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La Jamāʻt al-tablīgh tra il Bangladesh e l’Italia

(Estratto del Forum Islam-Cristianesimo “L’Islam in Italia:


il caso romano della Jamaat al-Tabligh”, della Dott.ssa Viviana Schiavo,
con moderatore Fra Stefano Luca OFMCap, 23/11/2020)

Viviana Schiavo

Nel secolo intercorso tra la nascita della Jamāʻt al-tablīgh fino ad oggi,
il movimento islamico missionario di origini indiane ha assistito a una ra-
pida diffusione globale, diventando una delle esperienze musulmane trans-
nazionali di maggior successo. Tra i principali Paesi di diffusione della
Jamāʻt figura indubbiamente il Bangladesh.1
Il presente articolo intende analizzare la presenza del movimento
pietista nel Paese asiatico, illustrandone la nascita nella regione indiana
di Mēwāt e la sua espansione nel subcontinente indiano, fino all’arrivo
nella zona del Bengala. Partendo dal Bangladesh, la sua islamizzazione
e le ragioni del successo della Jamāʻt nella regione,2 l’articolo si foca-
lizzerà su un’altra area di diffusione del movimento, l’Europa, con un
particolare focus sull’Italia. La mancanza di letteratura riguardante la
presenza tablīgh nel Bel Paese3 ha reso necessario la realizzazione di
una ricerca sul campo, svolta tra gli aderenti del movimento residenti a
Roma, Lecce e Cosenza.4

1
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, p.4
2
Principale opera di riferimento è la pubblicazione di Bulbul Siddiqi, Becoming
“Good Muslim”, che attraverso una ricerca sul campo analizza la Jamāʻt al-tablīgh nel
suo sviluppo in Bangladesh e in Gran Bretagna.
3
Tra le poche pubblicazioni segnaliamo Islam Metropolitano di Alessandra Caragiuli,
che ha dedicato a questo movimento una parte della sua ricerca sull’Islam romano.
4
Parte delle interviste sono state realizzate tra il 2019 e il 2020 per conto della Fon-
dazione Internazionale Oasis all’interno della ricerca «Islam in Italia. Un’identità in for-
mazione» e raccolte nella pubblicazione che ne è conseguita, intitolata «L’Islam a Roma,
tendenze e nazionalità: una ricerca sul campo (2019-2020)». Ulteriori interviste sono state
realizzate autonomamente nell’anno in corso, 2021.

DOI: 10.32060/I.I.I.13.181-195 181


VIVIANA SCHIAVO

L’islamizzazione del Bengala


La storia della presenza islamica nell’attuale Bangladesh sembra risa-
lire al XIII secolo d.c., quando centinaia di cavalieri turchi, capeggiati da
un ufficiale di nome Muhammad Bakhtiyar, risalirono il delta del Gange,
conquistando la maggior parte dell’allora regione del Bengala. A partire da
questo periodo e fino al XVIII secolo, dei sovrani musulmani governarono
su quasi tutto il subcontinente indiano. Tuttavia solo la popolazione del
Bengala, tra le molte delle province interne dell’India, si convertì preva-
lentemente all’islam. Quando nel 1947, l’India britannica venne divisa in
due Stati, India e Pakistan, sulla base della distribuzione religiosa, il Ben-
gala venne a sua volta suddiviso: l’area occidentale della regione, a mag-
gioranza induista, entrò a far parte della Repubblica dell’India, come Stato
del Bengala Occidentale, mentre la zona est, a maggioranza musulmana, fu
incorporato nello Stato del Pakistan, per poi diventare indipendente, con il
nome di Bangladesh, nel 1971.5
La prevalenza musulmana nel Bengala Orientale è il risultato di molte-
plici fattori, di ordine politico, economico e culturale. I governanti turchi,
per convenienza economica, non incentivarono la conversione della popo-
lazione all’islam. Tuttavia ne prepararono il terreno, finanziando studiosi
musulmani e costruendo moschee e madrase, allo scopo di affermare sim-
bolicamente il loro dominio politico6 e di rispondere alla pressione degli
ashrāf.7 La vera formazione musulmana della regione avvenne però nel
periodo successivo, sotto il governo della dinastia Moghul. Nei decenni
precedenti, infatti, alcuni cambiamenti geografici avevano trasformato l’i-
solata zona del Bengala Orientale in una regione maggiormente collegata
e fertile, elevata a centro dell’attività economica e politica con la decisione
dei Mongoli di stabilire la loro capitale a Dakha. Numerosi finanziamenti
vennero garantiti a coloro che convertivano intere foreste in zone coltivate,
a condizione che costruissero nel territorio anche una moschea o un tempio
induista. La maggior parte di questi avventurieri erano musulmani sufi,
motivo per cui la maggior parte dei nuovi edifici sacri furono delle mo-
schee. Questi ultimi inoltre con i loro nuovi metodi di coltivazione garanti-
rono maggiore stabilità economica ai contadini non musulmani della zona,
diventando per loro dei veri e propri leader carismatici e contribuendo ad
attrarli verso l’islam.8

5
R.M. Eaton, The Rise of Islam and the Bengal Frontier, pp. XXI-XXII e p.4.
6
Cfr. R.M. Eaton, The Rise of Islam and the Bengal Frontier, pp.22-70.
7
Termine che indica le classi aristocratiche musulmane costituite da commercianti,
letterati, capi militari e amministratori immigrati in Bengala insieme ai nuovi governanti.
8
Cfr. R.M. Eaton, The Rise of Islam and the Bengal Frontier, pp.194-267.

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Più in generale, il ruolo centrale giocato dal sufismo nella regione fu


dettato anche dal fatto che questo trovò terreno fertile nell’interazione
con le tradizioni religiose locali, in particolare quella della Sahajiyā.9
Il dialogo filosofico tra i due movimenti religiosi, accomunati dalla lot-
ta al sistema delle caste e all’intolleranza delle rispettive ortodossie,
portò a uno storico processo di sincretismo. Fu questo tipo di islam, in
sintonia con con una visione del mondo “agricola” e influenzato dalla
tradizione Sahajiyā, ad essere principalmente interiorizzato dai ben-
galesi.10 L’islamizzazione della regione non fu, quindi, un fenomeno
imposto dall’alto, ma l’assimilazione di un sistema religioso non perce-
pito come estraneo, un’assimilazione spesso dai tratti sincretici, che al
suo interno ha mantenuto alcune tradizione premusulmane e molti dei
valori e dei costumi locali.11
Proprio tale sincretismo, nel XIX secolo, venne messo in discussione
dai movimenti revivalisti che predicavano un ritorno alla purezza dell’i-
slam.12 Contemporaneamente all’emergere di queste tendenze in tutto il
subcontinente indiano, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, emerse
un nuovo movimento riformista induista, lo Shuddī (letteralmente “pu-
rificazione”), con lo scopo di riportare all’induismo i musulmani prece-
dentemente convertiti. In tutta risposta, i musulmani dell’India britannica
diedero vita ad altrettante esperienze di predicazione.13 È in questo perio-
do, in particolare all’inizio degli anni ‘20 del secolo scorso, che Moulana
Muhammad Ilyās, dotto musulmano di formazione deobandi14, diede vita
alla Jamāʻt al-tablīgh.

9
Si tratta di una corrente eterodossa del Visnuismo Tantrico molto diffusa nel Bengala,
che si proponeva come controparte dell’ortodossia induista, tendendo ad agire in opposi-
zione alle scritture scolastiche. Scopo di questo percorso controcorrente era la scoperta del
vero sé. Dasgupta spiega dettagliatamente le assonanze tra tale tradizione e il sufismo. Cfr.
A. Dasgupta, «Islam in Bengal: Formative period», p.31 e 35-38.
10
A. Dasgupta, «Islam in Bengal: Formative period», pp.35-36.
11
A. Dasgupta, «Islam in Bengal: Formative period», p.38.
12
Tra i pionieri del rinnovamento della fede musulmana e del ritorno ad un islam più
ortodosso, emerge Shāh Walī Ullāh (1703-1762), che dopo un viaggio a Medina introdusse
lo studio degli hadīth nel subcontinente indiano. Lo stesso ebbe una particolare influenza
sui movimenti revivalisti che sorgeranno successivamente nella regione del Bengala. B.
Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, p.35.
13
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, p.36
14
Movimento sunnita riformista nato in India nel XIX secolo in reazione alla colo-
nizzazione inglese. Deve il suo nome al seminario della città indiana di Deoband, suo
principale centro di formazione religiosa e tra i più importanti di tutto il mondo islamico.
I deobandi sono diffusi soprattutto in India e in Pakistan.

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VIVIANA SCHIAVO

I tablīgh e la re-islamizzazione dei “lontani”


Con l’espressione Jamāʻt al-tablīgh si intende un movimento missiona-
rio nato in India e diffusosi velocemente in tutto il mondo, con milioni di
seguaci in circa 165 Paesi.15 Ha come principali obiettivi il rinnovamento
della fede islamica, con una particolare attenzione verso coloro che si sono
allontanati dalla pratica religiosa: «Tablīgh per me è come una madre dal
punto di vista religioso. Mi ha adottato e mi ha permesso di conoscere
bene l’islam. Non è la religione, ma una porta per entrare nella religio-
ne».16 Da qui la centralità dei concetti di daʻwa, ossia di invito alla fede, e
di tablīgh, la predicazione17, due termini che indicano l’incessante attività
condotta dai predicatori del movimento per riportare alla fede i musulmani
considerati “lontani”. Particolare importanza viene data alla purificazione
spirituale dell’individuo: «Io vedo il Tablīgh come una scuola di educa-
zione del proprio ego. – afferma l’imam Saifeddine Maaroufi, aderente
del movimento – in qualsiasi attività ribadiamo sempre “nakhruju li-islāh
anfusinā”, usciamo per correggere noi stessi. La prima persona a dover
essere migliorata e sollevata eticamente siamo noi». L’imam spiega infatti
che «se si perde di vista questo, ci si trasforma in maestri improvvisati.
Questa attitudine ci rende invece più umili, più empatici verso il prossimo
e verso i suoi limiti, perché li riconosciamo come nostri».18
Dopo il cambiamento individuale, l’altro grande scopo della Jamāʻt è
quello di ravvivare la sunna del Profeta all’interno della comunità musul-
mana. L’islam diffuso e praticato dai suoi predicatori erranti, attraverso
un approccio “porta a porta” e personale, è infatti basato su una rigida e
totale imitazione di Muhammad. La reislamizzazione avviene dunque a
partire dalla pratica quotidiana, trasformando ogni gesto umano in un atto
di devozione. La stessa daʻwa è da svolgersi a piedi, senza l’ausilio di al-

15
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, p.3.
16
Intervista a Ahmed Berraou, 04/03/2021.
17
Entrambi i termini hanno un posto di rilievo nella tradizione islamica. La radice ver-
bale del termine tablīgh, b-l-gh, indica il raggiungimento di un luogo, di un obiettivo o di
un’età. Si trova spesso nel Corano seguita dalla parola risāla (messaggio), intendendo l’atto
di comunicare il messaggio divino. Lo stesso termine tablīgh, nella tradizione islamica, può
trovarsi insieme a risāla o in alternativa a daʻwa indicando in quest’ultimo senso la comu-
nicazione dell’invito (a Dio). In epoca moderna, tablīgh viene utilizzato con il significato
di “proselitismo”, mentre nel movimento missionario indiano è considerato un dovere che
ricade su tutti i musulmani. La parola daʻwa deriva invece dalla radice d-ʻ-w, letteralmente
“invitare, chiamare”. Nel Corano viene utilizzata col significato di “invitare le persone a
Dio”. Nell’uso moderno, tablīgh e daʻwa sono spesso utilizzati come sinonimi.
18
Intervista all’imam di Lecce Saifeddine Maaroufi, 01/03/2021.

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cune tecnologie, perché così avveniva ai tempi delle prime rivelazioni.19 Il


gruppo si definisce, inoltre, apolitico.
A livello teorico, le fondamenta del movimento sono costituite da sei
principi: 1) La Kalima Tayyiba (lett. “la parola buona”), ossia la professio-
ne di fede che ribadisce il concetto di tawhīd, l’unicità di Dio, e include il
tablīgh, definendolo un dovere di tutti i musulmani; 2) la preghiera, che deve
essere eseguita correttamente e preferibilmente in moschea; 3) ʻilm e dhikr,
rispettivamente la conoscenza dei principi dell’Islam, fondamentale per gli
ulema, e il ricordo di Dio, ossia la ripetizione rituale di brevi preghiere cara
ai sufi; 4) Ikrām-i-muslim, il rispetto per i musulmani; 5) Ikhlās-i-niyyat o la
sincerità delle intenzioni, principio secondo il quale ogni azione deve essere
rivolta al solo compiacimento di Dio; 6) Tafrīgh-i-waqt, cioè il tempo libero
dalle occupazioni mondane e dedicato al tablīgh.20
Punto di partenza del fondatore e primo amīr del movimento, Muham-
mad Ilyās, fu la critica all’efficacia delle madrase, condivisa da molti
musulmani: la mancanza di fondi aveva, infatti, portato gli studiosi mu-
sulmani a richiedere l’aiuto finanziario dei britannici, con la conseguente
introduzione dell’educazione inglese nel sistema tradizionale, al fine di
ampliare le possibilità di impiego lavorativo degli studenti. Col tempo,
però, questo cambiamento finì per essere percepito come una distorsione.21
Riflettendo sulla formazione dei musulmani, Ilyās entrò in contatto con dei
gruppi di predicazione e con il metodo del gasht (dal persiano, “fare dei
giri”), che consiste nello girare nelle zone intorno a una moschea invitando
le persone alla pratica religiosa. Partendo da una regione povera dell’India,
la zona di Mēwāt, iniziò ad usare lo stesso metodo, predicando e invitan-
do altri musulmani a seguirlo. Fin da subito, il movimento rivolse la sua
attenzione alle fasce più disagiate della popolazione, una peculiarità che è
rimasta una costante della jamāʻt, in qualsiasi parte del mondo in cui si è
diffusa. Al contempo, però, Ilyās cercò di attirare il sostegno degli ulema
più in vista.22 È con il suo successore, il figlio Muhammad Yūsuf Kāndhal-
awī, secondo amīr della Jamāʻt al-tablīgh, che quest’ultima diventerà un
movimento transnazionale, arrivando a diffondersi in più di novanta stati.23
Da un punto di vista pratico, i compiti principali di un seguace del mo-
vimento sono l’apprendimento e la predicazione, da realizzarsi secondo
modalità e tempistiche stabilite. Ogni giorno è richiesto di svolgere due

19
Intervista all’imam Saifeddine Maaroufi, 01/03/2021.
20
M. K. Masud (a cura di), Travellers in faith, pp. 21-24.
21
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, p.36.
22
F. Dassetto, Le tabligh en Belgique, p. 10.
23
M. K. Masud (a cura di), Travellers in faith, pp. 13-17.

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VIVIANA SCHIAVO

sessioni di taʻlīm, ossia di studio del Corano e degli hadīth. A questo sco-
po, i principali testi di riferimento sono il Fazail-e-amaal (la virtù del-
le azioni)24, del dotto Muhammad Zakarīyyā Kāndhlawī, e i tre volumi
dell’Hayat-e-Sahaba (Le vite dei compagni), di Yūsuf Kāndhalawī. En-
trambi ribadiscono l’importanza data dalla Jamāʻt all’esempio, non solo
del Profeta ma anche dei suoi primi seguaci: «I compagni del Profeta erano
come noi, quindi non possiamo dire che non ce la facciamo, perché anche
loro erano degli esseri umani e ce l’hanno fatta».25 L’obbligo della daʻwa,
ossia l’azione di uscire per invitare dei musulmani a vivificare la loro fede
e a entrare a far parte del movimento, è da compiersi sia a livello locale
(ogni giorno in famiglia per due ore e mezzo e una volta a settimana nella
zona intorno alla moschea), che nel corso di viaggi di predicazione, ap-
prendimento e ritiro spirituale (ogni mese per tre giorni, una volta all’anno
per quaranta giorni e una volta nella vita per quattro mesi tra India, Ban-
gladesh e Pakistan).26
Per il loro approccio e la determinazione nei contatti diretti, i tablīgh sono
spesso stati comparati ai “testimoni di Geova”. In generale, l’islamologo
pakistano Masud sottolinea come l’invito al rinnovamento della fede sembri
essere un fenomeno comune a quasi tutte le religioni nel XX secolo. In alcu-
ni casi sono sorti dei movimenti che condividono un’enfasi sul ritorno alle
scritture e un’avversione alla modernizzazione, come alcuni gruppi puritani
o evangelici.27 Sulla stessa scia, il politologo Tozy, che ha studiato il movi-
mento in Marocco, associa la Jamāʻt ai gruppi cristiani evangelici “conver-
sionisti” (riprendendo una classificazione dei movimenti religiosi fatta dal
sociologo Wilson). Si tratta di un’espressione che indica i gruppi evangelici
guidati dalla convinzione che il mondo sia corrotto perché lo è l’uomo: cam-
biando l’essere umano si può quindi cambiare il mondo. Caratteristiche di
tali gruppi sono il revivalismo e la predicazione. Tozy ravvisa dei punti in
comune con i predicatori musulmani anche nella facilità di linguaggio e nel
dinamismo attivo dei suoi membri.28 È necessario, tuttavia, sottolineare che
nel movimento indiano queste attività e il fervore pietista non sono rivolti
alla conversione dei non musulmani ma al riavvicinamento dei musulmani.
In merito al rapporto con le altre religioni, la Jamāʻt non fornisce particolari

24
Si tratta di una raccolta di racconti basati sugli hadīth.
25
Intervista all’imam Saifeddine Maaroufi, 01/03/2021.
26
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, pp. 2-3; Muhammad Khalid Masud (a cura
di), Travellers in faith, pp. 26-27.
27
M.K. Masud (a cura di), Travellers in faith, p. XVII.
28
M. Tozy, Sequences of a quest: tablīghī jamāʻt in Morocco, in M. K. Masud (a cura
di), Travellers in faith, 161-173, p. 164.

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indicazioni. Tuttavia i suoi aderenti sottolineano come i valori fondanti del


movimento, tra cui il rispetto per il prossimo, la mitezza, l’umiltà e la mise-
ricordia, possano facilitare un eventuale dialogo interreligioso: «Noi predi-
chiamo l’amore e la pietà, il desiderare per l’altro ciò che desideriamo per
noi. Un’attitudine che possiamo comparare all’insegnamento cristiano “ama
il tuo prossimo come te stesso”».29

La Jamāʻt in Bangladesh
L’arrivo dei tablīgh nell’attuale Bangladesh è attestato nel 1927, anno in
cui un gruppo di predicatori entrò nella regione del Bengala dalla parte set-
tentrionale dell’India. Il movimento riscontrò fin da subito un enorme suc-
cesso e il Paese divenne in poco tempo una delle sue principali culle, come
dimostra l’enorme partecipazione alla Bishwa Ijtema, la riunione annuale
del movimento che ha luogo a Tongi. Ogni anno attrae milioni di persone
da tutto il mondo, costituendo ormai il secondo raduno musulmano più
partecipato, subito dopo l’hajj: «mai nella mia vita mi è capitato di vedere
così tante persone insieme. Non litigavano mai, si dedicavano esclusiva-
mente alla preghiera e parlavano solo di daʻwa. Mi sembrava impossibi-
le», ricorda l’imam Mahfuz che ha partecipato all’evento diverse volte, a
partire dal 2004.30 Alcuni dei partecipanti non fanno parte del movimento,
ma sono ugualmente convinti che la partecipazione a questo evento porti
la benedizione di Dio. L’ijtema non è un concetto nuovo nell’islam, in cui
indica qualsiasi riunione di massa tra musulmani. Tuttavia, col tempo è
diventata una pratica associata alla Jamāʻt. Il movimento non la considera
un pellegrinaggio, ma un momento di riunione durante il quale poter ap-
prendere e discutere diversi aspetti, dai più propriamente religiosi a quelli
maggiormente pratici e organizzativi. È inoltre un momento propizio per
mandare nuovi gruppi di aderenti a realizzare la daʻwa. Per alcuni l’ijtema
diventa infatti una via preferenziale di avvicinamento al movimento, un
momento di trasformazione, in cui vengono spronati a iniziare un viaggio
di predicazione.
In Bangladesh, la prima ijtema ha avuto luogo nel 1954 a Dakha: da
allora il numero dei partecipanti è salito al punto da dover spostare diverse
volte il luogo della riunione, fino ad arrivare, nel 1966, all’attuale località
permanente: Tongi. Ciononostante, nel 2011, l’ulteriore aumento dei parte-
cipanti ha portato alla realizzazione della riunione in due diversi momenti.

29
Intervista a Ahmed Berraou, 04/03/2021.
30
Intervista all’imam Mahfuz della moschea Quba di Roma, 25/03/2021.

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VIVIANA SCHIAVO

L’organizzazione dell’evento è capillare e sostenuta dal coinvolgimento di


molti volontari. Fondamentale è il sostegno del governo, che organizza le
navette per gli spostamenti e ha fatto costruire i bagni permanenti. Anche
la maggior parte dei leader politici partecipa all’ijtema ogni anno.31
Molte sono le ragioni che hanno portato il Bangladesh ad essere tra
i principali centri mondiali della Jamāʻt, dopo l’India. Tra queste, una è
probabilmente il sostegno statale. Se in un primo momento, subito dopo
l’indipendenza del 1971, il governo del Bangladesh iniziò un processo di
secolarizzazione del Paese, attraverso il divieto, inserito nella nuova co-
stituzione, di intraprendere qualsiasi attività politica su base religiosa, lo
stesso dovette fare un passo indietro poco tempo dopo. Le difficoltà eco-
nomiche, infatti, spinsero il Bangladesh a richiedere l’aiuto finanziario dei
ricchi Paesi del Golfo, in alcuni casi in cambio di una re-islamizzazione
degli affari pubblici. Venne dunque avviato un processo di reinserimento
dell’islam nella sfera pubblica, utilizzato anche come mezzo di legittima-
zione politica, attraverso i finanziamenti alle madrase e la creazione della
Fondazione Islamica fino alla reintroduzione dell’islam nella Costituzione
e al suo riconoscimento come religione di Stato nel 1988. Tutto ciò inco-
raggiò le attività dei movimenti a favore di un islam politico, in particolare
della Jamaat-e-Islami, ma anche dei movimenti di predicazione come la
Jamāʻt al-tablīgh. In particolare, quest’ultima trasse molta forza dal pro-
cesso di islamizzazione del Paese, ricevendo consistenti aiuti dallo Stato,
per esempio in occasione della realizzazione della Bishwa Ijtema.32
Tra i motivi del successo del movimento missionario si possono ri-
scontrare anche quelli di carattere sociale: in un Paese in qui si tende a
mantenere una distanza accentuata, anche fisica, tra le classi, per molti la
partecipazione al movimento significa anche la possibilità di sovvertire
lo status sociale, eliminando le gerarchie e mescolandosi con persone di
differenti estrazioni nel corso delle molteplici attività. Durante i viaggi di
predicazione, infatti, tutti i partecipanti sono posti su un piano egualita-
rio: ognuno contribuisce ai diversi servizi da svolgere, pulendo, cucinando
e rivolgendosi gli uni agli altri utilizzando l’appellativo di van (fratello).
L’unica gerarchia prevista all’interno del movimento è quella dettata dalla
maggiore esperienza: ogni gruppo che svolge la daʻwa segue incondizio-
natamente le direttive di una guida, un amīr.
Più in generale, la Jamāʻt al-tablīgh gode di una fama positiva in Ban-
gladesh. A questo proposito, Siddiqi sottolinea come alcuni degli aderenti
da lui intervistati abbiano riscontrato un cambiamento nell’atteggiamento

31
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, pp. 77-83.
32
B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, pp.39-40.

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LA JAMĀ ʻT AL TABL Ī GH TRA IL BANGLADESH E L ITALIA

delle persone con cui interagivano e una maggiore attestazione di rispetto


pubblico dal momento in cui hanno iniziato a vestirsi ad immagine del Pro-
feta, ossia ad essere visibilmente riconoscibili come dei seguaci del movi-
mento. Tale rispetto si estende anche alla sfera più propriamente religiosa:
ai tablīgh viene riconosciuta l’autorità di parlare dell’islam in pubblico,
possibilità generalmente riservata agli ulema, agli imam e alle guide sufi.
Entrambi gli aspetti, la commistione tra le diverse classi sociali e il ricono-
scimento di una certa autorità religiosa, si riscontrano anche al livello pratico
della gestione delle moschee, attività per lo più concessa solo a persone con
un elevato status sociale: un’altra dimensione attraverso la quale il movimento
mescola le carte in tavola. Più in generale, la moschea ricopre un ruolo fonda-
mentale per la Jamāʻt al-tablīgh: è il centro (markaz) di gestione delle attività
dell’organizzazione, nonché il mezzo con il quale questa si diffonde in modo
più capillare. Attraverso le moschee, infatti, il movimento ha la possibilità di
raggiungere quella parte di comunità musulmana che non rientra tra i suoi
seguaci e di coinvolgerla in alcune delle sue attività, reclutando nuovi ade-
renti. L’attrazione esercitata dalla Jamāʻt a livello sociale e il suo ruolo nelle
moschee le permettono, quindi, di avere un’influenza sugli aspetti religiosi
della società, introducendovi le sue norme e i suoi valori e contrastando alcune
pratiche tradizionali dell’islam bangladese, ritenute non autentiche.33
Infine, un ulteriore campo di attrazione del movimento in Bangladesh è
quello medico: negli ultimi anni lo stesso ha, infatti, costruito diversi ospe-
dali e alcuni centri riabilitativi per tossicodipendenti, oltre ad avere tra i suoi
aderenti molti studenti di medicina. Queste strutture forniscono opportunità
lavorative a molti tablīgh e offrono delle prestazioni a prezzi competitivi
nell’assoluto rispetto delle norme islamiche, tra cui quella della separazione
tra i generi. In questo modo e attraverso le sessioni di taʻleem e di daʻwa
dispensate ai pazienti vengono attratti nuovi potenziali seguaci.34

La Jamāʻt in Italia
L’attestazione di rispetto a livello pubblico è anche ciò che ha colpito
l’imam Mahfuz, arrivato giovanissimo in Italia dal Bangladesh. È a Paler-
mo, sua prima città italiana di residenza, che ha conosciuto il movimento.

33
Per esempio, il modo popolare di festeggiare lo shab-e-barat, la 15° notte del mese
di Shaʻbān, considerata benedetta. Tradizionalmente i bangladesi la celebrano pregando e
preparando e condividendo del cibo con i più poveri, ma per i tablīgh la cucina distoglie
dalla concentrazione richiesta dalla preghiera. Allo stesso modo considerano un’innova-
zione sufi il Milad Mahfil, la pratica di lodare in gruppo Dio e il Profeta.
34
Cfr. B. Siddiqi, Becoming “Good Muslim”, pp.61-68.

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VIVIANA SCHIAVO

A l’età di 14 anni, mentre giocava a calcio con un amico, è stato avvicinato


da un gruppo di predicatori che lo ha invitato in moschea. Dopo un’ini-
ziale reticenza, dettata dalla poca pratica religiosa, Mahfuz ha deciso di
recarsi nella sala di preghiera, rimanendo colpito dai discorsi che venivano
fatti sul Paradiso, dalla pratica religiosa dei predicatori e dalla loro va-
sta conoscenza dell’islam, attraverso la quale ha preso coscienza della sua
ignoranza religiosa. Quando successivamente, per motivi lavorativi, si è
trasferito a Vicenza, vi ha trovato una folta comunità tablīgh ed ha iniziato
a partecipare ai giri di predicazione. L’esperienza lo ha convinto ad appro-
fondire la conoscenza della religione islamica, fino alla decisione di andare
in Bangladesh per conseguire una laurea in studi coranici. Attraverso di lui
anche tutta la sua famiglia si è riavvicinata all’islam, iniziando a studiare il
Corano e a praticare con maggiore assiduità. Questo grande cambiamento
ha suscitato lo stupore dei suoi conoscenti:
Quando mi sono avvicinato alla pratica tablīgh, ho iniziato a sentire
il rispetto delle persone che mi circondavano, un rispetto che non avevo
mai immaginato, né sperimentato e che mi ha spinto a proseguire. Prima
dell’incontro con la Jamāʻt gli amici di mio padre mi criticavano sempre,
perché ero spesso fuori casa a giocare e non praticavo. – ricorda l’imam
– La daʻwa mi ha cambiato, prima ero sempre aggressivo, ma pian piano
mi sono calmato e ho cercato di imitare la pazienza del Profeta, che non
rispondeva alle provocazioni.35
Questa trasformazione individuale e pratica viene spesso sottolineata
dagli aderenti della Jamāʻt e ne è lo scopo principale, soprattutto nella
prospettiva dell’allontanamento dalla mondanità. Anche Moni, immigrato
dal Bangladesh in Italia più di venti anni fa, racconta come il suo avvicina-
mento al movimento missionario, avvenuto a Roma, abbia cambiato le sue
abitudini e il suo stile di vita:
Io sono un commerciante e prima mi capitava di bere qualche birra con
gli amici italiani con cui lavoravo. Da quando, nel 2012, ho iniziato ad
uscire per svolgere la daʻwa non bevo più, mangio solo carne halāl e ho
capito che facevo molti errori nella pratica religiosa. Il tablīgh cambia il
modo interiore di vivere la vita quotidiana. Se si fa il taʻlīm in casa, questo
trasforma i rapporti famigliari perché il diavolo lascia quella casa. Io sono
diventato più calmo, ora so che quando qualcuno si arrabbia o sbaglia è un
suo problema e io devo pregare per quella persona.36
Sebbene in Italia la Jamāʻt al-tablīgh sia diffusa principalmente tra i
musulmani originari del Bangladesh, non sono stati loro i primi a porta-

35
Intervista all’imam Mahfuz, 25/03/2021.
36
Intervista a Moni, 05/03/2021.

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LA JAMĀ ʻT AL TABL Ī GH TRA IL BANGLADESH E L ITALIA

re il movimento nella Penisola: venticinque anni fa la daʻwa in Italia era


rappresentata dagli arabi, poi sono arrivati gli aderenti pakistani e infine i
bengalesi.37 In particolare, un ruolo di rilievo è stato giocato dai cittadini
provenienti dalla Tunisia e dal Marocco, un Paese che ha un «peso fon-
damentale nella scacchiera tablīgh in Medioriente. Il Markaz al-Nūr è il
primo in Africa e ogni anno migliaia di marocchini escono per svolgere
la daʻwa».38 Di origini marocchine è anche una delle figure chiave del-
la diffusione del movimento missionario in Italia: AbdulHamid Saydawi,
fondatore di una delle prime moschee della Capitale e attuale imam della
moschea romana Omar. L’imam AbdulHamid è anche il presidente della
Federazione Islamica del Lazio, il ramo locale della Confederazione Isla-
mica Italiana (CII).39 Proprio questo suo ruolo fa sì che la maggior parte
delle moschee tablīgh presenti nella città di Roma aderiscano alla CII.40 Il
movimento missionario è infatti sprovvisto di una propria rappresentanza
ufficiale, caratteristica che lo rende indirettamente esposto alla cosiddetta
“guerra delle moschee” menzionata da Stefano Allievi, ossia quel mecca-
nismo per cui le diverse associazioni islamiche presenti in Italia cercano,
a colpi di numeri di sale di preghiera, di stabilire la propria preminenza
nel variegato panorama dell’islam italiano e di accreditarsi come legittimi
rappresentanti dello stesso.41 Nel caso romano a prevalere è la Confedera-
zione Islamica, ma la situazione non è uniforme su tutto il territorio della
Penisola. Ne è un esempio Ahmed Berraou, seguace del movimento e re-
ferente per la Calabria dell’altra grande organizzazione dell’islam italiano,
l’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche in Italia).42
Difficile quantificare il numero degli aderenti tablīgh in Italia, visti i
molti simpatizzanti del movimento. Le ijtema nazionali hanno assistito
alla partecipazione di decine di migliaia di persone, ma secondo l’imam
Mahfuz, molti di loro erano semplicemente dei musulmani curiosi, perso-
ne che non aderiscono in tutto e per tutto alla pratica del movimento. Ciò

37
Intervista all’imam Mahfuz, 25/03/2021.
38
Intervista a Ahmed Berraou, 04/03/2021.
39
Si tratta di una delle organizzazioni rappresentative dei musulmani italiani, particolarmente
legata alla Grande Moschea di Roma e al Regno del Marocco. Consultare Massimo Abdallah
Cozzolino, La Confederazione islamica e “gli Islam” italiani, «Fondazione Oasis», 12/12/2019,
https://www.oasiscenter.eu/it/confederazione-islamica-italiana-cozzolino-abdallah-massimo.
40
Per un approfondimento, vedi V. Schiavo, «L’Islam a Roma, tendenze e nazionalità:
una ricerca sul campo (2019-2020)».
41
Stefano Allievi, La guerra delle moschee, pp. 79-83.
42
Per approfondimenti si veda A. Frisina, The Union of Islamic Communities and
Organisations and related groups in Italy, in Peter, F., Ortega, R., Islamic Movements of
Europe, 115-118, p. 116.

191
VIVIANA SCHIAVO

che è indubbio è il ruolo giocato dalla Jamāʻt nella costruzione di nuove


moschee. Nel Lazio, per esempio, negli ultimi 15 anni, si è assistito a un
aumento esponenziale del numero delle moschee con l’apertura di ben 18
sale di preghiera,43 molte delle quali ad opera del movimento tablīgh.44
Anche il caso della provincia di Cosenza è esemplificativo: quando Ah-
med Berraou è arrivato dal Marocco nella città calabrese nel 1995 non ha
trovato nessun tablīgh. Con il tempo è riuscito ad entrare in contatto con i
pochi praticanti locali del movimento. Insieme a loro ha iniziato a predica-
re in Calabria e ad aprire nuove moschee, portando il numero delle sale di
preghiera presenti nella provincia di Cosenza dalle 3 già esistenti a 15.45
In Italia il movimento è infatti diffuso soprattutto al Nord, in Veneto
e in Emilia Romagna. Tuttavia è attualmente presente in tutta la Peniso-
la ed organizzato in cinque regioni o mintaqa: il Veneto; la Lombardia;
L’Emilia Romagna; la regione costituita da Umbria, Lazio e Campania
e infine quella che riunisce Sicilia e Sardegna.46 Il coordinamento tra le
diverse moschee avviene attraverso le mashwara, i momenti di consulta-
zione obbligatori tra gli aderenti al movimento e previsti anche per la sua
componente femminile.47 A livello provinciale, le moschee si incontrano
una volta a settimana, mentre mensilmente ha luogo la mashwara mintaqa,
ossia la riunione regionale. Vi è poi la mashwara o ijtema nazionale, orga-
nizzata ogni quattro mesi e ogni volta in posti diversi. Stessi tempi e prin-
cipio di turnazione, infine, per l’ijtema europea. Se prima le ijtema italiane
e europee coinvolgevano tutti gli aderenti al movimento, ora invece, visti
il numero elevato di seguaci e i problemi organizzativi che ne derivavano,
queste sono riservate solo ai seguaci di vecchia data, i cosiddetti “anzia-
ni”.48 In Italia non c’è un unico amīr, ma un consiglio degli anziani, che
stabilisce la tempistica delle diverse mashwara e nomina un amīr per quel-

43
Alessandra Caragiuli, Islam Metropolitano, p. 37.
44
Nella provincia di Roma sono undici le moschee aderenti al movimento. Si tratta del-
le moschee: Omar (Roma quarticciolo), al-Nur (Roma Pigneto), Makki (Roma Pigneto),
Quba (Roma Tor Pignattara), Roma (attualmente chiusa, Roma Torpignattara), al-Wahid
(Velletri), Moschea Central (Roma Piazza Vittorio), di S. Vito (Roma Piazza Vittorio),
di via Tolemaide (Roma Ottaviano), di Lavinio, di Ardea, di Aprilia. Intervista all’imam
Bistarine Tayeb, 04/12/2019.
45
Intervista a Ahmed Berraou, 04/03/2021.
46
Intervista all’imam AbdulHamid Saydawi, 20/12/2019.
47
La componente femminile è parte integrante del movimento tablīgh. Per le donne
sono previsti degli specifici momenti di riunione e predicazione. Per approfondimenti vedi
B. D. Metcalf, Tablīghī Jamāʻat and Women, in M. K. Masud (a cura di), Travellers in
faith, pp. 44-58; A. De Féo, Femmes du Tabligh en Asie du Sud-Est.
48
Intervista all’imam AbdulHamid Saydawi, 20/12/2019.

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LA JAMĀ ʻT AL TABL Ī GH TRA IL BANGLADESH E L ITALIA

lo specifico incontro.49 Al momento tutte le riunioni sono bloccate a causa


dell’emergenza causata dalla diffusione del coronavirus Sars-Cov-2.50

Conclusioni
I casi del Bangladesh e dell’Italia, seppur con caratteristiche e numeri
differenti, sono illustrativi di alcune delle ragioni della grande diffusione
della Jamāʻt al-tablīgh a livello internazionale. In particolare, si riscontra-
no motivazioni di ordine individuale e sociale. Alcune delle persone che
si sono avvicinate al movimento raccontano di essere state inizialmente
attratte dalla mitezza dei predicatori: «La prima volta che ho incontrato
i tablīgh, in Marocco, sono rimasto affascinato dal loro modo di parlare
bellissimo, misericordioso, quasi magico. Le loro parole ti rimangono nel
cuore».51 Altre caratteristiche particolarmente attrattive delle modalità co-
municative della Jamāʻt sono l’importanza data alla prospettiva escatolo-
gica e la semplicità del linguaggio utilizzato: le regole esposte sono chiare
e lo stile comprensibile da tutti, anche dalle persone meno istruite.52 «La
Jamāʻt al-tablīgh ti dà una precisa linea di condotta, da seguire per tutta la
vita. La sua facilità lo rende accessibile a tutte le categorie sociali», confer-
ma Ahmed Berraou.53 Vediamo dunque i risvolti sociali della metodologia
comunicativa e della pratica del Movimento, che fin dalla sua nascita ha
mostrato una particolare predilezione verso le categorie più disagiate del-
la società. Alla facilità di comprensione si unisce la preminenza data dal
gruppo all’uguaglianza tra i suoi membri, aspetto che porta a un sovverti-
mento delle tradizionali classificazioni sociali: ricchi e poveri condividono
gli stessi spazi e svolgono i medesimi compiti. Caratteristica che si va ad
aggiungere al grande senso di rispetto pubblico percepito dai nuovi ade-
renti, che li spinge a proseguire lungo il percorso tracciato dalla Jamāʻt.
A livello generale, aspetto peculiare del movimento è la capacità di
adattabilità al contesto.54 L’imam Saifeddine, per esempio, racconta come
in Tunisia, quando lui ha iniziato a praticare il tablīgh, questo fosse tolle-
rato e non autorizzato dallo Stato. Per questa ragione la predicazione era
sempre limitata a una sfera privata ed era richiesta una lunga fase di forma-

49
Intervista all’imam Saifeddine Maaroufi, 01/03/2021.
50
Intervista all’imam Mahfuz, 25/03/2021.
51
Intervista a Ahmed Berraou, 04/03/2021.
52
Gilles Kepel, Foi et pratique: tablīghī jamāʻt in France, in M. K. Masud (a cura di),
Travellers in faith, 188-205, pp. 188 e 194.
53
Intervista a Ahmed Berraou, 04/03/2021.
54
Vedi F. Dassetto, Le Tabligh en Belgique. pp. 10-11.

193
VIVIANA SCHIAVO

zione, della durata di sei mesi, prima di poter uscire per praticare la daʻwa,
al fine di conoscere la situazione del Paese e sapere come comportarsi: «In
questo si fa sempre riferimento alla prima epoca dell’islam. Il Profeta ha
vissuto tredici anni alla Mecca, in cui lui e i suoi seguaci erano oppressi e
non avevano la possibilità di fare la daʻwa in pubblico. Si parla infatti di
Paesi meccani, cioè Paesi in cui i musulmani si trovano nella stessa con-
dizione dei primi fedeli dell’islam a Mecca».55 È proprio in un contesto
in cui l’islam è minoritario che nasce il movimento tablīgh: da qui anche
l’importanza del gruppo, la jamāʻat per l’appunto56. In molti Paesi europei
il movimento ha inoltre avuto un ruolo fondamentale nella formazione di
una coscienza socio-religiosa tra le minoranze57, affermandosi in momen-
ti di particolare crisi sociale e identitaria, all’interno di una popolazione
marginalizzata, caratteristica questa che è indubbiamente riscontrabile
anche nel caso italiano. Tale ruolo traspare anche dall’elevato numero di
moschee costruito dal movimento nei diversi Paesi europei, così come in
Marocco58: la moschea, come abbiamo visto, è infatti il fulcro dell’attività
della Jamāʻat al-tablīgh. Il forte accento sull’adattabilità è probabilmente
tra le principali ragioni del considerevole successo della Jamāʻat a livello
mondiale, una caratteristica che, insieme ad altri fattori, ne ha fatto un mo-
vimento transnazionale in grado di essere presente in Paesi con condizioni
politiche, culturali e sociali differenti, come il Bangladesh e l’Italia.

Bibliografia

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Marsilio, Venezia, 2010.
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Dassetto, F., Le tabligh en Belgique. Diffuser l’Islam sur les traces du Prophète,
Academia – Sybidi Papers, Louvain-la-Neuve, 1988
De Féo, A., «Femmes du Tabligh en Asie du Sud-Est», Les Chaiers de L’Orient
83 iii (2006)

55
Intervista all’imam Saifeddine Maaroufi, 01/03/2021.
56
M. Tozy, Sequences of a quest: tablīghī jamāʻt in Morocco, in M. K. Masud (a cura
di), Travellers in faith, 161-173, p. 164.
57
M. K. Masud (a cura di), Travellers in faith, p. XI.
58
M. Tozy, Sequences of a quest: tablīghī jamāʻt in Morocco, in Muhammad Khalid
Masud (a cura di), Travellers in faith, 161-173, p. 162.

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LA JAMĀ ʻT AL TABL Ī GH TRA IL BANGLADESH E L ITALIA

De Féo, A., Le Tabligh, un islam tranquillement conquérant, in Arnaud Leveau


e Benoît de Tréglodé (a cura di), L’Asie du Sud-Est 2010 : Les événements
majeurs de l’année, IRASEC, Open Edition, Marseille, pp. 61-73
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Siddiqi, B., Becoming “Good Muslim”, Springer, Singapore 2018
Schiavo, V., «L’Islam a Roma, tendenze e nazionalità: una ricerca sul campo
(2019-2020)», Fondazione Oasis – Working Papers, Febbraio 2021

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