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Tutti sbagliano.

Tutti commettono errori.


Spesso la gente non sa di aver sbagliato finché non è troppo tardi. Altre volte si commettono
sbagli in buona fede, con la speranza che le loro azioni possano migliorare quella di altri.
E poi c'erano quelle persone che con i propri errori costruivano la propria esistenza, giustificando
ogni singola azione, ogni scelta, con la dura vita che avevano vissuto. La madre di Raja era una
di quelle. Una ragazza del ceto medio-basso della città, nata da persone che avevano costruito
tutto partendo dal sudore delle loro schiena, una moneta di rame alla volta. Non era la vita dei
sogni, ma il cibo in tavola non mancava, avevano una casa modesta e modesti averi, ma non le
avevano mai fatto mancare niente, che si trattasse di cose materiali che del loro affetto... ma
questo a lei non bastava e li incolpava di ogni cosa. Del suo non essere istruita, del suo non
avere spasimanti facoltosi. Del non avere prospettive eccitanti, una dote cospicua, dei servitori.
La vita che voleva lei non era quella della piccola commerciante. Al negozio di famiglia, quelle
poche volte che i suoi riuscivano a trascinarcela, anziché imparare il mestiere preferiva guardare
le signore adornate di seta e gioielli e immaginarsi al loro posto.
Perchè non mi avete fatto nascere ricca? Perchè non mi avete fatto nascere bella? Perchè mi
avete costretto a rubare per riuscire ad avere anche solo un briciolo di quella vita sfavillante che
tanto bramo? E non era mai, MAI colpa sua, era solo la povera vittima in un racconto scritto
apposta per lei; probabilmente era questo ciò che più di una volta si ripeteva continuando a far
sentire in colpa i suoi genitori.
Con un atteggiamento simile ovviamente si ritrovò più di una volta a fare i conti con le guardie
cittadine e fu proprio una di quelle volte che incontrò Lui.
Un giovane da poco passato di grado: armatura sfavillante, viso curato che ricordava quello di un
principe nei libri di favole. Se ne invaghì al primo sguardo, divenne la sua ossessione. Si disse
che non era per amore ma solo perchè potesse sentirsi parte di quella società che mai avrebbe
accettato una come lei... ma più lo pedinava cercando di scoprire più cose sul suo conto, più lo
osservava e più in lei si accendeva la fiamma del desiderio. Alla fine riuscì ad ottenere quello che
voleva. Forse era solo un modo per togliersela di tornò, o forse tutta quella insistenza aveva
lusingato la giovane guardia che in fin dei conti era pur sempre un uomo nel pieno delle proprie
forze.
Iniziarono a frequentarsi la sera, dopo la fine dei turni di ronda. Passeggiavano, parlavano e più
di una volta si ritrovarono a consumare la loro passione giovanile in qualche luogo isolato mentre
lui la riempiva di sogni e promesse che sarebbero rimaste lì, tra i vicoli della città. Si toccarono, le
mani che cercavano di disfare gli innumerevoli nodi del vestito. Storditi dal vino... eccitati. Durò
molto meno di quello che si aspettasse, ma annebbiata dal sentimento avrebbe riflettuto solo anni
dopo sul ricordo che le era rimasto. Ricordarsi di una sensazione dolorosa e deludente tra i fumi
dell’alcool.
Tornare a casa e risvegliarsi con la nausea da dopo sbronza. Riprendere la propria vita per
scoprire solo un mese dopo, e nel modo più sciocco che esista - dopo essersi sentita male
durante una gita in campagna - di essere rimasta incinta. Bella sorpresa, vero? Al posto di un
anello per una richiesta di matrimonio aveva ricevuto una neonata urlante. Deve esser stata dura
tenerlo nascosto ai suoi genitori e ancor di più darla alla luce in quel vicolo dietro la bottega del
macellaio; però gettarla tra i rifiuti, quello si che era stato semplice. L'odore non era dei migliori
ma gli scarti e i rifiuti la tenevano al caldo. Arrivò quasi a volerla tenere con sé, ma che stupido
istinto materno: come avrebbe spiegato ai suoi di aver appena evacuato quel piccolo cancro
ambulante? Cosa avrebbero pensato i vicini e i vicini dei vicini quando avrebbe tentato di
spiegare che il padre aveva preferito fuggire in qualche missione oltremare piuttosto che restare
con lei. E pensare che per lui era pure riuscita a farsi assumere nella casa di un nobile che
trattava il commercio di schiavi destinati alle fosse. La paga non era alta e quasi tutta spesso se
ne andava per compensare il suo bisogno di una sbronza, però riusciva ad arrotondare
derubando nella villa dello schiavista e rivendendo ciò che trovava. Sperava che così avrebbe
potuto mettere abbastanza monete da parte per comprare una casa e poterci andare a vivere con
il suo amato e il figlio che sarebbe nato... invece lui era fuggito e lei si era ritrovata un'altra bocca
da sfamare tra capo e collo.
Tante crepe che si erano accumulate troppo in fretta. Il parto, la rabbia, il desiderio di fuggire...
Furono la sua rovina... o la sua libertà. Un giorno il padrone della villa la colse in flagrante mentre
tentava di rubare un medaglione dalla stanza da letto dello schiavista, furono le grida della
piccola a richiamarlo, altro motivo per il quale non le risultò tanto difficile prendere la decisione.
Le colpe dei genitori ricadono sempre sui figli, e Raja ebbe da sua madre solo quelle e il suo
nome. Non avrebbe mai saputo perché proprio lei avrebbe dovuto scontarli, solo che era lì e così
era stato deciso. Un cucciolo ribelle lasciato ai padroni della fossa. Comunque: erano stati veloci.
Appena mezz’ora di contrattazione e le sbarre delle fosse si chiusero, e quella fu la prima e unica
volta che la bambina assaggiò l’aria fuori dalla sua gabbia. Una volta varcato il cancello le poche
levatrici la visitarono, trovandola sotto peso, classificata con il marchio e dato alla madre il proprio
compenso. Anni dopo rifletterà sul fatto che è stato un ottimo affare: si è comprata delle
splendide perle, con quelle monete. Sua madre l'aveva venduta ai padroni per saldare il debito,
per poi andare via, lontano. Leggera. Immacolata. Rimase solo per un anno per darle il latte,
troppo poco affinchè la piccola avesse potuto anche solo ricordare il suo viso.
Crescendo fece la conoscenza con altri come lei. Bambini soli, senza famiglia. Divenuti orfani in
incidenti e comprati per poche monete o lasciati davanti al portone ancora in fasce in un cesto di
vimini. Molti si isolavano, parlavano a malapena. Quelli erano i più simpatici. E poi c'erano i
ragazzi violenti, arrabbiati con i genitori, con il mondo, con Dio... e se la prendevano con
chiunque. Ovviamente chi poteva finire nel mirino? Esatto... lei. E i pochi adulti non erano d'aiuto.
Perché ti sei fatta picchiare? Se sei così stupida la colpa è solo tua... Le fasciavano il polso, le
pulivano il sangue o davano qualche radice da masticare per il dolore e poi la rispedivano con gli
altri. Non era la più grande o la più forte e spesso non poteva fare altro che subire. I bambini
possono essere davvero crudeli sapete? Sanno dove colpire e non solo con i calci. Ognuno
sapeva la storia dell'altro e loro usavano la sua per infierire.
Inventarono perfino un orribile canzoncina. La sente ancora nelle orecchie, quando ogni tanto si
riprende dalla nebbia confusa che sono i suoi ricordi:

Questa è la storia di Raja senza amore.


Sta sveglia di notte, piange a tutte le ore.
La notte, la notte d'orrore
c'è qualcuno che ama e qualcun che muore,
gettata ti ha come bambola rotta
sta urlando la bambina, ma a chi importa?
disperati pianti, vite senza calore,
che giorno dopo giorno spaccano il tuo cuore...
di piccoli,grandi errori, di lacrime da asciugare,
tutti han tolto a tutti il diritto di sbagliare
non c'è più speranza oltre il velo del futuro,
davanti trovi sempre un altro grande muro
e inutile è imprecare contro Dio o contro il mondo,
ormai devi accettare di aver toccato il fondo.
Questa è la storia di Raja senza amore
sta sveglia e si dispera nelle notti d'orrore

Quella era la cosa peggiore, non le violenze fisiche. Lentamente in lei iniziò ad instillarsi un tarlo
nel cervello... quella vocina che ogni tanto le diceva che nessuno l'avrebbe mai amata. Che sola
era venuta la mondo, sola avrebbe vissuto e sola sarebbe morta.
La bambina rimase tra gli schiavi finché non fu in grado di reggersi in piedi e come tutti i figli
senza madre che finivano in quel posto la costrinsero a impugnare la spada prima ancora che
sapesse scandirne le lettere.
Ognuno di loro cresceva sotto la tutela di un veterano delle fosse, una figura a cui nessuno
poteva affezionarsi visto che in quell'ambiente gli affetti morivano spesso in combattimento.
Il primo dei suoi istruttori si chiamava Nu'ral, ed era un dragonide dalle scaglie pallide e
l'atteggiamento severo, ruvido quanto la sua pelle. Di lui non ricorda molto del tempo passato
insieme, ma ricorda la sua morte. Colpito alla schiena come il più vigliacco tra i ratti da una
bipenne. E ricorda le parole che le ripeteva sempre. "Non fidarti mai di nessuno nell'arena. Volti
le spalle un secondo e sei morto".... Tsk. Ironico, vero?
Quello che prese il suo posto era un vecchio nano delle montagne chiamato Gunogrim, ed anche
di lui aveva ben pochi ricordi. Solo il nome, qualche parola sul tenere le proprie armi ben affilate e
pronte a tagliuzzare e la sua testa; la sua testa era deformata come una conca a causa di tutti i
colpi che gli avevano inferto nella sua carriera. Quello che venne dopo ancora era stato... un
umano? No quello era quello dopo ancora. Un elfo forse? Non ricorda bene comunque da
ognuno apprese una lezione che fece propria, erano quelle le uniche cose importanti dopotutto,
gli insegnamenti necessari a farla restare viva. I metodi iniziali di addestramento erano più simili a
dei Giochi (gli unici che poté chiamare tali durante la sua infanzia). Una specie di palla
avvelenata, dove la palla in realtà era un pugnale, e lo scopo principale era quello di riuscire a
ferire più ragazzi possibile prima di essere ferita a sua volta.
Una versione modificata di ruba bandiera in cui li facevano correre più e più volte inseguendo un
un topo morto (che era il premio oltretutto) legato ad una serie di carrucole e così via.
In sostanza crebbe senza alcuna figura di riferimento. Nessuna madre, nessun padre, solo i
morsi della frusta in risposta alla sua natura selvaggia e ribelle.
Non era poi tanto diverso dal guardare un branco di animali in gabbia. I più forti facevano gruppo
mentre i più deboli restavano in disparte sperando di non finire divorati. Era una lotta continua
che non aveva fine con il termine degli addestramenti... ed anche in un clima del genere riuscì a
trovare un fratello. Si chiamava Arn e la prima volta che lo vide era un bambino, pelle e ossa
poco più alto di lei. Ciuffi di capelli sparati in ogni direzione e due occhi marroni a palla. Cercava
di difenderla e inevitabilmente finiva steso a terra con più lividi che brufoli. E sorrideva. Anche con
il naso che sanguinava, i denti scheggiati e la faccia gonfia. Lui sorrideva, sorrideva a lei.
Cercava di farla sentire bene.
Che. Idiota.
Non era un grande parlatore. La sua lingua si impicciava facilmente. Ma sapeva come agire. Non
sapeva consolare con le parole e così lo faceva coi gesti. Lui capiva quando Raja aveva bisogno
di un abbraccio o di una risata. Per la prima volta seppe cosa volesse dire sentirsi amata da
qualcuno.
Ed era stato bello.
La scuola era immensa, ma la maggior parte resa inagibile per via dei crolli. Era lì che crearono
una sorta di rifugio solo per loro. I controlli erano pochi, i bambini molti e non c'era abbastanza
personale per tenerli tutti d'occhio, non era difficile sgattaiolare via che fosse giorno o sera.
Restavano insieme per ore ad allenarsi con ramoscelli o pezzi di legno, fingendo si trattassero di
spade. Avevano tappezzato i muri di disegni e scarabocchi. In una cassa raccoglievano di tutto,
quello che chiamavano il loro tesoro: Una moneta spezzata a metà, una strana piuma, perfino il
teschio sbiancato dal sole di qualche ratto. Una volta in mezzo alle macerie trovarono qualcosa di
forma triangolare. Era arrugginito e consumato, sapevano si trattasse solo di un pezzo di metallo
qualsiasi, ma loro fingevano si trattasse di una punta di freccia e si inventavano delle storie.
Alcune volte si intrufolavano nelle cucine e rubavano frutta o altre cose da mangiare per poi
tornare a nascondersi, lì nel loro angolo.
C' è un altra parte della storia, anche se preferirebbe non fosse mai esistita... gli anni
avanzarono, alcuni visi cambiavano, altri erano rimasti lì e forse non se ne sarebbero mai andati.
Fu quando il suo corpo prese a cambiare, quando perse sangue per la prima volta.
Le prime curve del seno, gli accenni di una femminilità che non voleva. Fu allora che intorno a lei
gli sguardi cambiarono... perfino Arn la guardava diversamente. E quelle persone che prima
l'avevano ignorata o denigrata per il suo essere gracile e per le macchie sulla sua pelle, ora
sembravano più interessati a lei... altra cosa che non avrebbe voluto. Lei cercava di ignorarli
concentrandosi sull'addestramento. Ma più i giorni passavano e più notava determinati
atteggiamenti e un giorno decise di parlarne apertamente con il suo amico. Si ritrovarono nel loro
posto segreto ma... i bulli della fossa, i ragazzini più forti li seguirono e li raggiunsero.
Irruppero nel loro santuario e per primo presero Arn. Lo picchiarono, gli spinsero il viso contro il
muro e continuarono anche quando sembrò perdere i sensi. Poi venne il suo turno. La presero
per i capelli. Ricorda di aver urlato e lottato, ma nessuno venne a salvarla e quelle dita attorno i
suoi polsi erano cosi strette, così forti... Arn riaprì gli occhi solo quando ormai era tutto finito.
Continuarono per ore. Uno alla volta... fecero tingere di rosso la sua verginità. Li lasciarono lì a
sanguinare entrambi.
Lui accorse da lei trascinandosi; la prese tra le braccia. Dobbiamo dirlo ai Maestri, disse, ma Raja
scosse la testa facendo giurare al ragazzo di non raccontare niente.
Sbagliata. Sporca. Faticò a restare seduta per due giorni e svenne durante uno degli allenamenti.
E poi quelle visite... I dottori dicevano che c'era qualcosa dentro di lei, dicevano che l'avrebbero
tirata fuori... dettero la colpa ad Arn per quello che era successo.
Solo allora tentò di spiegare la verità, ma nessuno volle darle retta. Nessuno da mai retta ai
bambini... Sapevano che Raja e Arn erano amici, sapevano che erano inseparabili e questo
bastò ad assegnargli il ruolo di colpevole. Non seppe cosa gli fecero, lo portarono via... lei venne
segregata in infermeria per un paio di settimane per riprendersi dall'operazione e in tutto quel
tempo lui non venne a trovarla neppure una volta. Anche quando fu in grado di reggersi in piedi di
Arn neanche l'ombra. Nessuno voleva dirle nulla. Una parte di lei sperava che in quell'arco di
tempo qualcuno fosse venuto e l'avesse adottato come guardia del corpo o qualcosa del genere,
sarebbe stata la cosa meno dolorosa. Non avrebbe rivisto il suo amico ma almeno lui avrebbe
avuto una vita fuori da quelle mura fatiscenti.
Perché era quello il bene massimo, no? La felicità le raccontavano sempre che era fuori dalle
gabbie.
Passò un anno, poi due... di lui più nessuna traccia e la convinzione dell'adozione divenne una
certezza: lei smise di aspettarlo. Le cose non erano migliorate nella fossa, i bulli non la
smettevano di infastidirla ed ogni tanto riconosceva quei tentativi di voler ripetere ciò che
accadde quel giorno, ma in un modo o nell'altro riusciva sempre a farla franca, scappando,
rifugiandosi nei condotti o cercando di star più vicino possibile ai maestri. Non potevano toccarla,
non sotto lo sguardo dei superiori… di notte, Raja usciva sulla cella e raggiungeva il punto più
alto delle fosse, attraverso una stretta conduttura in cui solo una donna era abbastanza piccola
da arrampicarsi. Restava lì, sotto le sbarre che lasciavano intravedere il cielo, e si allenava.
Perché nessuno sarebbe mai stato abbastanza forte da toccarla, mai più!
Ma un giorno riuscirono a prenderla.
Aveva quattordici anni. La intercettarono di notte, nei bagni. Si sentì nuovamente impotente,
come argilla nelle loro mani. Il capo del gruppo si sciolse i lacci dei pantaloni e la costrinsero a
dargli piacere.
Ancora sente quel sapore nella sua bocca quando chiude gli occhi. Umori caldi che le
scendevano in gola. Tossì e sputò. Gli altri scoppiarono a ridere... ma non era abbastanza, gli
altri volevano di più...
Si divincolò e corse via. Sul momento non riusciva a ragionare lucidamente. Non pensò a
chiamare qualche responsabile o gli altri ragazzi. Sarebbe stato tutto inutile: ai primi non
importava e i secondi avevano troppa paura per intromettersi. Così corse nella zona
abbandonata della struttura, l'unico luogo in cui si sentiva al sicuro. “Posso nascondermi lì”,
pensò e non le venne in mente che anche loro conoscevano il suo luogo segreto. Erano di nuovo
lì dove tutto era iniziato anni prima, solo che questa volta si accertarono di essere armati. Non
volevano spaventarla, non si sarebbero limitati a farle male stavolta. Qualcuno da qualche parte
avrebbe ascoltato i suoi deliri e le sue accuse se avesse continuato a vivere e non volevano
correre rischi. La prima volta gli era andata bene, perché gli adulti non credono alle storielle dei
bambini... ma questa... Dovevano chiuderle la bocca. Aste di ferro, mattoni, pezzi di vetro o
metallo, la scelta era molta. La raggiunsero ma... qualcosa non andò secondo i loro piani. Uno di
loro la colpì alle gambe con una spranga. Un colpo del genere avrebbe dovuto fracassarle la
tibia, ma non successe nulla. Cadde a terra dal salto che aveva inconsciamente fatto, la gamba
era integra... al contrario del viso di uno dei ragazzi, un occhio esploso da un calcio
completamente istintivo. Urlò, gettandosi a terra per il dolore. Gli tirarono su il viso e notarono
subito il sangue e il gonfiore. Parte dell'osso fuoriusciva dalla carne facendola sanguinare. Si
guardarono tutti, increduli. Non sapevano cosa stesse accadendo. Uno di loro pensò perfino ad
un demone. Ma ciò non li fermò. Un secondo le salì sopra e le strinse le mani intorno alla gola,
Raja mollò tutti i pugni che poteva sul quel faccione, ma stavolta l’aggressore era troppo più
grosso e pesante di lei. Allora le sue mani tastarono in cerca di qualcosa, qualunque cosa, finché
non estrassero il rozzo pugnale che il ragazzo portava alla cinghia, e lo usarono per far schizzare
un fiotto rosso dal suo fianco. Si tastò la ferita, ma finì solamente con il distrarsi e non vedere il
secondo affondo, diretto al suo stomaco.
Morto.
Raja non respirava.
Morto.
Aveva le mani sporche di sangue.
Morto.
Non si era mai sentita meglio.
Si spaventarono, tentarono di aiutare il loro amico che lentamente sbiancò, morendo
dissanguato. E lei comprese... che avrebbe potuto reagire. Che non era più lei quella debole. Li
vide scappare, ma era tutto inutile. In una presa di coscienza roteò la lama nella sua mano,
afferrandone la punta, e la lanciò. Il più lento di loro cadde, tenendosi la gamba sanguinante.
Raja salì sopra di lui. Gli tagliò i tendini delle gambe in modo da non farlo fuggire, quelli dei polsi
per impedirgli ogni tentativo di reazione. Affondò più volte nella carne desiderando le sue urla.
Voleva farlo sentire impotente, inerme e consapevole che per quanto avesse tentato, nessuno
sarebbe venuto a salvarlo. Perché nelle fosse morirai, è inevitabile, e a nessuno importerà mai un
cazzo.
Si sentiva bene. Si sentiva BENE.
E invece sapete cosa? Cadde in ginocchio. E pianse.
"Non sono meglio di loro."
Giorni dopo faceva il bagno, piangendo con le gambe strette al petto. Tutta l' acqua del mondo
non sarebbe servita a farla sentire meno sporca. Trovarono i due corpi. Ci fu una breve indagine
che si concluse pensando alle vittime come anche i carnefici di loro stessi. Non c' erano prove su
di lei e alla fine a nessuno importava davvero, non era raro che in quell’ ambiente si finisse ad
ammazzarsi a vicenda. Aveva provveduto a sbarazzarsi del pugnale, in ogni caso. Tutta la
faccenda venne archiviata in fretta e tutto tornò come prima.
Quel giorno, l’istruttore le disse che era diversa. Sembrava più forte, più alta.
E poi venne quella sera. Venne svegliata all'improvviso, qualcuno che le teneva una mano sulla
bocca per non farla urlare. Era Arn. Non c'era tempo per spiegare, le disse di seguirlo. Le disse
che l'avevano isolato dopo quel fatto di anni prima, mettendolo a combattere in un’altra ala delle
fosse. Le disse che non gli permettevano di uscire dal reparto dove era stato confinato e che solo
adesso, con il putiferio dei corpi ritrovati, era riuscito a crearsi una via di fuga. Voleva scappare
dalla struttura, ma non voleva abbandonarla lì. Riuscirono ad uscire scalando la finestra. Usarono
i rampicanti come scala. Oltrepassarono il recinto e si diressero a sud.
L’uscita era lì. Arn fece tintinnare una chiave. Aprì il cancello.
“Seguimi.”
Ma Raja non lo fece.
Si fermò.
Cosa la aspettava là fuori? Cosa, se non una madre che l’aveva abbandonata? Dei ricchi
spettatori che venivano nelle fosse a vedere gli uomini morire?
Erano gli unici esempi che aveva del mondo esterno. Ed entrambi la disgustavano.
No, il suo mondo era lì. Un mondo brutale e doloroso, ma che almeno conosceva. Non se ne
sarebbe andata.
Non ora che era più alta e più forte, e aveva scoperto quanto le piaceva uccidere chi le faceva del
male. Baciò Arn e gli disse grazie, e non lo rivide mai più.
La sua vita trascorse così. A volte si ritrova a rimpiangere quella scelta, ma è solo un ricordo
lontano.
Con l'avanzare dell'addestramento riuscì a imparare la disciplina. Smise di ribellarsi, capendo che
era molto meglio arrendersi ai desideri dei signori: in quei momenti la sua mente viaggiava
lontano, in un posto tranquillo e silenzioso. Aveva interiorizzato la schiavitù. La frusta aveva vinto.
Ma qualcosa ancora bruciava, e non erano le ferite. Nella lotta contro bestie e disperati, sotto il
sole cocente e le urla del pubblico, era riuscita a conoscere la gioia che deriva nel sentirsi forti.
L'addestramento continuò e iniziò a diventare anche piuttosto brava, tanto che lo schiavista
decise infine di concedere a lei e ad altri il privilegio di misurarsi nella vera arena. Non divenne
mai il campione della scuola ma riuscì a portare con sè una buona dose di vittorie. E ad ogni
avversario forte sconfitto sentiva di poter fare tutto. Molte reclute cambiarono ed altre restarono.
Durante gli anni molti di quelli che le avevano fatto del male anni prima perirono, l'arena si era
presa le loro vite, finchè non ne rimase solo uno. Ogni tanto, quando è malinconica, ripensa a lui.
A l'unico avversario degno nell'arena, così abile da averle tolto un braccio. A lui che le ricordava
dei suoi momenti quando era debole ma che comunque la attirava per la sua forza. Le aveva
portato via molto: era il minimo che la ripagasse dando sfogo ai suoi calori sotto le lenzuola. Un
giovane mezz'orco, carne da fossa come lei. Un avversario divertente, prima nell'arena e poi di
nascosto nella sua cella, dove doveva coprirsi la bocca per evitare che i suoi gemiti
raggiungessero le guardie. Fu mentre lui la possedeva che lei capì cosa voleva dagli altri, e fu
l'unica volta che accettò con piacere di stare sotto: nessun altro avrebbe avuto quel privilegio da
lei, mai più.
Riuscì quasi a illudersi che sarebbe durata.
Ma ovviamente non fu così: lui venne venduto e a Raja non rimase che il ricordo eccitante di quei
giorni e la rabbia per non essere riuscita a ucciderlo in combattimento. Gli amanti e gli amici
vanno e vengono, e la sua vita si sarebbe dimostrata avara di entrambi.
E quindi perché preoccuparsene? La sua vita era nelle fosse, la sua vita andava avanti. Ogni
giorno uno scontro, un nuovo segno e cicatrice. Raja è rimasta confinata in quell'arena, che
ormai è tutto il suo mondo, senza sapere cosa ci sia fuori. Senza nemmeno chiederselo, perché
incapace di pensare a cose simili.
Ci sono solo lei e il suo corpo, e il suo avversario. Il dolore del combattimento e il piacere. I suoi
muscoli che crescono con gli allenamenti e la sua abilità che infiamma il pubblico. Le bestie
dell'arena sono una compagnia migliore degli uomini. Raja passa molte sere vicino le loro gabbie,
in silenzio, scambiando pezzi di cibo con una vecchia tigre, sua unica vera amica. Gli animali non
vogliono niente da lei e questo è bene, questo li rende più sopportabili delle persone. Ogni tanto
qualche ricco spettatore la guarda, la chiama, si illude di poterla far sua. Ma sono sempre loro
quelli che si trovano distesi, impotenti mentre lei li sottomette con ferocia. È così che la sua
esistenza va avanti, giorno dopo giorno, finché non avrà fine per mano di qualcuno più forte, più
abile, più feroce.

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