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Il volume è tratto dalla tesi di laurea del-


l’autrice in Scienze Politiche e Relazioni
Internazionali, Facoltà di Lettere e Filo-
sofia, Università del Salento, a.a. 2006-2007
(rel. prof.sa M.G. Iurlano)
Collana “Tesi e Percorsi di Ricerca”

Volume XLIV

TEORIA DEI GIOCHI


E RELAZIONI INTERNAZIONALI
«LA STRATEGIA DEL CONFLITTO»
di THOMAS C. SCHELLING

FRANCESCA SALVATORE

L’Harmattan Italia
via Degli Artisti 15 - 10124 Torino
“Alla mia famiglia”

harmattan.italia@gmail.com

www.editions-harmattan.fr

© L’Harmattan Italia srl, 2016


SOMMARIO

INTRODUZIONE 7

I. Il neorealismo strategico 10
1. Il ritorno del realismo
2. La nascita del neorealismo
3. Il neorealismo strategico e “The Strategy of Conflict”
4. Contrattare
5. Contrattazione, comunicazione e guerra limitata

II. La teoria dei giochi 31


1. Strategia e deterrenza
2. Che cos’è la teoria dei giochi?
3. Il problema della contrattazione
4. Il contributo di John F. Nash
5. Come si rappresentano i giochi
6. Thomas C. Schelling e la classificazione dei giochi
7. Schelling, la teoria dei giochi e le strategie dissuasive
8. I paradossi della teoria dei giochi

III. Applicazioni della teoria dei giochi 52


1. Aspetti tecnici della guerra atomica
2. Il dilemma della sicurezza
2.1. Balancing
2.2. Buckpassing, lo scaricabarile
2.3. Bandwagoning
3. Brinkmanship, la politica del rischio calcolato
4. MAD, un gioco “atomico”

NOTE 73

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 78

5
«Se la matematica e la scienza prendessero il
posto della religione e della superstizione nelle
scuole e nei media, il mondo diventerebbe un
luogo più sensato, e la vita più degna di essere
vissuta.
Che ciascuno porti dunque il suo contributo,
grande o piccino, affinché questo succeda, per
maggior gloria dello Spirito Umano»

PIERGIORGIO ODIFREDDI, Il matematico impertinente

6
INTRODUZIONE

Ho incontrato la teoria dei giochi, come molti, attraverso la


visione del film A Beautifid Mind di Ron Howard. Qualche
anno dopo, da studiosa, avrei scoperto che la teoria dei giochi
è molto di più che un insieme di furbe strategie per la dama o
gli scacchi; è il tentativo rivoluzionario di conciliare l’inconci-
liabile: la matematica e le scienze sociali.
La teoria dei giochi è, infatti, un insieme di modelli e strate-
gie che, attingendo ai principi dell’economia, della psicologia,
della scienza politica e sociale, tenta di creare analisi e previ-
sioni circa il comportamento dei soggetti sociali, siano questi
esseri umani, economie nazionali o eserciti.
Si tratta di una disciplina abbastanza giovane che si è impo-
sta con forza nel 1944, seguito alla pubblicazione di Theory of
Games and Economie Behavior di John Von Neumann e Oskar
Morgenstern. Da allora, è approdata nelle maggiori università
americane come Princeton o Stanford e, tra gli anni Quaranta e
Cinquanta, è divenuta oggetto di ricerche coperte da segreto
militare negli Stati Uniti.
Gli anni della Guerra Fredda sono sembrati l’occasione giu-
sta per utilizzare alcuni “giochi” allo scopo di prevenire mosse
e contromosse dei Sovietici. La teoria dei giochi è stata inoltre
proposta più volte per l’analisi della questione arabo-israeliana
e per la divisione etnica di Gerusalemme.
Strenui sostenitori di questa scienza innovativa sono da
annoverarsi matematici, psicologi, politici o economisti in
molte università del mondo, compresa l’Italia, dove la teoria
dei giochi è studiata da analisti del marketing, economisti,
imprenditori e politici.
Tale teoria, che ha conquistato il puro e tradizionalista
mondo scientifico europeo, ha “folgorato” Thomas Schelling,
economista statunitense e professore all’Università del
Maryland (dove si è occupato di affari esteri, sicurezza nazio-
nale, strategie nucleari e controllo degli armamenti).

7
Nel 2005 Thomas Schelling ha ricevuto il premio Nobel,
condiviso con Robert Aumann, «per aver fatto avanzare la
nostra comprensione del conflitto e della cooperazione tramite
la teoria dei giochi».1 Schelling è stato consulente per il Piano
Marshall in Europa, per la Casa Bianca e per l’Ufficio esecuti-
vo della Presidenza dal 1948 al 1953. Ha scritto gran parte
della sua tesi sugli introiti nazionali lavorando di notte, mentre
era in Europa. Ha lasciato il governo per entrare nella facoltà
di Economia dell’Università di Yale e, nel 1958, è divenuto
infine docente ad Harvard.
Il capolavoro di Schelling, The Strategy of Conflict (1960), è
stato il primo studio sulla contrattazione e sui comportamenti
strategici. Il saggio è considerato uno dei cento libri che hanno
avuto maggiore influenza sull’Occidente dopo il 1945.
Proprio Schelling ha inaugurato, tra gli anni Settanta ed
Ottanta, un nuovo filone delle relazioni internazionali, il neo-
realismo strategico. Questa corrente ha interpretato i rapporti
internazionali come giochi a somma zero e a somma positiva,
spiegando perché gli Stati combattono e perché, alcune volte,
abbandonano il loro animus dominandi per cooperare.

Il cap. I della presente ricerca – tratta da una tesi di laurea in


scienze politiche e relazioni internazionali, discussa
all’Università del Salento, facoltà di Lettere e Filosofia, nel-
l’a.a. 2006-2007 – delinea, in maniera sintetica, la situazione
internazionale tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni
Ottanta, in cui il ritorno dei toni della primissima Guerra Fredda
hanno fatto emergere il filone strategico schellinghiano.
Nel cap. II, tenendo presente il lavoro non solo di Schelling
ma anche il contributo di John Nash, sono analizzate le princi-
pali forme di gioco e le più comuni strategie dissuasive.
Poiché la teoria dei giochi nasce per spiegare situazioni di
conflitto nucleare e di corsa agli armamenti, nel cap. III è
approfondito un evento storico che ha fatto tremare il mondo
intero nei celebri thirteen days dell’ottobre 1962. Quella che è
nota come “crisi di Cuba”, si presta facilmente all’applicazio-
ne della teoria dei giochi definita MAD, versione che ha incon-

8
trato il consenso di alcune potenze, che ne hanno fatto il con-
cetto cardine sul quale basarono la loro politica strategica.
La teoria, enucleatasi in epoca di Guerra Fredda ma non per
questo scaduta di attualità, assume che ogni parte abbia suffi-
ciente potenziale bellico da distruggere l’altra e che ognuna
delle parti, se attaccata dall’altra per qualsiasi motivo, reagi-
rebbe con forza pari o superiore o comunque paragonabile. Il
risultato più probabilmente attendibile è che la battaglia si
intensificherebbe al punto che ognuna delle parti causerebbe
all’altra e, potenzialmente, anche ai suoi alleati una distruzio-
ne totale. Tale gioco complesso dimostra come, di fronte ad
una serie di strategie, sia spesso necessario scegliere il male
minore: i Sovietici, ad esempio, hanno rinunciato (1963) alle
loro basi missilistiche a Cuba per evitare un conflitto globale.

Tra le righe del presente lavoro, che si colloca a cavallo della


filosofia e della matematica, emerge una riflessione sulla
Guerra Fredda e sulla deterrenza nucleare in genere: la teoria
dei giochi evidenzia come le armi atomiche (che hanno giusti-
ficato la sua stessa formulazione) hanno generato, per parados-
so, una sorta di “pace atomica”.
Le terribili conseguenze di un’arma atomica, che l’uomo ha
sperimentato ad Hiroshima e Nagasaki, hanno creato un deter-
rente psicologico che ha evitato una guerra atomica globale,
surrogandola di volta in volta con conflitti a bassa intensità e
con dispute economiche.

9
I. IL NEOREALISMO STRATEGICO
DI THOMAS C. SCHELLING

1. Il ritorno del realismo

Negli anni successivi alla fine del Secondo Conflitto


Mondiale, la Guerra Fredda1 divenne il baricentro delle rela-
zioni internazionali tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: una
guerra costituita non da scontri diretti, ma da una serie di ten-
sioni, ultimatum e minacce. La contrapposizione Est-Ovest si
prestava facilmente ad un’interpretazione realista del mondo,
eppure, proprio in quei decenni di gravi tensioni, una parte
delle relazioni internazionali tra le principali democrazie
dell’Occidente, riguardò scambi commerciali e viaggi, comu-
nicazione e investimenti. Su queste relazioni, i liberali fonda-
rono un nuovo tentativo di creare una teoria delle relazioni
internazionali, alternativa al realismo ma, allo stesso tempo,
lontana dal liberalismo utopico degli anni Venti.2
Il neoliberalismo fornì un valido sostegno alle posizioni di
chi, negli ambienti accademici, scommetteva su relazioni inter-
nazionali più pacifiche e cooperative. Negli anni Settanta, tra
gli studiosi, era pressoché unanime la convinzione che tale
neoliberalismo fosse sul punto di prendere il sopravvento.
Fu la nuova formulazione del realismo, dovuta a Kenneth
Waltz, a far pendere l’ago della bilancia verso il realismo: a
riprova della fondatezza delle sue tesi su un mondo più coope-
rativo e interdipendente, il pensiero neoliberale poteva addurre
come prova convincente le relazioni tra le democrazie indu-
strializzate. Ma per tutti gli anni Settanta e Ottanta la contrap-
posizione Est-Ovest rimase il fondamento irriducibile delle
relazioni internazionali.
Le turbolenze degli anni Settanta segnalarono il venir meno
delle condizioni della crescita del secondo dopoguerra: da un
lato, gli Stati Uniti manifestarono crescenti difficoltà a reggere
il proprio ruolo; il passivo della bilancia dei pagamenti statu-

10
nitense, infatti, costringeva il resto del mondo a pagare il defi-
cit del bilancio statunitense; dall’altro lato, la stagflazione sem-
brò dimostrare la dannosità dell’eccessivo intervento dello
Stato nell’economia. Ciò indusse alcuni governi, come quello
statunitense di Ronald Reagan e quello britannico con
Margaret Thatcher, a intraprendere la via del neoliberismo. Sul
piano internazionale, Reagan puntò ad affermare il ruolo degli
Usa quali garanti dell’ordine mondiale, impegnati senza com-
promessi a combattere il comunismo e il terrorismo di matrice
islamica.
Nel corso degli anni Sessanta, il processo di distensione era
proseguito anche grazie ad una serie di accordi internazionali,
come il Trattato per la messa al bando delle armi batteriolo-
giche e tossiche (1972), gli Accordi di Helsinki nel 1975 (che
conclusero la prima Conferenza per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa), gli accordi Salt / del 1972 (Strategic
Arms Limitation Talks) e Salt 2 nel 1979, firmati da Usa e Urss,
che sancivano un tetto massimo all’armamento nucleare strate-
gico riconoscendo, oggettivamente, la parità nucleare fra le
due superpotenze.3 Quest’ultimo trattato non fu ratificato dal
Senato degli Stati Uniti, elemento che testimoniò il deteriora-
mento dei rapporti internazionali nella metà degli anni
Settanta; a ciò si aggiunse un ritrovato attivismo dell’Urss di
Breznev, testimoniato dall’espansione dell’influenza sovietica
in Asia, Africa e Golfo Persico, dal spiegamento, nel 1976-77,
di missili a gittata intermedia SS-20 (in grado di colpire
l’Europa) e dall’invasione dell’Afghanistan nel 1979, che
segnò il momento di massima tensione nelle relazioni Est-
Ovest. A questo mutato atteggiamento dell’Urss non mancò di
giungere una risposta da parte degli Usa: è del 1979 la deci-
sione, da parte della NATO, di installare in Europa gli “euro-
missili”, ovvero i missili Pershing e Cruise puntati sull’Urss.
Ritornarono, quindi, i toni da Guerra Fredda (Reagan appena
eletto definì l’Urss «impero del male»), in particolar modo nel
1983, quando gli Usa decisero di varare il programma «scudo
spaziale», un complesso sistema antimissile basato sull’impie-
go di satelliti artificiali. Tuttavia, la crisi degli anni Settanta-

11
Ottanta, non colpi solo le due superpotenze ma, indubbiamen-
te, anche l’Europa.4
Il Vecchio Continente, che negli anni Settanta sembrava
avviato verso un modello di tipo socialdemocratico, negli anni
Ottanta manifestava una tendenza politica di segno più mode-
rato, come testimoniarono le elezioni in Gran Bretagna (1978),
in Francia (1986) e nella Germania federale (1982): si stavano
verificando congiuntamente l’esaurirsi della spinta di rinnova-
mento tipica del Sessantotto e l’emergere del cosiddetto
«riflusso», cioè di comportamenti sociali ed elettorali lontani
dalle grandi ideologie e rivolti alla dimensione individuale.
Le difficoltà della socialdemocrazia espressero la generale
crisi della vita democratica e della tensione internazionale
negli anni Ottanta in tutti i paesi occidentali.5

2. La nascita del neorealismo

Alla luce di questi cambiamenti, il realismo sembrava nuo-


vamente adatto a descrivere lo scenario di quegli anni: Kenneth
Waltz, con il suo Theory of International Politics,6 propose una
teoria realista sostanzialmente diversa da quelle precedenti,
poiché ispirata alle ambizioni scientifiche del behaviorismo.7
Da questo connubio nacque, così, il neorealismo: questo filone
fece propri alcuni presupposti di fondo del realismo classico e
neoclassico (ad esempio, l’anarchia internazionale), ma si
allontanò da essi, ignorandone le preoccupazioni normative e
cercando di mettere a punto una teoria scientifica delle rela-
zioni internazionali. Il neorealismo, diversamente dal realismo
classico, prende le mosse proponendo una soluzione al proble-
ma della distinzione tra fattori esterni alla struttura politica
internazionale e quelli che sono interni. Fondando l’autonomia
della politica internazionale, tale corrente rese possibile lo svi-
luppo di una teoria ad essa relativa. Uno dei concetti base del
neorealismo è il concetto di struttura: essa emerge dall’intera-
zione tra Stati sovrani e continuamente li scoraggia a compor-
tarsi in un modo, spingendoli, ad intraprendere determinate
azioni. Le strutture internazionali sono, innanzi tutto, definite

12
dal principio dell’anarchia (che crea un difetto di istituziona-
lizzazione della comunità internazionale) e dalla distribuzione
delle capacità tra le varie unità statali: alcuni Stati hanno più
voce in capitolo di altri perché sono più ricchi e dotati di un
apparato militare forte; altri, invece, subiscono le decisioni
intraprese dagli Stati più forti perché non hanno le capacità e la
forza militare per imporsi. La struttura internazionale muta
quando mutano le caratteristiche e il numero delle grandi
potenze: variano, infatti, i comportamenti, i calcoli e le deci-
sioni degli altri Stati, che vedono nel cambiamento la possibi-
lità di imporsi o il pericolo di tramontare.
La teoria della struttura si configura come il principale punto
di rottura tra il neorealismo e il realismo classico: il neoreali-
smo crede effettivamente nella possibilità che la politica inter-
nazionale possa essere un sistema dotato di regole e caratteri
ben precisi, una visione così semplice, questa, da attirare su di
sé le critiche di noti teorici. Robert Keohane, per esempio, ha
sostenuto che la teoria neorealista può essere progressivamen-
te modificata per ottenere una corrispondenza più fedele alla
realtà.8 E, ancora, Barry Buzan si è posto l’interrogativo circa
la possibilità che il neorealismo colga in pieno le principali
caratteristiche del sistema politico internazionale.9 Buzan,
infatti, sostiene che le sue teorie e quelle di Keohane suggeri-
scono una risposta negativa, perché il loro interesse per fattori
quali la densità dinamica, la ricchezza di informazioni, i mezzi
di comunicazione e simili non si adattano in modo ovvio alla
teoria apparentemente sistemica di Waltz.
Bisogna, a questo punto, chiedersi se fattori del genere pos-
sano essere inseriti nella teoria neorealista: essa permette,
senza dubbio, di capire se l’aumento delle transazioni sia in
grado di trasformare una società semplice in una società com-
plessa. Ma Waltz si chiede come si possono conciliare dei fat-
tori dinamici (e, quindi, degli elementi in continuo divenire)
con una teoria che considera le caratteristiche peculiari (e quin-
di statiche) di un Sistema? I fattori menzionati da Buzan non si
adatterebbero a nessuna teoria: essi non ne possono far parte;
tuttavia, se una teoria è sufficientemente esplicativa, essa è in

13
grado di spiegare e valutare il significato dei fattori dinamici.
Una teoria non deve costituire una buona approssimazione
della realtà, perché finirebbe per doversi adattare ai fatti che
cerca di spiegare: questa è una delle idee che i neorealisti ten-
tano di difendere maggiormente da coloro i quali tacciano la
teoria neorealista di ignorare, per esempio, fattori come le
forme di governo e le ideologie nazionali. L’obiettivo di Waltz
è, invece, quello di costruire una teoria fondata sulle capacità
degli Stati; quest’ultima caratteristica è fondamentale perché è
la chiave di volta del comportamento degli Stati: la potenza e
le differenze economiche aiutano, infatti, a spiegarne il com-
portamento ed il destino.
II mondo neorealista, del resto, è molto diverso da quello che
rappresentarono i primi realisti. Per i neorealisti, gli Stati inte-
ragenti possono essere studiati solo se si distingue fra cause ed
effetti a livello della struttura ed a livello delle unità: questo
carattere è nettamente in contrasto con l’opera del neoclassico
Hans Morgenthau, autore di Politics Among Nations,10 caratte-
rizzata da una logica prevalentemente comportamentale. I tra-
dizionalisti come Morgenthau hanno sempre cercato di spiega-
re gli esiti internazionali prendendo in esame le azioni dei sin-
goli attori e le logiche delle masse: a differenza dei neorealisti,
essi sono, infatti, induttivisti. Dal confronto con il neorealismo
emerge una delle principali carenze teoriche del realismo: l’in-
capacità sostanziale di dare un’interpretazione dell’alternanza
della guerra e della pace e delle ripetute crisi economiche del
capitalismo; il realismo non è, cioè, in grado di spiegare lo iato
tra cause ed effetti.
Il neorealismo, invece, rielaborò il legame causale fra le
unità interagenti e gli esiti internazionali, mostrando che le
cause non hanno una sola implicazione; queste ultime, infatti,
sono bidirezionali, nel senso che si spostano dalle unità alla
struttura internazionale, e viceversa. Un altro punto di sostan-
ziale differenza tra neorealismo e realismo è la visione del
potere: Morgenthau, infatti, ha considerato l’impulso dell’uo-
mo verso il potere come un fatto più importante delle condi-
zioni accidentali in cui ha luogo la lotta per il potere di hobbe-

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siana memoria. Questa visione, però, è contraddetta continua-
mente dal comportamento degli Stati. Morgenthau, infatti, non
spiega come non esistano altri desideri e passioni che possano
fare da contrappeso alla bramosia di potere. I neorealisti, inve-
ce, piuttosto che guardare al potere come ad un fine, hanno per
primi cominciato a considerarlo un mezzo potenzialmente
utile, affermando che una sua carenza o una sua abbondanza
sono entrambe rischiose per uno Stato.
Nei momenti più critici, infatti, gli Stati non si preoccupano
di salvaguardare il loro gradiente di potere, ma la sicurezza: il
potere, nel neorealismo, è solo la combinazione delle capacità
di uno Stato, ma non costituisce un ostacolo teorico alla idea-
zione di una teoria delle relazioni internazionali.
Relativamente all’analisi delle unità interagenti, i realisti
sostengono che sia l’anarchia a causare le azioni degli Stati. Sia
per i realisti che per i neorealisti, Stati dotati di diverse com-
ponenti avranno comportamenti ed esiti differenti. Per i neo-
realisti, però, gli Stati sono resi funzionalmente simili dai vin-
coli della struttura, mentre le principali differenze tra loro sono
dettate dalle loro capacità. Queste continue puntualizzazioni,
tuttavia, rappresentano sì le novità del neorealismo rispetto al
realismo, ma fanno emergere anche le affinità di Waltz con il
realismo classico: pur puntando ad una spiegazione scientifica
della politica internazionale, egli non può fare a meno di uti-
lizzare concetti che sono prettamente normativi. Sotto questo
aspetto, il suo realismo non è poi così lontano dal realismo
classico e neoclassico, come lascerebbe pensare la sua pretesa
“scientificità”.

3. Il neorealismo strategico e “The Strategy of Conflict”

A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento,


emersero nuovi approcci realisti, scaturiti dalla rivoluzione
behaviorista. Il realismo strategico costituisce uno dei tanti
connubi sorti tra il realismo moderno e gli approcci positivisti;
esso concentra l’attenzione sui processi decisionali della poli-
tica estera.

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Quando affronta questioni diplomatiche di grande impor-
tanza, il leader di uno Stato non può fare a meno di pensare
strategicamente, se vuole che i suoi sforzi siano seguiti da
successo.
Tra i più noti esponenti del neorealismo strategico, spicca la
figura di Thomas C. Schelling, autore di The Strategy of
Conflict.11 Schelling, miniera di idee e studioso interdisciplina-
re di scienze sociali, cominciò a produrre negli anni Cinquanta.
Influenzato dai problemi della Guerra Fredda, economista di
formazione, applicò le sue conoscenze matematiche alla politi-
ca internazionale, all’analisi del conflitto ed alla teoria della
deterrenza.
Il limite fondamentale delle teorie strategiche degli anni
Quaranta-Cinquanta risiedeva nel fatto che esse analizzavano
compiutamente solo le situazioni di conflitto puro. Ma, in real-
tà, notava Schelling, perfino in guerra il conflitto puro non esi-
ste; in altre parole, i “giochi” internazionali non sono “a
somma zero”.12 I giocatori hanno un mutuo interesse a coordi-
narsi, ma hanno anche interessi divergenti sul come coordinar-
si. Schelling spiega il motivo per cui convenzioni, tradizioni e
caratteristiche “salienti” di certe azioni consentono di coordi-
narsi tacitamente su un equilibrio strategico; per questa ragio-
ne, egli affronta in modo originale, e spesso paradossale, pro-
blemi di economia, strategia politica e militare, di vita quoti-
diana e sociologia.
Schelling predilige l’esposizione informale, basata su esem-
pi, e raramente formula modelli matematici o dimostra teore-
mi. Ciò dipende, in parte, dal suo desiderio di raggiungere un
pubblico interdisciplinare anche non accademico. I suoi libri
hanno fornito nuove categorie interpretative a manager, politi-
ci e diplomatici. Le sue idee hanno ispirato generazioni di eco-
nomisti, anche se non sempre è stato possibile formularle in
modo rigoroso. Il lavoro di Schelling è, quindi, quello di forni-
re strumenti analitici per il pensiero strategico: la politica, la
diplomazia, la strategia militare, sono attività razionali e scien-
tifiche che possono essere schematizzate in costrutti matemati-
ci come la teoria dei giochi.

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Uno dei concetti-fulcro del realismo strategico è quello di
“minaccia”, in particolar modo quella di tipo nucleare; proprio
Schelling afferma: «L’efficacia della [...] minaccia nucleare
può dipendere dalle opzioni di cui dispone il potenziale nemi-
co, al quale, se non si vuole che reagisca come un leone in trap-
pola, bisogna lasciare qualche via d’uscita praticabile. Siamo
arrivati alla conclusione che la minaccia di rappresaglia totale
[...] elimina opzioni di tipo “male minore” e lo costringe a sce-
gliere tra soluzioni estreme [...] e può indurlo a colpire per
primo».13 Bisogna, quindi, chiedersi come usare in modo intel-
ligente la propria forza per indurre l’avversario militare a fare
ciò che si vuole, dissuadendolo dal fare ciò che ci può nuoce-
re. Il realismo strategico è, perciò, un filone tecnicamente stru-
mentale e per questa ragione, libero da considerazioni di carat-
tere morale: ciò che conta, non è l’eticità di una scelta politica,
ma la sua possibilità di successo. I valori normativi in gioco
nella politica estera sono in gran parte dati per scontati, e ciò
differenzia in modo sostanziale il realismo classico e neoclas-
sico dal realismo e dal neorealismo strategico attuale.
Il neorealismo di Schelling ruota attorno al concetto di stra-
tegia del conflitto. Il vantaggio di applicare l’area della strate-
gia alle relazioni tra Stati è quello di poter analizzare i proces-
si analitici con quelli degli ipotetici partecipanti al conflitto e,
attraverso la ricerca di un certo tipo di coerenza nel comporta-
mento dei partecipanti, di esaminare linee di condotta alterna-
tive a seconda che esse rispondano o meno a quei criteri di
coerenza. Sebbene ogni tipo di strategia parta dalla volontà di
un individuo o di un gruppo (in questo caso, gli Stati) di vin-
cere, la teoria della strategia non nega l’esistenza né di interes-
si comuni né di interessi divergenti fra i partecipanti: il caso in
cui gli interessi dei due antagonisti siano totalmente contrap-
posti (ovvero situazioni di conflitto puro) è assolutamente
eccezionale; nemmeno la guerra può ritenersi un conflitto
puro.
Per questa ragione che “vincere”, per Schelling, non vuol
dire vincere rispetto ai propri avversari, ma piuttosto guada-
gnare rispetto al proprio sistema di valori: ciò si può ottenere

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contrattando ed evitando comportamenti di reciproco danno.
Dunque, la strategia non concerne l’applicazione efficiente
della forza, ma l’utilizzo della forza potenziale: non si riferisce
a nemici che vogliono distruggersi, ma a partners che non si
fidano gli uni degli altri. The Strategy of Conflict consiste, quin-
di, nell’accettare il presupposto che la maggior parte delle situa-
zioni conflittuali siano essenzialmente situazioni negoziali.
La contrattazione può essere esplicita, come quando si offre
qualcosa in un accordo negoziale; o può avvenire con una
manovra tacita, come quando si evacua un territorio strategico;
può cercare accordi che soddisfino tutti i partecipanti o, al con-
trario, può comportare minacce di danni, come boicottaggi o
estorsioni.
Non erano ancora iniziati gli anni Cinquanta quando la deter-
renza fu chiaramente formulata come chiave di volta della stra-
tegia internazionale statunitense. Da quel momento, a caro
prezzo, gli Usa compresero che una minaccia, per essere effi-
cace, doveva essere credibile e che la sua credibilità poteva
dipendere dai costi e dai rischi associati con la sua messa in
atto, che gravava sulla parte che formulava la minaccia. La teo-
ria della deterrenza è stata continuamente affinata, anche se
negli anni della sua formulazione, all’interno delle università,
soltanto un numero ristretto di storici e politologi si è preoccu-
pato della strategia militare, con un seguito così esiguo, «da far
pensare che alla necessità di distogliere i Russi dalla conquista
dell’Europa fosse attribuita la stessa importanza che si dà al
rafforzamento delle leggi antitrust».14
Solo istituti di ricerca paragovernativi come la RAND
Corporation e The Institute for Defense AnalysisI5 furono i
primi a colmare questa lacuna. Una teoria della deterrenza è, di
fatto, una teoria di un abile non-uso della forza militare e, a
questo fine, essa richiede capacità ben più ampie di quelle
strettamente militari. L’idea della deterrenza nasce da situazio-
ni non necessariamente di conflitto militare, ma salta fuori
casualmente anche nelle vicende della vita quotidiana: c’è una
certa analogia, afferma Schelling, tra la minaccia della puni-
zione di un genitore al proprio figlio e la minaccia che una

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nazione ricca e paternalistica rivolge al governo debole e dis-
organizzato di una nazione povera quando, per così dire, elar-
gisce aiuti esteri e richiede in cambio cooperazione.
Ma come dovrebbe essere una teoria della strategia? Per
cominciare, bisogna definire gli elementi essenziali della situa-
zione che si vuole analizzare: tanto più chiari saranno questi,
tanto più sarà possibile influenzare le scelte che farà la nostra
controparte attraverso una serie di informazioni che permette-
ranno al nostro avversario di credere che il nostro comporta-
mento sarà determinato dal suo.
La strategia della deterrenza, quindi, non è solo teoria dei
giochi, ma anche psicologia, teoria della scelta, comunicazio-
ne e teoria della prova. Tutte queste componenti danno per
scontato il conflitto, ma presumono anche un interesse comu-
ne fra gli avversari; presumono una modalità di comportamen-
to razionale e permettono di influenzare le scelte degli avver-
sari, lavorando sulle loro aspettative rispetto al proprio com-
portamento. Schelling tiene a precisare due punti: il primo è
che nonostante si parli di “strategia del conflitto”, la teoria non
riguarda l’effettiva applicazione della violenza, o cose simili;
non è, insomma, una teoria di aggressione, o di resistenza, o di
guerra, ma è una teoria di minacce di guerra. Il secondo punto
è che, una teoria simile non discrimina né tra conflitti e inte-
ressi comuni, né tra la sua applicabilità ad amici o potenziali
nemici: essa decade solo nei casi estremi di totale cooperazio-
ne o di assoluta volontà di distruzione reciproca. Proprio per
questo motivo si potrebbe definire «teoria della partnership
precaria» o «teoria dell’antagonismo incompleto».16
Quella di Schelling è una dottrina che richiama spesso il con-
cetto di “razionalità”: si basa sul presupposto che i partecipan-
ti calcolino freddamente e razionalmente i propri vantaggi
rispetto ad un sistema di valori: in realtà, molti degli elementi
determinanti che compongono il modello comportamentale
razionale si possono identificare con particolari tipi di raziona-
lità, ma anche con alcuni tipi di irrazionalità. Hitler, Kennedy,
il comandante di un bombardiere, Chruscev, gli elettori, posso-
no tutti soffrire di qualche forma di “irrazionalità”, ma non

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nello stesso modo. Quando si parla, dunque, di razionalità in
Schelling, non si deve necessariamente tradurla nell’identità
“razionale = buono”, ma bisogna intendere, per razionale, quel
processo strategico che, tramite costruzioni logiche, cerchi di
raggiungere un obiettivo: ad esempio, al di fuori di ogni inten-
to morale, l’irrazionalità razzista di Hitler è razionale, perché,
infatti, tramite la strategia, egli perseguiva un obiettivo, moral-
mente deprecabile, ma chiaro. Schelling non solo scorge la
razionalità in qualsiasi processo strategico, ma sottolinea, inol-
tre, che essere immutabilmente e manifestamente razionali
nelle decisioni e nelle motivazioni non è sempre un vantaggio
assoluto nelle situazioni di conflitto: troppa razionalità diven-
ta, infatti, incapacità strategica in alcune situazioni di conflitto;
un buon negoziatore, perciò, deve essere razionale, ma deve
anche possedere una buona capacità di azzardare, quando ciò è
necessario.17

4. Contrattare

Schelling individua una serie di caratteristiche strutturali


della contrattazione, caratteristiche che possono facilitare o
complicare la negoziazione, oppure modificare, a favore di una
delle parti, l’equilibrio del gioco. In The Strategy of Conflict,
egli ne individua almeno otto:1) la contrattazione mediante un
agente. L’uso di un agente può influenzare la contrattazione in
almeno due modi: se l’agente ha ricevuto istruzioni molto rigi-
de dall’alto, egli ha un potere contrattuale molto limitato. Se,
invece, a contrattare è un agente che agisce libero da condizio-
namenti (si pensi ad un libero professionista nel campo lavora-
tivo) egli avrà una forza contrattuale di gran lunga superiore;
2) la segretezza o pubblicità dei negoziati; segretezza e pub-
blicità -lo dimostra spesso la storia delle contrattazioni sinda-
cali- sono fondamentali perché determinano o meno la messa
in gioco della reputazione delle parti: quando una delle parti è
cosciente di poter raggiungere un accordo vantaggioso potrà,
per accrescere il proprio prestigio, rendere pubblica la contrat-
tazione. Viceversa, se una delle parti o tutte le parti temono

20
l’influenza dell’opinione pubblica, hanno buone probabilità di
soccombere o sono convinte di poter ricorrere a forme di
“negoziazione sporca”, preferiranno tentare di applicare accor-
di segreti; 3) le negoziazioni incrociate; se una delle parti che
negoziano è impegnata in più negoziazioni, rischia fortemente
la propria reputazione. 4) le negoziazioni continue; questa tec-
nica si verifica quando due parti negoziano qualcosa nel pre-
sente e qualcos’altro nel futuro: in questo caso, promesse e
minacce del presente si ripercuotono in tempi futuri, rinforzan-
do o indebolendo la credibilità delle parti nel tempo; 5) 1’ ordi-
ne del giorno restrittivo; questo metodo sottolinea come tratta-
re due questioni differenti nello stesso momento possa compli-
care la negoziazione. La contrattazione delle tariffe ne è un
esempio: vale a dire, se si devono negoziare i dazi sul grano e
sulle automobili, una delle due parti potrebbe alterare il risul-
tato minacciando un cambiamento in altre tariffe a titolo pura-
mente sanzionatorio. Negoziare questioni differenti, in
momenti differenti, aggira questa potenzialità estorsiva; 6) la
possibilità di indennizzo; spesso la contrattazione è tanto più
efficace quanto meglio distribuiti sono costi e guadagni nella
negoziazione. Senza questa compartecipazione, le parti potreb-
bero rinunciare all’accordo arroccandosi sulle proprie opinio-
ni; 7) la meccanica della negoziazione; il modo in cui una
negoziazione condotta influisce sulla trattativa. Un esempio è
costituito dal voto parlamentare: la presenza o meno del voto
palese, la possibilità di votare singoli emendamenti o un intero
testo legislativo, sortiscono effetti diversi; questo dimostra, ad
esempio, perché lo scrutinio segreto sia stato il primo grande
mezzo di democrazia: esso permette, infatti, che nessun eletto-
re possa, in linea generale, essere sottoposto a minacce o pro-
messe a seguito del suo voto. 8) principi e precedenti; per esse-
re convincenti, gli impegni, di solito, devono essere di tipo
qualitativo, anziché quantitativo, e devono basarsi su una logi-
ca. Un comune tipo di impegno qualitativo è la formulazione
di un principio ed i principi sono la scala di valori che i nego-
ziatori si impegnano a rispettare: violare i principi, dunque,
significa mandare a monte il negoziato.

21
Analizzando le caratteristiche della negoziazione, uno dei
temi che ricorre maggiormente è la minaccia; questa non è
nient’altro che una comunicazione delle proprie intenzioni,
concepita per far capire alla controparte le conseguenze auto-
matiche della propria azione. Ma, quando qualcuno minaccia
di eseguire un’azione che non commetterebbe mai, la minaccia
assume una funzione non comunicativa, bensì deterrente: un
individuo minaccia un’azione che non gli comporta vantaggi
(ad esempio la minaccia nucleare), solo se, pensa che possa
così raggiungere uno scopo. È, infatti, la minaccia, non la sua
realizzazione, che può raggiungere lo scopo negoziale, per cui,
più è certa l’eventuale esecuzione della minaccia, meno proba-
bile ne diventa l’esecuzione nella realtà. Una parte può impe-
gnarsi in una minaccia in vari modi: può bluffare, può mettere
in gioco la propria reputazione, può, addirittura, impegnarsi
legalmente, stipulando un contratto.18 Affinché la minaccia
abbia effetto, è fondamentale la comunicazione: sia la minac-
cia che l’impegno devono essere comunicati; se la persona
minacciata non può essere raggiunta dalla minaccia o è in
grado di distruggere i mezzi di comunicazione, può scoraggia-
re la minaccia stessa.
Spesso la comunicazione non è né completamente impossi-
bile, né completamente affidabile: delle volte, le informazioni
possono essere veicolate direttamente o con mezzi tecnologici;
in altri casi, le prove delle minacce devono essere veicolate
dalla stampa o dalla vox populi.
Oltre alla precisione nella comunicazione, bisogna, poi,
porre un’attenzione particolare nella definizione della minac-
cia: la sua credibilità dipende, infatti, da quanto sia visibile alla
parte minacciata l’incapacità di colui che minaccia di raziona-
lizzare la via d’uscita dal proprio impegno una volta che abbia
fallito l’obiettivo; in altre parole, se chi minaccia rende anche
palese la propria via di salvezza nel caso di realizzazione della
minaccia stessa, mina la propria credibilità. Al fine di rendere
precisa una minaccia, può essere utile accompagnarla con degli
elementi arbitrari, come azioni ausiliarie, dichiarazioni pubbli-
che e qualsiasi genere di atto visibile che potenzi la minaccia

22
stessa. Affinché un individuo o un Paese impegni la propria
reputazione in una minaccia, ci deve essere continuità tra il
presente e le questioni che ne deriveranno: è per questa ragio-
ne che una minaccia di tipo graduale (la cui gravità delle suc-
cessive azioni abbia una crescita esponenziale) risulta molto
più credibile di una che deve espletarsi in una sola volta.
Similare ad una scomposizione di una minaccia in una serie di
azioni successive, è l’atto punitivo che cresce d’intensità nel
tempo: questo meccanismo può trasformare una pericolosa
minaccia definitiva in una meno costosa minaccia continua.
Secondo Schelling, questa può essere stata la tattica che evitò
lo scontro e indusse le forze di de Gaulle a sgomberare la Valle
d’Aosta, dopo aver annunciato che avrebbero risposto come ad
un atto di ostilità a qualsiasi tentativo di cacciarli da parte degli
Alleati.19
Accanto alla minaccia, la contrattazione si può avvalere di
misure differenti come la promessa. La promessa è richiesta
ogni qualvolta l’azione finale di uno dei partecipanti, o di
entrambi, è fuori del controllo dell’altro, e quando l’accordo
permetta un certo margine di bluff. Non è sempre semplice fare
promesse convincenti e autovincolanti, perché il rispetto della
promessa, all’interno della contrattazione, non è sempre osser-
vabile: non c’è un modo per osservare, per esempio, se i rap-
presentanti politici che abbiamo eletto, giorno per giorno ten-
gano fede effettivamente alle promesse fatte; proprio per que-
sta ragione, gli accordi dovrebbero essere espressi in termini
osservabili (nell’esempio precedente, la soluzione sarebbe
quella di prevedere dei meccanismi di controllo periodico del
loro operato).
Un’altra tattica che rende convincente una promessa è la sua
scomposizione: ciò che rende vincolanti molti accordi è sol-
tanto il riconoscimento di future occasioni di accordo, che
altrimenti sarebbero annullate nel caso in cui non si creasse o
non si mantenesse una fiducia reciproca. Ciascuna delle parti
in causa deve fidarsi del fatto che l’altra non metterà in perico-
lo future occasioni distruggendo la fiducia reciproca. Questa
sicurezza non sempre esiste e uno degli scopi dell’approccio

23
graduale alle promesse è proprio quello di cementare la fiducia
reciproca. Se, quindi, esiste una negoziazione particolarmente
importante da portare a termine, potrebbe essere necessario
negoziare nel tempo tutta una serie di questioni minori, per sta-
bilire la fiducia necessaria nella buona fede a lungo termine. Le
contrattazioni graduali di questo tipo sono e sono state utili
soprattutto durante le fasi finali della Guerra Fredda: se, per
esempio, il numero di questioni aperte tra Est e Ovest fosse, in
un determinato momento, diminuito al punto che non fosse
rimasta altra questione da negoziare se non la “questione fina-
le” (ovvero controllo ‘degli armamenti e gestione dei blocchi
d’influenza), la possibilità di aprire negoziazioni su quest’ulti-
ma sarebbe stata compromessa. La storia ci dimostra come la
fine della Guerra Fredda sia stata un processo lento, in cui si è
seguita, appunto, la tecnica della contrattazione graduale che
ha portato, in quasi cinquant’anni di “piccoli passi”, ad un
nuovo ordine mondiale.

5. Contrattazione, comunicazione e guerra limitata

Il problema della contrattazione è sempre correlato ad un


sistema in cui si vuole evitare lo scontro aperto: contrattare
evita o chiude la guerra. Le guerre richiedono limiti, ma i limi-
ti richiedono un accordo o, almeno, una qualche forma di rico-
noscimento e reciproco consenso. Lo studio della contrattazio-
ne tacita, in relazione alla guerra limitata, consiste nello svi-
luppo di un modo di negoziare in una situazione in cui una o
tutte le parti in causa non possono o non vogliono negoziare
esplicitamente, o quando nessuna delle due parti ha abbastan-
za fiducia nell’altra, anche in presenza di un accordo esplicito.
La prima situazione analizzata da Schelling è quella del coor-
dinamento tacito, ovvero quel tipo di situazione in cui due gio-
catori, che non possono o non vogliono comunicare tra di loro,
possono raggiungere, comunque, un accordo se hanno un qual-
che tipo di interesse comune. Nella Strategia del Conflitto
Schelling utilizza anche degli esempi tratti dalla vita quotidia-
na: vale a dire, se un uomo e sua moglie si perdono all’interno

24
di un supermercato, con molta probabilità riusciranno a ritro-
varsi nello stesso luogo; questo perché, a vari livelli, ognuno di
noi è in grado, inconsciamente, di applicare la teoria dei giochi
a svariate situazioni. Ecco alcuni esperimenti che Schelling
sottopose ad un campione di quarantuno persone:

GIOCO 1: indica “testa” o “croce”.


Su 41 persone 36 scelsero testa e solo 6 scelsero croce.

GIOCO 2: segna con una croce uno dei sedici quadrati.


□□□□
□□□□
□□□□
□□□□
In questo gioco, 24 giocatori su 41 scelsero il primo quadra-
tino in alto a sinistra; tutti gli altri, tranne tre, scelsero un qua-
dratino sulla stessa diagonale del primo.

GIOCO 3: devi incontrare qualcuno a New York. Non ti sono


state date istruzioni sul luogo, non hai avuto modo di metterti
d’accordo con l’altra persona prima dell’incontro e non potete
comunicare tra di voi. Ti è stato semplicemente detto che devi
indovinare il luogo dove incontrarvi, cosi è stato fatto con l’al-
tra persona e dovete semplicemente fare in modo che le vostre
congetture coincidano. Anche in questo caso, una maggioran-
za schiacciante si è trovata d’accordo e si è incontrata alla
Grand Central Station20 alle ore 12:00.

Questi problemi dimostrano che le persone possono concer-


tare le loro azioni o aspettative se tutti sanno che tutti stanno
cercando di fare la stessa cosa. Trovare la chiave per un com-
portamento coordinato può dipendere da vari fattori: immagi-
nazione, analogie, precedenti esperienze, disposizioni fortuite,
ma le possibilità che gli individui si comportino in maniera
coordinata sono molto maggiori di quanto una semplice logica
basata sulla probabilità casuale suggerirebbe. Quando, invece,
esistono interessi divergenti, in assenza di comunicazione, si

25
parla di contrattazione tacita. In questo caso, i termini “vince-
re” e “perdere” potrebbero non essere abbastanza precisi: essi
sono concetti relativi rispetto alle previsioni che i giocatori
hanno formulato o rispetto alle vincite e alle perdite che i gio-
catori avrebbero conseguito se avessero potuto o voluto comu-
nicare. Schelling ha sperimentato, in questo senso, un campio-
ne di giochi con conflitti di interesse su un certo numero di per-
sone e, nell’insieme, i risultati suggeriscono quanto emerso nei
giochi puramente cooperativi: tra tutte le scelte possibili, una
solitamente è il punto focale per un coordinamento, e spesso
quest’ultima è accettata anche dalla parte svantaggiata; ciascu-
na delle parti, infatti, è beneficiaria o prigioniera delle aspetta-
tive reciproche di entrambe. Il bisogno di accordo ha il soprav-
vento su un potenziale disaccordo, che sarà solo fonte di comu-
ne perdita.

Ecco, allora, altri due giochi illustrativi di queste situazioni:

GIOCO 1: A e B devono scegliere “testa” o “croce” senza


poter comunicare. Se entrambi scelgono “testa”, A vincerà 3
dollari e B ne vincerà 2; se entrambi scelgono “croce”, A pren-
derà 2 dollari e B ne vincerà 3. Se A e B faranno scelte diver-
se, nessuno dei due vincerà. Che cosa sceglieranno A e B?

GIOCO 2: a due amici saranno dati 100 dollari se si accor-


deranno su come dividerli senza comunicare. Ciascuno scrive-
rà l’importo della propria richiesta su un foglio, e se la somma
delle loro richieste non supererà i 100 dollari, ognuno vincerà
la richiesta fatta; in caso contrario, nessuno vincerà nulla.
Quanto chiederanno?21

Nel primo gioco, 16 su 22 giocatori A e 15 su 22 giocatori B


hanno scelto “testa”. Dato quello che hanno fatto le A, “testa”
era la migliore risposta per B; dato quello hanno fatto le B,
“testa” era la migliore risposta per A. Secondo questa struttura
del gioco, i giocatori hanno realizzato vincite migliori rispetto
all’utilizzo di criteri casuali e rispetto all’azzardo di vincere

26
entrambi 3 dollari, totalizzando zero. Nel secondo gioco, 36
giocatori su 40 hanno scelto cinquanta dollari, scelta al limite,
che permette di massimizzare le vincite senza, però, rischiare
di superare il valore dei 100 dollari. Ciò dimostra che i parte-
cipanti riescono, nella maggior parte dei casi, a coordinarsi;
persino la parte svantaggiata dal gioco si autodisciplina grazie
alle regole fornite dal gioco. Tale tipo di gioco punta non ad
un risultato equo o massimo, ma ad una soluzione che eviti,
per entrambi i giocatori, la perdita del gioco stesso e che
garantisca una soglia minima di guadagno (diversa per ogni
giocatore).
Il concetto di coordinamento nella contrattazione tacita non
è, per Schelling, applicabile alla contrattazione esplicita. Non
c’è, infatti, bisogno di intuizione quando si può comunicare.
Gran parte delle situazioni di contrattazione prevedono una
gamma di possibili risultati entro cui ciascuna parte sarebbe
disposta a fare una concessione, piuttosto che non giungere
affatto ad un accordo: qualsiasi potenziale è, quindi, un risulta-
to che una delle due parti, volendo, avrebbe potuto migliorare.
Il risultato finale dovrà essere un punto da cui nessuna delle
due parti si aspetta che l’altra indietreggi. Fondamentale è, per-
ciò, la ricerca di un punto fermo reciprocamente identificabile.
Se un giocatore fa una concessione, deve fermarsi e riflette-
re sulle aspettative del suo avversario; la sua concessione deve
essere tale e non deve apparire come una resa o un segno di
ritirata: ad esempio, se un esercito batte in ritirata al di là di un
fiume, ci si aspetta che questo si arresti in questa posizione;
ma, se dovesse ulteriormente arretrare, indurrà l’esercito nemi-
co a pensare che batterà in ritirata all’infinito e potrà essere
messo con le spalle al muro. Questo esempio dimostra come il
coordinamento delle aspettative è sempre una componente
essenziale della negoziazione, anche quando la comunicazione
è interrotta.
Ma i risultati dei “giochi” condotti da Schelling, dimostrano
come, sia in presenza che in assenza di qualche forma di comu-
nicazione, i giocatori, in una strategia, tendono sempre a coor-
dinare le proprie aspettative. Nella contrattazione tacita, ciò

27
avviene intuitivamente, appellandosi alla logica e ad una serie
di esperienze precedenti; nella contrattazione esplicita, il coor-
dinamento delle aspettative avviene ancora prima che le parti
si accordino e viene comunicato tramite qualche forma di
comunicazione. Ciò dimostra come contrattazione esplicita e
tacita non siano concetti totalmente separati, poiché mostrano
tutti una certa dipendenza dal bisogno di coordinare le aspetta-
tive. La contrattazione esplicita non utilizza esclusivamente la
comunicazione, ma fa anche appello a manovre nascoste, a
forme di comunicazione indiretta, a lotte e spionaggio, dimo-
strando che il bisogno di aspettative convergenti e il ruolo di
segnali, in grado di coordinarle, possono essere molto potenti.
Schelling sostiene che questo meccanismo d’azione è facil-
mente rintracciabile in due fenomeni estremi della vita asso-
ciata: l’azione di gruppi di interesse e le rivolte di massa. Nel
caso dei gruppi di interesse (definiti come quei gruppi di per-
sone, organizzate su basi volontarie, che mobilitano risorse per
influenzare decisioni e politiche pubbliche),22 si assiste, infatti,
ad un coordinamento tacito tra individui che, una volta orga-
nizzatisi, comunicano ai vertici istituzionali i propri bisogni e
le proprie intenzioni. Anche una rivolta di massa può riflettere
principi simili: quando i leaders politici possono facilmente
essere destituiti, le masse hanno bisogno di un segnale per
coordinarsi (un appello, uno slogan), un segnale che deve esse-
re immediatamente comprensibile e così potente, che tutti pos-
sono essere sicuri che esso farà agire tutti i protagonisti nello
stesso modo.
In che modo una tale dissertazione politologico-matematica
può aiutare a risolvere problemi di manovre strategiche e guer-
ra limitata? Sicuramente, il lavoro schellinghiano ci suggerisce
che è possibile trovare dei limiti ad un conflitto, di qualunque
tipo esso sia, anche in assenza di un’aperta negoziazione. Ciò
perché gli accordi taciti, o gli accordi cui si è giunti attraverso
negoziazioni parziali o fortuite, richiedono termini qualitativa-
mente distinguibili, affinché possano essere misurati i progres-
si della negoziazione; inoltre, quando si deve raggiungere un
accordo con una comunicazione incompleta, i partecipanti

28
devono essere pronti a lasciare che sia la stessa situazione ad
esercitare dei vincoli sul risultato stesso: ad esempio, una solu-
zione che discrimini una delle due parti o crei disagi ad entram-
be, spesso può essere l’unica via percorribile.
Per sostenere che, anche senza aperta negoziazione, si possa
giungere ad una limitazione del conflitto, Schelling fornisce
alcuni esempi storici, come la guerra di Corea o il conflitto tra
la Cina Popolare di Mao Tse-Tung e la Cina nazionalista di
Chang Kai-Shek. Nel primo esempio, egli dimostra come la
conformazione fisica della Corea abbia indirettamente posto
dei limiti al conflitto: l’area era circondata da acqua, e il prin-
cipale confine politico settentrionale era segnato visibilmente
da un fiume. Il 38° parallelo sembra aver segnato, per fortuna,
un punto cruciale per lo stallo della situazione.
Nel caso del conflitto cinese del 1949,23 lo Stretto di Formosa
ha permesso di consolidare un confine tra le forze comuniste e
nazionaliste cinesi, non solo perché le acque circostanti favori-
vano la difesa e inibivano l’attacco, ma perché un’isola è un
unità completa e non violare i suoi confini significa accettare
un certo status quo.
Gli esempi illustrano come, in una situazione negoziale, le
“regole del gioco”24 possono essere rispettate perché, una volta
infrante, non si può avere la certezza che se ne possano trova-
re di nuove, riconosciute da entrambe le parti, che permettano
di contenere la propagazione del conflitto. Violare le regole
pattuite con una rappresaglia porta alla distruzione di aspetta-
tive reciproche stabili. Da questa analisi emerge, che il proble-
ma di limitare la strategia di guerra sottende un meccanismo
portato a riconoscere differenze qualitative anziché quantitati-
ve, un meccanismo spiazzato dalla molteplicità delle strategie
delle parti, che spesso si accorderanno per il “male minore”.
Affinché questo accordo avvenga, è necessario, ovviamente,
tenere aperti canali di comunicazione: identificare, cioè chi
manda e riceve messaggi, con quali mezzi, in base a quale
autorità, è un elemento fondamentale; nel caso di uno sforzo
bellico per combattere una guerra nucleare contenuta, potreb-
bero esserci brevi istanti in cui le parti devono decidere se sia

29
in corso una guerra limitata o se una guerra illimitata sia appe-
na cominciata, e un gap anche di poche ore su come creare un
contatto potrebbe compromettere il contenimento del conflitto.
Un altro elemento importante è quello della presenza di media-
tori o arbitri: si può ragionevolmente ipotizzare che le parti
apprezzino il ruolo di queste figure e vi facciano ricorso; ciò
può contribuire a mettere a punto uno strumento di enorme
valore nel caso in cui si verificasse lo scenario negoziale peg-
giore.
Questi elementi, e tanti altri fattori contingenti, ci dimostra-
no che, quando tutte le parti hanno un bisogno disperato di un
segnale, anche quello più piccolo o discriminatorio può ispira-
re riconoscimento, in mancanza di altro. Una volta che la con-
tingenza si basi su questi segnali, gli interessi, che originaria-
mente divergevano nel gioco delle minacce e dei deterrenti,
potranno coincidere nel disperato bisogno di un punto focale
per l’accordo.

30
II. LA TEORIA DEI GIOCHI

1. Strategia e deterrenza

Il termine strategia è impiegato in molte accezioni che si rife-


riscono, in un modo o nell’altro, ad un identico oggetto, cioè
alla «condotta e alle conseguenze delle relazioni umane nel
contesto di un effettivo o possibile conflitto armato».
Vi sono diversi modi di studiare il comportamento strategico,
e nelle strategie, come in ogni campo scientifico, vale la distin-
zione tra teorie descrittive e normative. Le teorie strategiche
descrittive, sviluppate soprattutto dagli studiosi di storia e
sociologia militare, mirano alla spiegazione delle effettive stra-
tegie perseguite nei conflitti bellici. L’idea, invece, oggi molto
diffusa, che la strategia possa avere carattere normativo risale
almeno a Carl von Clausewitz.25
Nella seconda metà del Novecento, teorie strategiche carat-
terizzate da un elevato grado di generalità sono state sviluppa-
te da alcuni studiosi che si occupavano di strategia atomica, fra
questi, un posto di rilievo va attribuito al generale André
Beaufre, padre della forza atomica francese, nota anche come
force de frappe.26
Beaufre ritiene che l’analisi dei conflitti tra potenze atomiche
imponga di superare l’antico concetto di strategia militare,
vista come l’arte di impiegare le forze militari per raggiungere
i risultati determinati dalla politica.27 Questa definizione, infat-
ti, è troppo ristretta, in quanto si riferisce solamente alle forze
militari; occorre, invece, includere nel dominio della strategia
anche l’impiego di forze materiali diverse da quelle militari -
per esempio, la forza economica - e di forze non-materiali che
possiamo definire psicologiche. Appare, quindi, più appropria-
to intendere la strategia come l’arte di far concorrere la forza
per raggiungere gli scopi della politica.
Poiché il conflitto tra Stati è un caso peculiare di dialettica
delle volontà, non deve sorprendere che i mezzi utilizzabili a tale

31
scopo possano includere la psicologia. Infatti, nella dialettica
delle volontà che contrappone, due Stati, ciascuno cerca di otte-
nere dall’avversario un certo tipo di decisione. Tale decisione è
un avvenimento di carattere psicologico che si vuol produrre
nell’avversario: convincerlo, appunto, che impegnare la lotta o
proseguirla sia perfettamente inutile. Non è difficile cogliere la
distanza che separa la visione strategica di Beaufre dalla conce-
zione tradizionale, per la quale la strategia si occupa di come far
terminare la guerra attraverso una battaglia vittoriosa.
Il carattere limitativo di tale concezione emerge chiaramente
in tutti quei casi in cui gli scopi della politica non possono
essere raggiunti attraverso una guerra aperta. In una guerra
combattuta attraverso lo scambio di colpi atomici, le forze
armate tradizionali non sono in grado di proteggere il territorio
di uno Stato dalla distruzione fisica e dalla contaminazione
nucleare. Quale dovrà essere, allora, la funzione di tali forze
nei conflitti tra potenze atomiche? Il tentativo di rispondere a
domande di questo genere ha dato origine alla cosiddetta “stra-
tegia atomica”, che rappresenta una parte fondamentale delle
moderne teorie strategiche.
Secondo Beaufre, in linea di principio, il rischio di un attac-
co atomico può essere affrontato in quattro modi diversi, non
necessariamente incompatibili, vale a dire: 1) la distruzione
preventiva delle armi avversarie; 2) l’intercettazione delle armi
atomiche; 3) la protezione fisica contro gli effetti delle esplo-
sioni; 4) la minaccia di rappresaglia. Attraverso quest’ultima si
tenta di dissuadere l’avversario dall’effettuare un primo colpo
atomico, minacciandolo di rispondere con un secondo colpo
che gli infliggerà danni intollerabili.
I problemi fondamentali della minaccia di rappresaglia non
sono di carattere tecnologico, bensì psicologico. Tali problemi,
che riguardano l’interazione tra gli attori del conflitto, hanno a
che fare con interrogativi di questo genere: in che modo si può
convincere l’avversario della credibilità di una minaccia? Qual
è la strategia dissuasiva ottimale tra quelle a disposizione?
La strategia della deterrenza cerca di rispondere a interroga-
tivi di questo tipo, suggerendo i metodi più efficaci per rag-

32
giungere direttamente la volontà dell’avversario senza dover
passare attraverso un atto. Mentre quella che potremmo chia-
mare “strategia applicativa” si propone di identificare le
migliori modalità d’uso dei sistemi d’arma, la strategia della
deterrenza non ha a che fare con l’applicazione della forza, ma
con lo sfruttamento della forza potenziale: così, per esempio, la
strategia della deterrenza atomica non riguarda l’effettivo uso
delle armi atomiche, ma con i modi più efficaci per sfruttare la
forza potenziale derivante dalla possibilità di usare tali armi.
La nozione di sfruttamento della forza potenziale che sta alla
base della strategia della deterrenza non riguarda soltanto la
gestione delle forze militari momento, ma si applica a tutte le
fasi del conflitto. Strategie dissuasive di vario genere possono
essere utilizzate, infatti, anche nelle fasi precedenti e successi-
ve al dispiegamento delle forze militari, vale a dire nella pre-
parazione dello scontro (schieramento delle truppe, prepara-
zione delle armi, ecc.) e nella sua conduzione. In relazione a
ognuna di queste molteplici operazioni, si possono mettere in
atto minacce, promesse e altre strategie dissuasive.
Per quanto riguarda la fase della conduzione dello scontro
bellico, bisogna sottolineare che una guerra può essere combat-
tuta con diversi gradi di intensità. Occorre, innanzi tutto, deci-
dere a quale livello di intensità condurre lo scontro, il che impli-
ca, appunto, un problema di strategia della deterrenza. Infatti,
persino nel corso dei conflitti più violenti, i contendenti posso-
no tacitamente accordarsi di non superare certe soglie di inten-
sità o, al contrario, minacciare di farlo. La storia militare ci
mostra che promesse e minacce spesso si collocano in uno sce-
nario di guerra limitata.28 Proprio con l’intento di condurre una
guerra limitata, infatti, la moderna scienza matematica e la poli-
tologia si sono unite per dar vita alla “teoria dei giochi”.29

2. Che cos’è la teoria dei giochi?

La teoria dei giochi può essere definita come la scienza mate-


matica che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzio-
ni competitive e cooperative tramite modelli, ovvero uno stu-

33
dio delle decisioni individuali in situazioni in cui vi sono inte-
razioni tra i diversi soggetti; le applicazioni e le interazioni
della teoria sono molteplici: dal campo economico e finanzia-
rio a quello strategico-militare, dalla politica alla sociologia,
dalla psicologia all’informatica, dalla biologia allo sport, intro-
ducendo l’azione del caso, connessa con le possibili scelte che
gli individui hanno a disposizione per raggiungere determinati
obiettivi, che possono essere comuni, comuni ma non identici,
differenti, individuali, individuali e comuni, contrastanti. Nel
modello della teoria dei giochi, tutti devono essere a cono-
scenza delle regole del gioco, ed essere consapevoli delle con-
seguenze di ogni singola mossa. La mossa o l’insieme delle
mosse che un individuo intende fare è chiamata “strategia”. In
dipendenza dalle strategie adottate da tutti i giocatori (o agen-
ti), ognuno riceve un “pay-off”30 (letteralmente il “pagamento
d’uscita” o, meglio, la vincita finale) secondo un’adeguata
unità di misura, che può essere positivo, negativo o nullo. Un
gioco si dice “a somma costante” se per ogni vincita di un gio-
catore v’è una corrispondente perdita per altri. In particolare,
un gioco “a somma zero” fra due giocatori rappresenta la situa-
zione in cui il pagamento viene corrisposto da un giocatore
all’altro.
La nascita della moderna teoria dei giochi può essere fatta
coincidere con la pubblicazione del libro Theory of Games and
Economic Behavior di John von Neumann e Oskar
Morgenstern nel 1944, anche se altri autori come Ernst
Zermelo, Armand Borel e von Neumann stesso avevano scrit-
to di teoria dei giochi. La “strana coppia” era formata, nell’or-
dine, da un matematico e da un economista: si può descrivere
informalmente l’idea di questi due studiosi come il tentativo di
descrivere matematicamente (“matematizzare”) il comporta-
mento umano in quei casi in cui l’interazione fra uomini com-
porta la vincita, o lo spartirsi di qualche tipo di risorsa. Il più
famoso studioso ad essersi occupato successivamente della
teoria dei giochi, in particolare per quel che concerne i “giochi
non cooperativi”,31 è il matematico John Forbes Nash, Jr., al
quale è dedicato il film di Ron Howard A Beautiful Mind.32

34
Nash adottò un approccio completamente nuovo al problema
di predire come le due parti coinvolte in una negoziazione
avrebbero potuto interagire. Invece di definire direttamente
una soluzione, definì una serie di condizioni ragionevoli che
qualsiasi soluzione avrebbe potuto soddisfare. Questo tipo di
approccio è detto assiomatico33 e la teoria di Nash costituì il
primo caso di applicazione di questo metodo alle scienze socia-
li. Nella teoria di Nash, si presuppone che le aspettative di
entrambe le parti riguardo ai comportamenti reciproci si basi-
no sugli aspetti intrinseci della situazione stessa della contrat-
tazione. L’essenza di una negoziazione che dà come risultato
un patto è procurata da due “giocatori” che hanno l’opportuni-
tà di collaborare per un comune risultato in più di un modo.

3. Il problema della contrattazione

Le novità introdotte dalla teoria dei giochi dimostrarono che


i comportamenti che gli economisti per lungo tempo avevano
considerato parte della psicologia umana, e perciò al di fuori
degli scopi di ragionamento economico, potevano essere ricon-
dotti ad un’analisi sistematica. L’idea dello scambio e della
contrattazione sono vecchie quanto l’umanità e nonostante l’a-
scesa del sistema capitalista (ove milioni di compratori e ven-
ditori non si incontrano mai), la contrattazione fra due sogget-
ti (siano essi persone, sindacati o governi) domina la scena
internazionale. Ma negli anni Quaranta, dopo due secoli dalla
pubblicazione della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith,34
non esistevano ancora principi di economia che potessero dire
come le parti di un patto potenziale interagissero. L’economista
che per primo pose il problema della contrattazione fu un pro-
fessore di Oxford, Francis Ysidro Edgeworth, nel 1881.35
Edgeworth e molti dei suoi contemporanei furono i primi ad
abbandonare la tradizione, storica e filosofica di Smith,
Ricardo e Marx ed a tentare di sostituirla con la tradizione
matematica. Egli pensava alle persone come a tanti calcolatori
dei profitti e delle perdite e riconosceva che il mondo della
competizione perfetta aveva una certa tendenza ad essere spie-

35
gato tramite il calcolo e le formule matematiche. La principale
debolezza di questa teoria risiedeva nel fatto che le persone
non si comportavano in modo puramente competitivo: spesso,
infatti, gli esseri umani agiscono per il loro tornaconto, ma
altrettanto spesso collaborano, cooperano e stringono patti. Il
suo modello matematico catturava i risultati della competizio-
ne, ma le conseguenze della cooperazione si dimostravano elu-
sive. Le parti coinvolte in una contrattazione agiscono nella
speranza che la cooperazione renda di più rispetto all’azione
isolata. Il modo in cui la negoziazione avviene dipende dal
potere contrattuale, ma all’epoca la teoria economica non
aveva nulla da dire circa tutto ciò.
Nel secolo successivo alcuni economisti, fra i quali gli ingle-
si John Hicks, ed Alfred Marshall, affrontarono il problema di
Edgeworth, ma anch’essi finirono per arrendersi. John Von
Neumann e Oskar Morgenstern suggerirono che la risposta
stesse nella riformulazione del problema come gioco di strate-
gia, ma nemmeno loro riuscirono a fare troppi passi avanti. Fu
un giovane studente dell’Università di Princeton a dare loro le
risposte mancanti.

4. Il contributo di John F. Nash

John Forbes Nash Jr. nasce il 13 giugno 1928 a Bluefield.36


Tra i matematici più brillanti e originali del Novecento, Nash
ha rivoluzionato l’economia con i suoi studi di matematica
applicata alla teoria dei giochi, vincendo il premio Nobel per
l’economia nel 1994.37 Ma Nash è anche un geniale e raffinato
matematico puro. Ha sempre avuto un’abilità poco comune
nell’affrontare i problemi da un’ottica nuova e impensabile per
gli altri, trovando soluzioni incredibilmente eleganti a proble-
mi complessi, come quelli legati alle equazioni differenziali
paraboliche. Nash ha vissuto per circa trent’anni tra i successi
scientifici ed accademici e la malattia mentale. Durante la bril-
lante attività scientifica in istituti universitari prestigiosi (come
quello di Princeton), oppure in società come la RAND
Corporation, lavorò per il governo alle strategie politiche e

36
militari della Guerra Fredda; dovette, suo malgrado, convivere
con la schizofrenia, che spesso – e per lunghi periodi nell’arco
di trent’anni – ne offuscò la stravaganza e la creatività, isolan-
dolo emotivamente dal mondo esterno. Dopo i periodi di crisi,
spesso successivi ai ricoveri in ospedali psichiatrici, Nash tor-
nava a fare matematica. Ma pochi mesi dopo, la malattia si
riacutizzava. Terapie come l’elettroshock, le camicie di forza
chimiche, le iniezioni di insulina lo segnarono nel fisico. Nel
1949, mentre studiava per il suo dottorato, sviluppò delle con-
siderazioni che quarantacinque anni più tardi gli valsero il pre-
mio Nobel. Durante quel periodo, Nash stabilì i principi mate-
matici della teoria dei giochi. Un suo collega, Ordeshook, ha
scritto: «Il concetto di “equilibrio di Nash” è sicuramente l’i-
dea più importante nella teoria dei giochi, per quel che riguar-
da i giochi non cooperativi. Se analizziamo le strategie di ele-
zione dei candidati, le cause della guerra, la manipolazione
degli ordini del giorno nelle legislature, o le azioni delle lobby,
le previsioni circa gli eventi si riducono ad una ricerca di o ad
una descrizione degli equilibri. Detto in altri termini e, bana-
lizzando, le strategie di equilibrio sono tentativi di predizione
circa il comportamento della gente.38
Il contributo maggiore offerto da Nash alla teoria dei giochi
è, dunque, il concetto di equilibrio. La prima formulazione di
questo teorema, che costituisce la nozione di equilibrio più
famosa della teoria dei giochi per quel che riguarda i “giochi
non cooperativi”, appare in un brevissimo articolo del 1949
dove John Nash, ancora studente a Princeton, dimostrò che,
nella strategia più razionale che un giocatore può adottare
quando compete con un avversario anch’esso razionale, esiste
sempre una situazione di equilibrio, ottenuta quando ciascun
giocatore sceglie la sua mossa strategica in modo da massi-
mizzare la sua funzione di retribuzione. Tutto ciò, ipotizzando
a priori che il comportamento dei rivali non varierà a motivo
della sua scelta (vuol dire che, anche conoscendo la mossa del-
l’avversario, il giocatore non farebbe una mossa diversa da
quella che ha deciso). Tutti i giocatori possono, dunque, opera-
re una scelta dalla quale tutti traggono un vantaggio (o limita-

37
re lo svantaggio al minimo). Una differenza sostanziale, que-
sta, rispetto al caso dei giochi a “somma zero” studiati in pre-
cedenza da John von Neumann, dove la vittoria di uno dei due
(unici) partecipanti era totale e necessariamente accompagnata
dalla sconfitta all’altro. A tal fine, può essere utile chiarire
alcuni semplici aspetti matematici della teoria dei giochi e defi-
nire alcuni concetti basilari. Un tipico gioco è sempre caratte-
rizzato da:

- Un insieme G di giocatori, o agenti, che solitamente si indi-


ca con i=1,...,N;
- Un insieme S di strategie, ciascuno dei quali contiene l’in-
sieme delle strategie che il giocatore i-esimo ha a disposizio-
ne, cioè l’insieme delle azioni che esso può compiere;
- Un insieme U di funzioni che associano ad ogni giocatore i
il guadagno (detto anche pay-off) ui, derivante da una data
combinazione di strategie (il guadagno di un giocatore in
generale dipende, infatti, non solo dalla sua strategia ma
anche dalle strategie scelte dagli avversari).
Un “equilibrio di Nash” per un dato gioco è una combina-
zione di strategie (che indicheremo con l’apice e) tale che Ui
(s1e, s2e,..., sie,..,sNe) sia maggiore o uguale a Ui (s1e, s2e,.., sie,..,
sNe) per ogni i e per ogni strategia si scelta dal giocatore i-
esimo.

Il significato di quest’ultima disuguaglianza è molto sempli-


ce: se un gioco ammette almeno un equilibrio di Nash, ogni
agente ha a disposizione almeno una strategia si dalla quale non
ha alcun interesse ad allontanarsi. Infatti, come si può desume-
re, se il giocatore i gioca una qualunque strategia a sua dispo-
sizione diversa da i, mentre tutti gli altri hanno giocato la pro-
pria strategia, può solo peggiorare il proprio guadagno o, al
più, lasciarlo invariato. Se ne deduce, quindi, che se i giocato-
ri raggiungono un equilibrio di Nash, nessuno può più miglio-
rare il proprio risultato modificando solo la propria strategia,
ed è quindi vincolato alle scelte degli altri. Poiché questo vale

38
per tutti i giocatori, è evidente che, se esiste un equilibrio di
Nash ed è unico, esso rappresenta la “soluzione” del gioco, in
quanto nessuno dei giocatori ha interesse a cambiare strategia.
Il contributo più importante dato da John Nash alla teoria dei
giochi è la dimostrazione matematica dell’esistenza di questo
equilibrio. In particolare, egli ha dimostrato che ogni gioco
finito che ammetta strategie miste ammette almeno un equili-
brio di Nash, dove per “gioco finito” si intende un gioco con
un numero finito di giocatori e di strategie, e per “strategia
mista” si intende un sottoinsieme di strategie a ciascuna delle
quali l’agente associa una data probabilità che gli consentirà
una scelta ponderata. Poiché la maggior parte dei giochi soddi-
sfano queste condizioni, è praticamente sempre possibile pre-
vedere il comportamento dei giocatori: essi giocheranno un
equilibrio di Nash, e se esso è unico, l’esito del gioco è noto
immediatamente. Risolto il problema dell’esistenza, come
identificare qual è l’equilibrio di Nash di un gioco finito? Il
procedimento è in sé molto semplice, ma per giochi con un ele-
vato numero di giocatori e strategie può diventare davvero
complesso.
L’ipotesi che sta alla base della ricerca dell’equilibrio e, più in
generale, della teoria dei giochi, è l’”assioma di razionalità” di
Peano; ovvero, un agente razionale non sceglierà mai una stra-
tegia che sa essere debole. Se esistono quindi, per un dato gio-
catore, delle strategie pure “deboli”, esse vanno escluse ai fini
della ricerca dell’equilibrio di Nash; conseguentemente, se esi-
ste una strategia pura “forte”, un agente razionale sceglierà
indubitabilmente quest’ultima. Se non esistono, invece, strate-
gie pure forti e, quindi, non esiste una strategia che determini-
sticamente porti a massimizzare il proprio guadagno a prescin-
dere dalle strategie scelte dagli avversari, allora un agente razio-
nale, non potendo conoscere le scelte degli avversari, giocherà
una strategia mista, cioè di volta in volta sceglierà tra un certo
numero di proprie strategie, scegliendo tali probabilità in modo
tale da massimizzare il valore atteso del proprio guadagno.
Tuttavia, strategie pure e miste non sono reciprocamente
esclusive: può accadere che, pur esistendo una strategia pura

39
forte, sia possibile costruirne una mista che la domini; ciò con-
duce spesso alla presenza di più equilibri di Nash in un gioco.
L’equilibrio di Nash rappresenta, quindi, la situazione nella
quale il gruppo si viene a trovare se ogni componente del grup-
po fa ciò che è meglio per sé, cioè mira a massimizzare il pro-
prio profitto a prescindere dalle scelte degli avversari.
Non è detto che l’equilibrio di Nash sia la soluzione miglio-
re per tutti. Infatti, se è vero che in un equilibrio di Nash il sin-
golo giocatore non può aumentare il proprio guadagno modifi-
cando solo la propria strategia, non è affatto detto che un grup-
po di giocatori o, al limite, tutti, non possano aumentare il pro-
prio guadagno allontanandosi congiuntamente dall’equilibrio.
È noto, infatti, che l’equilibrio di Nash può non essere un “otti-
mo di Pareto”,39 e quindi, possano esistere altre combinazioni
di strategie che conducono a migliorare il guadagno di alcuni
senza ridurre il guadagno di nessuno, o addirittura, ad aumen-
tare il guadagno di tutti. Analogamente, il risultato migliore per
tutti può non essere un equilibrio. Non si deve, tuttavia, pensa-
re che non sia possibile raggiungere una situazione nella quale
tutti ottengono il miglior risultato possibile se esso non è un
equilibrio: ciò è possibile, ma a condizione che si instauri una
cooperazione tra i giocatori, vale a dire che tutti agiscano non
col fine di ottenere il miglior risultato per sé, ma di ottenere il
miglior risultato per il gruppo e, quindi, indirettamente, otte-
nendo un risultato migliore anche per sé.
Oggi, il concetto d’equilibrio di Nash relativo ai giochi stra-
tegici è uno dei paradigmi fondamentali delle scienze sociali.
È grazie al suo contributo che il mondo scientifico ha accetta-
to la teoria dei giochi come un «metodo potente ed elegante per
affrontare una materia che era diventata sempre più barocca, in
modo molto simile a quello in cui i metodi della meccanica ce-
leste newtoniana avevano sostituito i metodi primitivi e sempre
più ad hoc degli antichi».40 Come spesso accade ai grandi della
scienza, l’idea di Nash non fu immediatamente condivisa per-
ché ritenuta troppo semplice, troppo ristretta per trovare un
ampia applicazione e, in seguito, così ovvia da sembrare dedu-
cibile da chiunque. Come ha affermato Reinhard Selten, l’eco-

40
nomista tedesco che vinse il premio Nobel nel 1994 insieme a
Nash e a John C. Harsany, «nessuno avrebbe previsto il gran-
de impatto che l’equilibrio di Nash ebbe sulle scienze econo-
miche e sociali in generale. Ancor meno ci si sarebbe aspettati
che il concetto del punto di equilibrio di Nash avrebbe mai
avuto una qualsiasi importanza per la teoria biologica».41

5. Come si rappresentano i giochi

La teoria dei giochi è una “lingua” e, come tale, si esprime


attraverso un linguaggio e dei segni ben precisi. La forma stra-
tegica di un gioco non è che un elenco di giocatori, strategie e
guadagni (pay-off).
L’esempio più classico, e decisamente il più importante, di
un gioco in forma strategica è quello cosiddetto del “dilemma
del prigioniero”:42 I due giocatori, i prigionieri, sono accusati di
aver compiuto un crimine e sanno che la condanna che sub-
iranno dipende dal loro atteggiamento durante la fase investi-
gativa. Se entrambi negano la partecipazione al reato, gli inqui-
renti non hanno prove sufficienti per una condanna lieve; se
entrambi confessano, invece, la condanna sarà pesante. La
legislazione prevede, inoltre, che se uno dei due non confessa
e l’altro sì, allora quest’ultimo potrà ottenere delle attenuanti
che implicano un consistente sconto di pena. Ma la scelta è
individuale e i due prigionieri, non potendo comunicare,
dovranno decidere autonomamente. Dovendo scegliere senza
conoscere l’intenzione del compagno, la strategia che mini-
mizza il rischio risulta essere quella di tradire. Scegliendo di
tradire, infatti, si viene scarcerati, nel caso in cui il compagno
non confessi a sua volta; si evita la pena massima, nel caso in
cui il compagno tradisca. Il dilemma sta nella seguente affer-
mazione: poiché il singolo individuo è portato a tradire, la
situazione raggiunta è per forza di cose una soluzione sub-otti-
male del problema stesso.
Il dilemma del prigioniero si presta a descrivere come si rap-
presenta un “gioco”:

41
----------------------------------------------------
A/B Confessa Tace
----------------------------------------------------
Confessa (5,5) (20,0)
----------------------------------------------------
Tace (0,20) (1,1)
----------------------------------------------------

La tabella precedente viene definita matrice dei pay-offs; è


uno schema che riassume matematicamente tutte le possibili
alternative di un gioco: i numeri riportati nelle caselle sono
quantità fittizie che rappresentano il valore che ogni azione
rappresenta per ogni giocatore.
Il dilemma del prigioniero fu ideato per rappresentare la
corsa agli armamenti, che vide partecipi Stati Uniti ed Unione
Sovietica a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo. In tale
contesto, i due giocatori sono in realtà le due superpotenze che
hanno libertà di scelta tra trattativa e riarmo unilaterale attra-
verso, ad esempio, l’istallazione di sistemi missilistici inter-
continentali.
Sebbene entrambi i partecipanti abbiano un chiaro e sincero
interesse per arrivare ad un trattato di pace duraturo, non è
scontato che l’esito del gioco sia questo. In effetti, nessuna
delle due superpotenze ha alcun interesse a mostrarsi cedevole
poiché questo la indebolirebbe sul piano della reputazione
internazionale e, forse, contribuirebbe a rendere meno proba-
bile un esito positivo del confronto.
Dunque, se la controparte si mostra disposta al dialogo, vi è
un incentivo ad approfittare di questa opportunità per consegui-
re una superiorità militare; se la controparte riarma, la scelta del
riarmo, per il primo giocatore, è addirittura necessaria al fine di
non trovarsi in una posizione di chiara inferiorità bellica.
Quando, invece, la distribuzione dell’informazione tra le
parti non si rivela un dilemma del prigioniero, ovvero se le
parti comunicano e si scambiano pareri, si rivela appropriata la
cosiddetta rappresentazione del gioco in forma estesa, ossia in
forma tale da tenere in esplicito conto l’eventuale vantaggio
informativo di un giocatore rispetto ad un altro. In questo tipo

42
di giochi, vi è una chiara struttura sequenziale delle mosse che
non riflette la sequenza delle mosse, quanto piuttosto la situa-
zione informativa. Pensiamo alla vita quotidiana e al seguente,
bizzarro, esempio: un uomo che debba trascorrere un week-end
assieme alla propria compagna, si trova a dover scegliere il
proprio abbigliamento. La scelta è funzione dello svolgimento
del week-end, ovvero dipenderà dalla loro scelta di andare al
mare o in montagna.
Secondo le preferenze della donna l’abbigliamento dell’uo-
mo risulterà più o meno adeguato e, di conseguenza, la loro
vacanza sarà più o meno riuscita.43 Questo tipo di situazione
può essere rappresentata, più che da una matrice, da uno sche-
ma ad albero come il seguente:

Uomo

6. Thomas C. Schelling e la classificazione dei giochi

L’analisi della razionalità pratica si propone di stabilire in


che modo le scelte di un agente razionale siano determinate
dalle sue preferenze e dalle sue credenze.
Le scelte possono venire attuate in due tipi fondamentali di
contesti: 1) i giochi contro natura, cioè le situazioni in cui un
agente isolato deve scegliere tra diverse azioni senza conosce-
re con certezza il reale stato di natura e, quindi, neppure i risul-
tati prodotti dalle sue possibili azioni; 2) i contesti interattivi,
cioè le situazioni in cui un agente è impegnato nell’interazione
con altri agenti.

43
Le scelte razionali nei giochi contro natura vengono analiz-
zate dalla teoria delle decisioni; quelle effettuate nei contesti
interattivi, costituiscono l’oggetto della teoria (matematica) dei
giochi, e di altri approcci più o meno strettamente connessi a
tale teoria. Nei contesti interattivi il risultato dell’azione di un
agente dipenderà sia dalla sua azione, sia da quelle degli agen-
ti con i quali interagisce.
Nella terminologia della teoria dei giochi, sviluppata a parti-
re dalle ricerche di von Neumann e Morgenstern, le interazio-
ni strategiche rientrano nella definizione di gioco. Il compito
della teoria dei giochi è, appunto, quello di formulare i princi-
pi che governano le scelte razionali nelle interazioni strategi-
che. I giochi più semplici sono quelli che coinvolgono soltan-
to due giocatori e, in questi giochi, il risultato dipenderà sol-
tanto dalle azioni dei giocatori stessi. Le preferenze di ciascun
giocatore tra i possibili risultati del gioco possono venire rap-
presentate mediante opportune misure di utilità.
La classificazione dei giochi viene operata sulla base di
diversi criteri. In primo luogo, si distingue tra giochi a due e
più giocatori. Altre fondamentali distinzioni sono quella tra
giochi statici e dinamici e quella tra giochi a informazione
completa e incompleta. Se entrambi i giocatori conoscono la
funzione dei pay-off dell’avversario, il gioco sarà a informa-
zione completa; invece, un gioco a informazione incompleta è
quello in cui almeno uno dei giocatori non conosce la funzio-
ne dei pay-off dell’altro.44 Quando i giocatori scelgono simul-
taneamente le loro mosse, diremo che il gioco è statico; parle-
remo, invece, di gioco dinamico quando le mosse sono sequen-
ziali nel senso che un giocatore muove per primo e l’altro sce-
glie la sua mossa dopo aver visto quella del primo.
Alcuni criteri per la classificazione dei giochi vengono for-
mulati, invece, con riferimento alla struttura dei pay-off .
Diremo che un gioco è a somma zero quando la somma dei
pay-off di ogni cella equivale a zero; più in generale, un gioco
è a somma costante, quando la somma dei pay-off di ogni cella
è costante. Per i giochi in cui la somma dei pay-off varia da
cella a cella parleremo, invece, di giochi a somma variabile.

44
Nei giochi a somma costante il guadagno di un giocatore è
sempre uguale alla perdita dell’altro; ciò significa che i giochi
a somma costante sono giochi di puro conflitto. Al contrario,
nei giochi a somma variabile può sussistere qualche conver-
genza di interessi tra i giocatori. Tale convergenza diventa per-
fetta nel caso dei giochi di pura collaborazione caratterizzati
dal fatto che i pay-off dei due giocatori sono identici.
Tra gli estremi del puro conflitto e della pura collaborazione,
vi sono tutti i casi intermedi, rappresentati dai giochi con
movente misto, cioè da quei giochi a somma variabile nei quali
la struttura dei pay-off esibisce qualche combinazione di con-
flitto e collaborazione.
L’obiettivo della teoria dei giochi è quello di individuare,
sulla base di opportuni principi di scelta, la strategia ottimale
per ogni genere di gioco. Possiamo ricavare un’idea intuitiva
della natura di tali principi considerando il “principio di domi-
nanza”.45 Il principio di dominanza afferma che non si deve mai
attuare una strategia dominata, cioè sottomessa, in termini di
attuabilità, da qualche altra strategia. Ne segue che, se un gio-
catore dispone di una strategia dominante, cioè di una strategia
che domina tutte le altre, farà bene ad attuarla. I giochi in cui
un giocatore dispone di una strategia dominante sono piuttosto
rari. Nella maggior parte dei casi, data una coppia di strategie,
nessuna delle due domina l’altra: quasi sempre, invece, la stra-
tegia migliore per un giocatore dipenderà da quello che farà il
suo partner. Nel tentativo di superare i limiti di applicabilità del
principio di dominanza, la teoria dei giochi ha esplorato molti
altri principi di scelta razionale; tali principi vengono normal-
mente formulati nei termini di un certo numero di elementi
strutturali del gioco, come le preferenze di ciascun giocatore e
le sue credenze circa le preferenze, le credenze e il grado di
razionalità della controparte.
Quasi tutti i principi di scelta della teoria dei giochi si fonda-
no anche sull’”assunzione di razionalità”, ovvero sull’assun-
zione che ciascun giocatore sappia che gli altri sono razionali
e, a loro volta, consapevoli del fatto che lui è razionale. Questo
implica che, in un gioco a due, entrambi i giocatori si attendo-

45
no che il partner sceglierà la sua strategia ottimale e, di conse-
guenza, baseranno su tale attesa la scelta della propria strategia
ottimale.

7. Schelling, la teoria dei giochi e le strategie dissuasive

Come già affermato nel Cap. 1 di questo lavoro, uno degli


elementi fondamentali della teoria dei giochi per le relazioni
internazionali è l’impiego di minacce, promesse e altre strate-
gie dissuasive.
Nel tentativo di comprendere la natura, il funzionamento e il
carattere razionale delle strategie dissuasive, il quadro concet-
tuale della teoria dei giochi è stato esteso in diverse direzioni.
Le ricerche su questi problemi hanno dato origine ad un campo
di studi interdisciplinari, la teoria del conflitto, che ha trovato
la sua prima organica trattazione in The Strategy of Conflict di
Thomas C. Schelling.
La teoria si occupa solo degli aspetti razionali e coscienti del
conflitto, visto come un contesto in cui i partecipanti cercano
di vincere attraverso un consapevole, intelligente e sofisticato
comportamento. Alla pari della teoria dei giochi, con la quale
condivide il carattere normativo, la teoria del conflitto si pro-
pone di identificare i principi che governano il comportamen-
to di un agente razionale coinvolto in un conflitto con altri
agenti razionali. I conflitti più interessanti e diffusi, anche nelle
relazioni internazionali, possono venire rappresentati come
giochi con interesse misto. Alcuni dei possibili risultati di tali
giochi sono congiuntamente indesiderabili: ciò significa che
entrambi i giocatori riceveranno un guadagno molto basso.
Il comune interesse ad evitare che il risultato del conflitto sia
congiuntamente indesiderabile non basta, tuttavia, a mettere
d’accordo i giocatori, dato che le loro preferenze tra gli altri
risultati saranno diverse: potrebbe persino accadere che qual-
che risultato sia rovinoso per un giocatore ed estremamente
desiderabile per l’altro.
Tra le più comuni strategie dissuasive figurano le minacce, le
promesse e gli avvertimenti; a livello informale, la minaccia

46
può venire descritta come una strategia dissuasiva in forma
condizionale, il cui tratto distintivo consiste nel fatto che chi
applica la minaccia non avrebbe alcun interesse a metterla in
atto. Il successo della minaccia non consiste, quindi, nella sua
attuazione: una minaccia riuscita è, invece, quella che non
occorre attuare, perché ha effettivamente distolto la contropar-
te da una certa azione.
La credibilità e il successo di una minaccia dipendono dalla
capacità del suo autore di sbarazzarsi della propria libertà di
scegliere se infliggere o no la punizione e, più precisamente,
dalla sua capacità di vincolarsi visibilmente all’attuazione
della minaccia, in risposta ad un’eventuale trasgressione.
La promessa, invece, può essere definita come il contrario di
una minaccia: infatti, mentre si minaccia qualcosa di congiun-
tamente distruttivo, la promessa riguarda sempre qualcosa di
congiuntamente desiderabile.
La promessa può essere definita come un impegno condi-
zionale unilaterale preso dal giocatore che muove per secon-
do in un gioco dinamico, allo scopo di incentivare la contro-
parte a fare una scelta vantaggiosa per entrambi; lo scambio
di promesse è un impegno non condizionale bilaterale, preso
da giocatori che devono muovere simultaneamente in un
gioco statico
Oltre agli avvertimenti, minacce e promesse, la teoria dei
giochi delle relazioni internazionali include una serie di stra-
tegie dissuasive alternative, come, ad esempio, i “supergio-
chi”. Un supergioco è un’estensione di un gioco in forma
semplice, ottenuto espandendo la matrice del gioco origina-
rio, così da includere tra le mosse a disposizione dei giocato-
ri anche un certo numero di strategie dissuasive. La possibi-
lità appena descritta è stata presa seriamente in considerazio-
ne da Schelling.46 La sua analisi parte dal rilievo che, poiché
un giocatore applica una strategia dissuasiva quando si vin-
cola visibilmente a una determinata mossa di base, tale appli-
cazione equivale, di fatto, alla visibile e irreversibile riduzio-
ne, nella matrice del gioco originario, di alcuni dei pay-off del
giocatore.

47
Oltre a mostrare concretamente la possibilità di rappresenta-
re i conflitti come supergiochi, essa fornisce una suggestiva
indicazione della complessità di tale costrutto. Infatti, basta
mettere a disposizione del solo giocatore che muove per secon-
do due semplici mosse strategiche, per passare dalla matrice di
quattro celle del gioco originario a quella di innumerevoli celle
del corrispondente supergioco. Pur riconoscendo l’indubbio
interesse teorico della dimostrazione che i conflitti possono
essere rappresentati come supergiochi, di fronte all’enorme
complessità di tali rappresentazioni, occorre chiedersi se esse
possano essere di aiuto nell’analisi di specifici conflitti.
Il problema fondamentale nell’analisi di un conflitto non
insomma è quello di risolvere il sistema del supergioco, bensì
quello di mettere in campo una serie di strategie effettivamen-
te possibili. In Schelling, la teoria dei giochi propone diverse
strategie di carattere bilaterale per vincolare a sé, nel bene o nel
male, il proprio avversario è il metodo del contratto; con que-
sto metodo gli impegni vengono trasformati in contratti che
prevedono il ricorso ad un arbitro in grado di amministrare una
punizione a chi violi l’impegno sancito dal contratto. Ciò signi-
fica che l’obbligatorietà degli accordi viene garantita attraver-
so un sistema di punizioni che può ridurre le funzioni dei pay-
offs dei giocatori.
Per esempio, due Stati che si scambiano la promessa di non
dare inizio ad uno scontro militare, possono applicare il loro
impegno ricorrendo al sistema degli ostaggi: in tal modo, uno
scontro militare produrrebbe quasi automaticamente l’uccisio-
ne degli ostaggi che - occorre presumere - rappresenta una
notevole penalità per entrambi i contendenti. Il sistema degli
ostaggi rappresenta, in una sua versione aggiornata, un ele-
mento costitutivo della strategia atomica. Infatti, la bilancia del
terrore atomico - fondata sulla quasi completa rinuncia alla
costruzione di sistemi antimissile e di altre strutture difensive -
corrisponde ad uno scambio totale di tutti gli ostaggi e ciò
equivalse, di fatto, a trasformare tutta la popolazione in ostag-
gio, senza consegnarla fisicamente nella mani dell’altro.47 La
seconda strategia è quella di mettere in gioco la propria repu-

48
tazione; questo tipo di impegno non prevede alcun accordo con
la controparte che, anzi, potrebbe essere danneggiata dall’e-
ventuale attuazione dell’impegno preso unilateralmente da un
giocatore. Il metodo della reputazione è afflitto, però, da una
notevole limitazione legata al fatto che il danno subito da chi
perde la faccia si manifesta solo dopo la fine del gioco: tale
danno, infatti, consiste essenzialmente nella perdita di credibi-
lità del giocatore nell’ambito delle successive interazioni nelle
quali sarà coinvolto. Ciò significa che perdere la faccia è una
penalità significativa solo per quei giocatori sui quali si proiet-
ta “l’ombra del futuro”.48 La terza strategia è quella di brucia-
re i ponti alle proprie spalle; essa permette di distruggere inte-
ramente la libertà di attuare una condotta alternativa. Così, per
esempio, l’esercito che si brucia i ponti alle spalle, si priva
volontariamente di ogni via di fuga, rendendo in tal modo asso-
lutamente credibile la propria minaccia di combattere fino in
fondo. Il metodo dei ponti bruciati include una grande varietà
di sistemi e tattiche che operano attraverso qualche volontario,
ma irreversibile, sacrificio della libertà di scelta .49

8. I paradossi della teoria dei giochi

Poiché la teoria dei giochi è strettamente connessa a calcoli


matematici complessi, spesso può accadere che le soluzioni dei
giochi stessi possano portare a dei paradossi; infatti, il mondo
della strategia ha una logica paradossale tutta sua, in contrasto
con la nostra logica ordinaria. Tali paradossi possono manife-
starsi, ad esempio, quando, in una strategia, si fa ricorso all’ir-
razionalità, piuttosto che alla razionalità: la storia della Guerra
Fredda offre svariati esempi di uso strategico dell’irrazionalità:
la fermezza di Dulles,50 la collera e le scarpe di Krusciov,51 l’o-
stinazione fredda di De Gaulle corrispondono a questo gioco
psicologico, la cui influenza può superare tutti i calcoli ricava-
ti da fattori materiali. L’elemento decisivo, in questi casi, ripo-
sa sulla volontà di scatenare il cataclisma. Far credere che si ha
questa volontà è più importante di tutto il resto. La tattica di
simulare follia, stupidità e altre forme di irrazionalità (in

49
aggiunta a quella di cui si è naturalmente dotati) è vecchia
quanto il mondo. Il meccanismo che ne sta alla base può esse-
re spiegato come segue: supponiamo di interagire con un
avversario irrazionale o, comunque, non completamente razio-
nale. Nell’interazione con questo avversario, la nostra mossa
migliore non coinciderà necessariamente con la strategia otti-
male, poiché quest’ultima viene definita in base all’assunzione
che la controparte sia un agente razionale. Nel caso, invece, di
un avversario dotato di razionalità imperfetta, occorre assume-
re che, molto probabilmente, egli attuerà qualche mossa non
ottimale. In realtà, non possiamo mai essere completamente
certi dell’irrazionalità del nostro avversario e dobbiamo, quin-
di, accontentarci di scegliere la nostra mossa in base a previ-
sioni molto incerte circa le sue scelte. È proprio l’impossibili-
tà di sapere se la controparte è davvero irrazionale ad aprire la
strada all’uso strategico dell’irrazionalità. Il nostro avversario,
infatti, potrebbe solo simulare stupidità, irascibilità o follia,
allo scopo di indurci ad attuare una strategia sub-ottimale. A
quel punto, potrà approfittare del nostro errore, attuando la sua
strategia ottimale.
Il tipo di minacce precedentemente utilizzate vengono defi-
nite deterministe, vale a dire che, in esse, ad ogni azione corri-
sponde una reazione.
Schelling dimostrò, inoltre, come delle volte sia necessario
utilizzare minacce di tipo probabilistico, ovvero delle minacce
che «lasciano qualcosa al caso».52 Nel caso di minacce proba-
bilistiche, tuttavia, non è immediatamente chiaro in che cosa
possa consistere tale vincolo. In linea di principio, l’elemento
casuale utilizzato per vincolarsi all’attuazione di minacce pro-
babilistiche potrebbe consistere nella creazione di situazioni di
tensione, confusione e rischio, in cui la razionalità della scelta
viene offuscata dalla fretta e dalle difficoltà di comunicazione,
aprendo così la via a decisioni che lasciano qualcosa al caso.
Le minacce probabilistiche sembrano svolgere un ruolo
molto importante nella strategia della deterrenza militare. Si
pensi, per esempio, alla minaccia probabilistica di scatenare
involontariamente una guerra di grandi proporzioni, e persino

50
una guerra atomica: tale minaccia può venire applicata, per
esempio, dando inizio a una guerra limitata, utilizzata come un
generatore di rischi. Sulla base della sua analisi scientifica,
Schelling suggerisce una risposta piuttosto sorprendente a que-
sto interrogativo. Anche un piccolissimo timore iniziale che il
nostro avversario colpisca per primo è destinato ad accrescersi
progressivamente, attraverso un effetto moltiplicatore, così da
indurci ad anticipare il suo primo colpo con il nostro.53 Ciò
significa che le profezie catastrofiche dei partecipanti sono
destinate ad avverarsi.
L’effetto moltiplicatore può essere descritto come segue:
anche se il mio timore che l’avversario colpisca spontanea-
mente per primo è piccolissimo, occorre aggiungervi un secon-
do timore, ovvero quello che lui colpisca per primo a causa del
suo timore iniziale che io colpisca spontaneamente per primo e
così via, fino all’infinito. È evidente che i partecipanti a un
gioco del terrore hanno tutto l’interesse a modificare il gioco,
così da stabilizzare la bilancia del terrore. Impegnandosi nel
tentativo di modificare un gioco del terrore, i giocatori eserci-
tano una raffinata forma di razionalità strategica. Essi si impe-
gnano in una sorta di “metagioco”, le cui mosse consistono
nell’accordarsi per modificare, a vantaggio di entrambi, la
natura del gioco originario. Sembra, dunque, del tutto plausibi-
le che un’adeguata analisi della razionalità strategica debba
considerare non solo le mosse di base, ma anche le loro possi-
bili mosse nel metagioco.
I giochi atomici tra potenze rivali sono esempi paradigmati-
ci di giochi del terrore: il primo colpo (il cosiddetto first stri-
ke) consiste nel lancio di un attacco atomico volto alla com-
pleta distruzione delle forze atomiche dell’avversario, così da
lasciarlo alla mercé dell’aggressore. Tra gli anni Sessanta e gli
anni Ottanta del secolo scorso, gli strateghi nucleari hanno
condotto una grande quantità di ricerche per individuare sche-
mi di disarmo o, per meglio dire, di controllo degli armamen-
ti, che USA e URSS avrebbero potuto attuare per stabilizzare
la delicata bilancia del terrore: tra questi, il brinkmanship.

51
III. APPLICAZIONI
DELLA TEORIA DEI GIOCHI

1. Aspetti tecnici della guerra atomica

L’impiego, o meno, delle armi atomiche è uno degli aspetti


fondamentali che contribuisce a definire lo scenario di un con-
flitto. Dalla seconda meta del XX secolo, gli strateghi ed i filo-
sofi hanno iniziato ad occuparsi non solo di come materie non
appartenenti alle scienze sociali potessero sostenere una teoria
della strategia, ma hanno provveduto anche ad un’analisi stra-
tegica militare delle diverse tipologie di conflitto: ogni guerra,
infatti, è una guerra diversa, e scoppia con intenti molteplici.
Edward Luttwak, per esempio, in Strategia,54 ha analizzato le
forme di conflitto create dalle strategie militari nel corso del
Novecento; le formule belliche da lui rilevate sono le seguen-
ti: a) la guerra convenzionale; si tratta di un tipo di conflitto
combattuto senza l’impiego di armi nucleari, facendo ricorso a
ogni altro mezzo offensivo, compresi, eventualmente, gli ordi-
gni chimici e biologici. b) la guerra limitata; è una guerra nella
quale almeno una delle parti pone restrizioni sull’impiego delle
armi e sulla determinazione degli obiettivi o zone da colpire. In
particolare, si parla di guerra limitata quando una delle due
parti, pur disponendo di un armamento nucleare, si astiene dal
suo impiego. c) la guerra atomica limitata; è una guerra nella
quale vengono condotti attacchi nucleari contro il territorio
avversario, nel rispetto, però, di limitazioni autoimposte sia nel
numero e nella potenza delle testate nucleari sia, e soprattutto,
nella natura dei bersagli. d) la guerra centrale , è il conflitto tra
due superpotenze nucleari, combattuta con o senza il ricorso
alle armi nucleari. Il termine è stato impiegato per definire uno
scontro diretto tra le due superpotenze senza il coinvolgimen-
to dei rispettivi alleati. e) la guerra generalizzata o totale; è
una guerra tra le due superpotenze e i loro alleati, nella quale
vengono impiegate tutte le armi disponibili, comprese quelle

52
nucleari. f) La guerra locale: il termine fu coniato dai sovieti-
ci per indicare una guerra limitata geograficamente a un deter-
minato teatro di combattimento, in cui vengono impiegate tutti
i tipi di armi, comprese quelle nucleari. La dottrina operativa
sovietica prevedeva, in caso di scontro tra NATO e Patto di
Varsavia, il ricorso alle armi atomiche sul campo di battaglia
fin dalle prime fasi del conflitto. g) La guerra catalitica; è una
guerra nucleare provocata da una terza potenza: si pensava, per
esempio, alla possibilità che la Cina, simulando un attacco
sovietico agli Stati Uniti, scatenasse la rappresaglia americana
contro l’Unione Sovietica. La guerra catalitica si è presentata
come un’ipotesi possibile di scontro solo nel periodo in cui
vennero schierati i primi missili balistici nucleari. Queste armi,
infatti, risultavano talmente vulnerabili che il loro lancio, in
caso di allarme, doveva essere immediato, senza perdere
tempo per eventuali comunicazioni o riflessioni, pena il loro
totale annientamento. L’esistenza di reti satellitari di controllo
sempre più sofisticate e la mutata situazione politica del mondo
hanno presto reso tale scenario del tutto inverosimile.
A proposito di proliferazione nucleare, è interessante osser-
vare che, secondo alcuni studiosi, lo sviluppo di un armamen-
to nucleare da parte di uno Stato ne incrementa il grado di con-
sapevolezza e di cautela e lo colloca nella struttura degli Stati
ad architettura complessa tanto cara ai neorealisti. L’esempio
dell’India e del Pakistan sembra offrire sostegno a questa tesi,
dato che la loro conflittualità non è certo aumentata dopo che
entrambi sono entrati a far parte del “club” nucleare.55
Come osserva Luttwak56, la strategia è governata da una dia-
lettica caratterizzata, fra l’altro, dalla natura paradossale dei
suoi risultati, che possono includere la coincidenza degli oppo-
sti. Per esempio, inesorabilmente i pacifisti attirano la guerra,
gli implacabili espansionisti perdono potere, gli inflessibili
invasori sconfiggono la loro forza, i fautori del disarmo provo-
cano la corsa al riarmo e quelli del riarmo generano il disarmo.
Un classico paradosso dell’età atomica sembra costituito dal
fatto che le armi nucleari sono state rese inutili dalla loro stes-
sa potenza distruttiva, nonché dall’efficacia delle strategie di

53
reciproca dissuasione.57 Il carattere paradossale della strategia
atomica, basata su concetti quali distruzione di massa, equili-
brio del terrore e deterrenza, è stato enfatizzato da molti stu-
diosi che hanno visto in questa strategia un completo supera-
mento della classica concezione della guerra “alla Clausewitz”.
A partire dalla fine degli anni Sessanta gli strateghi hanno ini-
ziato a pianificare l’impiego tattico degli ordigni nucleari, tra i
quali la bomba al neutrone.58
Un interessante interrogativo riguarda, appunto, la possibili-
tà che le armi nucleari tattiche aprano la via ad una “normaliz-
zazione” dell’arma atomica, cioè alla possibilità che essa
diventi un’arma come tutte le altre.
Il successo delle strategie di dissuasione, tese ad evitare con-
flitti nucleari generalizzati, ha consentito il tranquillo svolgi-
mento di conflitti locali di enorme violenza; tali conflitti sono
stati spesso caratterizzati da un feroce primitivismo bellico,
con intere popolazioni sterminate facen- do uso di armi da
fuoco, pugnali, asce e bastoni: si pensi ai casi del Rwanda,
della Bosnia o del Kossovo.
È, così, accaduto che, per paradossale ironia della ragione
strategica, la bomba atomica abbia condotto, proprio per il suo
carattere catastrofico, alla pace atomica, aprendo, però, la via
al più massiccio uso bellico di pugnali e armi bianche dell’in-
tera storia umana.
Nel nuovo Millennio, dunque, sembra prospettarsi un futuro
come quello preannunciato da Einstein: in una celebre intervi-
sta gli fu chiesto come, a suo avviso, sarebbe stato combattuto
il terzo conflitto mondiale; egli rispose: «Io non so con quali
armi sarà combattuta la terza guerra mondiale, ma so che la
quarta sarà combattuta con pietre e bastoni».

2. Il dilemma della sicurezza

La sicurezza costituisce un chiaro interesse nazionale, ma


non tutti gli interessi nazionali hanno a che fare con la sicurez-
za: sebbene i due concetti siano in relazione fra loro non sono
tuttavia coincidenti. «La sicurezza può essere definita come la

54
probabilità che i propri interessi vitali non vengano sfidati o
violati all’interno di un ragionevole intervallo di tempo.
L’ammontare di sicurezza che è possibile guadagnare attraver-
so l’incremento del potere si tradurrebbe, quindi, in un aumen-
to della suddetta probabilità» .59
La definizione qui riportata fornisce una prima approssima-
zione empirica del concetto di sicurezza, legandola esplicita-
mente a degli interessi, ed introducendo, inoltre, introduce la
delicata questione del rapporto fra sicurezza e potere, attorno
al quale è possibile distinguere studiosi che vedono l’accumu-
lo progressivo di potere come l’unico mezzo per potersi assi-
curare la sicurezza, e altri che, invece, ritengono che un accu-
mulo indefinito possa essere addirittura controproducente per
la propria sicurezza.
Ma teorici e matematici quali strategie hanno fornito alla
politica per affrontare il problema della sicurezza? Le defini-
zioni concettuali differiscono di molto da studioso a studioso;
in linea generale, però, se ne possono individuare tre: il balan-
cing, il bandwagoning, il buckpassing.

2.1 Balancing

Per definire la strategia del balancing sono necessari almeno


due passaggi: primo, mostrare che l’azione intrapresa è moti-
vata dall’intenzione di rispondere ad un pericolo (sia esso defi-
nito in termini di potenza o di minaccia) e, secondo, argomen-
tare che l’azione è stata intrapresa per contrastare il pericolo e
non per nascondersi da esso (hide from it).
Morgenthau, ad esempio, sostiene che le politiche di bilan-
ciamento sono tanto inevitabili quanto stabilizzanti. Finché
opera con successo, l’equilibrio di potenza assicura due fun-
zioni fondamentali: da un lato, la stabilità dei rapporti di forza
(pur essendo mutevoli nelle specifiche dotazioni di potere) e,
dall’altro, l’autonomia degli Stati; in altre parole, esso impedi-
sce che uno Stato sia dominato dall’altro.60.
Waltz sottolinea proprio questo aspetto, ritenendo che il
balancing consista in una politica il cui scopo sia quello di

55
bilanciare uno squilibrio di potere. Il balancing è il comporta-
mento indotto dal sistema, tanto per le piccole potenze,
ammesso che siano libere di scegliere, che per la grandi poten-
ze.61
John Mearsheimer, invece, ritiene che il balancing sia un
comportamento tale per cui uno Stato minacciato si accolla l’o-
nere di intimidire il suo avversario destinando consistenti risor-
se a questo scopo.62 Nell’esaminare l’ambiente che lo circonda
per determinare quali Stati costituiscono una minaccia alla sua
sopravvivenza, uno Stato si sofferma soprattutto sulle capacità
offensive dei potenziali rivali, e non sulle intenzioni dei rivali.
Con l’azione di bilanciamento una grande potenza si assume
direttamente la responsabilità di impedire ad un aggressore di
alterare l’equilibrio di potere esistente: l’obiettivo iniziale è
quello di scoraggiare l’aggressore (funzione di deterrenza), ma
se ciò fallisce, lo Stato che bilancia sarà pronto ad entrare nella
guerra che ne risulterà.
Definire il balancing come una risposta ad un’aggressione
può portare a tralasciare azioni intraprese prima che l’aggres-
sione si manifesti. Questa possibilità è implicita nella defini-
zione di John Levy, per il quale il balancing viene considerato
come la strategia di sicurezza che gli Stati, almeno le grandi
potenze, perseguono con più accanimento e con una varietà di
strumenti, ma sempre con l’obiettivo di impedire l’affermazio-
ne di uno Stato quale potenza egemone.63
Robert Schweller ritiene che si possa parlare di balancing
solo se il target è un aggressore veramente pericoloso che non
potrebbe o non dovrebbe essere “appeased” e le capacità dello
Stato sono necessarie e indispensabili per controbilanciare il
potere dello Stato aggressore.64
Questa ultima osservazione è condivisibile: l’identificazione
di un comportamento come appartenente alla classe di balan-
cing behavior dovrebbe, in effetti, tener conto di questo ele-
mento quantitativo: una tale precisazione implica che, a rigor
di logica, i comportamenti degli Stati debbano essere interpre-
tati attraverso il confronto continuo con il rapporto di potenza
fra coalizioni contrapposte.

56
Il meccanismo, inoltre, distingue tra percezione della minac-
cia e risposta alla minaccia. La separazione analitica di questi
due elementi consente di isolare e confrontare ipotesi rilevanti
per ognuno dei due passaggi sopra menzionati: ad esempio, le
intenzioni possono essere più importanti degli squilibri di pote-
re come fonte della percezione della minaccia, ma la potenza
(capabilities) potrebbe benissimo essere l’elemento che deter-
mina come uno Stato risponde alla minaccia percepita.
È vero, quindi, che probabilmente la percezione delle inten-
zioni altrui, può costituire un fattore rilevante per decidere
quale sia la fonte di pericolo, ma è altrettanto plausibile che
siano considerazioni di potere a determinare il tipo di risposta
al pericolo.
Per Enry Luard,65 le politiche di bilanciamento si hanno solo
se uno Stato si allea con la parte più debole fra due possibili
partner. L’aspetto interessante nell’argomentazione di Luard è
l’aver sottolineato che le politiche di balancing hanno la carat-
teristica di essere “reattive”, ovvero vengono intraprese in
risposta a qualcosa che cambia nel contesto delle relazioni
inter-statali.
Le politiche che rientrano in questa categoria sono soprattut-
to le alleanze; tuttavia, non tutte le alleanze possono essere
interpretate e spiegate in termini di balancing, il che impone
una certa attenzione nel valutare il valore che un’alleanza o una
cobelligeranza assumono.

2.2 Buckpassing

Con il buckpassing (lo “scaricabarile”) la grande potenza


minacciata cerca di indurre un altro Stato a farsi carico del-
l’impegno di intimidire o sconfiggere lo Stato che rappresenta
la minaccia. Lo scaricante riconosce pienamente la necessità di
impedire all’aggressore di aumentare la sua parte di potere
mondiale, ma cerca un altro Stato minacciato da quell’aggres-
sore per condividere con esso una strategia.
Sono tre le politiche specifiche che rientrano nella categoria
dello scaricabarile: relazioni diplomatiche con l’aggressore per

57
indirizzarlo verso la potenza destinata a caricarsi il barile;
aumento della propria spesa per la difesa per alzare i costi che
l’aggressore dovrebbe pagare per un eventuale attacco; rela-
zioni fredde con lo Stato destinato a raccogliere il barile per
evitare di essere trascinato (chain-ganging) in una guerra a
fianco del caricato.
Barry Posen sostiene che dottrine militari difensive o la per-
cezione della superiorità della difesa rispetto all’attacco facili-
tano il buckpassing, poiché esso appare come la strategia
migliore dati gli alti costi dell’attacco: si sottovaluta la proba-
bilità di essere attaccati o che lo sia il, caricato e, contempora-
neamente si sopravvaluta il potere deterrente della superiorità,
vera o presunta, della difesa sull’attacco.66

2.3 Bandwagoning

Il bandwagoning è un comportamento con cui ci si unisce


alla parte più forte fra due coalizioni. Una menzione particola-
re merita l’interpretazione originale data al concetto da Randall
Schweller. La sua analisi riporta in primo piano le motivazioni
politiche, riconcettualizzando il bandwagoning non come
forma di sconfitta politica, ma come un comportamento che
può essere si dettato da ragioni di sicurezza “alla Waltz”, ma
anche da ragioni di opportunismo predatorio machiavellico.
In realtà, continua Schweller, vi sono diversi motivi per cui
si può scegliere il bandwagoning: il più importante, però, è
quello di ottenere dei guadagni. Affinché uno stato adotti un
comportamento di bandwagoning, non è necessario che vi sia
una minaccia: si ha bandwagoning anche quando non è la sicu-
rezza, ma il profitto l’obiettivo che lo Stato vuol perseguire.
Sono le sanzioni positive (ovvero le promesse o le aspettative
di ricompensa) a spingere gli Stati a fare bandwagon.67

3. Il Brinkmanship e la politica del rischio calcolato

Nella scienza politica e nelle relazioni internazionali, si ana-


lizzano spesso situazioni (come la crisi di Cuba) definite

58
sull’“orlo della guerra”; ma che cosa si intende, nella visione
della teoria dei giochi di Schelling, per “orlo”?

«L’orlo è un pendio sempre più inclinato dove si può stare in piedi


con il rischio di scivolare; né chi è sul pendio, né chi lo osserva
possono concepire con certezza quale sia il grado di pericolo del
punto in cui si trova».68

Il termine brinkmanship individua proprio queste situazioni


e solitamente indica la pratica di spingere una situazione peri-
colosa sull’orlo del disastro al fine di raggiungere il risultato
più vantaggioso possibile, costringendo la parte opposta a fare
delle concessioni.69
La politica del rischio calcolato, infatti, implica che ci si trovi
sul pendio da cui si potrebbe scivolare, trascinando con noi
l’avversario, nonostante tutti gli sforzi da noi fatti per salvarci.
Si tratta di una tattica in cui serve una buona dose di lucida
irrazionalità per lasciare intenzionalmente che la situazione
sfugga di mano, semplicemente perché il fatto che sia fuori
controllo può diventare insopportabile per l’altra parte, costrin-
gendola così, ad un accomodamento.
Delle volte si sostiene che non c’è bisogno di minacciare un
nemico con la certezza di una ritorsione, ma che è sufficiente
spaventarlo con la possibilità di una reazione da parte nostra:
così, se temiamo che una minaccia irrevocabile possa fallire,
può rimanere ben poco spazio di manovra se ci affidiamo sem-
plicemente al tentativo di convincere il nemico piuttosto che
portare avanti l’impegno.
La situazione, tuttavia, è diversa quando ci troviamo in una
condizione in cui al nemico è evidente che siamo coinvolti al
punto che, benché probabilmente abbiamo una via d’uscita,
questa potrebbe non essere reale.
Affermare con forza che potremo o meno scatenare una rap-
presaglia di fronte ad un’azione d’aggressione (diretta o indi-
retta),70 potrebbe porre il nemico di fronte a quello che sem-
brerebbe un bluff. Ma il fatto, per esempio, di stanziare truppe
o intraprendere altre iniziative in un paese neutrale, tanto da

59
essere noi i primi a non sentirci più sicuri sulle possibilità che
avremmo di evitare un conflitto, potrebbero davvero tenere in
sospeso le capacità di previsione del nemico che, stordito,
farebbe il nostro gioco.
Riassumendo, secondo la teoria del brinkmanship, può avere
senso tenere in sospeso le capacità di previsione del nemico, se
siamo noi a condurre il gioco. Se il risultato è invece, almeno
in parte, determinato da eventi che non sono sotto il nostro
controllo,71 noi creiamo per il nemico un rischio autentico. In
questo caso, mosse e contromosse possono essere coadiuvate
da un gioco semplice e tradizionale come il “MAD”.

4. MAD: un gioco “atomico”

Il dilemma della sicurezza e la guerra hanno sempre avuto


un’importanza ovvia nella storia del mondo, ma quando l’uo-
mo è stato in grado di creare delle armi (atomiche) capaci non
solo di distruggere il nemico, ma l’intera umanità, allora la
strategia è divenuta non solo appannaggio di generali e presi-
denti, ma di tutto lo scibile umano: filosofi, matematici, fisici
e psicologi.
In questo ambito, una situazione ben nota a tutti è quella
della corsa agli armamenti, che ha costituito uno dei temi più
importanti della politica internazionale durante la cosiddetta
Guerra Fredda.
Una semplice matrice dei pay-off è in grado di descrivere
situazioni come queste, soprattutto in un clima di corsa agli
armamenti:

PAESE 2
SM NM
———————————

SM 10;10 200;0
PAESE 1
NM 0;200 100;100
———————————

60
Naturalmente i numeri sono arbitrari, ma sono stati scelti in
modo da rispecchiare correttamente l’atteggiamento delle
grandi potenze a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale fino alla fine degli anni Ottanta.
I numeri indicano il livello di soddisfazione che un Paese trae
da una qualsiasi delle quattro situazioni possibili. È ovvio che
un mondo senza missili è migliore di un mondo in cui tutti
hanno i missili, ma non avere missili è imbarazzante se l’altro
Paese li ha. Per cui entrambi i Paesi vogliono dotarsi dei mis-
sili intercontinentali.
Il gioco della corsa agli armamenti ha rappresentato, in real-
tà, la forma originale in cui era stato concepito il dilemma del
prigioniero; a scopo divulgativo si è poi usata, a partire dalla
prima metà degli anni Cinquanta, la storia dei due prigionieri,
essenzialmente perché l’attività degli studiosi di teoria dei gio-
chi era coperta da segreto militare, ed in parte anche per comu-
nicare la natura generale del risultato ad un pubblico più ampio
e variegato, non necessariamente coinvolto in dispute militari.
Un tratto tipico del confronto tra Stati Uniti ed Unione
Sovietica nella seconda metà del XX secolo è stato quello della
escalation, non solo nella dotazione degli armamenti strategi-
ci, ma anche nell’atteggiamento reciproco riguardo come usar-
li. Un famoso gioco descrive l’ escalation in modo molto effi-
cace, ed è comunemente noto come MAD (acronimo di
Mutually Assured Destruction, distruzione reciproca assicura-
ta). Tale gioco si svolge in due stadi, e la sua soluzione richie-
de l’analisi della cosiddetta forma estesa o albero del gioco.
Nella strategia militare, la distruzione mutua assicurata è una
teoria che in concreto si sviluppa intorno all’ipotesi di una
situazione di attacco o comunque aggressione militare con uso
di armi nucleari; in questo caso, ogni utilizzo di simili ordigni
da parte di uno dei due opposti schieramenti finirebbe nella
distruzione sia dell’attaccante che dell’attaccato. Questo avreb-
be la conseguenza di creare una situazione di stallo in cui nes-
suno può permettersi di far scoppiare una guerra globale.
La teoria incontrò il consenso di alcune potenze, che ne fece-
ro il concetto cardine sul quale basarono la loro politica strate-

61
gica. La teoria assume che ogni parte abbia sufficiente poten-
ziale bellico da distruggere l’altra e che ognuna delle parti, se
attaccata dall’altra per qualsiasi motivo, reagirebbe con forza
pari o superiore o comunque paragonabile. Il risultato più pro-
babilmente attendibile è che la battaglia si intensificherebbe al
punto che ognuna delle parti causerebbe all’altra - e, poten-
zialmente, anche ai suoi alleati - una distruzione totale assicu-
rata.
Si ritiene che in questa situazione nessuna delle parti sareb-
be così irrazionale da rischiare la propria distruzione (che si
tradurrebbe nella più drammaticamente classica vittoria di
Pirro, cioè nell’assoluta assenza di vantaggio; ed anzi con cer-
tezza di danno non comparabile col danno all’avversario); dun-
que nessuna delle parti - si suppone - oserebbe lanciare il primo
colpo. Ciò anche in quanto, stanti i tempi di attacco e stante
anche la rapidissima individuabilità di un simile ordigno in
viaggio, l’altra lancerebbe sull’allarme, cioè avrebbe il tempo
di replicare prima di essere colpita (azione detta in inglese fail
deadly) allo stesso modo, in pratica per una vera e propria ven-
detta. Dopo qualche decina di minuti, dunque, entrambi i con-
tendenti sarebbero distrutti con uno scarto temporale assai
breve.
Lo sperabile atteso risultato degli assunti di questa teoria è
che tali considerazioni possano indurre una pace (o almeno una
rinunzia all’uso dell’arma nucleare), ed una situazione quindi
pur tesa, ma resa stabile dal mutuo deterrente.
La principale applicazione dei risultati di questa elaborazio-
ne si ebbe durante il periodo della Guerra Fredda nella con-
trapposizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, quando il
MAD venne interpretata come un potenziale strumento di ausi-
lio teoretico, ma anche strategico, per prevenire ogni conflitto
diretto tra le due superpotenze mentre queste si confrontavano
in piccole guerre tradizionali, per lo più gestite indirettamente
attraverso paesi satelliti in varie parti del Globo (Vietnam,
Corea, ecc.).
La distruzione mutua assicurata fu parte fondante degli indi-
rizzi della strategia statunitense, che credeva che la guerra

62
nucleare tra USA e URSS avrebbe potuto essere prevenuta al
meglio se nessuna delle due parti avesse potuto difendere sé
stessa contro i missili nucleari dell’altra.
La gravità della minaccia era critica proprio per tale capaci-
tà garantita di reciproco danno, ed entrambe le parti dovettero
investire un sostanzioso capitale in armamenti, anche per quel-
li il cui uso non si intendeva sperimentare davvero.
Questo scenario venne spesso descritto con la locuzione
“deterrenza (o dissuasione) nucleare”.
I critici della teoria della distruzione mutua assicurata nota-
rono che l’acronimo inglese “MAD” condivideva qualcosa di
più di una mera assonanza con la parola inglese mad (che
significa malato di mente), poiché l’equilibrio e lo stato di
quiete (almeno quella atomica) dipendevano da diverse condi-
zioni necessarie per la sua applicabilità, tutte inevitabilmente
soggette a rischi insostenibili ed eventualmente irrimediabili.
La teoria fu oggetto di amara satira nel film di Stanley
Kubrick Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non
preoccuparmi e ad amare la bomba del 1964. Nel film i sovie-
tici dispongono di un ordigno da fine del mondo che individua
automaticamente ogni attacco nucleare all’Unione Sovietica e
di conseguenza distrugge tutta la vita sul pianeta. Il film mostra
anche un comandante impazzito che (inconsapevole del dispo-
sitivo sovietico) ordina alla sua squadriglia un attacco nuclea-
re preventivo, scommettendo che l’alto comando sarà costretto
ad appoggiarlo lanciando tutto l’arsenale atomico per soprav-
vivere al contrattacco sovietico. Il film rispecchia situazioni
non inverosimili e non inverificabili, in quanto lo stratega
nucleare Herman Kahn aveva effettivamente contemplato un
tale ordigno come strategia per garantire la distruzione mutua
assicurata. In effetti il film rappresenta un interessante feno-
meno esplorato da alcuni teorici: contrariamente alle assunzio-
ni della MAD, una strategia di soddisfacimento delle minacce
– nel quale uno promette di reagire alle minacce dell’altro indi-
pendentemente da quanto questo possa essere razionale – può
essere usata da una parte per controllare l’altra. Per avere una
possibilità di funzionamento, comunque, la strategia deve esse-

63
re a conoscenza del nemico, una condizione non soddisfatta nel
film di Kubrick, nel quale è per una casualità che non viene
espressa (i sovietici mettono in funzione il sistema prima di
darne l’annuncio in quanto il loro leader aspettava una impor-
tante ricorrenza per farlo).
Un altro esempio di film nel quale viene presa in considera-
zione la MAD è Wargames di John Badham (1983), in cui un
ragazzino rischia di alterare il fragile stato di quiete tra USA e
URSS quando, violando l’apparato di protezione del sistema
informatico della difesa americana e, credendo di essere all’in-
terno di un computer di una società di videogiochi, lancia una
simulazione di un gioco di guerra denominato “guerra termo-
nucleare globale”. Il supercomputer del Pentagono inizia a
ricevere allarmi su attacchi missilistici sovietici e dà automati-
camente inizio alle procedure per un contrattacco. Solo alla
fine viene scoperto il fatto della simulazione, ma ormai è trop-
po tardi per revocare la procedura con un comando manuale.
L’unico modo per interrompere tale processo diventa quello di
fare giocare il computer contro se stesso, facendolo arrivare
alla conclusione che “l’unica mossa vincente è quella di non
giocare”.
La caduta dell’Unione Sovietica ha ridotto le tensioni tra
Stati Uniti e Russia e tra Stati Uniti e Cina e la distruzione
mutua assicurata è stata sostituita come modello di stabilità tra
le suddette nazioni.
Anche se l’amministrazione di George W. Bush ha ritirato la
firma americana dal Trattato Anti Missili Balistici, il limitato
sistema di difesa missilistica proposto dall’amministrazione
Bush è disegnato per prevenire il ricatto nucleare da parte di
uno stato con limitata capacità nucleare e non è progettato per
alterare l’atteggiamento nucleare tra Russia e USA. Il sostituto
della MAD, la guerra asimmetrica, è disegnato per trarre van-
taggio da anni di analisi che si è concentrata nel trovare un con-
cetto di stabilità che non faccia affidamento sul tenere in ostag-
gio la popolazione civile.
Alcuni sostengono che la distruzione mutua assicurata venne
abbandonata il 25 luglio 1980, quando il presidente statuniten-

64
se Jimmy Carter adottò la countervailing strategy nella
Direttiva Presidenziale 59. A partire da questa data la linea
strategica statunitense è stata orientata verso l’obiettivo di
riportare la vittoria in un’eventuale guerra nucleare. La pro-
grammata risposta ad un attacco sovietico non fu più quella di
bombardare le città russe e garantirsi la loro distruzione. Le
armi nucleari americane dovevano innanzitutto eliminare la
dirigenza sovietica, quindi attaccare gli obiettivi militari, nella
speranza di una resa sovietica prima della distruzione totale
dell’URSS (e degli USA). Questa politica fu ulteriormente svi-
luppata dal presidente Ronald Reagan con l’annuncio della
Iniziativa di Difesa Strategica (SDI, conosciuta anche come
“Guerre Stellari” o Scudo stellare), indirizzata a distruggere i
missili sovietici prima che raggiungessero gli Stati Uniti. Se
l’SDI fosse stata operativa avrebbe minato alcuni presupposti
della “distruzione assicurata” prevista dalla MAD.
Una delle più comuni situazioni analizzate dal MAD è quel-
la della crisi missilistica di Cuba del 1962: questa, infatti, è
un’espressione paradigmatica di come un conflitto sia caratte-
rizzato da mosse e contromosse, e di come una minaccia così
grave come quella atomica possa evolvere in maniera positiva
poiché sottesa da una non reale intenzione di essere realizzata.
In quell’anno, l’amministrazione Kennedy dovette prendere
una decisione critica riguardo al comportamento da tenere nei
confronti dell’Unione Sovietica, colpevole di installare a Cuba
missili a testata nucleare in grado di colpire in pochi minuti
quasi tutto il territorio metropolitano degli Stati Uniti.
Kennedy scelse la via dell’escalation attraverso il blocco
navale di Cuba, prospettando a Kruscev la possibilità concreta
del confronto nucleare che sarebbe sfociato nella distruzione
reciproca.72
Al culmine della crisi, il tredicesimo giorno, l’Unione
Sovietica indietreggiò, accettando di ritirare i missili in cambio
di una contropartita, non qualitativamente e quantitativamente
equiparabile, ovvero il ritiro dei missili statunitensi Jupiter
dalla Turchia: quei missili erano obsoleti e già prossimi al
“pensionamento”.

65
Volendo tradurre la crisi di Cuba nel gioco MAD si deve pro-
cedere nel seguente modo: etichettiamo come giocatore 1 gli
USA e come giocatore 2 l’URSS. La situazione di partenza
consiste nell’assumere che il giocatore 2 abbia provocato una
situazione di crisi (iniziando l’installazione dei propri missili a
testata nucleare a Cuba). Il giocatore 1 muove per primo, e può
scegliere tra due strategie: i = ignorare e = escalation; ovvero
adottare un comportamento aggressivo (ad esempio, il blocco
navale). Il giocatore 2 muove per secondo, avendo osservato il
comportamento del giocatore 1, e può scegliere tra r = ritirarsi,
cioè fare marcia indietro e darsi per sconfitto ritirando i propri
missili, oppure e escalation, accettando il confronto nucleare.
La forma normale del gioco è illustrata dalla seguente dalla
matrice:

PAESE 2
r e
———————————

i -1; 1 -1; 1
PAESE 1
e 10; -10 -GN; -GN
———————————

Ancora una volta i numeri sono scelti in modo da descrivere


opportunamente la situazione sotto esame. GN è un numero
altissimo, e quindi GN denota la perdita associata alla guerra
nucleare generata da una escalation bilaterale. Le altre caselle
possono essere interpretate nei seguenti termini: se il paese 1
sceglie di ignorare (i), allora il paese 2 è indifferente tra le pro-
prie strategie, e trae un guadagno dal confronto. Se, invece, il
paese 1 opta per l’ escalation e il paese 2 si ritira, allora que-
st’ultimo “perde la faccia” sul piano internazionale, mentre il
prestigio del paese 1 ne esce ampiamente rafforzato.
Quest’idea è espressa dai pay-off 10 e 10 . L’esame della
matrice rivela che esistono due equilibri di Nash: (i; e) ed (e;
r), tuttavia, il primo si basa su di una strategia non credibile da

66
parte del paese 2: infatti, per 2 la strategia “e” è debolmente
dominata dalla strategia r: siccome il paese 1 lo sa, in quanto il
gioco si svolge in condizioni d’informazione completa su pay-
offs e strategie, può sicuramente costringere il paese 2 a ritirar-
si giocando la strategia “e”. Una volta che il paese 1 ha scelto
la strategia “e”, per il paese 2 la strategia “r” risulta dominan-
te, in quanto la prima riga della matrice diviene irrilevante.
Questi risultati si possono esprimere sinteticamente dicendo
che l’esito (e; r), oltre ad essere un equilibrio di Nash, è anche
un equilibrio perfetto nei. sottogiochi, mentre l’esito (i; e) è un
equilibrio di Nash non perfetto nei sottogiochi, in quanto com-
porta l’adozione di una strategia debolmente dominata e, quin-
di, non credibile da parte del paese 2.
È evidente che l’equilibrio di Nash (i; e) è giocato se e solo
se il paese 1 adotta la strategia “i” nel timore che, in risposta ad
e, il paese 2 risponda simmetricamente generando un’ escala-
tion bilaterale che porterebbe al confronto nucleare globale.
D’altro canto, il paese 2 può tentare di far leva su questa
minaccia per risolvere a proprio favore la crisi locale. Se, però,
il paese l non crede alla minaccia e sceglie la strategia “e” con
l’intento di scoprire il bluff del paese 2, si genera l’equilibrio
perfetto nei sottogiochi (e; r), in quanto, per il paese 2, è razio-
nale ritirarsi. Naturalmente, il comportamento del paese 1 si
basa sull’ipotesi che l’avversario sia razionale e non commetta
errori.
Nella crisi dei missili di Cuba, la scommessa americana sulla
leadership sovietica era esattamente questa, e si è rivelata cor-
retta, ma è stato sfiorato l’olocausto nucleare, a cui si sarebbe
arrivati se i Sovietici non avessero condiviso lo stesso tipo di
razionalità dell’amministrazione Kennedy, o se i militari aves-
sero “premuto il bottone sbagliato”.
Seguendo la stessa linea di ragionamento, è anche possibile
interpretare il modo in cui si risolse la vicenda dei cosiddetti
Euromissili, tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima
metà degli anni Ottanta.
All’inizio degli anni Settanta, quando il premier sovietico era
Breznev, le forze armate sovietiche svilupparono un nuovo tipo

67
di missile nucleare a gittata intermedia, l’SS-20, in grado di
colpire Roma, Parigi o Londra partendo da basi situate al di là
degli Urali.73 In altre parole, tale missile era un’arma “tattica”,
ma non poteva essere considerata come un’arma strategica,
perché non era in grado di colpire il territorio metropolitano
degli Stati Uniti.
In virtù di tali caratteristiche, l’ SS-20 era fatto su misura per
combattere una guerra nucleare sul suolo europeo e, quindi,
rappresentava un’arma estremamente pericolosa, in quanto
prospettava l’eventualità concreta di un confronto limitato, in
cui le superpotenze avrebbero potuto sacrificare i propri allea-
ti europei senza rischiare la guerra termonucleare globale.
Da parte dei paesi dell’Europa occidentale, membri ,della
NATO, lo schieramento degli SS-20 fu interpretato come un
tentativo, da parte sovietica, di indurre gli Stati Uniti a staccar-
si dai propri alleati europei e di accettare la concreta prospetti-
va di perderli a seguito di un’invasione convenzionale da parte
delle forze del Patto di Varsavia.
In un primo tempo, gli Stati Uniti sembrarono inclini a
rispondere con la bomba al neutrone, un’arma tecnologica-
mente sofisticata, costosa e molto letale. I Sovietici non ave-
vano la capacità, e neppure l’interesse, di dotarsene e, quindi,
la temevano grandemente. Le caratteristiche dell’arma provo-
carono forti tensioni in Germania e presso lo stesso presidente
Carter, il quale rinunziò a schierare la bomba al neutrone senza
nemmeno negoziare con Mosca che, sul momento, credette di
aver così realizzato la separazione tra Stati Uniti ed Europa
occidentale (il cosiddetto decoupling).
L’interpretazione delle sigle relative alle strategie è EMS=
Euromissili sì e EMN= Euromissili no. In quanto ai pay-off
abbiamo GNE= guerra nucleare europea; GNG= guerra
nucleare globale.
Dato che è ovvio supporre GNE < GNG (ovvero una guerra
europea è più auspicabile di una guerra globale), l’idea dei
Sovietici era quella di costringere gli Stati Uniti ad accettare il
confronto limitato al teatro europeo, in quanto il gioco descrit-
to nella matrice precedente ha un unico equilibrio di Nash,

68
ovvero (EMS; EMS). Ancora una volta, come nel caso della
crisi di. Cuba, i Sovietici furono costretti a fare marcia indie-
tro, anche se per questo occorse un intervallo di tempo molto
più lungo di quello coperto dalla crisi precedente.
Posto che la crisi, come nel caso precedente, era stata aperta
dai Sovietici, il gioco rilevante per la Casa Bianca era quello
descritto dalla matrice:

PAESE 2
PAESE 1
————————————

EMS -GNE ;- GNE -GNE;-GNE

EMN 100; -100 -GN; -GNG

————————————

Il ruolo del giocatore 1 spetta agli USA, mentre il giocatore


2 è l’URSS. I pay-off associati all’esito (EMN; r) in cui gli
USA decidono di non installare gli Euromissili e l’URSS deci-
de di smantellare i propri SS-20 (cioè si ritira), esprimono l’i-
dea che, a seguito di tale evento, il prestigio statunitense cre-
sca, mentre quello dell’Unione Sovietica subisca un danno
significativo. Di conseguenza, la soluzione “ovvia” del gioco
prevede che gli USA non installino l’equivalente degli SS-20,
e che l’URSS ritiri i propri. Questo è effettivamente ciò che la
storia ha dimostrato.
L’interpretazione intuitiva alla base di questo risultato è che,
rifiutando la prospettiva di un confronto nucleare limitato al
teatro europeo, gli Stati Uniti misero l’URSS nella condizione
di rendersi responsabile dell’olocausto nucleare mondiale.
Se, infatti, i Sovietici avessero attaccato la componente occi-
dentale della NATO europea con gli SS-20, l’unica risposta
possibile, da parte della Casa Bianca, sarebbe stata quella di
ricorrere all’arsenale nucleare strategico. Rifiutandosi di
costruire un proprio arsenale di Euromissili, gli Stati Uniti
resero gli SS-20 sostanzialmente inutili.

69
In realtà, all’epoca si discusse a lungo sul fatto che gli USA
stavano installando in diverse basi NATO europee (ad esempio
Comiso, in Italia), i missili Pershing II e i missili Cruise di
prima generazione.
La stampa e l’opinione pubblica tendevano a prendere tali
missili come la risposta occidentale agli SS-20, senza conside-
rare che la loro gittata non consentiva di colpire le basi di lan-
cio degli SS-20, ma solo le eventuali forze militari convenzio-
nali del Patto che fossero già penetrate sul territorio della
NATO.74
I Pershing di Comiso, infatti, potevano colpire l’Italia setten-
trionale o, al massimo la Boemia, ma certamente non Mosca e
tanto meno gli Urali. Quando si giunse al ritiro degli SS-20, le
basi statunitensi vennero disarmate per permettere al Cremlino
di salvare la propria reputazione, analogamente a quanto era
stato fatto negli anni Sessanta con i missili installati in Turchia:

PAESE 2
PAESE 1
——————————————

EMS -GNE ;- GNE -GNG;-GNG

EMN -GNG; -GNG -G-NG; --C,i-NG

——————————————

Il gioco che avevano in mente al Cremlino è rappresentato


nella matrice precedente.
L’escalation degli armamenti nello scacchiere europeo
durante la Guerra Fredda è stato governato da una regola ben
precisa, di cui entrambi i blocchi erano coscienti; questa stabi-
liva che, data l’inferiorità della NATO in termini di armamen-
ti convenzionali, il ruolo di deterrente nei confronti di un attac-
co convenzionale da parte del Patto di Varsavia era affidato alle
armi nucleari tattiche a breve raggio. In altre parole, la minac-
cia di una escalation nella risposta da parte della NATO segna-
lava all’URSS che la responsabilità sarebbe ricaduta sull’attac-

70
cante. Quindi, la natura difensiva della armi nucleari tattiche si
poteva estendere ai Pershing II e ai Cruise, esattamente come
ai bombardieri nucleari a lungo raggio (di cui la NATO dispo-
neva ampiamente in Europa). La risposta degli USA e della
NATO all’uso degli SS-20, di conseguenza poteva consistere
unicamente in un attacco con forze nucleari strategiche: da
questo punto di vista, quindi, era come se i Cruise ed i Pershing
II non fossero mai esistiti.
È da notare che, in entrambe le crisi, gli Stati Uniti hanno
deciso di “bruciare tutti i ponti” alle proprie spalle, usando il
vantaggio della prima mossa per limitare a proprio vantaggio
le opzioni rimaste a disposizione dell’avversario. Consentendo
un apparente vantaggio all’Unione Sovietica in termini di armi
nucleari di portata intermedia, le amministrazioni Carter e
Reagan hanno così costretto il Cremlino a riconoscere il rischio
gravissimo ad esse associato. Il tentativo da parte sovietica di
aprire un cuneo tra gli interessi strategici degli Stati Uniti e
quelli tattici dei loro alleati in Europa Occidentale si è rivelato
sbagliato proprio perché l’atteggiamento aggressivo rappresen-
tato dall’introduzione degli SS-20 era troppo irrazionale.
Anche in assenza della NATO, la razionalità della deterrenza
adottata dalla Casa Bianca sarebbe stata opportuna per vanifi-
care il tentativo di escalation tattica da parte sovietica. In que-
sto modo, gli Stati Uniti hanno rivelato di voler evitare qual-
siasi confronto nucleare, attribuendo all’armamento nucleare
l’esclusivo carattere di deterrente e rifiutando, quindi, di
costruire armi nucleari dall’evidente carattere operativo.

Quando, negli ultimi vent’anni del XIX secolo, Alfred Nobel


istituì l’omonimo premio, decise che la matematica dovesse
essere esclusa dalle discipline eleggibili. Avrebbero dovuto
essere meritevoli solo quelle materie che realmente avessero
potuto cambiare la vita delle persone. La matematica non sem-
brava degna di cambiare i destini del mondo, nonostante negli
anni a venire numerosi matematici furono insigniti del Nobel
per i loro contributi nella fisica e chimica. Solo nel 1968 fu isti-
tuito il Bank of Sweden Prize in Economic Sciences in Memory
71
of Alfred Nobel per premiare i luminari dell’Economia. Più di
cento anni dopo la morte di Nobel i matematici avrebbero fatto
incetta di premi e non per aver rivoluzionato formule e teore-
mi, ma per aver rotto un muro: quello tra la matematica e le
scienze sociali. La teoria dei giochi, nonostante fosse stata abi-
litata da prestigiosi istituti, nell’immediato non convinse molti:
fu definita una volgarizzazione della matematica, un’eresia, un
inutile tentativo di spiegare gli eventi a posteriori.
In realtà, la teoria dei giochi è, forse, una delle grandi rivo-
luzioni delle scienze moderne perché parte da un concetto che
tutta la storia dell’umanità ha sempre ignorato: vincere (in
qualsiasi campo, dal più futile al più straordinario) non è solo
questione di intelligenza, astuzia e potere; vince chi ha saputo
non essere superbo, chi è riuscito a immedesimarsi negli altri.
Lungi da me presentare la teoria dei giochi come un “nuovo
cristianesimo”; credo tuttavia, che essa crei le premesse per
degli equilibri che nell’era atomica e post-atomica sono fonda-
mentali: analizzando l’interazione strategica tra una serie di
giocatori, la teoria dei giochi impone innanzi tutto di non sot-
tovalutare mai chi abbiamo di fronte (addio, quindi, a qualsia-
si tipo di complesso di onnipotenza) dando la giusta importan-
za e dignità a qualsiasi avversario; il passo successivo è quello
di conoscere il nemico studiandolo a fondo: non è forse, que-
sto, un mezzo di conoscenza reciproca? La mia convinzione
più profonda è che conflitti e contrasti scaturiscano spesso
dalla mancanza di conoscenza reciproca, da divari percettivi
acuiti dalla distanza geografica e culturale.
Il contributo di Thomas Schelling ha teso a far emergere i
risvolti diplomatici della teoria dei giochi: l’arte della diplo-
mazia è essenzialmente negoziazione, ovvero ricerca degli esiti
migliori per ambedue le parti rispetto a pericolose alternative.
Anche nella guerra più atroce deve esserci un qualche interes-
se comune, se non altro per evitare il male assoluto: la distru-
zione reciproca.

72
NOTE

1 L’espressione “Guerra Fredda” fu coniata dal giornalista statunitense


Walter Lippman nel 1947 per indicare il periodo di tensione tra il blocco
sovietico e quello occidentale, iniziato nel 1945.
2 Fu Edward H. Carr che definì il liberalismo degli anni Venti “utopico”. Cfr.
Edward H. CARR The Twenty Years ‘Crisis, New York, Harper&Row, 1964.
3 Sull’argomento, si veda Milton FRIEDMAN, Fifty Year War: Conflict and
Strategy in the Cold War, Annapolis, Naval Institute Press, 2000.
4 Sul concetto di controllo delle armi nella politica estera degli Stati Uniti si
vedano i seguenti documenti: Soviet Noncompliance with Arms Control
Agreements;Message from President Reagan to the Congress, January 23,
1984, in American Foreign Policy Basic Documents,1984, pp. 79-80,
Washington, Department of State, 1986; Soviet American Arms Control
Negotiations; Joint Communiqué by the United States and the Soviet Union,
Moscow, March 30, 1977, in American Foreign Policy Basic Documents,1977-
80, pp.180-184, Washington, Department of State, 1983.
5 Sul sistema mondiale al termine della Guerra Fredda si veda John
MEARSHEIMER, Back to the Future:Instability in Europe after the Cold
War, in S. Lynn JONES, ed., The Cold War and After: Prospects for
Peace,Cambridge, MIT Press, 1993.
6 Cfr. Kenneth WALTZ, Theory of International Politics, New York,
Reading, McGraw-Hill, 1979.
7 Il behaviorismo nacque dopo la seconda guerra mondiale. Consiste in una
tecnica di indagine delle scienze sociali in cui lo studioso (che si pone come
osservatore esterno della materia) procede nella sua analisi con una metodo-
logia assimilabile al metodo scientifico.
8 Cfr. Robert KEOHANE, Power and Interdependence Revisited, in
«International Organization» XLI, 4, October 1987, pp. 725-753.
9 Cfr. Bany BUZAN, The Logic of Anarchy: Neorealism to Structural
Realism, New York, Columbia University Press, 1993.
10 Si veda Hans MORGENTHAU, Politics Among Nations. The Struggle for
Power and Peace, New York, Alfred A. Knopf, 1948.
11 Thomas C. SCHELLING, The Strategy of Conflict, Cambridge, Harvard
University Press, 1981.
12 Un gioco a “somma zero” è un’interazione strategica in cui la vincita di
un giocatore è quantitativamente uguale alla perdita del suo avversario.
13 SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., pp. 6-7.
14 Ibid., p. 9.
15 La RAND Corporation (Research and Developement) e l’Institute for
Defense Analisys sono enti no profit che si occupano, negli Stati Uniti, di
ricerche su problemi di sicurezza nazionale.
16 SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., p. 17.

73
17 Sul concetto di razionalità e il suo rapporto con la filosofia si veda
Piergiorgio ODIFREDDI, Il matematico impertinente, Milano, Longanesi,
2005
18 I trattati di difesa tra nazioni come la NATO o il Patto di Varsavia ne sono
un esempio.
19 Cfr. Harry S. TRUMAN, Memoirs, New York, Signet Books, 1956, pp.
20-53
20 Ufficio Informazioni della città. di New York; la scelta del luogo non fu
casuale, poiché la razionalità del gruppo ha scelto quel luogo come il più
logico per delle persone prive di informazioni
21 Per un elenco di test e giochi politici, si veda Robert GARDNER, Games
for Business and Economics, New York, Wiley, 1995.
22 Cfr. Maurizio COTTA - Donatella DELLA PORTA - Leonardo MORLI-
NO, Fondamenti di Scienza Politica, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 151
23 Nel 1940, le forze comuniste cinesi, guidate da Mao Tse-Tung, conqui-
starono definitivamente il potere e fondarono la Repubblica Popolare Cinese,
prevalendo sull’esercito del Kuomintang, guidato da Chang Kai-Shek, che si
rifugiò sull’isola di Formosa, dove instaurò il governo della Cina
Nazionalista (Taiwan).
24 Con il termine “regola” intendo qualsiasi accordo: un confine, un patto,
una convenzione o una tregua.
25 Sull’argomento, si veda Carl Von CLAUSEWITZ (a cura di Gian Enrico
Rusconi), la guerra, Torino, Einaudi, 2000.
26 La force defrappe è il termine con cui è conosciuto l’arsenale atomico
francese. Durante gli anni 1950, due avvenimenti internazionali come la
guerra d’Indocina e la crisi del canale di Suez avevano convinto il governo
che, per ottenere risultati rilevanti in politica estera, avrebbe dovuto dotarsi
di una propria forza militare abbastanza potente da poter condizionare le
scelte di qualunque paese; il deterrente nucleare fu la risposta a questa esi-
genza.
27 Cfr. Andrè BEAUFRE, Introduction a la stratégie, Parigi, Librairie
Armand Cohn, 1963, p. 17
28 Il mancato impiego dei gas nella seconda guerra mondiale costituisce un
esempio classico del carattere limitato di quasi tutti i conflitti militari.
29 La Stanford University fornisce un’eccellente spiegazione dei fondamen-
ti della teoria dei giochi alla pagina web http://cs-education.stanford.com/
class/sophomore-college/projects-98/game-theory/.
30 Si tratta di cifre fittizie, tra le quali valgono i significati di “maggiore” o
“minore”, ma non le proporzioni tra numeri: in altre parole, se confrontiamo,
ad esempio, un pay-off pari a 5 con un pay-off pari a 10, potremo affermare
che il primo è minore del secondo ma non che il primo è pari alla metà del
secondo. I pay-off, pertanto, avranno un valore ordinale ma non cardinale.
31 I giochi non cooperativi furono l’oggetto delle ventisette pagine della tesi
di dottorato che John Nash discusse alla Princeton University nel maggio del
1950.

74
32 Il successo del film, premiato nel 2002 con quattro premi Oscar, ha reso
familiari il nome di Nash ed il suo legame con la teoria dei giochi anche tra
il grande pubblico.
33 Per ragionamento assiomatico, si intende un ragionamento costruito per
gradi ove ogni assunto si basa necessariamente sull’assunto precedente.
34 Economista e filosofo scozzese (1723-1790), Smith sostenne il liberismo
economico nell’Indagine intorno alla natura e alle cause della ricchezza
delle nazioni (1776).
35 Sulle prime applicazioni matematiche alle scienze sociali, si veda Francis
Y. EDGEWORTH, Matenzatical Psychics: An Essay on the Application of
Mathematics to the Moral Sciences, Londra, C. Kegan Paul, 1881.
36 Sulla vita di Nash, si veda Sylvia NASAR, A Beautiful Mind, New York,
Simon and Schuster, 1999.
37 Il premio Nobel per l’Economia fu vinto congiuntamente con John C.
Harsany e Robert Selten con la seguente motivazione: «For their pioneering
analysis of equilibrio in the theory of non-cooperative games».
38 NASAR, A Beautiful Mind, cit., p. 56.
39 Un ottimo paretiano è una condizione economico-sociale in cui non è pos-
sibile migliorare la situazione di un individuo senza peggiorare quella di un
altro.
40 Cfr. John EATWELL - Murray MILGATE - Peter NEWMAN, The New
Palgrave: Game Theory, New York, W.W. Norton, 1989, p.13.
41 Cfr. Reinhard SELTEN, “Nobel Seminar”, Le prix Nobel 1994, p. 297.
42 Sull’argomento, si veda William POUNDSTONE, Prisoner’s Dilema,
New York, Doubleday, 1992
43 La teoria dei giochi si è spesso occupata dell’interazione uomo-donna
nella società; la descrizione di questo rapporto alla luce dei principi della teo-
ria dei giochi rappresenta il cosiddetto gioco della “battaglia dei sessi”.
44 Un esempio di giochi a informazione incompleta è quello delle aste, dove
nessun partecipante può sapere quanto gli altri partecipanti siano effettiva-
mente disposti a pagare il bene messo all’asta.
45 E evidente in questa definizione come la teoria dei giochi si sia sviluppa-
ta attorno a giochi come la dama, gli scacchi o il poker, ancor prima di esse-
re applicata alle scienze sociali. Sull’argomento si veda Roberto LUC-
CHETTI, Di duelli, scacchi e dilemmi, Milano, Mondadori, 2006.
46 SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., pp. 150-158.
47 Ibid., pp. 136-137.
48 L’espressione “ombra del futuro” è tratta da Robert AXELROD, The
Evolution of Cooperation, New York, Basic Books, 1985, p. 18.
49 SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., p. 22.
50 John Foster Dulles, segretario di Stato americano durante gli anni della
presidenza Eisenhower (1953-1961).
51 L’espressione si riferisce all’episodio in cui l’allora capo del governo sovie-
tico, Nikita Kruscev, batte, in segno di collera, i tacchi delle sue scarpe sul
podio presso il quale stava tenendo un discorso al Palazzo delle Nazioni Unite.

75
52 SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., p. 188.
53 Ibid., p. 208.
54 Cfr. Edward N. LUTTWAK, Strategia, Milano, Rizzoli, 1989.
55 Entrambi questi paesi hanno iniziato i loro esperimenti nucleari nel 1998
trasformando il subcontinente dell’Asia Meridionale in una regione aperta-
mente nuclearizzata. Nel 2002 i due paesi giunsero ad un passo dalla guer-
ra, suscitando il timore che lo scontro potesse de generare in un conflitto
nucleare, e ciò indusse gli Usa e alcuni paesi membri dell’Unione Europea
a sviluppare di comune accordo un intenso sforzo diplomatico per disinne-
scare la minaccia. Ma nessuna delle grandi potenze in possesso di armi
nucleari, comprese Russia e Cina, sembra dare il benché minimo segno di
voler ripristinare il sistema di coercizione nucleare degli anni della Guerra
Fredda.
56 LUTTWAK, Strategia, cit., p. 181.
57 Cfr. Luigi BONANATE, La politica internazionale fra terrorismo e guer-
ra, Bari-Roma, Laterza, 2005, p. 106.
58 La bomba al neutrone è un tipo di bomba termonucleare che sviluppa
energia soprattutto sotto forma di elettroni veloci, letali per l’uomo ma che
lasciano indenni costruzioni e materiali.
59 Glenn H. SNYDER , Mearsheinier ‘s World: OffensiveRealisin and the
Struggle for Security, in «International Security», XXVII, 1, October 2002,
p. 150.
60 Cfr. Quincy WRIGHT, A Study of War, Chicago, University of Chicago
Press, 1964, p. 116.
61 Cfr. Kenneth WALTZ, Theory of International Politics, New York,
Reading -McGraw-Hill, 1979, pp. 60.
62 Cfr. John MEARSHEIMER, La logica di potenza. L’America, le guerre,
il controllo del mondo, Milano, Università Bocconi Editore, 2003.
63 Cfr. John S. LEVY, War in the Modern Great Power System, 1495-1975,
Lexington, University Press of Kentucky, 1983.
64 Cfr. Robert SCHWELLER, Bandwagoning for Profit: Bringing the
Revisionist State Back In, in «International Security», XIX, 1, October 2004,
pp. 72-107.
65 Cfr. Enry LUARD, The Balance of Power: The System of International
Relations, 16481815, Londra, Macmillan, 1993.
66 Cfr. Barry POSEN, The Sources of Military Doctrine: France, Britain and
GertnanY.
Between the World Wars, Ithaca, Cornell University Press, pp. 63, 74 e 232.
67 Cfr, SCHWELLER, Bandwagoningfor Profit, cit., pp. 72-107.
68 Cfr, SCHELLING, The Strategy of Conflict, cit., pp. 234-236.
69 Schelling, sostiene che, ad esempio, l’invio di truppe statunitensi in
Libano, nel 1958, sia stata un’azione rischiosa ma d’esito positivo, e che
abbia avuto un esito positivo proprio per via del rischio: un rischio che i
comunisti potevano diminuire o aggravare a seconda della risposta che
avrebbero dato. Cfr. ibid., p. 234.

76
70 Un tipico esempio di aggressione indiretta è l’invasione di un territorio
neutrale.
71 Pensiamo, ad esempio, ad un conflitto che vede coinvolte più alleanze
contrapposte: ogni parte non sarà in grado di controllare tutti i possibili esiti
delle azioni di ogni parte in causa.
72 Sullo scambio di comunicazioni tra il presidente Kennedy e il presidente
Kruscev si veda: Message From President Kennedy to Chairman Kruscev, in
Foreign Relations of the United States, 1961-63, Vol. XI, Briefing Papers &
Memo Series, Washington, Department of. State, 1963, pp. 83-85; Message
From Chairman Kruscev to President Kennedy,ibidem, pp.110- l 15; Letter
from Chairman Kruscev to President Kennedy,ibidem, pp.2-5; Letter from
Chairman Kruscev to President Kennedy, ibidem pp.51-52. I seguenti docu-
menti sono consultabili anche alla pagina web http://www.state.gov.
73 La gittata massima dell’SS-20 era di 4400 chilometri.
74 La gittata massima del Pershing II era di 1800 chilometri.

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81
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Collana “Tesi e Percorsi di Ricerca”

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