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Sulle coste della Tripolitania e della Cirenaica si alternano terminal petroliferi e piccoli villaggi di
pescatori, aree militari severamente protette e vivaci centri urbani ma, soprattutto, su quelle
sponde di sabbie e rocce tenere resistono all'erosione del tempo e ai cataclismi, non solo
naturali, vaste e importanti aree archeologiche di straordinario valore storico e artistico.
Sabratha, Leptis Magna, Cirene, Apollonia sono le località più note che già l'Unesco, nel 1982,
dichiarò patrimonio dell'umanità e che con molte difficoltà sono state tutelate fino a oggi dal
Dipartimento delle Antichità con le poche risorse messe a loro disposizione dal colonnello
Gheddafi. È stata una fortuna avere visitato le antiche vestigia romane e greche della Libia poco
prima che esplodesse la guerra civile, il cui esito resta incerto. Gli scontri si svolgono
soprattutto nelle aree costiere libiche, e non si può non includere nei nostri pensieri anche quel
ricco e unico patrimonio monumentale così fragile e vulnerabile rappresentato dalle antiche
vestigia della nostra «quarta sponda».
Da Tripoli a Sabratha
La specificità di questo enorme patrimonio archeologico è la sua collocazione geografica, che
non è isolata bensì integrata alla vita agricola e incrocia i modesti commerci dei centri urbani
sorti nelle loro vicinanze. Piuttosto, la coesistenza con quelle rovine è avvenuta tra
l'indifferenza e l'ignoranza che un po' dovunque hanno compromesso il paesaggio circostante
con un'edilizia povera e autocostruita. Nulla poi di così diverso da ciò che è successo da noi e in
anni non troppo lontani: Agrigento docet, come anche Pompei. La strada trafficatissima da
Tripoli per Sabratha è una fila interminabile di costruzioni basse e arrangiate che, come trincee,
sbarrano lo sguardo verso la campagna e all'interno delle quali si svolge ogni genere di
commercio; quando terminano è facile, compiendo una modesta deviazione, trovarsi davanti
l'ingresso che immette nell'antica città romana, già colonia fenicia, di Sabratha. Il museo
romano, restaurato due anni fa con il contributo dell'Eni dopo un lungo periodo di abbandono,
è una architettura del razionalismo italiano dei primi anni '30, testimonianza dell'impegno degli
archeologi italiani che dal 1920 hanno scavato e ricostruito molto in questo sito. È nel museo
che si conserva il mosaico pavimentale della Basilica giustianea (I sec. d.C.), che Cesare Brandi
definì «la più bella opera d'arte, in via assoluta, che sia superstite in Tripolitania», non capendo
come un simile capolavoro potesse essere stato pensato per un piano terra come non accadde
né a Santa Sofia né a San Vitale. È però il teatro romano (risalente al 119 d.C.) il monumento
che per la sua mole catalizza l'attenzione del visitatore. Italo Balbo volle che fosse ricostruito
con solerzia dagli archeologi Giacomo Giusti e Giacomo Caputo ma quanto fedelmente è
oggetto di qualche dubbio. Il teatro emerge su una distesa di rovine sparse sul terreno con la
sua scena composta da tre ordini di colonne architravate che si infrange sul fondale azzurro del
mare. Un'alta recinzione metallica lo circonda sul retro dell'emiciclo: la sola protezione in
un'area dove i reperti marmorei affiorano sul bagnasciuga, i mosaici si distendono come tappeti
all'interno delle rovine delle terme e delle domus e le colonne, in fila o a gruppi, sono come
inutili sentinelle su un orizzonte che adesso immaginiamo attraversato dall'aviazione della Gran
Jamahiriya diretta a bombardare gli insorti.
Nel riaprire la mappa di Leptis Magna, che ho acquistato con altri modesti documenti nell'unico
polveroso bookshop disponibile sul posto, crescono le preoccupazioni sui rischi che corre il
patrimonio archeologico libico. A Leptis più del sessanta per cento dei reperti sono lì, ancora sul
posto, ma soprattutto impressiona la sua estensione, tanto che sempre Brandi scrisse - quando
la vide per la prima volta - «è una cannonata» anche per chi «viene da Roma, e conosce Ostia e
sa a memoria Pompei».
La città fondata anch'essa dai fenici come Sabratha divenne «magna» dal 193 d. C. con Settimio
Severo, che era nato lì. In soli quindici anni questo imperatore «militare» ne fece il trionfo
dell'arte tardoromana. Collocata a ridosso del centro abitato di Al-Khums e poco distante da un
polo industriale di stoccaggio di gas o petrolio visibile dal suo porto insabbiato - una prova di
quali siano le autentiche ricchezze del paese - Leptis Magna rappresenta un impresa edilizia e
artistica di singolare originalità. La pianificazione urbanistica Severiana ingloba i quartieri punici
in prossimità del porto e amplia la città con un polo monumentale composto da un foro con
basilica, un ninfeo e un'imponente via colonnata, finendo così di arricchire di prestigiosi edifici
la città augustea. Tra questi l'Arco di Settimio Severo è insieme al Teatro il più noto. I suoi
timpani mozzati, i massicci pilastri decorati di bassorilievi che sorreggono la cupola, in sintesi la
sua «bizzarria plastica», ci distraggono dal pensare alla complessa impresa che, alla fine degli
anni '60, ha impegnato gli archeologi Sandro Stucchi e Lidiano Bacchielli nel compito di
riconsegnare l'originaria forma (anastilosi) a quel monumento ridotto in rovina. L'importanza di
Leptis Magna la colse con precisione Ranuccio Bianchi Bandinelli quando intuì che le sue
«costruzioni di ampiezza e lusso architettonico inusitati» avevano origine in modelli importati
dalla Grecia, dalla Siria e da Afrodisia e lavorati sulla costa libica da maestranze locali. La serie di
invenzioni plastiche e figurative che sono riscontrabili ad esempio nelle paraste della Basilica
Severiana, pur legate alla tradizione ellenistica, grazie alla loro sensibilità e eleganza figurano al
tempo stesso come il superamento e l'anticipazione dell'arte bizantina. C'è da augurarsi
davvero che ci sia consentito ancora continuare a studiare Leptis Magna, perché rappresenta
un laboratorio unico al mondo per l'arte e l'architettura tardoantica.
Unica è anche Cirene, denominata l'Atene d'Africa, posta su un vasto altopiano davanti al mare,
con ai lati e ai fianchi il deserto che la separa dal continente africano e che l'ha sempre resa, fin
dalla sua fondazione nel 631 a.C. da parte di coloni terei, sponda insulare della Grecia. Lo studio
scientifico della complessa mappa di Cirene da parte degli archeologi italiani risale alla prima
decade del secolo scorso, anche se è dal Settecento che se ne conoscono le rovine. Salire
sull'Acropoli da nord con alle spalle il mare e Apollonia comporta la meraviglia di attraversare
una vasta distesa terrazzata di tombe rupestri (VI sec. d.C.) con prospetti architettonici che
sono solo l'anteprima di uno spettacolo eccezionale, che si gode tra i resti del Santuario di
Apollo, chiuso sul lato occidentale dal Teatro Greco e su quello orientale dalle Terme, avendo
alle spalle la Grotta Oracolare. Da subito il viaggiatore ha chiaro il fatto di trovarsi al centro di
una stratificazione progressiva e densa non solo di blocchi di pietre, ma di miti e leggende che
trasudano dalla quantità di altari, reciti, sacelli eretti ovunque dentro e fuori una quantità di
templi e santuari per una moltitudine di divinità accolte tutte tra l'Acropoli e l'Agorà, così come
i primi greci fondatori di Cirene seppero convivere con le tribù libye.