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1. Temperamenti filosofici: il pessimismo cognitivo di Platone e l’ottimismo cognitivo di Aristotele.

Le due tesi non possono essere entrambe vere, non possiamo essere contemporaneamente ottimisti e
pessimisti del pensiero (dal punto di vista logico sono due tesi contrarie), ma possono essere entrambe
false, queta è una proprietà delle tesi contrarie. La tesi di Volpi in realtà non è la contrapposizione fra
ottimismo e pessimismo cognitivo, la tesi di Franco Volpi è la contrapposizione fra immanente e
trascendente.
L’incipit della metafisica di Aristotele dice: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere».
Aristotele è l’immanenza: ciò che esiste è la realtà, corpi e persone del mondo sensibile. La tesi
ontologica dell’immanenza è la tesi per cui, per esempio, se non esistessero i singoli uomini, allora
non esisterebbe l’universale uomo o il predicato uomo, come lo chiama Aristotele. Ugualmente, se
non esistessero i singoli uomini giusti non ci sarebbe la giustizia.
La nostra natura è tale che tendiamo al sapere, che è sempre conoscenza della verità. L’essere
umano, l’unico essere vivente dotato di logos, aspira al sapere disinteressato o teoretico (ottimismo
metafisico): un segno di ciò è il godimento che trae dalle sensazioni, la prima e basilare forma di
conoscenza. Ecco che qui si intersecano le due tesi. La tensione al saper non può essere vana: non è
possibile che il sapere sia perseguito solo da pochi uomini e con grand difficoltà, deve essere alla
portata di tutti (ottimismo cognitivo). Aristotele diventa così un difensore del senso comune. Quello
che oggi noi chiamiamo «senso comune», per Aristotele sono le credenze endossali. Il termine greco è
énodoxa, éndoxon al singolare: le cose ritenute vere o da tutti, o dalle maggioranze degli esseri umani (i
più sapienti) o dai sapienti, (i più sapienti tra i sapienti).
Per Platone vale la tesi contraria: «nessun essere umano per natura tende al sapere», il suo è un
pessimismo cognitivo. Il suo argomento a sostegno è proprio l’immagine allegorica della caverna. I
prigionieri sono simili a noi, confondono le ombre con la realtà e non sono nella condizione di stabilire
che sono ombre. Nessuno di loro è in grado di aspirare al sapere per natura, perché per tutti loro il
teatro di ombre è la realtà. Occorre qualcosa che spezzi le catene e li costringa ad alzarsi , a voltare
la schiena alle ombre e ad osservare le cose stesse. Questo «qualcosa» che serve a spezzare le catene è
un’emozione cognitiva, la meraviglia, lo stupore di ritenersi ignoranti, di pensare che la realtà sia
qualcosa di diverso. Ha bisogno di provare meraviglia davanti allo spettacolo del mondo reale, delle cose
stesse. Finché l’uomo è incatenato, non ha idea che si possa provare questo tipo di stupore, non ha idea
che esista un mondo diverso da questo. Di conseguenza, non può neanche aspirare a conoscerlo.
Per Platone «è la trascendenza»: ciò che esiste, la realtà, non sono i singoli individui. Il mondo
sensibile è la copia imperfetta di un mondo trascendente. Cò che esiste davvero, ciò che ha il grado
più alto di realtà, sono gli enti che popolano quel mondo, le forme e le idee, delle quali le forme
sensibili partecipano. Le idee sono eterne (non nascono né periscono), sono immutabili (non soggette
al divenire) e sono assolute o perfette (non difettano di nulla). Platone ritiene che le idee siano causa
delle cose sensibile. Se gli chiedessimo perché Elena è bella, Platone risponderebbe: «perché partecipa
dell’idea del bello». Quale è la differenza fra la bellezza di ellena e il bello in sé, o l’idea di bello? La
bellezza di ellena è imperfetta: è bella oggi ma non lo sarà per sempre, ad esempio invecchierà. Se la vera
realtà sono le idee, e le idee sono separate dal mondo sensibile nel quale l’essere umano nasce e vive,
allora significa che le idee non sono alla nostra portata, cioè non lo sono in modo naturale.
La tesi del pessimismo cognitivo di Platone sembra essere radicata nella sua metafisica. Per Aristotele
noi siamo insieme anima e corpo, tra loro inestricabili, e la nostra identità risiede nel sinolo, siamo
insieme anima e corpo. Per Platone, invece, noi siamo la nostra anima. Quando l’anima si incarna in un
corpo inizia la nostra vita di esseri umani, con tutte le conseguenze che essa comporta. La conseguenza
principale è che l’anima perde la capacità di vedere distintamente. Secondo Platone, non abbiano
accesso alla vera realtà: nasciamo in un mondo di copie, di ombre, che riteniamo le cose stesse . Il
mondo sensibile è una copia del mondo intellegibile: non sappiamo dell’esistenza del vero mondo
intelleggibile ma crediamo che il modo sensibile sia la vera realtà. Crediamo dunque che il mondo in
cui siamo non solo sia falso, ma anche ingannevole e illusorio. Il senso comune, allora, non può
contenere un nucleo di verità, perché gli esseri umani non hanno spontaneamente accesso alla verità.

3. Quesito obbligatorio:
3.1 Regola di citazione di Platone.
8.3.2 Platone Platone si cita seguendo la paginatura Stephanus, cioè quella dell’edizione in tre volumi
di tutte le opere di Platone pubblicata a Ginevra nel 1578 da Henri II Estienne (Henricus
Stephanus) e che compare in tutte le traduzioni moderne. Si deve indicare pertanto la pagina
dell’edizione Stephanus, seguita immediatamente dalla lettera (maiuscola o minuscola) della sezione
e dal numero del rigo: per es., volendo citare l’inizio del Teeteto, si scriverà: Platone, Teeteto, 142a1 o
142A1 (o in forma abbreviata: Pl. Tht. 142a1). Per ogni pagina Stephanus vi sono cinque sezioni dalla
a alla e di circa 10 righi di testo greco ciascuna, e quindi una pagina Stephanus contiene 50 righi
circa di testo greco. Le opere divise in libri (Repubblica e Leggi) vanno citate premettendo sempre
alla pagina Stephanus l’indicazione del libro in numero romano, per es. Platone, Repubblica, I 327a1-
4 (o in forma abbreviata: Pl. R. I 327a1-4; Pl. Lg. II 652a-c).
3.2 Logos, mythos, eikón: i tre stili della prosa platonica e il «parlare per immagini» come stile proprio di
socrate
 Stile argomentativo, il logos, che a sua volta può essere
o 1) dialettico socrate (brachilogia, una forma di scrittura breve, domanda e risposta breve)
Lo stile argomentativo dialettico è l’eredità socratica, l’eredità del logos di Socrate, di quello che
abbiamo sentito nominare come il famigerato èlencos, termine normalmente tradotto con «confutazione».
Questo non è però il suo significato focale: il dialogo socratico si suddivide in due specie, uno è
l’élencos inteso come confutazione e l’altro la famosa maieutica.
’èlenkos è anzitutto «un sistema di controllo e di verifica»: il dialogo socratico è un sistema di verifica
delle credenze dell’interlocutore e delle proprie credenze
agire nel mondo sulla base delle proprie credenze
2 posizioni subalterne, importante per scopo dialogo (non storico ma essenza dialogo filosofico)
o 2) retorico (macrologia, una forma di scrittura lunga, parlare attraverso lunghi discorsi attraverso una
voce dominante, attraverso monologhi) non socrate ma (Menesseo o encomi di eros nel simposio), se
socrate diventa mythos.
è uno stile in cui ciò che conta sono «le nude parole», cioè parole prive di ornamenti retorici o
musicali, parole che mirano a dire la verità, l’ordine delle parole è dettato solo dallo scopo del
discorso

 Stile narrativo, il mythos, un parlare per miti o narrazioni (favole)


 Stile iconico, o immaginativo, l’eikòn, un parlare per immagini e analogie.
Il dialogo platonico nasce dalla loro alternanza o contaminazione.
Fedro confusi biga alata (immagine analogica)… però prima immagine poi mito
REP 6 Gli interlocutori non riescono a proseguire con il logos, la condizione di aporia è una
condizione di stallo. In questo caso, Socrate dice: «mi poni una domanda alla quale sembra possibile
rispondere solo ricorrendo a una immagine». La dialettica a questo punto può proseguire solo nello
stile iconico,
3.3 l’immagine della caverna non è un mito
Prima interpretazione quadro:

 Il mito, per questi due autori, è un racconto simbolico dal significato implicito, che trascende e
prolunga il testo, cioè che affida al lettore il compito di scorporarne il senso. I miti non sono
dunque autoconclusivi. (DINAMICO)
 L’allegoria, al contrario è un «quadro immobile», semplice e schematico, in cui tutto è già
dato in partenza. Nel caso della caverna, la funzione sarebbe quella di raffigurare il
pellegrinaggio della conoscenza
Innanzitutto (1), nel senso che non è un mito tradizionale, non riguarda le vicende di dei ed eroi o
l’immagine del mondo, o il destrino dell’anima, ma riguarda un particolare della natura umana
(«educazione» e «mancanza di educazione»)
(2) non lo è nemmeno dal punto di vista della forma, perché non racconta alcuna storia, cioè non si
tratta di una narrazione. Questo non significa però – come hanno suggerito Frutiger e Carrive – che
la si debba considerare come «un quadro immobile» Monique Dixaut, un’altra studiosa francese, ne
ha colto e sottolineato il carattere dinamico
3.4 L’immagine statica: descrivi l’arredo ontologico
Questa è la prima parte dell’immagine, l’arredo ontologico della caverna. Il passo ci elenca infatti
tutti i tipi di enti che ne fanno parte e le relazioni fra essi, è la cosiddetta «immagine statica ». La
caverna, infatti, non è un mito ma è un’immagine. Proviamo a descrivere insieme l’immagine
elencandone gli elementi:

 Gli esseri umani (la prima cosa evocata, anche nel greco) che sono lì fin da bambini
 Una dimora sotterranea cavernosa
 L’entrata della caverna, da cui entra luce del sole, larga quanto tutta la caverna
 Un fuoco, posto in alto e lontano e alle spalle rispetto agli esseri umani, fonte di luce
artificiale
 Una strada, in alto
 Un muricciolo (teichion), alle spalle dei prigionieri, simile ai parapetti dei burattinai
 La dimora è profonda – alto, basso, verticalizzazione dell’immagine. La profondità è
fondamentale per le indicazioni sull’illuminazione all’interno della caverna.
 I burattinai sulla strada
e Socrate ci invita a immaginare due cose: degli esseri umani in una condizione in cui si trovano fin da
bambini, e una dimora a forma di caverna. In primo luogo, Gli esseri umani, che innanzitutto sono
anthropoi, quindi uomini e donne, sono lì fin da bambini (ek paidon), perciò fin da quando hanno
memoria, “fin da bambini”. Questo ci dà una profondità temporale
ci sarà l’altro estremo della profondità e si dirà dià bioù, «per tutta la vita». Questa è una condizione
nella quale i prigionieri si trovano èk paidon e dià bioù. Quale è questa condizione? Essi hanno le
gambe e il collo in catene, così da poter guardare solo davanti a sé e non poter volgere la testa, né di
lato né dietro. Per quanto riguarda il corpo le gambe sono incatenate, perciò non possono muoversi,
ossia compiere il movimento locale, per Aristotele il cambiamento di luogo o traslazione. Dunque, i
movimenti esclusi su cui il testo attira la nostra attenzione, sono due: la rotazione del capo e la
traslazione del corpo. Gli abitanti della caverna sono costretti a restare fermi nello stesso luogo e a
guardare solo davanti, senza né alzarsi né voltarsi. Cosa vedono, essendo obbligati a questa posizione?
Per quanto ci dice il testo fin qui, vedono la parete di fondo della caverna.
Socrate descrive l’ambiente della caverna, la quale è profonda. Questo dato possiamo ricavarlo
dall’insistenza sullo sviluppo verticale dell’immagine, combinata alle indicazioni sull’estensione,
evidenziata dalla lontananza tra i prigionieri e dalla presenza di una duplice fonte di luce. Il primo tratto
della caverna è illuminato dalla luce del giorno sul quale l’ingresso della caverna è spalancato. Questa
prima illuminazione naturale ha un ovvio carattere intermittente, dovuto al variare di giorno e notte e
delle condizioni atmosferiche. In siedono luogo, questa luce è destinata ad attenuarsi mano a mano
che si scende verso l’interno. Questo è necessario alla costruzione dell’immagine, affinché sia
giustificabile la presenza della seconda fonte di luce menzionata, ossia il fuoco. Se la luce del giorno
potesse arrivare fino alla profondità della caverna dove si trovano i prigionieri, allora non sarebbe
giustificabile la presenza della seconda fonte di luce. Dato che l’immagine invece ci parla del fuoco come
fonte di luce e ci dice che la caverna è profonda, dobbiamo ipotizzare che la luce del giorno non arrivi
fino al fondo della caverna. Dobbiamo soffermarci un momento anche sulla seconda fonte di luce, che è
anche una fonte di calore, altrimenti i prigionieri non potrebbero viverci. Il fuoco è posto in alto e
lontano, dice il testo, ed arde alle spalle dei prigionieri. Data la condizione, i prigionieri possono dunque
vedere solo in penombra (scarsità di luce) la parete di fondo della caverna. Il etsto non dice questo in
modo esplicito, lo si può ricavare dalla descrizione.
In terzo luogo, alcuni dettagli completano la scena. Sempre in alto (ep’ano), partendo dall’entrata
abbiamo prima il fuoco, poi la strada, poi il muricciolo, poi i prigionieri. Il paragone del muricciolo con
i parapetti dei burattinai ci dice qualcosa di più: se consideriamo il teatro dei burattini, ci dice che il
muricciolo dei burattinai è davanti a burattinai e di fonte al pubblico, quindi in mezzo tra i burattinai e il
pubblico. Ci dice anche che al di sopra dei parapetti è rappresentato lo spettacolo dei burattini.
scopriamo perché ha introdotto il muricciolo. La seconda coppia di battute ci dice cosa avviene in questa
sorta di allestimento teatrale. Vengono introdotti altri due elementi nella scena: o Altri esseri umani
che portano gli artefatti in modo simile ai burattinai, li trasportano al di sopra della superficie del
muro, alcuni parlando e altri in silenzio
Artefatti di ogni genere, e statuine in pietra e in legno, di forme varie (uomini e altri esseri viventi).
Da un lato abbiamo oggetti inanimati (skeue), ma poi abbiamo un kai che introduce un secondo elemento:
andrantas kai alla zoa, sia statuine di altri esseri umani o altri esseri viventi. I burattini sono tutti
inanimati, ma rappresentano sia il mondo dei viventi (animali, uomini) sia quello dei non viventi
(oggetti). Seguendo il paragone, gli altri esseri umani sono i burattinai, gli artefatti sono i burattini. In
primo luogo, possiamo dire che, mentre i prigionieri non si muovono, in realtà questi si muovono, il
cambiamento di luogo per loro è possibile: nella scena abbiamo introdotto il movimento. Gli artefatti
sono oggetti inanimati, è chiaro che non si muovano, eppure sono mossi, si crea l’illusione del
movimento. Non hanno un principio interno di movimento, ma si muovono di movimento estrinseco.
3.5 Glaucone definisce l’immagine «strana» (átopon)?
La prima reazione è «immagino», cioè orò, «vedo», «vedo con gli occhi della mente». Tuttavia, alla
fine della descrizione, quando si completa l’arredo ontologico della caverna, la sua reazione non è più
così docile: «Strana immagine, e strani prigionieri». Cosa è cambiato? Perché fino alla coppia di
battute precedente lo scenario era qualcosa di immaginabile, mentre ora è atopos, privo di un luogo,
strano, non paragonabile, non classificabile, senza precedenti? Dobbiamo cercare la risposta nel testo,
considerando solo la parte fin qui. In realtà, tutti gli elementi descritti, di per sé, non sono strani. La
stranezza dell’immagine sembra legata alla stranezza dei prigionieri.
L’immagine è “strana”: Glaucone non riesce a vedere dove Socrate voglia condurlo, quindi «né la
meta, né la via».
La replica di Socrate suona come un apparente smentita all’ultima affermazione di Glaucone. Essa
può significare due cose:

 Strani ma anche simili a noi


 Non strani ma simili a noi
Quale delle due? Per cercare di capirlo dobbiamo leggere la spiegazione della somiglianza da parte di
Socrate e capire se la stranezza rimanga anche dopo la spiegazione.
introduce la spiegazione: perché fin da bambini e per tutta la vita si trovano in questa condizione.
. C’è un solo altro passo in tutto il corpus platonico in cui Socrate evoca l’atopia iconica, cioè la stranezza
di un’immagine: il passo del sogno nel Critone (Cri 44a9-b5). Dopo aver raccontato il sogno a
Critone, quest’ultimo risponde: «strano, oh Socrate» e lui invece replica: «non strano, ma evidente
(enarghes)». Da un lato: strano-simile, dall’altro strano-evidente. La replica di Socrate ci dà in qualche
modo la conferma dell’interpretazione dell’atopia dell’immagine, risponde alla stranezza dicendo “simili”
a noi. Il paragone richiede che ci sia una somiglianza,
Quale? Ciò che li rende simili a noi è il fatto che, non avendo visto altro per tutta la vita, se non le
ombre proiettate dal fuoco, ritengono che quelle ombre siano la realtà, tutta la realtà, scambiandole
per le cose stesse.

4. Le ombre portate
Ma le ombre, di cosa sono ombre? LE OMBRE ONIRICHE
o Del loro corpo
o Degli oggetti
o Della della voce, la sua imitazione (l’eco)
4.1 La funzione argomentativa delle ombre: quando Socrate le introduce e perché?
Perché, rispetto all’arredo ontologico, sono introdotte dopo proprio e solo qui, non prima? In effetti, la
stranezza dell’immagine era precedente alle ombre. Perché non le ha introdotte prima? Da un punto di
vista argomentativo, vengono introdotte per spiegare la resa dello spettacolo. Da un punto di vista
ontologico? Se Glaucone avesse condotto fino in fondo, l’esercizio di immaginazione a cui era stato
invitato, al massimo delle possibilità mentali di un esser umano, Glaucone avrebbe già visto le ombre.
Tutto questo rimane implicito nel testo. La mera possibilità di veder le ombre anche solo in modo
approssimativo prima che siano menzionate, sulla base della nostra esperienza quotidiana, prima della
luce e del buio, ci dice qualcosa di importante: ci dice che il mondo della caverna, con l’ingresso degli
artefatti e dei portatori, è già completo di tutti i suoi enti primari.
Le ombre sono sempre ombre di qualcosa, rientrano nella categoria degli entia minoria, insieme ad
altre entità diminuite (le immagini, i riflessi, i buchi e i sogni). La dipendenza ontologica consiste nel
fatto che se non esistessero le statuine, gli artefatti e i corpi dei prigionieri, nemmeno le ombre
esisterebbero. Per noi gli enti empirici hanno un’esistenza indipendente (Platone li farebbe dipendere in
realtà dalle idee), le ombre invece hanno un’esistenza secondaria. Le entità minori come le ombre sono
impalpabili, incorporee, per questo definite “diminuite”. ‘Minoria’ in quanto secondarie e in quanto
immateriali. Nello scenario non manca nulla perché Socrate ci ha già descritto le condizioni di luce,
sarebbe già logicamente possibile immaginare le ombre, la nostra mente deve semplicemente renderle
visibili a se stessa. Le ombre della caverna appartengono al genere di ombre del linguaggio
prospettico e architettonico come ombre proiettate o portate delle ombre della caverna.
4.2 La metafora sogno: ombre come “oniriche”
nel Sofista che Platone le distingue con tre accezioni:

 Eidola per indicare le immagini come generi, lo possiamo tradure con simulacro.
 Eikones enti somiglianti a quelle di cui sono immagini, compaiono nel sonno
 Phantasmata, o apparenze illusorie, quelle immagini che sembrano simili pur non essendolo
e quindi distorcono la realtà, si dice si formino spontaneamente di giorno.
In ogni caso, le immagini tanto naturali quanto artificiali posso essere di due tipi.
Eikones, cioè immagini somiglianti, o phantasmata, apparenze illustre. Come definire un fantasma? È
un’immagine ingannevole perché distorce la realtà: le immagini sembrano simili pur non essendolo, così
dice il testo. Per capire perché sono così definibili dobbiamo fare un passo ulteriore: normalmente,
quando vediamo il nostro riflesso nell’acqua, questa definizione vale. L’immagine che distorce la realtà
sembra simile ad essa, pur non essendolo. Se noi portiamo questi phantasmata a condizioni estreme,
questi non solo sembrano
Le ombre della caverna sono phantasmata naturali, tutte lo sono. Sono un potenziale inganno, come
il sogno è un potenziale inganno dell’anima: se siam in totale assenza della realtà, la somiglianza
apparente diventa una sostituzione ingannevole dell’originale. L’inganno non è dato da un’estrema
somiglianza alla realtà: i phantamsata naturali sono per lo più distorsioni delle cose, l’inganno è dato dal
fatto che si sostituiscono alla cosa stessa spacciandosi per quella. Se noi non sapessimo come siamo
fatti? Che c’è qualcosa che produce il nostro riflesso imperfetto? Evidentemente non potremmo cogliere
in cosa la nostra immagine riflessa. Per noi, quella sarebbe l’unica cosa esistente di noi stessi. Nella
caverna non ci sono cose se assumiamo il punto di vista esterno (non vedono oggetti tridimensionali)
ci sono solo immagini credute dai prigionieri come le cose stesse. Più radicale è l’assenza di realtà,
maggiore è l’inganno. Il caso estremo è quello delle ombre nella caverna, dove l’inganno è totale.
Possiamo chiamare queste ombre della caverna «ombre oniriche», distinguendole quindi da quelle
di cui facciamo esperienze.
Le ombre sono un inganno spontaneo del mondo così come i sogni sono phantasmata naturali, inganno
spontaneo dell’anima. Per questa ragione, le prossimo chiamare “ombre oniriche”, in relazione alla
loro somiglianza con i sogni. Cerchiamo di approfondire il paragone: o Per quanto riguarda il sogno,
l’inganno è svelato quando, al momento del ritorno alla realtà, ci accorgiamo che le immagini
oniriche che abbiamo visto erano appunto immagini, nona realtà. o Nel caso delle ombre portate, in
generale, a rompere l’illusone è solo la possibilità di ricondurre l’ombra al corpo che la proietta. È
infatti vero che, dopo la prima volta che capiamo il meccanismo (da bambini), non è più necessario
fare questa operazione.
4.3 A-Shadows e B-Shadows e il significato.
Successivamente, in seguito ad alcune osservazioni, ha ripreso il tema e lo ha approfondito in un articolo
in inglese nel 2003. Brunschwig, decide di dare un nome a queste ombre: le ombre degli artefatti le
chiama a-shadows (a come artefacts), quelle dei prigionieri b-shadows (b sta per bodies). In realtà il
testo non dice che le ombre sono solo quelle dei loro corpi: dice solo che di sé vedono solo l’ombra, e
così degli altri accanto a loro. Per Myles Burnyeat allora esistono solo le ombre degli artefatti, solo a-
shadows: egli dice che le ombre che loro attribuiscono a se stessi in realtà sono quelle degli artefatti di
forma umana
Le ombre della caverna appartengono al genere delle ombre “portate”, o “proiettate”, sulla parete
della caverna (linguaggio architettonico), e si distinguono dalle ombre proprie. Le ombre portate poi
possono avere due specie diverse: in entrambi i casi sono ombre portate, ma in base alle posizioni dei
corpi che le proiettano sono di tipi diversi:

 (A) Staccate: quella dell’oggetto che è staccato, può sembrare effettivamente l’oggetto.
 (B) Congiunte: le ombre dei corpi dei prigionieri sono le ombre congiunte.
Nel disegno, anche quella del corpo non è un’ombra giunta ma è disgiunta. Questo perché il disegno
rende la visuale rigida dei prigionieri, ma potrebbe essere che sia così perché c’è poca luce e non è
possibile vedere l’ombra su un suono già scuro. Ci sono tre ragioni quindi:

 Il testo stesso dice che sono proiettate sulla parete della caverna
 Le condizioni di luce sono poche
 Forse non riescono a muovere la testa.
Che conseguenza ha? Di fatto, anche le ombre giunte sono percepite come disgiunte. Tutto questo
significa che le ombre diventano ombre autonome e reificate dal punto di vista dei prigionieri: sono
cioè le cose stesse. Molti interpreti hanno insistito, a ragione, sul fatto che i prigionieri non conoscono il
concetto di ombra. Noi le chiamiamo ombre da un punto di vista esterno (entia minoria), ma per i
prigionieri sono invece le cose stesse (enti primari maggiori)
la menzione delle ombre dei corpi funge da segnale dello stato di insipienza la mente de prigionieri è
immersa in un’ignoranza cognitiva della quale non può rendersi conto senza un intervento esterno
L’ignoranza riguardo a se stessi indicata dall’ombra del corpo, che fuor di metafora è l’ombra
dell’anima, sta nel fatto che non è consapevole del proprio stato cognitivo
4.4 L’insipienza (amathia). [Handout, T12(b), T24]
Amathia è il termine usato da Platone per riferirsi ai presunti sapienti che rappresentano gli
interlocutori dell’elenkos di Socrate. L’ignoranza doppia o insipienza è l’atteggaimento di chi
insieme non sa ma crede di sapere. La forma grave di ignoranza è descritta nel X libro della Repubblica
come una malattia che corrompe l’anima: la ricerca della verità è preclusa a chi crede di saper come
stanno le cose. Per Socrate si tratta del male maggiore, perché le anime colpite da insipienza sono
impermeabili alla sapienza e destinate all’illusione. In altre parole, la menzione delle ombre dei corpi
funge da segnale dello stato di insipienza: ciò significa che la mente de prigionieri è immersa in un
ignoranza cognitiva della quale non può rendersi conto senza un intervento esterno, ed è in questo
dettaglio prima di tutto (proton men, dice il testo) che i prigionieri sono simili a noi. L’ignoranza
riguardo a se stessi indicata dall’ombra del corpo, che fuor di metafora è l’ombra dell’anima, sta
nel fatto che non è consapevole del proprio stato cognitivo. I prigionieri della caverna credono che le
ombre degli artefatti siano la realtà, si trovano in questo stato mentale di inganno cognitivo. L’ombra del
loro corpo, dunque, è un segnale che indica l’insipienza. Ma in cosa si distingue dall’agnoia, dalla
semplice ignoranza? Se io ignoro qualcosa sono consapevole di ignorarla. Se io ignoro, sono
consapevole, ma se io preso di conoscere qualcosa ma non la conosco, mi inganno sul mio stato
cognitivo. Credo di saperla, credo che il mio stato cognitivo sia quello di conoscere la cosa . La
conseguenza è quella che Socrate giudica peggiore in assoluto. Il concetto di amathia è un concetto
intuitivo: se io presumo di sapere qualcosa, la conseguenza della mia presunzione non mi permette di
imparala. La condizione di insipienza dei prigionieri è una insipienza di tutto ciò che di importante li
riguarda, è una condizione di insipienza pervasiva: ignorano del tutto quale sia la realtà. L’ignorare
tutto ciò che vi è di importante rende la condizione di amathia pervasiva, paragonabile a una
condizione onirica, a un giorno notturno (Rep) o a un sogno diurno (Soph). L’anima è l’ombra di se
stessa quando ignora il proprio stato cognitivo.
4.5 Due movimento dell’anima: intrinseco di rotazione e estrinseco di traslazione
L’anima si muove del suo movimento proprio (quello circolare), ma quale è il movimento che le è
precluso? Il movimento circolare dell’anima è un movimento che rimane nello stesso luogo: la bontà
di questo movimento dipende dall’oggetto che l’anima osserva. Nella caverna i prigionieri possono
vedere solo ombre, l’anima può vedere solo gli oggetti diminuiti e non gli oggetti reali. L’anima
eserciterà il suo movimento proprio (rotatorio quindi perfetto) ma rivolto ad oggetti che non sono la
realtà. Per Platone, pessimista cognitivo, la natura perfetta dell’anima subisce una contaminazione
da parte del corpo, si spezza in più parti a causa del corpo. In alcuni passi il corpo è paragonato alla
prigione dell’anima, molto simile all’allegoria della caverna.
Il movimento precluso al prigioniero è proprio il cambiamento di luogo, la metabolè in cui consiste
il processo educativo. La possibilità di uscire dalla caverna sta nel compiere il movimento di luogo, in
modo che possa volgere lo sguardo verso oggetti più reali, che per Platone sono le idee. Questo
movimento non è intrinseco all’anima come la rotazione, ma è estrinseco, avviene solo dall’esterno.
L’anima da sola non lo può compiere: la condizione di amathia, di ignoranza doppia (da alfa privativo e
imparare, impossibilità di imparare). L’ignoranza de se è quella rappresentata dalle b-shadows ed è
anche la prima ad essere infranta affinché il processo educativo sia possibile. La sua cura
rappresenta la traslazione, ossia il passare da uno stato cognitivo a un altro. La consapevolezza
della propria ignoranza è una conquista dolorosa che è insieme la scoperta di poter essere educati.
Se non si spezza la prima illusione che riguarda l’ombra di sé allora il resto è precluso. È per questo che
la catena delle b-shadows è composta di due soli anelli: è questo il movimento fondamentale che permette
il processo conoscitivo delle a-shadows. Una volta che il prigioniero si volta e scopre che esiste una
realtà diversa dall’unica realtà che non siano le ombre, immediatamente si insinua un dubbio , si
forma una crepa nell’illusione circa il suo stato cognitivo. A quel punto non è più così certo di
conoscere. L’illusione si è spezzata, a quel punto il prigioniero può iniziare ad essere educato. Senza
l’ignoranza de sé, che è lo stato cognitivo di chi ignora totalmente, basta che si insinui il minimo dubbio e
il processo educativo diventa possibile

5. Un «dettaglio trascurato»:
5.1 I possibili significati dell’avverbio physei
Cosa significa questo physei, dativo di physis, che noi traduciamo «per natura» e perché stabilirlo ha
creato così tanti problemi alla critica? Per due ragioni combina, una filosofica e una filologica. Partiamo
da quella filosofica: il passo dice chiaramente che il prigioniero è costretto da qualcuno ad alzarsi,
volatori e camminare. Può esistere una costrizione naturale? Se mi costringono a fare qualcosa,
significa che non voglio farlo. Ma è contraria anche alla natura? In questo paradosso della
costrizione naturale è racchiuso il paradosso del prigioniero. Tutto sta nel capire il significato di
questo avverbio. Ed è qui che rientra il problema filologico: tutti i manoscritti lo riportano, ed è quindi
senza dubbio ‘parola platonica’.
A noi interessa in questo caso il significato concreto di natura, e anche questo si suddivide ancora in
due significati principali, che delimitano più che altro gli ambiti di appartenenza di questa accezione:
physis come natura in senso concreto può riguardare o le cose del mondo (eventi) o gli esseri viventi
(in particolare esseri umani). La maggior parte delle interpretazioni (1-3) è insoddisfacente perché
non riconduce questo avverbio alle azioni umane. Qui si sta introducendo un movimento educativo:
nulla di più specifico agli esseri umani. Un primo motivo per ritenere insoddisfacenti le interpretazioni
è mancare la pertinenza agli ambiti di contesto.
(1) La prima interpretazione è sostenuta da Ast e Stallbaum, che ritengono che il significato di physeis
sia ‘vere’ o ‘revera’, che il latino significano “davvero”, “veramente” o “in realtà”. Il senso sarebbe:
«se davvero ai prigionieri potesse accadere una cosa del genere», cioè se si trattasse di una vera
liberazione. Quali sono le obiezioni? Qui si sta facendo un ragionamento per ipotesi, siamo
all’interno di un esperimento di pensiero e quindi è strano che all’interno di un ragionamento per
ipotesi si parli di qualcosa che è “davvero” così. Non possiamo trasporlo fuor di metafora: ciò che
accade, accade all’interno dell’esperimento di pensiero, non ha senso chiederei se accada davvero. I
prigionieri si trovano già all’interno di una illusione cognitiva e quindi, se il “davvero” fosse inteso
in questo senso, non porterebbe nessuna aggiunta questo “per natura”, lo si potrebbe anche
omettere perché quello che accade è già una rottura dell’illusione. Inoltre, quest’uso di fusei è
attestato in Platone solo in relazione agli enti, non in relazione agli eventi.
(2) La seconda interpretazione è quella di Schneider, Jowett e Shorey: secondo questi interpreti, che
riconoscono che si tratta di eventi, l’avverbio physei sarebbe il corso aleatorio delle cose, cioè “se le
cose andassero così, se questo fosse il verificarsi accidentale degli eventi”. Ma qui c’è un’obiezione
piuttosto evidente e semplice: se l’intento di Platone fosse stato questo, perché Platone avrebbe riferito
physei al posto del più perspicuo tyche? Avrebbe potuto usare un avverbio non ambiguo. In ogni
caso è dubbio che questa forma sia attestata nei dialoghi. Ad esempio, De plus non segnala questa
accezione come platonica. Tuttavia, questa interpretazione “potrebbe essere un'altra”: i traduttori
dedicano a queste considerazioni una brevissima nota, non è chiaro cosa intendano. Comunque, o
intendono un riferimento al corso aleatorio degli eventi naturali, oppure credono espressioni come “il
corso della natura” possano riferirsi all’ordine delle cose, al loro corso regolare. Se fosse così conterrebbe
da una sfumatura di necessità molto lontana alla sfera della tuche, della sorte. Ma anche in questo caso,
il riferimento al corso della natura risulterebbe opaco, in questo contesto, perché non spiegherebbe
in modo convincente l’andamento umano. Dove è l’ordine regolare nella costrizione ad alzarsi? A
meno che non si assuma una posizione totalmente fatalista, non sembra che lo scioglimento dalle catene
possa far parte di un simile ordine regolare degli eventi naturali. Cioè, non sembra che ci sia nessuna
legge naturale a governare questi eventi, che sono invece il risultato di un’operazione umana di
costrizione. Questo peraltro è segnalato dalla presenza adi un’alta parola chiave, l’avverbio exaiphnes:
questo evento è ossia una cosa che è insieme inattesa e subitanea, fuori da qualsiasi interpretazione
prevedibile, non può risultare all’interno di un ordine regolare.
(3) La terza interpretazione è quella di Nettleship, che commenta «no one nows how»: sembrerebbe
trattarsi di una sorta di liberazione spontanea, di un appello al mistero della natura. Nessuno sa
come, cioè in modo naturale o spontaneamente. In tal senso, la spontaneità sembrerebbe escludere
però l’intervento umano e volontario, e non è vero che nessuno sa come. Il passo ci dice chiaramente
che una cosa noi la sappiamo: noi sappiamo che un prigioniero viene liberato e curato con la forza,
costretto “da qualcuno”, cioè da un altro esser umano a voltarsi e camminare. Dunque, un aiuto lo
riceve, anche se non da parte della società, perché poi Nettelship nel suo commento dice che non lo fa
né per volontà propria né perché riceve un aiuto dalla società. Qui non riceve aiuto dalla società ma lo
riceve da qualcuno, è un singolo esser umano. Inoltre, una costrizione non può essere certo natuale dal
punto di vista della spontaneità: qualcuno ha deciso liberare un prigioniero e per di più ha deciso di
liberare proprio quel prigioniero. Per finire, nemmeno questa accezione di physis come modalità
spontanea è attestata con sufficiente evidenza nei dialoghi: ci sono dei passi che potrebbero attestarla
ma che ammettono un altro possibile significato di physei, non sono sufficienti ad attestare questa
accezione del termine.
(4) La quarta interpretazione è quella di Adam e di Vegetti. Quest’ultimo in nota alla traduzione della
Repubblica scrive: «Come spesso in Platone, ‘natura’ ha qui un valore normativo, che non
corrisponde e anzi si oppone allo stato di fatto. La condizione naturale degli uomini è quella in cui
essi raggiungono il massimo livello di perfettibilità: la liberazione dalla prigionia»
Quindi la costrizione naturale si spiegherebbe così: a essere forzato è ciò che va contro natura
perché, per Vegetti, la prigionia è una condizione innaturale, non è una condizione naturale. In
particolare, su questo dettaglio possiamo fare subito un’osservazione. Sostenere questa interpretazione
così, in questi termini, cioè che la prigionia non sia una condizione naturale, in realtà rende
problematica l’interpretazione del proemio al passo: paragona una condizione (pathos) del genere
la nostra natura. Bisognerebbe quindi giustificare queste righe: se si tratta della nostra natura, sia in
riferimento all’educazione che alla mancanza di educazione, evidentemente lo stato iniziale di prigionia
in qualche modo deve essere una condizione naturale. → Se questa è una “lettura normativa”, ce n’è una
versione più “raffinata” proposta da Franco Ferrari (2017), che però a sua insaputa era stata già
sostenuta dal filologo Van Herwerden alla fine dell’Ottocento. Secondo loro, physei si riferisce alle
nature di eccezione, sia nel senso di “perfette” (quelle nature che esprimono il massimo valore di
esseri umani) sia nel senso di “rare”. Questa è la prima interpretazione che tiene conto dell’ambito
di physei relativo al nostro passo, che è quello di relativo agli esseri viventi, non agli eventi naturali del
mondo. Portiamola all’estremo: quali sono le implicazioni di questa interpretazione? Se a poter essere
liberato dalle catene è solo il filosofo, se quel “per natura” si riferisce alla natura eccezionale e rara
dei filosofi – perché i libri precedenti ci dicono che questo tipo di nature hanno certe caratteristiche – e le
nature filosofiche sono rare, la maggior parte degli esseri umani non può essere educata. Il
paragone è tra i prigionieri e gli esseri umani. Questa lettura normativa, soprattutto nella variante
raffinata, è interessante e spiega l’apparente contraddizione di una costrizione naturale: a questo punto la
costrizione sarebbe a qualcosa che nell’interpretazione di Vegetti è invece contro natura, cioè la
condizione iniziale di prigionia. Essa ha anche il vantaggio della continuità tematica con i libri precedenti,
in primo luogo perché a partire dal libro V il tema del dialogo è la natura filosofica, in secondo luogo nel
passo del libro VI che introduce il parla per immagini tipico di Socrate si fa riferimento al pathos, la
condizione difficile del filosofo, proprio come l’immagine della caverna presenta il pathos, la condizione
difficile dei prigionieri. (ci sarebbe dunque anche una ragione di carattere lessicale). Però ci sono anche
delle obiezioni, riferite ad alcuni aggettivi che si trovano nel passo: innanzi tutto, il “nostra natura” e il
“simili a noi” anche in questo passo. Questi riferimenti sono verosimilmente universali: si tratta della
natura umana e il paragone è tra i prigionieri e gli esseri umani. Ma se è così, tutti noi tranne i
filosofi per natura sarebbero destinati all’apaideusia, a essere per tutta la vita vittime della duplice
ignoranza cognitiva, senza nemmeno avere, appunto, la possibilità di essere educati.
Che le cose non stiano così è dimostrato da una prova testuale inconfutabile. Per vederla è imporatnet
introdurre prima la 5 interpreatzione (5) La quinta interpretazione è contenuta in nuce nello studio delle
occorrenze di physis all’interno del corpus platonico da parte di un filosofo tedesco, Mannsperger (1969)
e poi è stata ripresa nel 2019 da una studiosa tedesca, Männlein-Robert, e da Capuccino. Per capirla
occorre aprire una breve parentesi che riguarda la vera protagonista della nostra immagine, ovvero
l’anima umana.
5.2 quattro fasi della storia naturale dell’anima
L’ultima proposta che abbiamo analizzato è quella che legge physis all’interno della capacità
propria della natura umana. Non tutti saranno guariti del tutto dalla afrosyne perché solo le nature
migliori potranno uscire dalla caverna. A compiere la prima parte del processo conoscitivo però
possono essere tutti gli esseri umani. Rivediamo brevemente le fasi:
0. Fase originaria dell’anima (archaia physis), ossia l’anima disincarnata che ha già visto le idee.
Essa è indicata come fase zero perché non riguarda la vita dell’essere umano ma l’esistenza dell’uomo
prenatale, non riguarda quindi il processo educativo e conoscitivo. Nel percorso conoscitivo l’anima
viene anche educata.
1. La fase dell’apaideusia, fase dell’anima che si incarna in un corpo. Quando l’essere umano come
tale nasce, nasce già in questa condizione di apaideusia, si assenza di educazione. Nel passo vengono
usati tre termini per descrivere questa condizione: apaideusia, afrosyne (anche intesa come follia
cognitiva e mania) e amathia. Questi sono tre termini costruito con alpha privativo.
2. La fase rappresentata dal physis avverbiale, quando si spezza la condizione di prigionie e l’essere
umano scopre una capacità che non credeva di avere. “Per natura” inteso come per una capacità
naturale di essere educati. Se la fase 1 dell’anima umana incarnata è quella di apaideusia, l’anima per
natura ha la capacità di usciere da questa seconda condizione. Quando si spezza l’apaideusia
diventa chiaro all’essere umano che è capace di essere educato
3. La fase in cui i destini delle anime umane si separano, e soltanto i filosofi arrivano fino in fondo –
questa fase è evocata nel X libro, nel paragone con glauco marino e nel passo del Fedro. Nella allegoria
della caverna troviamo quattro occorrenze di physis.
La prima è nel proemio all’immagine, quando si dice che ciò che Socrate sta per introdurre è un
paragone tra la nostra natura in quanto a educazione e mancanza di educazione e il pathos dei
prigionieri.
La seconda occorrenza è il physei che rappresenta la fase 2, ossia la capacità natuale di essere
educati,
la terza occorrenza, che viene poco dopo, conferma questa seconda fase e rappresenta la terza fase,
lì physis è relativo solo alla natura del filosofo.
La quarta occorrenza è nel X libro, nel paragone con Glauco Marino legato al Fedro
5.3 Le nature migliori e l’anábasis
Platone lo dirà chiaramente: il liberatore è il filosofo. Il filosofo è colui che ridiscende nella caverna dopo
aver visto il bene… ma allora da chi è stato liberato? C’è un problema. In ogni caso, per Platone tutti gli
esseri umani possono essere educati per natura, ma non tutti lo sono fino in fondo, cioè non tutti
compiono la fuoriuscita dalla caverna fino in fondo. Questa forma di educazione è riservata alle
anime migliori, al centro dei libri V, VI e VII della Repubblica. L’ultima occorrenza di physis che
compare nell’allegoria lo conferma (T13a): Ecco allora in che senso interviene la natura come “indole,
temperamento naturale”, e insieme la natura intesa come “norma naturale”, come perfezionamento
della natura umana. Interviene a questo livello, non rispetto a tutta la specie umana ma rispetto a un
sottoinsieme, quello delle nature filosofiche. Se la fronesis è il contrario dell’afrosyne, il contrario
della amathia, il contrario della amthia è la sophia, la sapienza. La conversione finale indica non
più la possibilità aperta di essere convertiti ma la piena realizzazione della conversione e si arriva al
grado più alto della conoscenza, la sapienza. Per legare tutto questo alle scorse lezioni, torniamo
all’immobilità relativa delle b-shadows. Questa sembra alludere al movimento rotatorio delle
trottole, proprio dell’anima, che è sempre lo stesso, e la sua bontà dipende dall’oggetto al quale si
rivolge. Se nella caverna il movimento è un circolo vizioso, esso diventa un circolo virtuoso se gli
oggetti sono le cose stesse, ossia gli enti reali a cui il filosofo giunge grazie al movimento estrinseco del
liberatore.

9. L’interpretazione unitaria:
9.1 conciliare le due chiavi di lettura di Socrate
(1) – Interpretazioni Le interpretazioni che abbiamo analizzato sono quella «ontologico metafisica»
e quella «paideutico politica». Entrambe si basano su una considerazione: quella della caverna è
un’immagine, non un mito.
L’analogia tra le ombre della caverna e i sogni è la ragione per cui la caverna platonica è stata
considerata come il primo “scenario scettico” nel senso dello scetticismo metafisico. L’inganno cioè
riguarderebbe il mondo in cui viviamo, che non sarebbe reale ma illusorio. Il problema è che Socrate,
dopo aver descritto l’immagine, non pone a Glaucone la domanda scettica, non gli chiede: «Come fai
a non sapere che sei un prigioniero?». Tutti lo siamo, e ciò riflette il pessimismo cognitivo di Platone.
Lo scenario della caverna non è però uno scenario necessariamente metafisico, o per lo meno non lo
è in prima battuta. L’allegoria della caverna, parlandoci della condizione difficile degli esseri umani
estende la condizione difficile del filosofo (nave) a tutta l’umanità. La natura degli esseri umani,
nell’immagine della caverna, non è però raffigurata nella sua interezza, come abbiamo visto, ma in
un suo particolare aspetto, come il proemio dice: dal punto di vista di paidea e apaideusia. Alla
generalizzazione patologica dal filosofo all’umanità segue poi una restrizione nella quale Platone isola
una sua componente: l’anima. È questa a essere o non essere educata. L’immagine della caverna è
perciò una raffigurazione dell’educazione nostre anime. Come abbiamo visto, i prigionieri sono
propriamente anime incatenate: è Socrate stesso a dircelo quando, nella seconda chiave di lettura
Socrate si riferisce all’ascesa che le nostre anime dovranno compiere fuor di metafora, un’ascesa
dell’anima. Lo scenario è quindi uno scenario educativo, e ciò riguarda il primo luogo la mancanza
di paideia, di educazione. Nella seconda chiave interpretativa si parla di una conversione dell’anima che
viene fatta ruotare affinché si rivolga a un’oggetto più reale. Qui il modello educativo che propone
paltone è il modello educativo della conversione. Più tardi c’è un passo in cui Socrate dice che secondo
questo modello educativo «non si tratta di infondere la vista nei ciechi»: i prigionieri ci vedono
perfettamente, ma la loro vista e il loro sguardo è rivolto verso gli oggetti sbagliati , non verso la
realtà ma verso illusione. Secondo questo modello educativo, educare significa «convertire l’anima»
secondo una dynamis, una potenza naturale, in modo che la fronesis sia rivolta verso le idee, in
modo ch’egli esseri umani esercitino bene la loro intelligenza.
La domanda che dobbiamo farci è: è da scartare la interpretazione ontologico sociale? Oppure è
compatibile con l’altra, e quindi le chiavi di lettura non sono due ma una sola? Le due alternative sono
poste in successione l’una all’altra, a noi sembra che parli di due chiavi di lettuar diverse ma è davvero
così? La possibile risposta è questa: l’ontologia platonica non è un’ontologia del reale inteso come
mondo sensibile e materiale, ma assegna il massimo grado di realtà a entità invisibili e intangibili
come le idee. Se assumiamo questo tipo di ontologia, fuor di metafora il dubbio educativo e lo
scetticismo metanico finiscono per coincidere: la paideia è la conversione dello sguardo che sola
consente di conoscere la realtà, e la vera realtà è insieme quella degli enti e quella dei valori morali .
Prova di questo è la lettura doppia della catena ontologica che parte dalle a-shadows (mondo fisco
concerto e mondo astratto e morale). La vera realtà, tutto ciò che esiste, è quindi sia un’ontologia che a
una assiologia, è un mondo dei corpi e un mondo dei valori morali che nelle idee sono un tutt’uno. La
teoria platonica delle idee, di cui si darà versione più complessa successivamente alla Repubblica, nel
Parmenide assistiamo anche a una critica della dottrina, le idee sono sempre idee positive, sempre di
valori buoni. Non ci sono idee del brutto, del cattivo, dell’ingiusto ma solo idee del buono e del
giusto. In qualche modo ontologia e assiologia vengono a coincidere. Per queste ragioni si possono
tenere insieme le due interpretazioni, l’ontologico metafisica e politico educativa della caverna.
9.2 immagine dinamica: caverna come esperimento mentale.
o, l’interpretazione di Capuccino è che questo parlare per immagini assuma la forma di una sorta di
esperimento mentale ante litteram. In termini generali, quest’ultimo è un esperimento di pensiero in
cui si mette alla prova una teoria all’interno di uno scenario che immaginiamo. Per alcuni,
l’esperimento mentale deve svolgere una precisa funzione argomentativa, per esempio quella del
controesempio. Spesso, gli esperimenti mentali vengono inventati da un filosofo per argomentare contro
quella di un altro filosofo. Vediamo cosa accade nel caso della caverna e se possiamo considerarla un
esperimento mentale, ma prima apriamo una parentesi: spesso la caverna è stata considerata un
esperimento mentale nel senso di un esperimento di scettiscismo metanico. In realtà, come abbiamo visto,
la lettera dell’immagine non ci suggerisce un simile scenario. Per Platone noi non viviamo in un inganno
pervasivo, Platone non ha bisogno di porsi la domanda scettica perché il suo problema non è «come
fai a sapere che non sogni», proprio perché lui è convinto che stiamo sognando, che la nostra intera
vita sia una illusione cognitiva. La chiave di lettura della caverna sembra la natura umana.
Tornando all’esperimento mentale, come ci si arriva? Le quattro immagini della catena iconica
raffigurano (nave, sole, linea e caverna) raffigurano ognuna un aspetto del processo educativo.
Andando indietro, in primo luogo abbiamo la linea da risalire a una a uno, dalle ombre alle idee, per i
gradi di chiarezza. Poi abbiamo il sole, per la possibilità di bene e della conversione educativa – la
conversione è una rotazione della fronesis, un’intelligenza esercitata nel bene. Infine, la nave è una sorta
di contraltare della caverna: quella della nave è l’inutilità del filosofo all’interno della folla dal
punto di vista dei più, dei molti. Vi è una credenza comune per cui il filosofo è inutile perché ha
competenze che non riconosciute come tali. Dall’altra parte, il filosofo risponde all’immagine della
nave con un controesempio (che è proprio una delle funzioni proprie dell’esprimenti in filosofia)
rappresentando, per analogia, l’utilità del liberatore, questa volta dal punto di vista del filosofo. Se
ritorniamo al nostro passo sul parlare per immagini, Socrate così perché lui e Adimanto sono arrivati a
una condizione di stallo, di aporia: Socrate dice di sottoscrivere la tesi del senso comune, e quest’ultimo
ritiene che il filosofo sia inutile per la città. Allora come è possibile che il filosofo sia
contemporaneamente utile e inutile? Socrate dice: «Mi fai una domanda, caro Adimanto, che richiede
una risposta mediante un’immagine». Questa immagine è l’immagine della nave, ma questa è solo meta
della storia, mostra solo la contraddizione ma non dice nulla su come risolverla. L’allegoria della
caverna è allora una risposta con un controesempio che scioglie l’aporia del logos con un’immagine.
Se invece che assumere il punto di vista “dei più” assumiamo il punto di vista del filosofo, allora
prossimo vedere anche un’utilità del fissiono. Essa è apparentata nell’immagine del liberatore. Come il
liberatore adempie una sanzione educativa, lo stesso deve fare il filosofo nella città storica. La sua
indicazione terapeutica non riguarda i molti, ma riguarda il singolo. Inoltre, essa si compie
exaifnes, all’improvviso. Il liberatore rischia la propria vita, ma il megiston mathema la trasforma
nell’unico governate possibile, perché l’unico che consce il bene. La mossa di Platone per convertire
una città storica come Atene in una Kallipolis è duplice. La prima via che ha seguito è quella della
conversione, come nei viaggi a Siracusa. L’altra via è la fondazione della Accademia come salvaguardia
del filosofo, per preservare l’utilità educativa della sua funzione liberatrice al riparo da incomprensioni
politiche. Per quanto riguarda questi rischi, una prova che i filosofi correvano enormi pericoli è
ovviamente la sorte tragica del maestro, un monito che l’allievano può ignorare. L’obbiettivo platonico è
dunque trasformare la conversione filosofica in un rivoluzionario ma rassicurante processo
educativo, un percorso nel quale le menti dei cittadini vengono accompagnate. Fino a un certo punto
l’immagine della caverna è statica, ma da un certo momento in poi, quando arriva il primo movimento,
noi dobbiamo riconoscere che, malgrado non si un mito (racconto) che la caverna è dinamica. In effetti ,
nella caverna accade qualcosa, questo è reso dalla idea come immagine come esperimento mentale e
dall’invito a Glaucone. Il ragionamento di Socrate è sempre ipotetico.
9.3 Katábasis: l’identità liberatore e tyche
Il prigioniero deve avere la fortuna di incontrare un liberatore. A questo punto rimane il problema
del liberatore: un problema duplice sulle due identità. In apparenza, il testo non polena fusto
problema: Glaucone non chiede spiegazioni in merito e si accontenta dell’indeterminatezza di questo
pronome “qualcuno viene liberato da qualcuno”. Sembra che in questa fase stabilire la duplice identità
della coppia al centro del processo educativo non sia importante, e tuttavia in seguito Platone lo dirà
chiaramente: il liberatore è il filosofo. Il filosofo è colui che ridiscende nella caverna dopo aver visto
il bene… ma allora da chi è stato liberato? C’è un problema. In ogni caso, per Platone tutti gli esseri
umani possono essere educati per natura, ma non tutti lo sono fino in fondo, cioè non tutti compiono la
fuoriuscita dalla caverna fino in fondo. Questa forma di educazione è riservata alle anime migliori, al
centro dei libri V, VI e VII della Repubblica. L’ultima occorrenza di physis che compare nell’allegoria lo
conferma (T13a): Ecco allora in che senso interviene la natura come “indole, temperamento naturale”, e
insieme la natura intesa come “norma naturale”, come perfezionamento della natura umana. Interviene a
questo livello, non rispetto a tutta la specie umana ma rispetto a un sottoinsieme, quello delle nature
filosofiche. Se la fronesis è il contrario dell’afrosyne, il contrario della amathia, il contrario della amthia
è la sophia, la sapienza. La conversione finale indica non più la possibilità aperta di essere convertiti ma
la piena realizzazione della conversione e si arriva al grado più alto della conoscenza, la sapienza. Per
legare tutto questo alle scorse lezioni, torniamo all’immobilità relativa delle b-shadows. Questa sembra
alludere al movimento rotatorio delle trottole, proprio dell’anima, che è sempre lo stesso, e la sua bontà
dipende dall’oggetto al quale si rivolge. Se nella caverna il movimento è un circolo vizioso, esso
diventa un circolo virtuoso se gli oggetti sono le cose stesse, ossia gli enti reali a cui il filosofo giunge
grazie al movimento estrinseco del liberatore.
Tutti abbiamo questa capacità, ma affinché non si trasformi da potenza in atto è necessario che ci sia un
intervento esterno. Non significa che siamo passivi: l’incontro con il filosofo è soggetto alla tuche, alla
fortuna. Ma, una volta incontrato il liberatore, ciò che egli fa è riaccendere un desiderio naturale
che in noi resta sopito. Nel passo di prima si dice che l’anima tutta intera viene convertita: tutta intera.
Quindi, se assumiamo la tripartizione, questo significa non solo l’anima razionale, ma anche quella
irascibile e l’anima desiderante, quell’anima che in teoria rema contro la ragione. La mossa di Platone è
considerare la conversione educativa una conversione di tutta l’anima. La caverna raffigura in
modo visibile i dettagli invisibili e nell’immagine, per spiegare la conversione, per volgere lo sguardo
fino in fondo si richiede una conversione intera: girare il collo non basta non è sufficiente, va girato
anche il corpo. La stessa cosa accade per l’anima: per vedere le idee, è necessario che io desideri
vederle, è necessario che io ci provi, che soffra, e tutta l’anima viene coinvolta, tanto quella
razionale he quella irrazionale.

Socrate liberato-liberatore
Abbiamo un liberato e un liberatore anonimi, indeterminati. L’uso del pronome indefinito non ci svela
l’identità né nell’uno né dell’altro. La ripetizione dello stesso pronome sembra evocare uno stesso genere
di anima, quella del filosofo, ma non può naturalmente trattarsi dello stesso filosofo. Perché dello stesso
genere di anima? Socrate chiama «filosofo» il prigioniero liberato quando ridiscende nella caverna, e
quindi anche il liberatore è un filoso, solo che non può trattarsi dello stesso filosofo. Perché è
importante ragionare sul fatto che non può trattarsi simultaneamente dello stesso filosofo? Perché gli
interpreti ravvisano in entrambi i casi un’allusione di queste figure anonime a Socrate. Vediamo
l’illusione: nel caso del liberatore, egli assomiglia a Socrate perché dice che suscita aporia nel
liberato, e questo era tipico di Socrate, che la suscitava nei suoi interlocutori. Aporia (alpha privativo
più poros) significa mancanza di risorse o mancanza di una via d’uscita: l’interlocutore, una volta
interrogato da Socrate, alla fine non sa più rispondere alla domanda, non trova una via di uscita.
Anche il liberato però, e non solo il libratore, viene in qualche modo associato a Socrate: «Non si
crederebbe forse ridicolo? Appena potessero afferrarlo e ucciderlo, non lo ucciderebbero?» anche in
questo caso c’è una allusione. Ci si riferisce al prigioniero liberato che ora ridiscende per fare il liberatore,
lo si paragone a Socrate. Tuttavia, Socrate non può essere simultaneamente entrambi, non nello stesso
passo. Come risolvere questo apparente paradosso? L’identità del liberato e del liberatore sta nel regresso
all’infinito: Chi è il primo liberato, e da chi è liberato se è il primo? Il percorso che ha condotto Socrate,
Glaucone e Adimanto fino a qui ci suggerisce la risposta: il primo liberato è una natura di eccezione,
un’anima non solo filosofica ma eccellente, che è capace di liberarsi da sola, «per sorte divina»
sembra dirci Platone, per un intervento sovrannaturale (ci sono dei passi nel VI libro 493a1-2 e
499c1 che lo fanno credere). Inoltre le origini divine della filosofia di Socrate con il celebre episodio
dell’oracolo di Delfi sembrano suggerirlo ancora una volta. Noi potremmo dire ancora una volta “per
natura”, intendendo “per vocazione”, per un intimo impulso o un’esigenza spontanea, singolare. Socrate
è dunque primo liberato e poi a sua vota liberatore. Il problema del regresso all’infinto rimane: il
primo liberato deve essersi liberato da solo. Pensiamo al film Matrix: lì il problema è risolto in questo
modo: quando le macchine arrivano, alcuni riescono a scappare. Qui però non è così, qualcuno deve
essersi liberato da solo. A parte la sorte divina, noi potremmo metterla in termini diversi, più accettabili
da un punto di vista moderno: un “per natura” inteso come “per vocazione” naturale, un’esigenza
spontanea propria di alcune nature, quelle migliori ed eccezionali. L’unico caso di eccezionalità è
quella però di Socrate, la sua figura è la più idealizzata in tutto il corpus.

9.4 L’ottimismo educativo di Platone.


Tutti gli uomini per natura possono conoscere, ma il loro desiderio di conoscenza deve essere acceso da
un incontro fortunato. Questo ci dice che il pessimismo cognitivo di Platone è stemperato in un
ottimismo educativo. Questa è la sua mossa sorprendente: ciò che accade è semplicemente che il loro
desiderio resta sopito finché non viene acceso, prima che qualcuno dispieghi ai suoi occhi la natura
umana.
Questo significa non che tutti possono diventare filosofi
ma che la filosofia offre a ognuno l’occasione di migliorare la propria vita attraverso l’educazione e
la cultura. Tutti abbiamo questa capacità, ma affinché non si trasformi da potenza in atto è necessario che
ci sia un intervento esterno. Non significa che siamo passivi: l’incontro con il filosofo è soggetto alla
tuche, alla fortuna. Ma, una volta incontrato il liberatore, ciò che egli fa è riaccendere un desiderio
naturale che in noi resta sopito. Nel passo di prima si dice che l’anima tutta intera viene convertita: tutta
intera. Quindi, se assumiamo la tripartizione, questo significa non solo l’anima razionale, ma anche quella
irascibile e l’anima desiderante, quell’anima che in teoria rema contro la ragione. La mossa di Platone è
considerare la conversione educativa una conversione di tutta l’anima. La caverna raffigura in modo
visibile i dettagli invisibili e nell’immagine, per spiegare la conversione, per volgere lo sguardo fino in
fondo si richiede una conversione intera: girare il collo non basta non è sufficiente, va girato anche il
corpo. La stessa cosa accade per l’anima: per vedere le idee, è necessario che io desideri vederle, è
necessario che io ci provi, che soffra, e tutta l’anima viene coinvolta, tanto quella razionale he quella
irrazionale.

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