ultimo incontro, con frate Alberigo dei Manfredi, molto
diverso per tono e intensità drammatica: dopo quest’ultimo dialogo si avranno solo il silenzio, la scomparsa
definitiva del corpo e la privazione del nome che caratterizzano per estrema sottrazione dell’individualità
umana i traditori dei benefattori nell’ultima zona del nono cerchio, Giudecca. Frate Alberigo si trova invece
nella penultima zona, Tolomea, dove i traditori degli ospiti, sempre sommersi nelle acque ghiacciate, per un
aggravio di sofferenza hanno la testa rivolta all’indietro: il vento gelido sprigionato dalle ali di Lucifero
trasforma in ghiaccio anche le loro lacrime, che non potendo sgorgare dagli occhi si induriscono
dolorosamente nelle palpebre. Va osservato che la gerarchia della gravità del peccato nell’ultimo cerchio
infernale dipende dalla maggiore libertà con cui viene instaurato il vincolo di amore e fiducia che il
tradimento giunge a infrangere e sovvertire.
Abbiamo visto che nell’Inferno i peccatori sono rigidamente suddivisivi e che allo stesso tempo è possibile
individuare sottili rimandi, più o meno espliciti, tra peccati diversi che permettono di comprendere più a
fondo le specificità e le implicazioni dei singoli atti malvagi; e abbiamo visto che, anche per questo motivo,
tutto, nell'Inferno, sembra precipitare verso il fondo del pozzo dei traditori, ogni elemento richiama il
principio del male rappresentato da Lucifero. Nella lettura del canto 33 incontrerete perciò anche molti
elementi che abbiamo osservato nella sezione di Malebolge e che ritornano qui variamente declinati.
FACOLTATIVE: Il corpo

La bocca

Gli occhi
Oltre che dal tema della parola e del silenzio, il canto 33 è caratterizzato anche dall’area semantica dello
sguardo, della vista, del buio, degli occhi del pianto (Ugolino, Aberigo).

Lezioni 11-12
Abbiamo visto, con la Commedia, un modello sublime di poema religioso e allo stesso tempo un esempio di
poema che si fa ‘macrogenere’ includendo al proprio interno elementi attinti dal poema epico, dal poema
mitologico, dal poema didattico-allegorico insieme a un’amplissima varietà di forme discorsive (la poesia
lirica, l’orazione, la preghiera, l’invettiva, la tenzone comico- burlesca, la sacra rappresentazione, la
profezia, la visione mistica e allegorica, la parodia sacra, il disputa accademica e teologica ecc.). Come la
Commedia, anche il Furioso, per l’ampiezza e la pluralità delle vicende narrate e dei personaggi, assimila ed
esibisce numerose modalità espressive e contiene idealmente una vasta biblioteca di testi che vengono
richiamati di volta in volta per allusione, citazione diretta, riscrittura, parodia, emulazione. Proprio la
molteplicità unita all’armonia e alla raffinatezza, l’abbondanza unita all’equilibrio formale, la diffrazione
unita alla ricerca di un ordine complessivo sono alcune delle ‘cifre’ caratteristiche del Furioso, tanto a livello
formale quanto a livello tematico e ideologico: questi aspetti hanno contribuito a rendere il poema
cavalleresco di Ariosto non soltanto un unicum nella letteratura europea, ma anche un libro di straordinario
successo fino ai nostri giorni.
Orlando furioso: 1516-1532
Tutta l’attività letteraria e diplomatico-amministrativa di Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474-Ferrara,
1533) gravita intorno alla raffinatissima corte estense di Ferrara: entrato nel 1497 fra i cortigiani stipendiati
a servizio di casa d’Este, nel 1503 Ariosto viene nominato segretario del cardinale Ippolito, che affida al
poeta svariati incarichi amministrativi e diplomatici, mentre dal 1517 è a servizio del duca Alfonso I.
Dal 1522 al 1525 Ariosto ricopre l’incarico di governatore della Garfagnana. Nella seconda metà del
Quattrocento Ferrara è l’altra capitale italiana, insieme a Firenze, della letteratura cavalleresca, e nel corso
del XVI secolo diviene il principale centro di riflessione e diffusione del poema epico-cavalleresco. A Ferrara,
ed espressamente per la corte estense, Matteo Maria Boiardo (Scandiano, 1441- Reggio Emilia, 1494)
compone l’Orlando innamorato, o meglio Inamoramento de Orlando (è quest’ultimo infatti il titolo
originale dell’opera, sebbene già nel Cinquecento inizi a imporsi l’altra dicitura), ampio poema suddiviso in
tre libri di 29, 31 e 9 canti rispettivamente (l’ultimo canto si interrompe però all’ottava 26).
L’Inamoramento de Orlando reinterpreta l’intera tradizione cavalleresca romanza coniugandola
sapientemente con modelli epici e lirici latini. La narrazione di Boiardo procede intrecciando con equilibrio
numerose trame incentrate su episodi amorosi, elementi fantastici, scene di battaglia: la sorprendente
fusione tra questi elementi, e in particolare il felice innesto di elementi amorosi e avventure tipiche della
materia bretone e arturiana nell’orizzonte narrativo carolingio, rappresenta uno dei tratti caratteristici
dell’opera. Il personaggio di Orlando, ad esempio, acquista nel poema un più moderno statuto di
personaggio: principale paladino di Carlo Magno e modello insuperato dei valori cavallereschi,
dell’obbedienza al sovrano, del sacrificio individuale in favore della comunità e in difesa della giustizia,
Orlando si innamora infatti della splendida Angelica, figlia del re del Catai; questo amore distoglie il
paladino dai doveri nei confronti di Carlo, impegnato nella guerra contro l’esercito ‘pagano’, e della corte di
Francia (giungerà ad esempio a scontrarsi con il cugino Rinaldo, anch’egli innamorato di Angelica), e genera
in lui una continua dialettica tra passioni ed emozioni da un lato, rispetto della fedeltà cavalleresca
dall’altro.
Le avventure narrate nell’Inamoramento de Orlando rimangono purtroppo interrotte al principio del canto
nono del terzo libro a causa della discesa in Italia di Carlo VIII di Francia, con il suo esercito, verso il regno di
Napoli (1494), evento che segna l’inizio delle guerre d’Italia; Boiardo muore poco dopo, nello stesso anno, e
non può dunque completare la tela del poema. Nell’ultima ottava dell’Orlando l’autore sospende la
narrazione per rivolgersi direttamente ai lettori; il racconto dei combattimenti e degli amori dei paladini si
squarcia per mostrare come la storia abbia fatto irruzione, violentemente, nella proiezione cortigiana del
poema, come le nuove guerre, con i loro orrori, abbiano messo a tacere l’invenzione e il canto di passate
battaglie:
Mentre che io canto, o Dio redemptore,

Vedo la Italia tutta a fiama e a foco

Per questi Galli, che con gran valore

Vengon per disertar non sciò che loco:


Però vi lascio in questo vano amore

Di Fiordespina ardente a poco a poco.

Un’altra fiata, se mi fia concesso,

Raconterovi el tutto per espresso. (III, ix, 26)

Sebbene incompiuto, l’Inamoramento de Orlando ha subito successo e suscita presto imitazioni e


continuazioni. Se la morte impedisce a Boiardo di mantenere la promessa di riprendere le fila del racconto,
come si legge in questa ottava, altri autori si incaricano di proseguire le avventure dei paladini e di
espandere questo universo narrativo. Fra questi va segnalato il letterato veneto Nicolò degli Agostini,
continuatore di Boiardo oltre che importante volgarizzatore delle Metamorfosi di Ovidio. E proprio come
continuazione del poema boiardesco nasce anche l’Orlando furioso: si tratta di una prosecuzione del
capolavoro precedente in termini anzitutto narrativi, dal momento che il racconto è ripreso là dove lo aveva
lasciato in sospeso Boiardo (Ariosto riporta nuovamente alcune vicende già narrate da Boiardo, così che la
congiunzione tra le due opere appaia più salda e le nuove imprese dei paladini di Francia risultino inserite
armoniosamente nel tessuto narrativo precedente); e si tratta anche di una continuazione e di uno sviluppo
ulteriore sul piano tematico-concettuale: mentre infatti Boiardo mostra il paladino di Carlo innamorato di
Angelica, il virtuoso difensore della fede e dell’Impero soggetto ai turbamenti d’amore, Ariosto conduce
Orlando alla pazzia per amore, introducendo così nel poema un grande tema letterario europeo come la
follia (pensiamo all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam).
Dopo aver scoperto che Angelica ha corrisposto all’amore di Medoro, un umile soldato saraceno, Orlando
impazzisce, getta le armi e l’armatura, sradica alberi con la sua forza erculea, devasta interi villaggi, lotta
senza consapevolezza di sé con animali così come con guerrieri pagani, facendo mancare il suo aiuto alla
guerra contro l’esercito pagano; finché un altro paladino, Astolfo, guidato da san Giovanni evangelista,
giunge sulla Luna, dove si trova tutto ciò che ‘si perde’ sulla Terra, recupera il senno smarrito di Orlando e
permette così il rinsavimento del guerriero e il suo provvidenziale ritorno alla guerra in difesa della
cristianità. Il Furioso, dunque, non è solo la conclusione delle vicende narrate nel celebre antecedente: è
soprattutto un’opera che rinnova profondamente, alla luce delle nuove istanze culturali dei primi decenni
del Cinquecento, temi e vicende del testo di riferimento, giungendo a fornire un affresco d’insieme della
società rinascimentale, delle sue aspirazioni e delle sue contraddizioni, e a costituire un modello
imprescindibile per la cultura europea di età moderna.
Ha in parte ragione Italo Calvino quando osserva che «Il difetto di ogni preambolo all’Orlando furioso è
che se si comincia col dire: è un poema che fa da continuazione a un altro poema, il quale continua un
ciclo di innumerevoli poemi, i quali alla loro volta traggono origine da un poema capostipite… il lettore si
sente subito scoraggiato: se prima d’intraprendere la lettura dovrà mettersi al corrente di tutti i
precedenti, e dei precedenti dei precedenti, quando riuscirà mai ad incominciarlo, il poema d’Ariosto? In
realtà, ogni preambolo si rivela subito superfluo: il Furioso è un libro unico nel suo genere e può – quasi
direi deve – esser letto senza far riferimento a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a
sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi». La possibilità di leggere un poema
come il Furioso – così popolato da memorie letterarie classiche e volgari, fitto di riferimenti puntuali
all’intera tradizione letteraria e di riletture dei modelli precedenti – anche come opera autonoma, come
mondo testuale a sé, svincolato da qualsiasi testo, è l’effetto di almeno due ideali rinascimentali che
trovano piena realizzazione in questo capolavoro: l’armonia compositiva e stilistica, pur nella grande
varietà di temi e toni; e la sprezzatura, l’ideale dell’arte che nasconde sé stessa, il sommo virtuosismo che si
presenta con grazia e naturalezza e non lascia trasparire la complessità della scrittura. Va tuttavia ricordato
che uno dei piaceri della lettura di questo poema consiste proprio nel riconoscimento delle riscritture, nel
gioco serio-comico con le fonti, e più in generale nella rivelazione dell’orditura intertestuale della
narrazione, fra tradizione e innovazione.
Le opere principali di Ariosto e le date di pubblicazione delle tre edizioni del Furioso:

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori.


Riassumere l’argomento del Furioso è una impresa molto complessa. La materia è infatti estremamente
varia, ed è caratterizzata da trame e sottotrame che si intercciano per il continuo errare dei cavalieri e delle
donne all’interno dell’ampio orizzonte geografico del poema, per l’esito imprevedibile delle loro avventure,
per le dilazioni e le digressioni, le interruzioni e le riprese a distanza delle vicende, nonché per i numerosi
racconti di secondo grado. Ariosto gestisce dall’alto, con una sapiente opera di regia o di tessitura, le storie
dei singoli personaggi, così dei protagonisti come dei comprimari, portando a compimento le differenti
linee narrative e conservando l’equilibrio e l’armonia complessiva del racconto.
All’interno di questa vasta tela ordita dal poeta è possibile individuare tre nuclei narrativi principali:
 la guerra che oppone l’esercito di Carlo Magno all’esercito dei «mori» di Agramante, e
 che viene combattuta in particolare in Francia, Spagna e Africa;
 l’amore di Orlando per Angelica e la follia del paladino;
 l’amore tra Ruggiero (guerriero dell’esercito pagano) e Bradamante (sorella di
 Rinaldo di Montalbano, cugina di Orlando), coppia destinata a dare origine alla
 dinastia estense.
Questi tre archi narrativi hanno inizio nel poema di Boiardo e sono portati a conclusione da Ariosto
attraverso uno sviluppo articolato. Anche i tre filoni principali sono infatti a loro volta intrecciati: Ruggiero e
Bradamante appartengono a eserciti opposti, e pertanto la loro vicenda si inscrive nelle vicissitudini
provocate dalla guerra tra mori e cristiani; Orlando è traviato dall’amore e dalla follia, e soprattutto dopo la
perdita della ragione giunge a disertare le imprese belliche facendo venir meno un fondamentale aiuto alla
parte cristiana; la guerra tra i due eserciti, infine, risente del comportamento dei singoli campioni, della
volontà, dei desideri, delle passioni e delle alterne vicende delle donne (e in alcuni casi delle donne
guerriere, come Bradamante e Marfisa, sorella di Ruggiero) e dei cavalieri.
I tre nuclei principali sono presentati nelle ottave iniziali del Furioso:
Intreccio e ironia.
Per gestire l’amplissima materia del poema e le spinte centrifughe e centripete delle vicende rispetto alle
linee narrativi principali, Ariosto fa largo uso della tecnica dell’entrelacement, già sviluppata nel romanzo
cavalleresco medievale, utilizzata anche da Boiardo e ripresa in questo poema con esiti affascinanti.
L’entrelacement consiste nella narrazione contemporanea e intrecciata di più vicende: il racconto di un
singolo episodio e più in generale il racconto delle avventure che riguardano un determinato personaggio
viene continuamente interrotto e lasciato in sospeso, rinviando la prosecuzione e la conclusione a un
momento successivo della narrazione e inserendo nuove vicende o continuazioni di vicende precedenti, a
loro volta sospese.
Alla base di questa scelta c’è la volontà di variare continuamente l’argomento, di creare diletto, di evitare
che l’attenzione sia focalizzata per troppo tempo su uno stesso soggetto, nonché di generare la suspense
indispensabile per far sì che lettore e lettrice proseguano con piacere e interesse la lettura. Più in generale,
questa tecnica narrativa è impiegata da Ariosto come corrispettivo stilistico della complessità e della
varietà delle vicende umane, come traduzione formale del continuo intreccio dei destini di donne e
uomini. Il Furioso non è infatti soltanto la narrazione delle cortesie e delle audaci imprese ambientate in un
passato mitico, ma è anche, sul piano simbolico, un tentativo di dare rappresentazione alle relazioni tra
individui, alle lotte e agli scontri dei desideri, alle ambiguità, ai mutamenti e alle ironie della sorte, alla
brevi gioie intense, alle delusioni, alle sofferenze e agli autoinganni dei mortali. Il ricorso
all’entrelacement ribadisce dunque, sul piano formale, come non sia possibile narrare la storia di un
personaggio senza raccontare le vicende degli altri personaggio con cui egli entra in relazione e si trova a
confrontarsi: la vita di ogni personaggio del poema è infatti continuamente modificata e orientata dalle
donne e dagli uomini che intrecciano con lui i propri destini.
È lo stesso autore a sottolineare a più riprese questo meccanismo, esplicitando ad esempio al lettore i
momenti in cui è opportuno interrompere la narrazione o riprendere, dopo averla richiamata alla memoria
del lettore, una narrazione precedente. Come scrive Giulio Ferroni, «Questo gioco di sospensione della
narrazione, di dissolvenza, di ritorno a vicende lasciate in sospeso, di riunificazione e separazione di
personaggi, di interruzioni e riprese dei canti, si regge su un di un ritmo sottile ed avvolgente, per cui spesso
sono state usate le metafore dell’onda o del fiume percorso da più correnti, e per cui l’autore stesso
suggerisce la metafora della tessitura (‘staccando’ tra le vicende di Rinaldo e [della sorella] Bradamante in
II 30 5-8: “Ma perché varie fila a varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo, / lascio Rinaldo e
l’agitata prua, / e torno a dir di Bradamante sua”) e quella del suonatore (“Signor, far mi convien come fa il
buono / sonator sopra il suo instrumento arguto, / che spesso muta corda, e varia suono, / ricercando ora il
grave, ora l’acuto”, VIII 29 1-4). [...] Ma differimento e prolungamento non significano apertura totale e
casualità del piacere del puro narrare [...]: da principio narrativo, da gioco testuale/musicale, il
differimento tende a porsi quale segno dell’illusorietà e dell’evanescenza delle vicende stesse,
dell’inesauribilità del desiderio e della ricerca, dello stesso essere contraddittorio del personaggio e
dell’uomo nel mondo» (G.
Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno editrice, 2008, p. 143).
Nelle due slides a fianco potete trovare un esempio eloquente di ripresa e interruzione, anche nello spazio
di pochi versi, della narrazione; e una scomposizione in episodi della materia del primo canto che mostra
bene gli intrecci dei destini dei personaggi, le sospensioni delle vicende, il tema dei sentieri che si biforcano,
la rappresentazione della selva come spazio dell’imprevisto, come luogo labirintico e come zona della
passione, del desiderio e del rimosso psicologico (l’immagine utilizzata è la calcografia di Girolamo Porro
che illustra il canto primo nel Furioso edito a Venezia nel 1584 da De Franceschi). Proseguite con la
presentazione nella schermata successiva.
Il ‘mondo’ del Furioso risulta dunque popolato da personaggi che continuamente si muovono, spaziano
nella geografia allo stesso tempo concreta e immaginaria del poema; in questo peregrinare, tutti i
personaggi sono mossi dall’impulso delle passioni e della conoscenza, dalla volontà di inseguire i propri
desideri, di dar seguito ai propri sogni e alle proprie illusioni.
Il Furioso è anche un poema del desiderio; e i desideri dei vari personaggi vengono spesso delusi, restano
temporaneamente o talvolta definitivamente inappagati, rimangono sospesi come la narrazione: la ricerca
dell’oggetto del desiderio è infatti spesso interrotta da un incontro o da un evento che rimanda il progetto
iniziale, lo fa deviare, fa insorgere nuovi desideri o fa ritornare alla memoria desideri pregressi (e a volte
rimossi) che erano stati tralasciati, rivela talvolta come l’oggetto del desiderio sia ingannevole. Il poema del
desiderio, degli errori, degli inganni della ragione e della conoscenza è dunque una rappresentazione della
pluralità e della reversibilità di ogni esperienza, delle gioie e delle sofferenze legate alle passioni, della
irragionevolezza che caratterizza tutti gli esseri umani, dei limiti della conoscenza e della interpretazione del
reale, della necessità, per donne e uomini, di adattarsi con gli incerti strumenti della ragione, della parola e
delle virtù personali alla mutevolezza, all’imprevedibilità e alla mancanza di giustizia del mondo. Il poema
giunge così dare un compiuto e ironico ritratto della società e della cultura rinascimentale: anche per
questo motivo viene presto canonizzato come classico europeo dell’età moderna.
Guardate ora il video didattico che trovate nella schermata seguente: il video si basa sui vari lavori condotti
di un gruppo di ricerca della Scuola Normale Superiore di Pisa dedicato al rapporto tra testi e immagini nella
letteratura italiana, e riguarda in particolare la fortuna del Furioso nel Cinquecento e la sua canonizzazione
(anche grazie alle edizioni illustrate) appunto come classico moderno. Ritroverete, in questa presentazione,
personaggi, episodi e temi principali del poema. Al termine del video, proseguite con la lezione leggendo le
pagine critiche tratte dal volume di Giulio Ferroni citato in precedenza e dedicate all’ironia ariostesca. *
Orlando pazzo per amore.
Il titolo dell’Orlando furioso è esemplato sulla tragedia Hercules furens di Seneca (I sec. d. C.), e richiama
dunque una delle forme tradizionalmente più elevate della letteratura, volta a rappresentare, secondo la
teorizzazione di Aristotele, le azioni di personaggi illustri, nobili, attraverso un registro stilistico sostenuto,
raffinato, sublime. L’accostamento tra la tragedia e il poema cavalleresco, che tradizionalmente include
personaggi di differente ambito sociale e narra vicende di differente registro, suggerisce la volontà di
nobilitare quest’ultimo genere utilizzando la materia cavalleresca per esprimere contenuti elevati che
riguardano, come la tragedia, la natura umana. Il richiamo alla tragedia senecana rafforza inoltre
’immagine di Orlando come nuovo Ercole cristiano.
L’aggettivo ‘furioso’ indica, da subito, la centralità del tema della follia all’interno del poema, in riferimento
non soltanto a Orlando, ma anche agli altri protagonisti dell’opera e persino, come si apprende dalla
seconda ottava del primo canto, lo stesso poeta: non c’è personaggio, dentro e fuori dal poema, che possa
dirsi privo di follia, interamente saggio.
La follia di Orlando sopraggiunge alla metà esatta del poema , nelle ultime ottave del canto XXIII (ott. 100-136):
inseguendo Mandricardo, uno dei più forti guerrieri dell’esercito avversario, Orlando giunge in un bosco
idilliaco; gli alberi di quel bosco mostrano, incisi nei tronchi e allusivamente intrecciati, i nomi di Angelica e
Medoro. La sorte ha infatti condotto il paladino nei luoghi degli amori della principessa del Catai e del
soldato saraceno, narrati nel canto XIX. Orlando non accetta di credere a ciò che il lettore già conosce, e
mentre si allontana tenta di spiegare in vario modo, illudendosi, il valore di quei nomi incisi sulle piante:
arrivato però nei pressi di una grotta, trova inciso su una parete un più esplicito epigramma erotico di mano
di Medoro («Liete piante, verdi erbe, limpide acque, / spelunca opaca e di fredde ombre grata, / dove la
bella Angelica che nacque / di Galafron, da molti invano amata, / spesso ne le mie braccia nuda giacque»,
XXIII, 108, vv. 1-5). A questa visione (i versi incisi, letti più volti, e le immagini che quei versi evocano nella
fantasia del paladino), Orlando «Rimase al fin con gli occhi e con la mente / fissi nel sasso, al sasso
indifferente». La gelosia inizia a far strada alla pazzia: Orlando è attonito («Fu allora per uscir del
sentimento, / sì tutto in preda del dolor si lassa»), non sa dare nome al suo dolore, che inespresso monta
dentro di lui; il suo animo si indurisce come lo stesso «sasso» su cui sono scritte quelle parole (ott. 112).
Abbandonando quel luogo, trova riparo presso un pastore; il paladino non può sapere ciò che invece è già
chiaro al lettore, ovvero che «Era questa la casa ove Medoro», dopo essere stato soccorso da Angelica,
come si è appreso nel canto XIX, «giacque ferito, e v’ebbe altra avventura» (ott. 116, vv. 5-6). Nella casa,
infatti, per alleviare le evidenti sofferenze dell’ospite, il pastore racconta a Orlando una storia a lieto fine:
l’amore e il matrimonio di Angelica e Medoro, nato per caso e felicemente coronato, di cui quei luoghi sono
stati testimoni; e per dar fede al racconto, il pastore fa portare un prezioso bracciale che la donna gli aveva
donato in segno di riconoscenza al momento della partenza. Orlando – che in queste ottave si trova non
solo nei luoghi degli amori di Angelica, ma anche letteralmente all’interno del racconto di quegli amori, che
è costretto a rivivere solo come affranto spettatore – riconosce il bracciale che lui stesso aveva regalato ad
Angelica tempo prima, e non può più a quel punto ingannare sé stesso. Piangendo e urlando, furente, si
allontana dal pastore, inizia a distruggere il bosco, devasta la grotta, fa scempio di quel locus amoenus per
lui funesto, finché
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso. (XXIII, 132)
Iniziano a questo punto le imprese di Orlando impazzito che abbiamo richiamato fin dall’inizio della lezione.
Nella schermata successiva trovate alcune osservazioni per la lettura di queste ottave; dopo averle lette,
proseguite con la lezione guardando la video installazione Donne, cavalieri, incanti, follia (anch’essa
realizzata in seno alle ricerche sul Furioso del gruppo di lavoro della Scuola Normale citato in precedenza): il
video sintetizza le imprese di Orlando in preda alla follia (l’uccisione di contadini, la distruzione di villaggi e
città, le lotte con gli animali e con altri cavalieri, il trascinamento della cavalla di Angelica), il viaggio di
Astolfo sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, il duello tra i tre campioni cristiani (Brandimarte,
Oliviero e Orlando rinsavito) e i tre campioni pagani (Gradasso, Sobrino e Agramante) che pone termine alla
guerra (osservate in particolare il dettaglio altamente simbolico di Olrando che taglia la testa ad gramante),
infine la nave del poema che, come si legge all’inizio dell’ultimo canto, giunge in porto a conclusione
dell’opera. Le illustrazioni su cui si basa il video sono tratte dal Furioso pubblicato a Venezia da Vincenzo
Valgrisi nel 1556.
Un tema

Un simbolo
Il primo segno della follia di Orlando è la svestizione delle armi cavalleresche. Provate a interrogarvi, anche
in questo caso, anche sul valore simbolico di questo gesto.
Un artificio

Lezione 13
Olimpia abbandonata.
Ippogrifo.

La liberazione di Olimpia.
Terminato l’episodio di Ruggiero e Angelica con la fuga della donna e l’allontanamento del cavaliere (privo
dell’anello magico e dell’ippogrifo, «che s’avea tratto il morso, / e salia in aria a più libero corso», XI, 13, vv.
7-8), il canto XI prosegue con la narrazione delle successive avventure di Ruggiero (ott. 15-21, vv. 1-4).
Entrato in una selva, Ruggiero assiste a uno scontro tra un gigante e un cavaliere; il gigante, dopo aver
stordito con un colpo il cavaliere, si avvicina all’avversario e gli sfila l’elmo per ucciderlo: Ruggiero si accorge
così che il cavaliere è Bradamante, e corre subito in soccorso dell’amata. Il gigante, che non cerca altra
battaglia, prende a quel punto sulle proprie spalle Bradamante e inizia a fuggire, inseguito da Ruggiero. Il
racconto si interrompe su questo inseguimento: il lettore scoprirà nel canto seguente che il gigante e
Bradamante apparsi nella selva (luogo, abbiamo detto, labirintico e spazio del rimosso) erano soltanto
illusioni create dal mago Atlante per attirare Ruggiero e gli altri cavalieri in un palazzo in cui ogni
personaggio, in una vera e propria mise en abyme dell’intero poema, insegue vanamente le immaginarie
proiezioni dei propri desideri. Come scrive Italo Calvino, «Il poema che stiamo percorrendo è un labirinto
nel quale si aprono altri labirinti», e il palazzo di Atlante costituisce il più riuscito di questi intrichi narrativi,
un «trabocchetto, una sorta di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi»: uno specchio della
dialettica e della interferenza continua tra ordine e caos, senno e passione, distacco ed empatia, equilibrio
e instabilità, gioco e dramma del Furioso.
Tornando al canto XI, dopo la sospensione della storia di Ruggiero il racconto si concentra fino alla fine del
canto su Orlando, che il lettore aveva lasciato, nel canto IX, nell’atto di gettare in mare l’archibugio di
Cimosco: dopo la celebre polemica contro le armi da fuoco (ott. 22-28), le ottave 29-83 narrano l’arrivo di
Orlando presso Ebuda, dove il paladino spera di poter soccorrere Angelica, l’uccisione del mostro marino e
la liberazione di Olimpia. Quest’ultimo episodio è molto importante: Ariosto, qui, non soltanto riformula i
modelli classici, come abbiamo visto, ma riscrive sé stesso a distanza di tempo, riprende dal punto di vista
di personaggi differenti una situazione già narrata in precendenza, rimodulandola e permettendo così al
lettore di cogliere la funzone del racconto pluriprospettico all’interno di tutto il poema, il gioco degli
equivoci, le deviazioni della diegesi, la forza della costruzione mentale delle immagini, gli scambi di persona
(Olimpia sostituita concretamente dalla figlia di Cimosco, Angelica sovrapposta mentalmente a Bradamante
nell’immaginazione di Ruggiero, Olimpia ritrovata da Orlando nel luogo in cui pensava fosse Angelica) e in
generale le somiglianze e le differenze tra individui che agiscono in condizioni analoghe.
Queste vicende sono state riassunte nelle schede introduttive di questa lezione; nel gruppo di slides che
troverete di seguito, con cui concludiamo la lezione, potrete leggere invece alcune osservazioni e
indicazioni di lettura su questo episodio, condotte a partire da una immagine relativa al canto X del Furioso.
Nella figura a fianco potete osservare una illustrazione a tutta pagina del canto XI: notate in particolare
come la diagonale che va dalla fonte in basso a sinistra al vertice opposto colleghi il personaggio di
Ruggiero, raffigurato in primo piano mentre tenta di afferrare Angelica, al personaggio di Orlando, in alto a
destra, raffigurato nelle varie fasi della liberazione di Olimpia, sottolineando così la diversità dei
comportamenti dei due cavalieri e la più chiara virtù – in questa parte del poema – di Orlando. Ricordate
però che se in questo canto Ruggiero è «cieco» e «matto», ed è reso furioso dalla eccessiva passione
amorosa, diventando sempre più fedele, magnanimo e valoroso nel corso del poema, un analogo e ben più
drammatico destino toccherà ad Orlando, come abbiamo visto nel canto XXIII: sul filo della diagonale
dell’illustrazione i due personaggi si corrispondono e si rispecchiano, rimarcando la reversibilità dei destini
e la mutevolezza della sorte che dominano il mondo del Furioso. Nella didascalia potete trovare il link a
una riproduzione dell’immagine con buona definizione, utile per ingrandire la figura, osservare i dettagli e
comprendere meglio le considerazioni di questa sezione (provate anche a esercitarvi, se volete, al termine
della lettura del canto XI, a riconoscere gli episodi principali raffigurati nella illustrazione e i loro rapporti
reciproci); nella slide seguente potete vedere invece un ingrandimento parziale, limitato a due episodi.
Lezione 15

Giuseppe Parini, Il Giorno.


Poesia e impegno civile
L’attività letteraria di Giuseppe Parini (Bosisio, 1729-Milano, 1799) si svolge nel contesto politico e
intellettuale della Lombardia austriaca e, più in generale, dei rapidi cambiamenti sociali, amministrativi e
culturali che caratterizzano la stagione del riformismo asburgico. Fra gli aspetti di questa stagione che più
da vicino interessano il poema pariniano di cui ci stiamo occupando va segnalato, sul piano amministrativo,
un progressivo mutamento di paradigma nell’assegnazione degli incarichi pubblici: le competenze tecnico-
amministrative diventano un criterio sempre più centrale nella scelta di funzionari e responsabili, i quali, in
misura maggiore rispetto al passato, sono di estrazione sociale non nobile e di provenienza geografica
extracittadina. Anche gli intellettuali prendono parte attivamente alla vita politica milanese come
consiglieri, insegnanti, funzionari dell’apparato statale, contribuendo, secondo gli ideali illuministi, al
miglioramento della società e alla felicità comune sia con la scrittura, sia con lo svolgimento degli incarichi
di responsabilità.
Parini proviene da una famiglia di modesto livello sociale della Brianza (Bosisio, oggi Bosisio Parini, è un
comune in provincia di Lecco). Il padre era un commerciante di sete, e la famiglia era molto numerosa e
priva di grandi sostanze: Parini ebbe la possibilità di continuare, a nove anni, gli studi solo grazie all’aiuto di
una prozia di Milano, che lo ospitò in città impegnandosi «a mantenerlo affinché prendesse gli ordini
sacerdotali» (Giuseppe Nicoletti, Parini Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della
Enciclopedia Treccani, vol. 81, 2014). Durante gli anni di studio Parini diede anche lezioni private, per
sostenere la famiglia, e soprattutto lesse autonomamente classici latini e italiani. Nel 1754, divenuto
sacerdote (sebbene senza una particolare vocazione), entra a servizio come precettore presso i duchi
Serbelloni, dove rimane fino al 1762 (sarà in seguito precettore presso l’importante famiglia Imbonati). Nel
1752 aveva intanto pubblicato la sua prima opera, Alcune poesie di Ripano Eupilino (‘Ripano’ è un
anagramma imperfetto di Parini, mentre ‘Eupilino’ fa riferimento a un toponimo latino della zona di origine
del poeta), mentre nel 1753 era entrato nella Accademia dei Trasformati, istituzione culturale
cinquecentesca rifondata recentemente dal conte Giuseppe Maria Imbonati e frequentata da alcuni dei più
importanti illuministi italiani, come Pietro Verri e Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764, opera
determinante per la fissazione di alcuni capisaldi della giustizia moderna, vista come necessaria condizione
per la felicità sociale), da letterati e scienziati, da professori e personalità politiche anche di primo piano,
come il ministro plenipotenziario Carlo di Firmian, la «longa manus di Vienna nella Lombardia». L’idea di
letteratura dei Trasformati era fondata sulla funzione civile dello studio e della scrittura, sull’elogio dei
progressi scientifici e sulla critica aperta al conservatorismo. È in questo clima che prende corpo un’opera
importante di Parini, il Dialogo sopra la nobilità (1757), un dialogo tra morti che richiama illustri modelli
antichi e moderni, italiani ed europei: nel dialogo, Parini immagina che il cadavere di un nobile e il cadavere
di un poeta vengano a trovarsi «non so per quale accidente», come si legge all’inizio dell’opera, nella stessa
sepoltura; il nobile, naturalmente, è infastidito dal fatto di dover condividere la tomba e dall’accostamento
con un umile poeta, e a partire dalla manifestazione aggressiva di questo sentimento di superiorità ha
origine un confronto sulla natura della nobiltà, che risiede – questa la conclusione del ragionamento del
poeta, con la quale il nobile si trova alla fine a convenire – non nei titoli o nei privilegi di nascita, ma nel
«merito», nelle virtù morali, nella rettitudine etica e nella volontà di adoperarsi in favore dell’utilità e del
benessere sociale («Gli sciocchi poi i quali non pensano più là dànnosi a credere che coloro siensi
comperati insieme co’ titoli e colle distinzioni anche il merito, il quale non si compera altrimenti, ma si
guadagna colle sole proprie virtuose azioni»).
Alla fine degli anni Cinquanta risalgono anche le prime Odi, componimenti poetici di argomento morale e
civile che Parini scrive in varie stagioni della sua vita e che vengono pubblicate, vivente l’autore, nel 1791 e
poi nel 1795. Insieme al Giorno, le Odi costituiscono l’altro grande esito letterario dell’illuminismo
neoclassicista di Parini.
Il progetto del Giorno.
Nella seconda metà degli anni Sessanta inizia per Parini un periodo intenso di incarichi pubblici sempre più
prestigiosi che si protrarrà fino agli anni Novanta: in particolare, nel 1768 è nominato poeta e revisore dei
testi per il teatro Ducale, nel 1769 è direttore della «Gazzetta di Milano», mentre nel 1770 riceve l’incarico
di professore di Belle Lettere presso le Scuole Palatine e poi a Brera, oltre a numerose consulenze svolte
soprattutto nell’ambito dell’istruzione scolastica e dell’economia.
L’educazione è dunque al centro degli interessi di Parini, si può dire, per tutta la vita. E all’ ideale
dell’educazione vissuto come impegno civile, come strumento concreto di progresso etico-morale e di
miglioramento della società vanno ricondotte anche le opere maggiori di Parini, il Giorno e le Odi. Il Giorno,
anzi, è incentrato sulla figura di un precettore che educa – vedremo con quali modalità e intenti – un
giovane esponente della nobiltà, il «Giovin signore», e per suo tramite l’intera nobiltà, o almeno
quell’ampio segmento della classe nobiliare che stava progressivamente perdendo la propria funzione
sociale, che si rivelava sempre più un inutile gravame nella riforma delle condizioni sociali e della
amministrazione pubblica e che si dimostrava nel complesso incapace di comprendere i grandi mutamenti
in atto.
Secondo l’ultimo progetto concepito da Parini, il Giorno si presenta come un poema unitario suddiviso in
quattro parti, ognuna corrispondente a una scansione temporale della giornata:
 il Mattino (edito nel 1763, e successivamente rivisto e corretto);
 il Meriggio (edito nel 1765 con il titolo Il Mezzogiorno, anch’esso rivisto e
 corretto successivamente alla stampa);
 il Vespro (non pubblicato dall’autore e rimasto incompleto);
 la Notte (anch’esso non pubblicato dall’autore e rimasto incompleto).
Si tratta di un’opera a cui Parini lavora, a fasi alterne e più o meno intense, per oltre trent’anni. Il Mattino e
il Mezzogiorno vengono pubblicati rispettivamente nel 1763 e nel 1765; a questi due poemetti avrebbe
dovuto far seguito un terzo componimento, la Sera, che viene probabilmente iniziato in quegli stessi anni:
in una lettera indirizzata nel settembre 1766 all’editore veneziano Colombani, Parini annunciava la
consegna della Sera nella primavera dell’anno successivo, indicando anche che i primi due
poemetti erano stati sottoposti a correzione. Il progetto era dunque inizialmente articolato in tre poemetti
autonomi: la Sera, tuttavia, non venne mai portata a termine, e l’editore Colombani ripubblicò i primi due
poemetti con la aggiunta di una Sera (del tutto incomparabile rispetto allo stile e alla inventio pariniana)
scritta dal veronese Giovanni Battista Mutinelli. L’assunzione degli incarichi pubblici ebbe probabilmente un
peso nella volontà e nella possibilità di portare a termine in quel momento l’opera; tuttavia il progetto
viene ripreso nei primi anni Ottanta: l’autore sottopone a una intensa campagna correttoria i primi due
poemetti (il secondo dei quali muta titolo in Meriggio), compone parti nuove (testimoniate dai frammenti
manoscritti conservati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, di varia ampiezza, da gruppi ridotti di
endecasillabi a sequenze più strutturate di qualche centinaio di versi) e rimodula la materia suddividendola
in quattro parti. Ancora nel 1791 scrive al grande editore Giambattista Bodoni che spera di poter presto
terminare «due pometti, per séguito e per termine di quelli antichi due, che hanno avuto la fortuna di non
dispiacere. [...] I due primi uscirebbero corretti, variati in qualche parte ed accresciuti. Così tutti e quattro
verrebbero ad essere nuovi e ridotti in un solo poema, che avrebbe per titolo Il Giorno» (il titolo
complessivo è attestato per la prima volta nell’ode La caduta, del 1785, in cui Parini si riferisce al poema
indicandolo appunto come Il Giorno). Il progetto viene tuttavia nuovamente abbandonato, forse in seguito
alle mutate condizioni storico-sociali degli anni Novanta del secolo; le ragioni di questa incompiutezza
costituiscono in ogni caso un nodo critico molto complesso e non ancora risolto. L’opera viene stampata
postuma nel 1801, in una edizione non affidabile dal punto di vista filologico, che ha avuto tuttavia almeno
il merito di far conoscere i frammenti del Vespro e della Notte tramandati dai soli manoscritti.
Il Giorno prende dunque in considerazione i momenti di un’intera giornata. In questo arco di tempo la
figura di un precettore («Precettor d’amabil Rito», come si definisce all’inizio dell’opera) segue
attentamente le varie occupazioni di un «Giovin signore» aristocratico e ozioso, istruendolo sul modo in cui
deve comportarsi in ogni occasione mondana. Si tratta perciò di un poemetto didascalico, ovvero di
un’opera destinata a impartire insegnamenti, a educare, a fornire conoscenze, a dare corpo poetico alle
attività quotidiane; questi insegnamenti, tuttavia, sono ironici e antifrastici, e la descrizione delle
occupazioni del «Giovin signore» diventa un affresco satirico e grottesco della corruzione, dell’oziosità ricca
e spensierata, dell’ignoranza e dell’assenza di una reale funzione sociale della nobiltà più conservatrice.
Sotto le apparenze degli insegnamenti antifrastici del Precettore, che sembrano assecondare il punto di
vista nobiliare, si rivela così il vero intento didattico dell’opera: la critica della nobiltà e il richiamo degli
aristocratici alle responsabilità morali e civili.
L’ironia di questo poema satirico-didascalico affiora soprattutto nel contrasto fra il tono sublime, a volte
persino epico, con ampio dispiegamento di mezzi retorici, e le futili occupazioni del ‘giovin signore’ (il
lento risveglio attorniato da numerosi valletti, la toeletta, la vestizione, il servizio alla dama, le passeggiate,
il gioco, i pettegolezzi, il teatro, le letture superficiali ecc.: occupazioni e atteggiamenti che Parini conosce
bene, avendole potute osservare per anni con l’occhio parzialmente distaccato del precettore di umile
estrazione sociale e di provenienza geografica marginale). Questo anti-eroe, questo finto semidio sempre
al centro del proprio cosmo, è stato visto anche come il protagonista di una ideale e definitiva conclusione
satirica della storia del poema epico-cavalleresco italiano, genere intimamente legato alla classe nobiliare
e ormai soppiantato dal romanzo.
Anche la scelta della misura temporale della giornata può essere letta in questo senso: la misura compiuta,
classica, archetipica di un intero giorno, dall’alba alla notte, racchiude al proprio interno un tempo che si
rivela vuoto e una serie di attività ritratte come vere e proprie imprese che in realtà sono del tutto prive di
valore. Il tempo della giornata del nobile signore è immobile, privo di azione; e il fatto che ogni giorno sia
destinato a svolgersi in modo identico al giorno precedente da un lato sancisce perfettamente l’immobilità
sociale, senza progresso e senza finalità, della nobiltà più retriva, dall’altro genera un poema senza
movimento, statico, una narrazione che si autoannulla nella dissolvenza del tempo provocata dalla futilità
delle azioni descritte.
Il metro del poema – l’endecasillabo sciolto – è quello tipico del poemetto didascalico. Il genere
didascalico, che abbiamo già osservato in relazione a Dante, ha come fine l’istruzione e più in generale
l’espressione letteraria di contenuti specifici, discipline, saperi. È un genere di lunga tradizione, basti
pensare a Le opere e i giorni di Esiodo, al De rerum natura di Lucrezio o alle Georgiche di Virgilio; in ambito
italiano si è soliti citare, come iniziatori del genere didascalico in volgare, Giovanni Rucellai, autore delle Api
(1524), e Luigi Alamanni, autore della Coltivazione (opera iniziata nel 1530). Sono testi che Parini, profondo
lettore della poesia del XVI e del XVII secolo, conosce molto bene. L’endecasillabo sciolto è anche uno dei
metri maggiormente utilizzati nella traduzione dei poemi classici, soprattutto nel Settecento (ma già
l’Eneide volgarizzata nel pieno Cinquecento da Annibal Caro è in sciolti), quando molti letterati iniziano a
sentire la rima come un facile abbellimento che toglie gravità di tono e vincola le possibilità di ampie e
libere volute rtimico-discorsive.
A proposito del genere di quest’opera, osserviamo che dalla tradizione del poema didascalico, epico e
mitologico il Giorno trae anche alcuni motivi ricorrenti, come l’invocazione alle Muse, l’inizio della
narrazione nel momento dell’alba, la presenza di favole eziologiche. Come le opere precedenti che abbiamo
preso in considerazione a lezione, anche il Giorno si fonda dunque su una pluralità di generi e forme
discorsive. Notiamo in particolare che il ricorso allo stilema dell’esordio all’alba serve anche a rivelare fin da
subito come il tempo del «Giovin signore» sia sfasato rispetto al tempo del resto del popolo: poiché gli
esponenti della nobiltà si svegliano d’abitudine molto tardi, non avendo particolari occupazioni, è
introdotta fin dall’inizio quell’idea del disallineamento dell’aristocrazia rispetto al resto della società, della
dissociazione tra nobiltà e communitas, che il poemetto mira a condannare accesamente e a correggere. La
finzione epica intorno alla favolosa giornata del nobile si capovolge dunque in elogio paradossale e in
poema eroicomico, inserendosi nel novero dei grandi modelli europei dell’epicità rovesciata (la Secchia
rapita di Alessandro Tassoni, 1624; il Lutrin di Nicolas Boileau, 1674, poi 1683; il Rape of the Lock di
Alexander Pope, 1712, poi 1714).
Un’ultima osservazione, a questo proposito, prima di commentare alcuni brani dell’opera: il Giorno non è
un poemetto ‘rivoluzionario’ che mira all‘abolizione completa della nobiltà; sebbene la critica sia
acuminata, profonda e talvolta risentita e ferocissima, l’intento educativo – almeno nella prima fase, che
porta alla pubblicazione dei primi due poemetti – è la correzione dell’aristocrazia più conservatrice, affinché
i suoi membri possano specchiarsi nella grottesca immagine che forniscono di sé, essere illuminati dalle
parole educatrici del poeta e partecipare attivamente al progresso della società. La condanna si ferma
insomma qualche passo prima della vera e propria sovversione.
Il Mattino e il Mezzogiorno
L’ideale agenda del giovin signore nel corso della giornata si rivela straordinariamente fitta di impegni e
incontri. Paradossalmente, il tempo è compresso, la concitazione è la cifra dominante. Sono tuttavia
impegni futili, e la compressione dei tempi risulta pertanto ancor più priva di senso. Il nobile si sveglia a
tarda ora, si impegna a ponderare con cura la bevanda mattutina, riceve le visite dei maestri di ballo, di
musica, di francese, si veste, invia un messaggio all’amica (la «altrui sposa», di cui è cicisbeo o cavalier
servente) per informarsi del suo riposo notturno, compie le operazione di toilette, si affida alle invenzioni
del parrucchiere (il «volubile Architetto»), sfoglia distrattamente qualche libro, sceglie gli ultimi accessori e
infine esce trionfalmente dalla dimora per recarsi al pranzo presso la casa dell’amica. Anche le altre parti
della giornata trascorrono allo stesso modo, tra mense voluttuose e chiacchiere vane, estenuati preparativi
per l’uscita, incontri, passeggiate nel corso, giochi e altre occasioni sociali. Nelle slides successive trovate,
come esempio dell’incalzante narrazione del poema, uno schema dei principali ‘avvenimenti’ descritti nel
Mattino. La giornata del giovane signore, e per estensione anche della nobiltà più conservatrice, così
affollata da attività di minimo valore, da interessi futili e vani, da un vociferare continuo, da cerimonie
insensate presentate come veri e propri riti, da una pluralità di oggetti, gioielli, accessori e abbellimenti,
appare come un catalogo vuoto, un tempo immobile e inutile, privo di qualsiasi funzione sociale. Il tono
elevato e antifrastico, i riferimenti ironici alla mitologia e all’epica, la rappresentazione puntuale delle
attività e della morale stravolta della nobiltà, la frequente sottolineatura del contrasto con le restanti parti
della società, che lavorano e vivono realmente ‘nel tempo’, e più in generale il carattere demiurgico della
parola poetica, che fa agire sul palcoscenico del mondo i personaggi permettendo al lettore reale del
poema di immaginarli in modo vivido, costituiscono così una complessiva denuncia dell’estremo
parassitismo nobiliare.
Anche la maschera narrativa del Precettore – l’altro grande protagonista del poema, insieme al Giovin
signore – finisce tuttavia per essere coinvolta in questo complessivo svuotamento. Il Precettore prende la
parola all’inizio e in sostanza non la abbandona più fino alla fine; è sempre presente sulla scena ideale del
poema ma in un ambiguo fuoricampo, si rivolge direttamente all’interlocutore (il giovin signore, la sua
dama, o altri personaggi, che sono i lettori fittizi dell’opera), fonde costantemente racconto e commento,
fornisce ammaestramenti, ma soprattutto descrive quanto il Giovin signore già conosce e mette in atto,
limitando la propra funzione di istitutore all’approvazione e alla conferma di comportamenti già praticati. Il
poema didascalico, incentrato sull’insegnamento, annulla così il proprio statuto nel momento stesso in cui
si dispiega sulla pagina. L’opera, abbiamo detto, si presenta con una struttura stratificata, che da un lato
finge di elogiare, ammaestrare, condividere un ethos, esaltare, ammirare; dall’altro invece denuncia,
attacca, ridicolizza, deforma fino al grottesco, condanna. Si instaura così un gioco con il lettore (il lettore
reale, non il lettore fittizio a cui esplicitamente l’opera è indirizzata) fondato sulla continua necessità di
decifrazione delle ambivalenze espressive del testo. La tenuta stilistica del poema è garantita proprio da
questa continua oscillazione del precettore fra la finta adesione al punto di vista dell’aristocrazia (come un
vero precettore o intellettuale ‘non illuminato’ al servizio del giovin signore) e la feroce critica a quest’ottica
di dominazione del mondo e di controllo delle vite altrui.
Schematizzando, è possibile riconoscere alcuni dei procedimenti principali con cui viene condotto questo
gioco:
 l’antifrasi e l’ironia («di cotesto a ragion detto Bel Mondo»; «stirpe di eroi»);
 l’eufemismo e la perifrasi, che inducono uno straniamento della rappresentazione;
 l’artificiosità della sintassi;
 lo straniamento, spesso generato da un’aggettivazione ingegnosa e polisemica («volubile
 Architetto»);
 l’iperbole e l’enfasi che amplificano il valore delle azioni del Giovin signore creando un
 eloquente contrasto con la loro reale importanza.
Lo stile del Giorno, tuttavia, difficilmente può essere descritto solo attraverso l’individuazione di singoli
procedimenti e artifici stilistici: la bellezza del poema, la sua sublime preziosità espressiva, la sua densa
sostanza ideologica si fondano su un amalgama unico delle singole componenti. Questa raffinata bellezza
poetica è il vero valore che si contrappone agli oggetti preziosi, agli estetismi imposti dalle mode, alla
spensierata, superba e violenta vanitas dei nobili.
Ascoltate ora alcune note sui brani pariniani in programma (ho cercato di leggere lentamente i versi per
permettervi di seguire meglio queste osservazioni sulla vostra edizione); e successivamente concludete la
lezione leggendo le pagine di Giuseppe Nicoletti sui «novi Sofi» e sulla favola del Piacere (le altre pagine,
sull’istituto del cicisbeismo, sono facoltative). VEDI SWAY

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