DISPENSA n° 2
A.A. 2012/2013
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INTRODUZIONE
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LA COMUNICAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE
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espressioni di sensazioni e giudizi che possono influire sulla
performance, direttamente e indirettamente.
C. La comunicazione verso i lati (lateral communication):
Ha funzione di coordinamento fra attività di pari grado (laterali),
È un feedback di dati o informazioni fra colleghi di pari grado, nello
stesso gruppo di lavoro, e/o fra unità di pari livello organizzativo.
La comunicazione informale non segue i canali ufficiali, ma ha grande importanza
nel flusso informativo di tutte le organizzazioni, e serve a molti scopi:
La soddisfazione dei bisogni della persona, per esempio quello di avere
rapporti con gli altri;
Il tentativo di influenzare il comportamento degli altri;
L’ottenimento di informazioni riferite all’attività di lavoro, ma non reperibili dai
canali formali di comunicazione.
La voce di corridoio è la forma più nota di comunicazione informale in
un’organizzazione: la trasmissione avviene di bocca in bocca, secondo modi che non
fanno alcun riferimento al livello gerarchico di chi li trasmette e di chi le riceve. Le
indagini condotte sull’argomento evidenziano che questa forma di comunicazione è
rapida, selettiva e, spesso, molto efficace.
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bisogna conoscere a fondo la natura umana e avere sensibilità per l’effetto
che le parole, al di là del loro significato, possono avere sulla persona. Talvolta
la codifica del messaggio viene seguita non da chi trasmette, per esempio un
collaboratore può trascrivere un messaggio telefonico e presentarlo al
destinatario in tale forma. In questo caso l’intermediario funge anche da filtro
e chi trasmette deve porre particolare attenzione nel rendere ben chiaro il suo
messaggio.
3. La trasmissione del messaggio: riguarda per lo più la scelta del canale di
trasmissione (medium). La comunicazione orale, per esempio, può avvalersi di
molti canali (colloquio diretto, colloquio telefonico, nastro registrato, audio o
videotape), può avvenire faccia a faccia oppure nel contesto di una riunione
con altri partecipanti. La comunicazione orale consente l’interazione tra chi
trasmette e chi riceve, attraverso il feedback che quest’ultimo può trasmettere
al suo interlocutore, lo svantaggio è la sua volatilità, non c’è registrazione. La
comunicazione scritta avviene per mezzo di relazioni, lettere, rapporti, note,
notiziari, manuali e comunicati di vario genere, lo svantaggio è che non offre
l’opportunità di una risposta diretta e immediata. La scelta del canale di
trasmissione più adatto al messaggio che si intende trasmettere è una delle
decisioni più importanti per chi trasmette.
4. La ricezione del messaggio: soltanto se qualcuno riceve il messaggio c’e
vera trasmissione. Molti tentativi importanti di comunicare sono falliti proprio
perché il messaggio non ha raggiunto il destinatario.
5. La decodifica del messaggio: è l’attribuzione di un significato al messaggio
da parte del ricevente. Tale significato è il prodotto delle esperienze del
passato, dei pregiudizi e del livello culturale, della mentalità e dell’ambiente.
C’è sempre la possibilità che il messaggio, una volta decodificato da chi lo
riceve, presenti un significato diverso da quello che attribuisce chi l’ ha
trasmesso, e il mancato accertamento della decodifica del messaggio può dar
luogo a fraintendimenti disastrosi. Il problema di farsi capire non è
semplicemente un problema di codice linguistico e anche un problema di
codice culturale.
6. Il feedback: è la risposta che il ricevente manda alla fonte circa il tipo di
decodifica che ha operato.
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Nella maggior parte delle situazioni le persone sono contemporaneamente fonte e
bersaglio di comunicazione: la comunicazione è un processo dinamico e non
statico, che può essere valutato solo mentre accade.
Il processo comunicativo è un sistema, le parti che lo compongono sono tutte in
relazione fra loro e danno vita ad un’unità che non può essere colta a partire da
singoli elementi: il tutto è qualcosa di diverso dalla somma delle parti. Le relazioni
reciproche fra gli elementi fanno sì che il cambiamento di un singolo elemento
provochi modifiche anche in tutti gli altri. Ciò significa che il processo di
comunicazione interpersonale concorre a influenzare sia la fonte che il ricevente, ma
anche i futuri messaggi che saranno prodotti da questi. I Feedback reciproci che
intercorrono fra i partner modificano sia i loro atteggiamenti, comportamenti,
opinioni, che la loro relazione. In alcuni casi questi cambiamenti nella relazione sono
particolarmente evidenti, come per esempio nel caso di un litigio, altre volte, invece
la relazione si modifica in modo meno evidente, evolvendo secondo una sua storia.
La natura di questi cambiamenti inevitabili appare chiara se pensiamo alle occasioni
in cui avremmo voluto cancellare qualche scambio comunicativo infelice, le cui
conseguenze sono state difficili da gestire.
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Abbiamo visto come tutti i nostri comportamenti comunichino dei messaggi a chi ci
sta intorno, anche se noi non ce ne accorgiamo o non lo desideriamo. Qualsiasi
comportamento è comunicazione. C'è una proprietà interessante di ciò che noi
definiamo comportamento: non esiste un suo opposto, vale a dire che non è
possibile non comportarsi. Partendo da questa considerazione ci rendiamo conto di
come sia impossibile non comunicare. Se proviamo a pensare a situazioni che ci
sembrano caratterizzate da assenza di comunicazione, ci accorgeremo che in realtà è
impossibile trovarle. Anche quando la comunicazione non è intenzionale, non è
consapevole, o non è efficace (cioè i messaggi vengono distorti ) vi è in ogni caso
comunicazione. Ciascuno di noi può facilmente costatare che la comunicazione non
ha quasi mai una struttura lineare semplice. Non c'è generalmente un inizio ed una
fine, bensì ogni messaggio (che possiamo definire l'unità singola della
comunicazione) è insieme effetto e causa di altri messaggi.
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Linguaggio para-verbale:
Modulazione della voce
Tono della voce
Intensità
Timbro
Ritmo di elocuzione
Pause
Chiarezza di dizione
Tratti soprasegmentali (o accentuazioni semantiche)
Silenzi ecc.
Due note di spiegazione sui tratti soprasegmentali e sui silenzi: se io dico “il mio capo
fa cinque riunioni di lavoro ogni sabato”. Se accentuo “mio” (tratto sopra-
segmentale), escludo tuo, suo, ecc…; se accentuo selettivamente le parole capo, fa,
cinque, riunioni, loro, ogni o sabato, ottengo altrettanti sensi diversi della frase, in
questo caso otto. Di qui l’importanza di accentuare opportunamente le parole
appropriate, le parole importanti, le parole chiave, le parole nuove e soprattutto la
parola che all’interno di una frase gli dà il senso che vogliamo.
Il silenzio a volte esprime più della parola. È anche un modo di rispondere, a volte
drammatico. In ogni caso anche i silenzio vanno usate strumentalmente. Ad esempio
prima di introdurre un concetto importante create un atmosfera di attesa con un
silenzio (il messaggio è: datemi la vostra attenzione, è importante). Dopo averlo
espresso fate un altro silenzio (il messaggio è: riflettete con calma è importante).
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Per dare feedback all’altro
Per trasmettere informazioni sulla proprio persona.
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individualizzato al di là degli stereotipi e delle generalizzazioni. Il leader capace
di considerare individualmente è attento alle necessità e alle aspettative dei
singoli collaboratori, riconosce le differenze individuali, crea opportunità di
apprendimento, è concentrato sullo sviluppo e sulla crescita professionale dei
collaboratori. “Il leader che fa considerazione individualizzata ascolta in modo
efficace: è l’ascolto attento, infatti, che può permettere una gestione delle
persone basata sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle loro
caratteristiche” (Bass e Avorio).
Altrettanto importante è osservare il comportamento dei collaboratori e
l’insieme di fenomeni che si verificano nel gruppo di lavoro. La comunicazione
non si limita alla componente verbale e molti messaggi vengono inviati
utilizzando altri canali quali gesti, sguardi, postura, mimica e cosi via. E’ proprio
osservando questi elementi che è possibile conferire significato emotivo e
relazionale alle comunicazioni verbali, ed possibile, inoltre, cogliere
tempestivamente situazioni di disagio o di difficoltà che quasi sempre vengono
espresse prima (e talvolta esclusivamente) attraverso i comportamenti, poi con
le parole. Massima attenzione dovrebbe essere prestata a ciò che il
collaboratore fa e ai segnali che invia tramite i suoi comportamenti (assenze,
ritardi, sguardi, espressioni del viso, isolamento dal gruppo) altre che al modo
in cui comunica verbalmente i suoi pensieri (a un collaboratore che sostiene
che va tutto bene con un tono di voce angosciato, piuttosto che ostile, deve
essere concesso ulteriore ascolto).
La pratica dell’ascolto attivo rappresenta una “specie di rivoluzione
copernicana” della comunicazione: l’attenzione viene centrata non tanto su se
stessi e sulle proprie modalità espressive, ma sull’interlocutore e sulle sue
reazioni. Effetti del mancato ascolto. L’assunto di Watzlawick “non si può non
comunicare”, evidenzia che ogni comportamento ha una valenza comunicativa;
quindi, di fronte a una persona che è in relazione con noi, abbiamo tre
possibilità alternative:
Accettare la sua comunicazione:
Rifiutarla,
Disconfermare o squalificare la persona.
Le prime due forme equivalgono all’ascolto dell’interlocutore seppure con esiti
differenti. Nel primo caso ci si accorda su una comune e condivisa definizione del
problema e della relazione, nel secondo caso si mette in discussione la proposta
dell’altro dopo averlo ascoltato.
Nella disconferma il messaggio che rimanda all’altro è di squalifica in quanto
persona: è come se gli si dicesse “tu non esisti, tu non conti, non vali”. Sul piano del
comportamento la squalifica può assumere varie forme: contraddirsi, cambiare
argomento, ricorrere a stili oscuri o incomprensibili, guardare altrove, fare altro
mentre si sta parlando, non accorgersi di ciò che l’altro ha detto o fatto.
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BARRIERE ALLA COMUNICAZIONE
Si definisce rumore ogni interferenza o barriere che impedisce o disturba la
comunicazione. Il rumore può interferire con la comunicazione in molte fasi del
processo: chi trasmette può percepire in modo negativo il destinatario; il messaggio
può essere male organizzato, magari prolisso, o invece troppo stringato; chi riceve
può essere distratto, o può avere timore di rispondere francamente; il canale di
comunicazione può essere scadente, ecc…
A. Barriere organizzative: le organizzazioni, per loro stessa natura, tendono a
ridurre l’efficacia della comunicazione; le principali barriere alla comunicazione si
possono ricondurre a:
Barriere di livelli organizzativi: un messaggio, se deve passare
attraverso molti livelli gerarchici, o deve transitare per molte unità o per
molte persone, impiegherà molto tempo prima di raggiungere il
destinatario e subirà parecchie distorsioni. Man mano che procede
attraverso i vari livelli organizzativi, infatti, il messaggio viene “filtrato”
più e più volte, e ogni volta può subire aggiunte, tagli, modifiche più o
meno radicali;
Barriere d’autorità dei manager: il fatto che una persona abbia una
supervisione sull’attività di altre persone crea una barriera che
interferisce con la loro comunicazione. Molti capi sentono di non poter
ammettere problemi, situazioni o risultati che li facciano apparire deboli,
molti subordinati, del resto, evitano le situazioni in cui dovrebbero
presentare informazioni che li potrebbero mettere in cattiva luce. E’
compito del capo creare un clima di franchezza nel gruppo di lavoro e
con i singoli collaboratori;
Barriere di specializzazione: la specializzazione tende a separare gli
specialisti dai loro colleghi, anche se lavorano fianco a fianco. La
diversità di funzione, di interessi e persino di gergo possono farli sentire
estranei, come se appartenessero a mondi del tutto diversi, ne derivano
difficoltà di comprensione reciproca e la tendenza all’indifferenza, nei
confronti degli altri gruppi;
Barriere di saturazione informativa: l’eccesso di informazione può
causare incertezza e disorientamento in chi vi è esposto, e nei casi
estremi può portare alla paralisi. L’effetto della saturazione informativa,
dove i dipendenti ricevono molti più input di quanti ne possono elaborare
utilmente, è ancora più forte quando si combina con le grandi possibilità
offerte dalla moderna tecnologia elettronica.
B. Barriere interpersonali: molti malintesi non dipendono da fattori organizzativi,
ma da fattori linguistici e personali. La distorsione del messaggio può essere dovuta:
Al modo in cui il messaggio viene percepito: la nostra percezione
(processo con il quale selezioniamo, organizziamo e attribuiamo
significato) è condizionata fortemente dall’esperienza. La nostra
esperienza personale, diversa dall’esperienza degli altri, ci influenza
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nell’interpretare in modo a noi peculiare le comunicazioni e le azioni che
si svolgono nei vari contesti, per esempio quello organizzativo. Sono
soprattutto le diversità fra l’esperienza dei manager e quella dei loro
subordinati a far interpretare in modo diverso il comportamento dei
membri dell’uno e dell’altro gruppo, rispetto a come lo interpretano essi
stessi, e questa diversità si manifesta specialmente nelle attività
connesse alla comunicazione. Il ricorso a stereotipi, che ci caratterizza
tutti, è la tendenza a strutturare secondo uno schema prevedibile la
nostra percezione del mondo, e noi trattiamo i membri di ciascun gruppo
secondo la nostra percezione dello stereotipo che corrisponde a quel
gruppo e la nostra comunicazione ne è profondamente influenzata.
Un’altra barriera è rappresentata dalla percezione selettiva, che riguarda
il modo in cui i nostri schemi di riferimento limitano il nostro modo di
percepire gli eventi, le situazioni, le persone e gli oggetti. Proprio per
questa limitatezza della percezione, l’individuo non può afferrare nella
sua interezza la situazione in cui si trova in un dato momento, ma presta
attenzione a certi aspetti e non ad altri, e ciò dipende dall’interazione dei
suoi bisogni, dei suoi umori, delle sue propensioni e degli influssi
socioculturali;
Allo status di chi comunica: il messaggio viene valutato, considerato e
amplificato secondo le caratteristiche di chi l’emette e soprattutto
secondo la sua attendibilità, la quale a sua vota dipende dal grado di
“competenza” riconosciuto a quella persona, in quel determinato campo
e dal grado di sincerità che le viene attribuito, da parte di chi riceve il
messaggio. I manager devono godere della fiducia e della stima dei
collaboratori, altrimenti i loro sforzi di guidarli, demotivarli e di
persuaderli sono compromessi in partenza;
Alle carenze di ascolto: molti capi sono riluttanti ad ascoltare i
subordinati perché temono di lasciarsi coinvolgere nei loro problemi
personali; questa chiusura, perciò, può compromettere la comunicazione
non sugli aspetti personali, ma anche sugli aspetti lavorativi. L’ascolto
richiede tempo: I manager con vaste responsabilità sono i più esposti a
rischio di ascoltare male, proprio perché non hanno tempo a
disposizione;
Alle imprecisioni di linguaggio: spesso crediamo che tutto il
significato risieda nelle parole che usiamo, mentre spesso una parola ha
significati diversi. A volte vengono scelte appositamente parole che si
prestano al malinteso,naturalmente chi ricorre a espedienti di questo
genere, se scoperto, mette in serio dubbio la propria serietà nei confronti
dell’interlocutore. Ma soprattutto è importante ricordare che le parole
possono suscitare reazioni emotive molto diverse, da persona a persona.
Ai malintesi linguistici: la varietà delle culture e dei linguaggi presenti
oggi nei gruppi di lavoro, con l’espansione del commercio internazionale
e con l’entrata nelle aziende nazionali di capitali e manager esteri, rende
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sempre più complesso dare istruzioni, ricevere risposte e lavorare in
gruppo.
Essendo impossibile “non comunicare”, occorre sempre porsi il problema di
comunicare, definendo obiettivi, formulando strategie, programmando attività di
comunicazione. Lasciare queste cose al caso non significa -come si è visto- “non
comunicare” (che è impossibile), significa, invece, comunicare proprio ciò che non si
vorrebbe: sciattezza, incongruenza tra parole e comportamenti, lasciare
l’interlocutore nell’incertezza circa gli obiettivi o le finalità perseguite dall’emittente,
con la possibilità per quest’ultimo di lasciarsi attribuire le intenzioni e gli obiettivi più
contraddittori.
E’ importante analizzare quali sono i comportamenti che inducono le persone a
riflettere sulla situazione, in modo da poter apprezzare e prendere in considerazione i
punti di vista degli altri, modalità che è alla base in una corretta comunicazione.
I comportamenti che permettono una corretta comunicazione comprendono la ricerca
di informazioni, imporre domande che aiutano l’interlocutore a “rivedere” la sua
posizione, la considerazione per le sue proposte ed un comportamento verbale
aperto e rilassato. E’ il comportamento opposto a quello manipolatorio che non lascia
alternative tra l’adesione (non certo spontanea ed entusiasta) al punto di vista di chi
parla e il rifiuto di esso e quindi anche di chi parla. Tra questi comportamenti
rientrano il porre domande direttive e valutative, il controbattere alle proposte con
controproposte, e un linguaggio del corpo improntato all’indisponibilità e
all’invadenza.
E’ indiscutibile che otteniamo di più quando ci sforziamo di “andare incontro” al
punto di vista degli altri e proviamo a renderli partecipi del nostro punto di vista,
usando le capacità del caso e adeguandoci al loro ritmo, in modo da indirizzarli nella
direzione in cui desideriamo che vadano. Se si aiutano gli altri a “vedere” quello che
le nostre proposte rappresentano per loro è molto più probabile che si riesca a
persuaderli.
LE TECNICHE DI COMUNICAZIONE
Sono sostanzialmente quattro:
1. osservazione
2. ascolto
3. uso di domande
4. riformulazione e ricapitolazione
1. Osservazione
La comunicazione efficace implica di non fermarsi alle parole per analizzare un’altra
importante fonte d’informazione: il linguaggio non verbale.
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Osservare vuol dire dedicare attenzione ai comportamenti che esprimono emozioni,
atteggiamenti, intenzioni. Ad esempio:
il tono di voce,
silenzi, assensi
gestualità, postura
sguardo
espressioni mimiche.
L'osservazione è il risultato del mantenimento di un contatto costante con
l'interlocutore.
2. Ascolto
Un comunicatore è efficace non solo perchè sa presentare bene la sua
comunicazione, ma anche perchè sa decodificare ed interpretare le comunicazioni di
ritorno: in una parola sa ascoltare.
Saper ascoltare significa porsi in modo attivo nei confronti dell'interlocutore,
costringendo se stesso e l'altro ad una maggior comprensione reciproca prima di
formulare giudizi.
L'ascolto attivo significa elevare il proprio livello di consapevolezza rispetto alle
relazioni altrui, sviluppando alcune tecniche (osservazione, uso delle domande,
riformulazioni, ricapitolazioni).
La comunicazione del nostro interlocutore richiede sollecitazioni, esplicitazioni,
concessioni di spazio.
3. Uso di domande
L'uso di domande rappresenta la modalità più diretta per coinvolgere, chiarire,
approfondire, confrontare, entrare in sintonia.
La tipologia di domande può essere:
diretta
indiretta
aperta
chiusa
di ritorno
di suggerimento
di approfondimento.
4. Riformulazione e ricapitolazione
Per riformulazione si intende riproporre/riprendere ciò che è stato detto, usando
esempi o concetti diversi.
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Per riformulare occorre riprendere l'intervento dell'altro collegandolo a situazioni
comparabili o interventi precedenti.
La riformulazione permette di aggiungere valore a quanto già detto attraverso la
deduzione logica.
Per ricapitolazione si intende ribadire e sintetizzare i punti essenziali della
comunicazione per fare imprimere maggiormente nel ricordo le priorità.
La ricapitolazione permette di finalizzare la comunicazione chiarendone le
conseguenze pratico-operative.
L’EMPATIA
L’aspetto di relazione, come abbiamo visto, ha un’importanza fondamentale per una
comunicazione efficace. Relazione richiama gli ambiti di emozione, dell’affettività, del
piacere di interagire, dell’entusiasmo che si mette nell’interazione, e perché no della
seduzione.
Ognuno di noi ricorda dalle sue esperienze scolastiche il professore che creava
entusiasmo e che, guarda caso, ci faceva amare la sua materia anche se magari non
ci eravamo proprio portati.
Il termine amore, in senso lato, spiegherebbe bene il tipo di rapporto che si dovrebbe
istaurare in una comunicazione fra persone per ottenere un rapporto comunicativo
facile e produttivo. Ma per la sua connotazione culturale che privilegia troppo
l’aspetto emotivo a scapito di quello razionale, è fuorviante.
Molto più utile e significativo è il concetto di EMPATIA.
Empatia (letteralmente soffrire insieme) è comunione di spiriti, compenetrazione
psicologica, sintonia con l’altro o con il gruppo. Alla base c’è un’accettazione
reciproca senza barriere e senza tante riserve (una specie di contatto psicologico),
poi c’è una coltivazione del rapporto basato sul rispetto reciproco e sull’interesse
comune ed infine c’è un’arte di favorire sinergia di gruppo e comporre conflitti
emotivi.
Creare un clima di empatia, per esempio, in una situazione didattica, non è semplice
ma fattibile quasi sempre, e comunque necessario. Una volta innescato il processo
del clima empatico, tutto riesce più semplice e produttivo con soddisfazione di tutte
le parti e con una forte solidarietà di gruppo. In situazione didattica, il ruolo primari
di creare il clima di empatia spetta al docente e/o al tutor, ma è ovvio che senza il
coinvolgimento del gruppo ogni sforzo si vanifica facilmente. In una riunione spetta
al conduttore. In una intervista spetta all’intervistatore. In un lavoro di gruppo spetta
al leader e cosi via.
Qui la prima regola per il successo è:
saper entrare nella testa degli altri.
O come si dice anche: sapersi mettere nei panni altrui, che per il manager significa
soprattutto capire le difficoltà di comprensione dei suoi collaboratori, sintonizzarsi sul
clima di gruppo, interpretare i loro bisogni, saper ascoltare e saper porre le
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domande che rilevano ciò che pensa, cosa capisce, cosa vorrebbe dire; facendogli
capire nel contempo che lo si è capito.
Naturalmente non bisogna “eccedere” con l’empatia. Da evitare in particolare si
scadere in un clima di cameratismo o di laissez faire, che potrebbero facilmente
pregiudicare la produttività del gruppo a favore degli aspetti ludici.
IL LINGUAGGIO CORRENTE
Il gergo
Il linguaggio parlato si evolve da millenni e nella sua evoluzione arriva a costituire
strutture definite come le lingue nazionali con la relativa grammatica, sintassi ecc. in
questa evoluzione troviamo anche le forme dialettali che costituiscono un linguaggio
anch’esso definito. Infatti viene parlato da molti e facilmente riconosciuto, ma non
risulta strutturato; raramente se ne definisce una grammatica o una sintassi, se non
per cultura tramandata.
Ci sono poi linguaggi parlati in uso all’interno del clan. Dal momento che il linguaggio
è una delle forme più strutturate di comunicazione, ogni clan o gruppo ne adotta uno
che riesca a fungere da elemento caratteristico di identificazione. Facciamo solo
qualche esempio, perché sarebbe un argomento troppo vasto da trattare.
Esistono infiniti linguaggi inventati dai vari gruppi giovanili in base ai momenti
storico-culturali e all’età. Ricordiamo l’intercalare usati nelle frasi, o alcuni frasi
caratteristiche usate all’interno dei gruppi: “noi siamo tipi alternativi”, “però è fico
è”, “dobbiamo portare avanti il discorso”.
Oppure tutti i tipi di linguaggio che sottintendono un’ideologia politica o quelli che
per esprimere un concetto usano un interminabile quantità di parole senza alla fine
dire nulla o affermando concetti destinati agli addetti ai lavori, che risultano perciò
incomprensibili alla maggior parte delle persone. Da qui viene persino la coniazione
di parole che poi vengono definite come parte del linguaggio sindacalese, politichese
e cosi via.
Del resto, alcuni tipi di linguaggio, definiti “gergo”, nascono proprio per esigenze non
comunicative. In molti ambienti, come quelli dei marinai, dei tecnici specializzati,
delle forze armate, è necessario che le informazioni interne vengano rese
volutamente incomprensibili agli estranei.
Modi di parlare
Ognuno di noi, senza per lo più rendersene conto, adotta dei modi di parlare resi
diversi a seconda dell’occasione o dell’interlocutore. E’ frequente, per esempio, che si
parli in lingua italiana sul lavoro e in dialetto fra amici o in famiglia. Ma ancora più
particolare è l’uso di intercalari e di parole destinate ad iniziare i discorsi. Cosi come
molto spesso si ascoltano personaggi americani che iniziano le risposte alle interviste
dicendo “Well…”, molti di noi comunicano dicendo “Niente…..” e poi magari parlano
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anche di cose importanti. Altre forme spesso usate sono gli “allora”, “i cioè”, “i va
bene”.
Ma non sono solo queste le parole usate e abusate senza controllo. Se cominciamo
ad ascoltare attentamente mentre qualcuno (o noi stessi) parla, possiamo facilmente
scoprire che certi termini vengono usati quasi solo per riempire un discorso, senza
un’effettiva necessità linguistica.
Nei corsi dal vivo, di solito, si pone particolare attenzione a tutto ciò e allora capita di
ascoltare il venditore che ripete quasi in ogni frase la parola “materialmente”, il
giovane che inserisce a più non posso il termine “magari”, l’insegnante che
inframmezza nel discorso molte frasi che iniziano con “voglio dire”.
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Però è interessante riflettere sul fatto che, di solito, è più comune trovare un medico
che parla difficile per sentirsi importante, piuttosto che un falegname.
Gli studi effettuati e citati durante il corso hanno rilevato doti importanti che fanno sì
che le basi dell’eccellenza non vadano ricercate nell’organizzazione, ma nei manager.
Ma oggi qual è la misura di eccellenza? Qual è il metro di giudizio utilizzato dal
mondo del lavoro?
Daniel Goleman, nel suo libro Lavorare con intelligenza emotiva, dice: “La nuova
misura di eccellenza dà per scontato il possesso di capacità intellettuali e di
conoscenze tecniche sufficienti a svolgere il nostro lavoro. Invece, punta
principalmente su qualità personali, come l’iniziativa e l’empatia, la capacità di
adattarsi e di essere persuasivi”1.
Evidentemente ciò vuol dire che le regole del lavoro stanno cambiando. Per cercare
di dare una spiegazione innanzitutto è necessaria una breve panoramica sui nuovi
scenari del contesto lavorativo, tenendo presente che oggi la tecnologia ci solleva
dall’attività intellettuale ripetitiva; quindi all’uomo, che oggi non deve più lavorare
come se fosse una macchina, è richiesto di tornare tale: può pensare e agire in
maniera totale, non solo con la mente razionale ma coinvolgendo tutte le sfere del
suo essere in maniera più consapevole. Pensare e agire con mente, corpo e cuore.
E’ bene analizzare anche la complessità del mondo in cui viviamo: nel campo
lavorativo si manifesta a livello di operatività, con supporti tecnologici in continuo
aggiornamento, una rapidissima evoluzione dell’organizzazione aziendale e l’ampia
interconnessione dei mercati. Come ha detto Gary Hamel nel testo Leader della
rivoluzione, ci troviamo in uno stato di “cambiamento permanente discontinuo”. Se
fino a poco tempo fa al manager veniva richiesto di analizzare dati storici e in base a
questi studiare delle strategie razionali per ottenere una pianificazione visibile e
quantizzabile, oggi questo non è più sufficiente. Si genera la richiesta di nuove
competenze e in particolare lo sviluppo di intuito e creatività per saper cogliere al
1
D.Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva-come inventare un nuovo rapporto con il lavoro, Rizzoli,
Milano, 1998, pag. 13
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momento giusto i cambiamenti, individuare soluzioni alternative, osare e gestire il
rischio. In un contesto così disagiato è necessario recuperare il significato del lavoro,
l’etica d’impresa e la responsabilità sociale.
“In un’epoca che non offre alcuna garanzia di lavoro sicuro, nella quale il concetto
stesso di lavoro viene rapidamente sostituito con quello di capacità esportabili da un
contesto all’altro, queste sono le principali abilità che ci rendono- e ci mantengono-
impiegabili sul mercato”.
“Competenze trasversali” è la locuzione con la quale, nel dibattito italiano, sono
identificate le capacità esportabili, quelle che, entrando in gioco nei diversi ambiti
applicativi, consentono di trasformare saperi e tecniche in comportamento lavorativo
efficace.
A questo proposito anche la Commissione della Comunità Europea si è espressa
dichiarando che “l’avvicinamento all’occupazione avviene attraverso l’acquisizione
delle competenze resesi necessarie con l’evoluzione del lavoro. Ciò significa che è più
che mai necessario incoraggiare lungo tutto l’arco della vita la creatività, la
flessibilità, l’adattabilità, la capacità di imparare ad apprendere e a risolvere i
problemi. Solo a queste condizioni potremo evitare l’obsolescenza ormai rapida delle
qualifiche” (1997).
Dunque, l’expertise, cioè quel mix di conoscenze intellettuali, capacità tecniche,
specialistiche ed abilità pratiche che consentivano di svolgere in modo adeguato il
proprio ruolo, non è più sufficiente, oggi, per eccellere sul lavoro. Ci vuole qualcosa
in più: occorrono competenze umane efficaci derivanti dalla combinazione armonica,
di diversi e altri ingredienti, che prendano in considerazione il modo di comportarsi
verso se stessi e nei confronti degli altri.
Conoscersi, essere consapevoli delle proprie risorse e dei propri punti deboli,
accettare pienamente i propri sentimenti e le proprie emozioni, avere fiducia nelle
proprie e altrui potenzialità, mostrarsi flessibili di fronte al cambiamento, possedere
motivazione ed entusiasmo, ottimismo, prontezza nel cogliere le occasioni, empatia
ed abilità relazionali: sono queste le basi dell’intelligenza emotiva, nuovo criterio e
nuova frontiera della professionalità.
Il successo delle organizzazioni ed il miglioramento delle performance manageriali
richiedono talenti di tipo emozionale e relazionale. Tali requisiti producono la capacità
di formare un team, di stabilire rapporti costruttivi, di sviluppare la creatività, di
diventare catalizzatori del cambiamento; requisiti ritenuti fondamentali ai fini dello
sviluppo aziendale e del territorio, soprattutto in questa epoca caratterizzata da
incertezze e grandi cambiamenti.
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quella sociale. Spesso, infatti, a elevati quozienti intellettivi, corrispondono risultati
modesti o addirittura mediocri nel campo del lavoro e della riuscita sociale. Tale
constatazione ha portato poco per volta al riconoscimento che l’intelligenza basata
sull'esercizio della pura razionalità costituisce soltanto un aspetto delle più generali
capacità che permettono all'uomo di misurarsi con le diverse situazioni incontrate
nella vita di tutti i giorni e di risolvere adeguatamente i problemi che esse implicano.
Un mito da sfatare è la contrapposizione di sentimenti ed emozioni da un lato e
razionalità e pensiero analitico dall’altro. La biologia e la neurologia stanno
dimostrando l’importanza crescente che le emozioni giocano nei processi mnemonici,
di apprendimento e di giudizio. La componente emotiva della mente è tutt’altro che
contrapposta agli stati mentali cognitivi, rappresenta piuttosto una guida, un
completamento alle scelte effettuate dalle persone, ai comportamenti che attuano e
alle reazioni che adottano. L’emozione rappresenta il passaggio dalla mente al corpo,
il canale di comunicazione che trasforma la sensazione di un fenomeno fisico in
consapevolezza del fenomeno stesso.
Come già detto, il ruolo della sfera emozionale sul lavoro è sempre più significativo.
Cooper e Sawaf (1998) schematizzano questo aspetto evidenziando come al
significato convenzionale di emotività, come segno di debolezza, di confusione, di
irrazionalità, di distrazione, di vulnerabilità si sostituisce un nuovo significato di
performance elevate, come segno di forza, di apprendimento, di motivazione, di
valori, di creatività ed innovazione. Potrebbe risultare esplicativo il parallelismo che
esiste tra i termini emozione e motivazione; stessa radice etimologica latina,
“movere” ed “emovere”, con una interessante distinzione di significati: muovere fuori
e muovere verso. Le emozioni sono transitorie, sono vissute con scarso controllo
della situazione, in modo istintivo verso stimoli provenienti dal mondo esterno o
interno; la motivazione spinge verso il raggiungimento di obiettivi, razionalmente si
sviluppa nel tempo ed è legata all’ambiente e alla sfera relazionale. Per molti autori le
emozioni si configurano come fondamentali sistemi motivazionali e per questo
possono agire sulle strutture di influenzamento (Frijda, 1990).
Il controllo emozionale, infatti, spinge le persone ad esprimere tutto il loro
potenziale, permette la libera espressione di valori ed aspirazioni personali
sviluppando nuove fonti di energia motivazionale.
La nozione di intelligenza emotiva, già descritta da Howard Gardner nelle due forme,
intrapersonale e interpersonale2, è stata tuttavia sviluppata nei suoi molteplici
componenti e conseguenze pratiche da Daniel Goleman, la persona che,
indiscutibilmente, ha portato la componente emotiva all’attenzione del mondo.
Goleman ha avuto l’intuizione di rivalutare il ruolo delle emozioni, trasferendole nel
campo della leadership e della gestione delle persone, “Le persone che sanno
controllare le loro emozioni sono capaci di vivere i momenti di grande cambiamento
senza panico” (Goleman, 1998). Egli ha raggruppato sotto il termine “intelligenza
emotiva” tutte le capacità che permettono agli individui di apprendere le competenze
professionali necessarie per avere successo professionalmente. “Se un individuo è
2
L’ intelligenza interpersonale è l’abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d'animo degli altri.
L’intelligenza intrapersonale si riferisce all’abilità di comprendere le proprie emozioni e di incanalarle in forme
socialmente accettabili.
20
carente nelle abilità sociali, ad esempio, non riuscirà a persuadere o a ispirare gli
altri, né ad assumersi la leadership di un team o a catalizzare il cambiamento. Chi ha
una scarsa consapevolezza di sé tende a dimenticare le proprie debolezze, e allo
stesso tempo non avrà la fiducia in se stesso che deriva dalla sicurezza sui propri
punti di forza.” L’espressione <<intelligenza emotiva>> si riferisce alla capacità di
riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire
positivamente le emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre relazioni ”.
Goleman basa tale intelligenza su cinque dimensioni ad ognuna delle quali fa
attingere delle competenze emotive classificate in gruppi come riportate nelle
seguenti figure.
COMPETENZA PERSONALE
Determina il modo in cui controlliamo noi stessi
Comporta la conoscenza dei propri stati interiori -
preferenze, risorse e intuizioni
21
Comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il
raggiungimento di obiettivi
22
COMPETENZA SOCIALE
23
Per comprendere più efficacemente come opera un manager e di quali capacità ha
bisogno, è utile fare riferimento ai più recenti studi sul funzionamento del cervello
umano. La nostra attenzione cadrà sul concetto di specializzazione degli emisferi
cerebrali, che ci consentirà di dimostrare come il cervello e l’emotività non sono poi
da considerarsi mondi diversi.
Il discorso sulle specializzazioni cerebrali fa riferimento a due basi teoriche: la teoria
della stratificazione cerebrale e la teoria della specializzazione degli emisferi cerebrali.
Per quanto riguarda la teoria dell’evoluzione stratificata del cervello, essa sostiene
che nel corso della filogenesi il cervello umano sia evoluto per stratificazioni fino alla
sua configurazione attuale. Una delle concezioni di maggior successo (Paul McLean,
1949), raggruppa queste stratificazioni in tre zone sovrapposte, praticamente in tre
cervelli distinti e nello stesso tempo interconnessi e funzionanti in contemporanea,
distinguibili per specificità anatomica e fisiologica:
il cervello rettiliano, sovrintende a funzioni di automatismo fisiologico
(sopravvivenza, reazioni emotive, conservazione della specie);
il cervello limbico, è la sede dell’affettività, delle emozioni e dell’umore;
il cervello corticale, è la materia sovrastante conformata a lobi e solchi, è il
cervello della ragione, della parola, della coscienza.
Altri studi che hanno influenzato le ricerche sulla natura del lavoro manageriale sono
quelli sulla localizzazione di specifiche funzioni mentali nel lobo sinistro e nel lobo
destro del cervello umano.
Si è scoperto che i due emisferi esprimono due modi diversi e simultanei di fare
esperienza, di pensare e di sentire. In particolare l’emisfero sinistro si caratterizza per
le facoltà logiche, analitiche, verbali, razionali mentre quello destro, a sua volta, si
caratterizza per le facoltà intuitive, sintetiche, corporali, emozionali. Si è verificato
così che la persona di successo, nello specifico il manager, non si limita ad utilizzare
le facoltà specifiche della parte sinistra del cervello ma impiega in egual modo anche
le facoltà specifiche della parte destra del cervello.
24
Figura 1 - CARATTERISTICHE DEI DUE EMISFERI DEL CERVELLO UMANO
Parola Immagine
Analisi Sintesi
Matematica Geometria
Ragionamento in serie Ragionamento in parallelo
Procedimento sequenziale Visione d’insieme
Pensiero scientifico Capacità artistiche e musicali
Pensiero convergente Pensiero divergente
Deduttivo Metaforico
Razionale Intuitivo
Realistico Impulsivo
Obiettivo Soggettivo
Dettagliato Globale, olistico
Esplicito Tacito, implicito
Percorso lineare Panorama, spazio
Tattica Strategia
Ragionamento per algoritmi Ragionamento euristico
Linguaggio digitale Linguaggio analogico
LE COMPETENZE MANAGERIALI
Cos’è una competenza, quali sono le competenze, come si possono analizzare e
descrivere è un terreno che ancora lascia spazio alla scoperta, nel quale tutto non è
“già detto”. Il motivo di tanta attenzione da parte di studiosi, consulenti, ricercatori è
da ricondurre al progressivo affermarsi di modelli lavorativi basati su soluzioni
organizzative sempre più flessibili e dinamiche. Flessibilità e dinamismo permettono
alle organizzazione odierne di fronteggiare le incertezze e le turbolenze dei mercati
che caratterizzano l’era della globalizzazione e della new economy. In questo
scenario così complesso è naturale che nelle organizzazioni non è più centrale la
dimensione statica del lavoro, la posizione lavorativa, ma diventa più importante
valorizzare l’individuo con le sue competenze.
Esistono, infatti, diversi approcci al tema delle competenze, sia per quanto riguarda
la sua definizione, sia a proposito dei metodi di rilevazione.
Nella psicologia organizzativa americana, tra gli ultimi anni ’60 e i primi anni ’70, si è
avuto un vero e proprio “movimento delle competenze”, del quale David C.
McClelland è considerato il padre fondatore. A quei tempi l’interesse ai tratti della
personalità come concausa del successo di una performance lavorativa non era in
25
primo piano. Da un crescente numero di ricerche risultò, invece, che i “tradizionali
test di attitudine allo studio e di cultura scolastica, così come i titoli e gli attestati
scolastici: 1) non predicono l’attitudine al lavoro o il successo nella vita, 2) sono
spesso viziati da pregiudizi nei confronti delle minoranze, delle donne e dei ceti
sociali meno abbienti”3. Così McClelland ricorda la nascita del movimento delle
competenze che fece compiere un grande passo agli psicologi che si occupavano
della gestione del personale nelle organizzazioni. Allora si credeva che il modo più
giusto per svolgere questo compito fosse l’analisi separata della mansione e della
persona per poi cercare di ricombinarle, metodo che, pur essendo appropriato nel
predire il rendimento scolastico, risultava inadeguato nel mondo del lavoro. Andò così
affermandosi il metodo delle competenze grazie al quale, attraverso interviste sui
comportamenti esplicitati in particolari situazioni, vengono determinate le
caratteristiche personali associabili al successo della mansione. Questo tipo di
approccio alle competenze offre “un metodo di gestione delle risorse umane
largamente applicabile alla selezione, ai percorsi di carriera, alla valutazione della
prestazione e allo sviluppo del personale”4.
LE COMPETENZE RELAZIONALI
Da rilevazioni e studi effettuati risulta che un capo occupa dal 60 all’ 80% del suo
tempo in attività di comunicazione: colloqui e riunioni con i collaboratori, colleghi,
superiori o persona esterne all’azienda. E’ un tempo destinato ad aumentare, se si
aggiungono le comunicazioni scritte, la stesura di rapporti e relazioni, ecc. e la
percentuale è tanto più alta quanto più si sale nella scala gerarchica.
Tutto, oggi, avviene all’insegna della ricerca del consenso, della negoziazione e del
compromesso e quindi, in ultima analisi, all’insegna della comunicazione. In un’epoca
come l’attuale, quindi, saper comunicare diventa il requisito essenziale per svolgere
qualsiasi attività sociale ed è una capacità essenziale richiesta a chiunque abbia un
ruolo dirigenziale nelle organizzazioni. Infatti, il capo sempre meno deve gestire il
sistema di premi e punizioni o svolgere attività di programmazione operativa e
sempre più deve essere capace di gestire gruppi di lavoro, di dirigere riunioni, di
negoziare, di colloquiare con i collaboratori per informarli, motivarli, guidarli verso
l’obiettivo comune.
Un capo, al dovere di sapere fare, deve aggiungere quello di far sapere.
Le nostre convinzioni, i nostri valori e i nostri atteggiamenti influenzano i nostri
comportamenti. Ci sono dei principi base che sostengono la capacità di influenzare gli
altri e che permettono di essere efficaci nella comunicazione, nella gestione dei
conflitti, nel lavoro di gruppo:
1. quando tentiamo di influenzare gli altri, ci riusciamo meglio se esercitiamo una
delicata pressione al loro stesso ritmo che se tentiamo di spingerli con forza al
3
McClelland D.C., “Il concetto di competenza: introduzione”, in Spencer L.M., Spencer S.M., Competenza nel
lavoro. FrancoAngeli, Milano, 1995, pagg 23/24.
4
McClelland D.C., op.cit., pag. 29.
26
nostro ritmo. Decisamente troppo spesso lavoriamo sul presupposto che, solo
perché noi vediamo la logica delle nostre scelte, gli altri ci debbano seguire.
Questa convinzione ci spinge a fare noi l’andatura, presentare le informazioni
cosi come le leggiamo, ed anche ad usare tattiche coercitive (magari morbide)
quando ci troviamo di fronte a quella che ci sembra pura ostinazione. Ma
anche se riusciamo a “vincere” i risultati sono perlopiù di breve periodo e non
mancano effetti collaterali spiacevoli. Otteniamo di più, quindi, se andiamo
incontro alle posizioni dei nostri interlocutori e li incoraggiamo educatamente
ad andare nella posizione che desideriamo;
2. quando vogliamo influenzare gli altri, otteniamo risultati migliori se li
coinvolgiamo nella discussione anziché accontentarci di un atteggiamento
passivo;
3. la persuasione produce risultati migliori della manipolazione, anche se è facile
confondere le due cose. La persuasione si basa sul rispetto degli interlocutori,
sulla chiara esposizione delle idee e sull’invito ad accettarle. La manipolazione,
invece, si fonda in qualche modo sul raggiro, per cui l’altro viene
furbescamente indotto ad accettare il nostro punto di vista. Questo può
avvenire anche se in modo non intenzionale quando, per esempio, si adottano
delle tattiche che fanno sentire gli interlocutori in colpa se non si trovano
d’accordo;
4. è preferibile pensare in termini di comportamento piuttosto che di personalità:
nelle organizzazioni è rilevante ciò che le persone fanno e non ciò che sono. I
comportamenti sono influenzati da ruoli, strutture, procedure, culture,
politiche e non necessariamente sono simmetrici a quelli agiti al di fuori
dell’organizzazione stessa. E’ corretto, quindi, occuparsi di ciò che le persone
fanno o potranno fare e non di come sono, anche se, come esseri umani ci
viene facile etichettare gli altri traendo conclusioni sulla loro personalità e
mentalità, a partire dall’osservazione dei loro comportamenti. Ciò che
conosciamo in realtà è solo il loro comportamento, tutto il resto sono
congetture;
5. dovremmo tenere presente che le convinzioni che incidono sul nostro modo di
comportarci sono probabilmente diverse da quelle degli altri. Questo aspetto è
importante perché le convinzioni e gli assunti delle persone spesso sono così
radicati che non possiamo neppure sperare di scalfirli superficialmente. Se ci
preoccupiamo anzitutto di capire, sapremo poi molto meglio come farci capire;
6. in ambito organizzativo non è né utile né corretto utilizzare le categorie del
bene-male, del buono-cattivo, del positivo-negativo a priori (idea valoriale in
sè), ma valutare ogni comportamento come coerente-incoerente rispetto agli
obiettivi che vogliamo raggiungere. Ogni variabile gestionale è da valutare
come positiva o negativa non in sé, ma in funzione del tipo di comportamento
atteso dall’organizzazione, per esempio, un comportamento metodico non è
né migliore né peggiore di un comportamento intuitivo, dipende dalla
situazione e dallo scopo da raggiungere;
27
7. è importante formulare diagnosi non giudizi: se qualcuno sbaglia è importante
chiedersi “perché ha sbagliato” piuttosto che affermare che “è un incapace”.
La gestione dei collaboratori richiede quindi più attenzione nella “raccolta dei
fatti” e nella “diagnosi” prima di ogni decisione. Per questo è importante
rifuggire dalla tentazione di giudicare, imponendosi primo di diagnosticare: è
un approccio proficuo e consente azioni più ricche nei confronti delle risorse
umane gestite;
8. è fondamentale difendersi dalla naturale propensione a essere proiettivi. La
“proiezione” è uno degli errori più comuni di valutazione: essa porta a gestire,
valutare, scegliere, utilizzando come metro di misura la motivazione, le
caratteristiche e i valori personali e a esprimere di conseguenza un giudizio
positivo se questi coincidono e negativo se si discostano, al di là
dell’oggettività dei fatti.
28
Vi sono principi validi, secondo Drucker, su come prendere le decisioni riguardanti le
persone, tenendo conto che non esiste un giudice infallibile delle persone, almeno in
questo mondo:
se metto una persona in un certo posto e non va bene vuol dire che ho fatto
un errore. Non ha senso attribuirle la colpa o lamentarsi: ho fatto un errore
punto e basta;
“il soldato ha diritto a un comando competente”: era una vecchia massima già
ai tempi di Giulio Cesare. E’ preciso dovere dei manager garantire la
performance dei collaboratori responsabili;
di tutte le decisioni che prende un dirigente, nessuna ha l’importanza di quelle
inerenti le persone, perché incidono sulla capacità di performance
dell’organizzazione. Perciò dovrà dedicare una particolare cura a queste
decisioni;
c’è un unico “non”. Non dare ai neoassunti nuovi incarichi di rilievo, perché
questo aumenta i rischi. Questi incarichi vanno dati ai collaboratori di cui si
conoscono il comportamento e le attitudini, e che si sono già meritati fiducia e
credibilità in seno all’organizzazione. Il neoassunto di alto livello va inserito in
una posizione consolidata, dove le aspettative sono note e c’è una struttura di
riferimento.
Lo stesso autore suggerisce: “non siamo in grado di prevedere se il candidato
prescelto sarà caratterialmente in grado di adattarsi al nuovo ambiente, possiamo
scoprirlo solo attraverso l’esperienza. Se il passaggio da una mansione all’altra non
va secondo le attese, il dirigente che ha preso la decisione deve rimediare all’errore,
e in fretta. Deve dire “Ho fatto un errore, e adesso devo sistemare le cose”.
Mantenere la persona sbagliata nella posizione sbagliata non è un atto di umanità, è
un atto di crudeltà. Il giusto corso di azione- e avviene quasi sempre cosi- è offrire
al collaboratore che delude nella nuova posizione la possibilità di tornare a quella
precedente.”
IL PARLARE IN PUBBLICO
29
sorriso, spostamenti, espressioni del viso. I grandi comunicatori eccellono forse
più nel linguaggio del corpo e nel linguaggio paraverbale che nel linguaggio
puramente verbale. Guardate i campioni: parola, voce e gestualità si integrano
in una sapiente danza o musica armonica. Ma non temete, per prestazioni più
che onorevoli, anche questo si impara.
LO STRUMENTO SGUARDO
Della strumentazione non-verbale, l’elemento più potente è lo sguardo che
risulta essenziale per:
Stabilire il contatto e creare empatia
Controllare l’ansia
Ricevere il feed-back dall’uditorio
Tenere “in tiro” e sotto controllo il gruppo
LO STRUMENTO FEED-BACK
Feed-back è l’informazione di ritorno dal gruppo, sotto forma verbale,
paraverbale e non verbale. Usare il feed-back come strumento per guidare il
vostro discorso (cambiare voce, ribadire con concetto, risvegliare l’attenzione
ecc.) significa innanzitutto fare attenzione a, e saper interpretare, i segnali di
feed-back, il che potrebbe esprimersi paradossalmente nel saper “ascoltare” gli
altri mentre si parla, e, in secondo luogo, essere in grado di reagire
opportunamente, il che comporta un certo grado di flessibilità nel contenuto e
nella forma del discorso così come nel vostro comportamento.
30
da poterne modulare il flusso. E’ nella fase di emissione o espirazione che si forma il
suono e la voce.
Questo lo pratichiamo nel parlare di tutti i giorni in maniera pressoché automatica,
eppure quando ci troviamo a parlare in pubblico non troviamo i ritmi giusti e non
sappiamo modulare bene l’emissione dell’aria, in genere o ce ne mettiamo troppa o
troppo poca con gravi alterazioni della voce.
Ma c’è una cosa ancor più importante da sapere: il nostro mantice polmonare può
essere azionato in tre maniere diverse dette anche respirazioni diverse:
1. Respirazione addominale o diaframmatica (bassa)
2. Respirazione costale laterale (media)
3. Respirazione alta, scapolare o toracica verticale (alzare le spalle per
aumentare ancor più il volume polmonare: è tipica degli atleti).
Ebbene, una delle prime cose che di solito insegnano ad un attore è di proibirgli la
respirazione scapolare e di allenarlo alla respirazione addominale controllata. La
respirazione scapolare è nefasta per la voce: la alterna, la storpia. La respirazione
corretta è in primo luogo diaframmatica e poi costale laterale. Essa consiste nel
gonfiare la pancia e, se non basta, allargare la cassa toracica per aspirare aria, e di
modulare la fuoriuscita rilasciando lentamente la cintura muscolare addominale e
costale. Dimenticatevi la costale, viene da sola, tenete assolutamente lente le spalle
e concentratevi solo sul diaframma.
Più facile a dirsi che a farsi, e difatti ci vuole allenamento.
Altro aspetto importante: la respirazione addominale serve anche per il rilassamento
e il controllo dell’ansia. Tutte le tecniche di rilassamento e autocontrollo includono la
regolazione della respirazione, puntando su quella addominale.
In conclusione di questo:
Respirate (parlate) con la pancia,
Regolate il soffio che fabbrica la voce con la pancia,
Tenete ferme le spalle,
Calibrate (punteggiate) tempi e pause della dizione coi tempi di respiro,
Si parla tra un’aspirazione e l’altra emettendo lentamente la quantità d’aria
che serve per modulare la voce.
Praticate tecniche di respirazione sia per migliorare la voce, la dizione e
l’articolazione, che per controllare la tensione nervosa quando eccessiva.
Demostene era un omiciattolo insignificante, con non pochi difetti, e per di più
ansioso e balbuziente. I suoi primi tentativi di discorso pubblico furono un disastro.
31
Con la disciplina, col metodo e con forti motivazioni divenne il più grande oratore
della Grecia antica. Si parla ad esempio che per correggere e potenziare le sue
capacità fonetiche e di dizione, si esercitasse a lungo sulla spiaggia con dei sassolini
in bocca e per un certo periodo in una cantina, barba e capelli rasati per non uscire.
Si narra anche che veniva preso in giro dai suoi avversari perché non sapeva
improvvisare. Demostene, il più grande dei suoi tempi, non improvvisava, e di fatti
fino all’ultimo preparava meticolosamente ogni suo discorso.
Cicerone, anche lui il è più grande dei suoi tempi, aveva tutto quel che serviva per
essere un grande oratore e fin dal primo discorso ebbe subito un gran successo,
eppure anche lui, si sa con certezza, preparava con scrupolo e pazienza ogni suo
discorso.
32
Il TEAM WORKING
Competenze complementari
I team devono sviluppare il corretto mix di capacità, necessità a raggiungere gli
obiettivi prefissati. Esse si possono suddividere in tre categorie:
Capacità tecniche o funzionali,
Capacità di risolvere problemi o prendere decisioni,
Capacità di gestire i rapporti interpersonali.
Un team deve essere in grado di identificare i problemi e le opportunità che si
presentano e valutare le diverse possibilità di intervento. Allo stesso tempo, il team
deve sviluppare la capacità di assumersi dei rischi, di essere costruttivi nelle critiche,
33
di essere obiettivi, di saper ascoltare, di concedere il beneficio del dubbio e di
rispettare le opinioni altrui.
Responsabilità collettiva
La realizzazione di una responsabilità collettiva, di cui il team non può fare a meno,
costituisce una prova impegnativa.
Nella sua essenza, la responsabilità di gruppo è legata alle promesse sincere che
contribuiscono a rafforzare due aspetti essenziali dei team: l’impegno e la fiducia.
Promettendo di assumerci la responsabilità del raggiungimento degli obiettivi del
team, ci guadagniamo il diritto di esprimere il nostro punto di vista su tutti gli aspetti
del lavoro svolto e di essere ascoltati in modo leale e costruttivo. Il senso di
responsabilità nasce dal tempo, dall’energia e dall’impegno concreto nello sforzo di
capire come e che cosa il team si propone di raggiungere e qual è il modo migliore
per farlo, e si rafforza via via su questa base. Quando un gruppo di persone collabora
concretamente per un obiettivo comune, fiducia e impegno scaturiscono
spontaneamente. Se i membri condividono lo scopo e l’approccio, inevitabilmente si
considerano responsabili, a livello individuale e collettivo, della performance
dell’intero team.
TENDENZE
L’organizzazione dovrà essere flessibile e forte in quanto sarà in continuo
cambiamento. I grandi cambiamenti nel lavoro e nella struttura organizzativa
determinano che i ruoli e le relazioni tradizionali fra capi e collaboratori siano molto
diversi in un’organizzazione decentrata con meno livelli gerarchici. Il manager ideale
è un facilitatore, un consulente e un coordinatore, col compito di sviluppare le
competenze dei dipendenti. Le tendenze future richiederanno un maggior spazio per
il processo partecipativo, con maggiori responsabilità dei dipendenti nella soluzione
dei problemi e nella presa di decisioni. Esse comprendono5:
5
Le tendenze future sono tratte da: AUBREY C., FELKINS P. Teamwork Editoriale Itaca
34
Il potere nelle organizzazioni portato ai livelli più bassi,
Strutture organizzative e processi decisionali decentrati,
Maggior peso dei settori dei servizi,
Supervisori di linea che assumono maggiori responsabilità come risorse
a disposizione per i loro collaboratori,
Condivisione dei profitti con i dipendenti,
Ingresso dei dipendenti nei Consigli di Amministrazione,
Maggiori poteri ai consumatori ed ai dipendenti,
Gruppi manageriali internazionali,
Gruppi di lavoro ed imprenditoriali autonomi,
Maggior peso delle competenze individuali,
Strutture organizzative più fluide,
Approccio informale al lavoro,
Orari di lavori flessibile,
Ambienti di lavoro più attraenti ed umanizzati,
Più tempo dedicato allo svago,
Maggiore diversificazione dei dipendenti,
Maggior numero di persone che lavorano al di fuori delle organizzazioni,
Preoccupazione dell’organizzazione per la salute dei dipendenti,
Riconoscimento dei bisogni individuali di realizzazione e di crescita,
Maggiori riconoscimenti nell’organizzazione per la creatività e
l’innovazione.
Dalle tendenze sopra elencate vengono fuori numerose opzioni ed opportunità per il
coinvolgimento dei membri nei gruppi di soluzione dei problemi e di raccolta delle
informazioni. Il gruppo diventa il principale strumento di sviluppo individuale
nell’organizzazione e nella comunità esterna.
LEADER E LEADERSHIP
35
I concetti di leader e leadership hanno un'applicazione sempre più vasta nella nostra
società, non solo in management, ma in ogni aspetto della nostra vita quotidiana.
Sentiamo parlare di leader in politica, si parla del leader di un gruppo musicale, si
sostiene che il “tal dei tali” possiede doti di leadership.
Ma cos'è veramente un leader? Perché è così importante essere leader oggi e quali
sono le caratteristiche di un leader?
La parola leader deriva dal verbo inglese to lead, che significa guidare, condurre,
dirigere. Il leader è colui che sa guidare un gruppo di persone (che vengono definite
leds o followers, cioè coloro che seguono). E’ colui che conduce la squadra al
raggiungimento degli obiettivi. E’ leader colui che non ha dubbi sugli obiettivi da
raggiungere e lavora con gli altri per perseguirli. Può essere leader il capo di una
divisione in azienda, può essere leader un poliziotto che assume il comando della
situazione in un’emergenza, è leader colui che decide cosa fare e come farlo, è
leader il bambino che stabilisce le regole di un gioco. Leader, quindi, non è un
concetto legato al ruolo della persona, ma un concetto legato a quello che si fa e,
soprattutto, a come lo si fa.
Ecco perchè oggi il termine leader non è adottato solo in management, ma in
qualunque campo della nostra vita: e, in qualsiasi applicazione, i leader hanno
sempre gli stessi caratteri distintivi.
Data questa definizione, viene da pensare che tutti possono essere leader in
determinate situazioni o in momenti specifici della propria vita, ma sicuramente non
tutti hanno la capacità per esserlo, non tutti possiedono quelle che comunemente si
definiscono “doti di leadership”.
La leadership è ciò che conferisce ad un’organizzazione la sua “visione”, il suo
“sogno” e, con esso, la capacità di tradurlo in realtà. Quando pensiamo al leader in
azienda, spesso pensiamo al capo, a colui che comanda, al responsabile di una
divisione, ma non è sempre così. Ci sono leader che adottano uno stile autocratico e
che esercitano il loro potere in virtù della posizione che hanno e del ruolo che
ricoprono in azienda. In questo caso, il leader è colui che impone le proprie decisioni
solo perchè può farlo, solo perchè riveste un determinato ruolo; ed è allora che la
parola capo coincide con la parola leader, è allora che il leader è il capo.
Ma non è detto che tutti i capi siano leader, non tutti coloro che sono a capo di un
ufficio, di una divisione, sono leader, semplicemente perché non hanno quelle che si
definiscono caratteristiche di leadership. Significa, quindi, che pur avendo la
posizione per dirigere e per prendere decisioni, non sanno farlo, e quindi non sono
leader. Diciamo allora che non tutti i capi sono leader, ma tutti i capi dovrebbero
essere leader per poter svolgere al meglio il proprio lavoro.
Bennis e Nanus6 affermano che il leader ricerca il know-why, prima del know-how,
cioè prima del capire come fare qualcosa, si prova a capire il perché la si deve porre
in essere. L’attività del leader, quindi, è orientata al problem finding, piuttosto che
dal problem solving, ossia la soluzione del problema. Proprio per queste capacità di
scopritore di problemi, più che risolutore, il leader non ha solo il compito di dare
ordini, ma entra in contatto con tutti i suoi follower, influenzandoli, formandoli e
educandoli.
6
W. Bennis et B. Nanus, Leader, anatomia della leadership, Franco Angeli, Milano 1999.
36
Il vero leader, in ogni caso, possiede delle caratteristiche fondamentali, dei tratti
caratteriali che sono da ritenersi indispensabili:
Self-awareness: coscienza di sé. Il leader è pienamente cosciente
delle proprie capacità, della propria intelligenza e sa come usare queste
doti per raggiungere obiettivi ben precisi. Tuttavia, coscienza di sé non
è da confondere con immodestia e presunzione.
Credibilità: tutti coloro che hanno a che fare con lui lo reputano una
persona credibile ed affidabile; è importante che il team, che le persone
in generale, si fidino di lui. Il leader è sempre ritenuto credibile.
Empatia: il leader è capace di comprendere gli altri, di “sentire” le
persone, di capire quello che provano.
Onestà: il vero leader è una persona onesta, corretta e leale nei
confronti degli altri leader così come nei confronti del proprio team. Il
leader è la persona di cui ci si fida, nella quale si ripone fiducia.
Comunicazione: capacità di farsi capire, capacità di esprimere
chiaramente le idee e gli obiettivi da raggiungere; il bravo leader sa
comunicare, sa capire gli altri e sa farsi comprendere dagli altri
Active listening: capacità di ascoltare e di capire.
Vision: il vero leader ha sempre una vision, guarda lontano, sa quali
saranno gli obiettivi da raggiungere ed ha la capacità di trasmettere la
sua vision al proprio team.
37
che agisce. In questo caso, il leader si fa da parte e fa decidere il team,
probabilmente perché la maggior parte delle informazioni necessarie alla soluzione
del problema è nelle mani del team.
Non esiste uno stile “universale” e giusto di leadership; voglio dire, che non esiste
uno stile che va sempre bene e che il leader può adottare in qualsiasi circostanza, ma
il bravo leader è colui che sa adottare uno stile diverso in base alle situazioni che si
creano. Lo stile che il leader deve adottare cambia ogni volta che il leader si trova ad
affrontare una situazione diversa, e questo significa che egli adotterà uno stile
contingente alla situazione. Laddove il leader si trova ad affrontare una situazione di
emergenza, laddove c’è la necessità di trovare una soluzione immediata è opportuno
che il leader adotti uno stile autocratico, cioè che decida rapidamente e senza dare
ascolto a troppe voci perché non ha il tempo di farlo. Se invece si deve adottare la
soluzione per un problema complesso ma vi è un tempo per farlo, il bravo leader
saprà ascoltare il parere del suo gruppo, saprà valutare le opinioni dei suoi
collaboratori adottando così uno stile democratico.
Quindi, il bravo leader è colui che cambia stile in base ai problemi da fronteggiare e
tenendo in considerazione che la soluzione dipende dai seguenti fattori:
Tempo a disposizione;
Livello di fiducia nel team;
Preparazione e competenze del team;
Capire chi possiede le informazioni necessarie per risolvere il problema
e prendere le decisioni;
Esistenza di eventuali conflitti tra i membri del team o con individui al di
fuori del proprio gruppo.
Il team leader
Il team leader è colui che ha la responsabilità del suo gruppo, che risponderà in
prima persona dei successi e degli insuccessi della squadra ed anche per questo il
suo ruolo è fondamentale sia nella sua funzione ispiratrice sia nella sua funzione di
controllo.
Spesso il team leader è legato ai componenti del gruppo da un legame formale e
gerarchico, anche se oggi questo aspetto è meno frequente.
Non è detto, infatti, che un project manager sia anche il superiore diretto di gran
parte dei componenti della sua squadra. In questo caso il potere personale, che
alcuni studiosi preferiscono chiamare potere carismatico, dovrà essere ancora più
forte.
In ogni caso, il leader deve essere riconosciuto come tale, altrimenti il gruppo
potrebbe perdere questa importante funzione di guida e di indirizzo.
Un leader per la sua squadra deve:
Credere nel gruppo, nelle persone, negli obiettivi da raggiungere, nella
visione futura del successo;
Massimo impegno personale che sarà preso ad esempio dai suoi
seguaci;
Elevato livello di conoscenze e di esperienza nel campo nel quale è
chiamato a fornire la sua direzione;
38
Cercare ogni occasione per far crescere i suoi seguaci, sia
professionalmente sia psicologicamente.
Quando un leader non agisce in questo modo, ma continua a ricoprire formalmente
la sua carica, per il gruppo agisce da “non –leader”, da “assente”. Non parlo di colui
che delega, ma di colui che “abdica” interessandosi a tutte altre cose.
Il disinteresse però, prima o poi, danneggia le squadre, in particolare nei momenti di
difficoltà, quando le persone entrano in contrasto, quando ci sono delle
incomprensioni o quando gli affari cominciano ad andare male. Il leader sarà uno
sconosciuto e le persone non avranno nessuna voglia di ascoltarlo.
Il leader che esprime la sua voce e ispira gli altri a trovare la loro
Per raggiungere le vette più alte del genio e della motivazione umana ovvero la voce,
oltre ad alcune necessità essenziali quali l’eccellenza, la realizzazione, l’attuazione
appassionate, il contributo efficace, occorre un’inaudita struttura mentale, nuove
abilità e nuovi mezzi: trova la tua voce e ispira gli altri a trovare la loro.
Questa regola, dettata da Stephen Covey, si pone in netto contrasto con il dolore e la
frustrazione della realtà odierna.
E’ la voce dello spirito umano, colma di speranza e intelligenza, resistente agli urti
per natura, dotata di un potenziale sconfinato a servizio del bene comune.
Questa voce racchiude, inoltre, l’anima delle organizzazioni che sopravvivranno,
prospereranno e avranno un impatto profondo sul futuro del mondo.
La voce è la parte più intima di ciascuno di noi; quella specificità che si manifesta nel
momento in cui affrontiamo le sfide più grandi e che ci rende alla loro altezza.
Come illustrato nella seguente figura, la voce è l’area d’intersezione tra:
Talento: la forza e i doni innati;
Passione: ciò che naturalmente ci dà energia, stimolo, motivazione e
ispirazione;
Bisogni: incluso ciò di cui il mondo necessita per ripagarci;
Coscienza: quella calma voce interiore che ci dà la certezza di ciò che è
giusto e ci
incita a farlo
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concretamente.
Quando ci s’impegna in compiti che fanno sgorgare il nostro talento e alimentano la
nostra passione è lì che troviamo la voce, la vocazione, il codice genetico della nostra
anima.
In ognuno di noi esiste un profondo, innato, quasi inesprimibile desiderio di trovare
questa voce nella vita.
“Quando sei ispirato da un grande proposito, da un progetto straordinario, tutti i tuoi
pensieri valicano i loro confini. La mente trascende i propri limiti, la consapevolezza si
espande in ogni direzione e ti ritrovi in un mondo nuovo, grande e meraviglioso”.7
Questa frase espressa nello Yoga Sutras di Pantanjali8 sintetizza in modo chiarissimo
il significato di voce. Nel momento in cui, infatti, ci sentiremo parte integrante nel
progetto in cui lavoreremo o più in generale nella situazione in cui vivremo, saremo
di fronte alla nostra voce.
La libertà di scelta
Il potere di scegliere è il nostro dono più grande. L’essenza dell’uomo sta nella
capacità d’indirizzare la nostra vita verso il percorso che vogliamo. Il potere di
scegliere la direzione della nostra vita permette rinnovamento, di cambiare il futuro e
di influenzare significativamente il resto dell’universo.
La libertà di scelta è il dono che permette di utilizzare tutte le altre doti, che permette
d’innalzare la nostra vita a livelli sempre più alti.
Il potere di scelta significa che non siamo solamente un prodotto del nostro passato
o dei nostri geni; non siamo un prodotto di come ci trattano gli altri. Veniamo,
indiscutibilmente, influenzati ma non determinati. Siamo noi ad autodeterminarci
attraverso le nostre scelte.
“C’è uno spazio tra stimolo e risposta. In quello spazio risiedono la nostra libertà e il
nostro potere di scegliere la nostra risposta. In quelle scelte risiedono la nostra
crescita e la nostra felicità.”
L’ampiezza dello spazio tra stimolo e risposta è determinata, in larga misura, dalla
nostra eredità genetica o biologica, dalla nostra educazione e dalle circostanze del
momento.
7
Stephen Covey L’ottava regola. Dall’efficacia all’efficienza Franco Angeli 2005
8
Verso il 500 A.C., Patanjali compilò nei Yoga Sutras, tutta la conoscenza esistente sullo Yoga, testo basilare
riconosciuto unanimamente da tutte le scuole di yoga. Gli Yoga Sutras sono la base del Raja Yoga. Lo Yoga di
Patanjali costituisce quello che possiamo chiamare lo yoga classico, sistematico, un preciso insieme di regole
pratiche d’accordo con i principi metafísici dello Samkhya.
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“Il non notare l’esistenza dello spazio tra stimolo e risposta uccide la nostra capacità
di cambiare. Infatti, l’insieme delle cose che pensiamo e che facciamo è limitata da
ciò che non riusciamo a notare. E poiché non riusciamo a notare ciò che non
riusciamo a notare, possiamo fare ben poco per cambiare, fare al momento in cui
notiamo come non notare plasmi pensieri e azioni”.
Indifferentemente da cosa sia accaduto, cosa stia accadendo, o accadrà, c’è uno
spazio tra gli eventi che circondano la vita e la nostra risposta. Questo spazio
rappresenta il nostro potere di scegliere la nostra risposta a qualsiasi situazione.
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Visione significa vedere con gli occhi della mente ciò che è possibile realizzare nelle
persone, nei progetti, nelle cause e nelle imprese. La visione rappresenta i desideri, i
sogni, le speranze, gli obiettivi e i progetti. Questi sogni non sono solo fantasie ma
rappresentano la realtà non ancora trasportata nella sfera materiale. Albert Einstein
disse: “L’immaginazione è più importante della conoscenza”. Visione è
soprattutto scoprire e ampliare il modo in cui vediamo gli altri, li affermiamo,
crediamo in loro e li aiutiamo a realizzare il loro potenziale, li aiutiamo a trovare la
loro voce.
Disciplina significa affrontare lo sforzo di trasformare la visione in realtà. E’ avere a
che fare con la dura, pragmatica e brutale realtà e fare ciò che è necessario per far
accadere le cose. La disciplina emerge quando alla visione si unisce l’impegno.
Riconosce lo stato delle cose così com’è.
La passione è il fuoco, il desiderio, la forza della convinzione e lo slancio che
incoraggia alla disciplina nel realizzare la visione. La passione viene dal cuore e si
manifesta attraverso l’ottimismo, il fervore, il coinvolgimento emotivo e la
determinazione. Aristotele disse “Dove convergono il talento e il bisogno del
mondo, lì è la vostra vocazione”. Lì è la nostra voce.
La coscienza è l’intima consapevolezza morale di ciò che è giusto e di ciò che è
sbagliato, lo stimolo verso significato e contributo. Immanuel Kant disse “Due cose
non smettono mai di stupirmi: il cielo stellato sopra di me e la legge
morale dentro di me”. La coscienza è la legge morale dentro di noi.
I migliori leader agiscono su quattro dimensioni: visione, realtà, etica e coraggio.
Sono le quattro intelligenze, le quattro forme di percezione, i linguaggi della
comunicazione, indispensabili per ottenere risultati significativi e duraturi.
Il leader che possiede una visione pensa alla grande, pensa in modo nuovo, pensa
guardando avanti e, cosa più importante, è a contatto con la struttura profonda della
coscienza umana e del potenziale creativo.
9
Il software negativo dell’età industriale per un’azienda è rappresentato dal capo, dalle regole, dall’efficienza e
dal controllo dell’azienda stessa.
10
Secondo Covey gli esseri umani hanno quattro dimensioni: corpo, mente cuore e spirito. Esse rappresentano i
quattro bisogni di ogni persona: vivere, amare, imparare e lasciare un’eredità. La nuova era del knowledge
worker è fondata proprio su questo paradigma ovvero della persona a tutto tondo.
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La giusta esternazione delle dimensioni conduce alla soluzione dei problemi cronici:
Dove c’è diffidenza ci concentriamo sull’essere un modello di lealtà per
creare fiducia (spirito);
Dove non c’è una visione o dei valori condivisi, ci concentriamo sul
trovare la strada per costruire una visione e un insieme di valori comuni
(mente);
Dove c’è disallineamento, ci concentriamo sull’allineamento di obiettivi,
strutture, sistemi e processi per favorire e alimentare la legittimazione
di persone e cultura per servire visione e valori (corpo);
Dove c’è delegittimazione, ci concentriamo sulla legittimazione di
individui e gruppi a livello di progetto di lavoro (cuore).
Questi rappresentano i quattro ruoli della leadership:
Essere un modello (coscienza);
Trovare la strada (visione);
Allineare (disciplina);
Legittimare (passione).
Il processo di ispirare gli altri a trovare la loro voce può essere riassunto in due
parole: focalizzazione ed esecuzione.
La focalizzazione racchiude i ruoli dell’essere un modello (modeling) e trovare la
strada (pathfinding).
L’esecuzione include i ruoli di allineare (aligning) e legittimare (empowering).
Focalizzazione
Essere un modello è lo spirito e il centro di ogni sforzo della leadership. Inizia col
trovare la voce attraverso visione, disciplina, passione e coscienza. Essere un modello
in queste caratteristiche della leadership personale valorizza e cambia l’essenza degli
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altri tre ruoli. Il modeling non è un lavoro individuale, ma di squadra. Quando una
squadra si basa sulla forza di ogni individuo e si organizza in modo da compensare le
debolezze individuali, lì c’è il vero potere dell’azienda.
Essere un modello significa quindi pensare in termini di squadra complementare,
dove ogni membro compensa le debolezze degli altri, nessuno possiede tutte le
qualità e pochissime persone possono eccellere in ogni ruolo. Il rispetto reciproco
diventa un imperativo morale.
Essere un modello significa vivere le sette regole per aver successo (S. Covey).
Regola 1 ~ Sii proattivo
Significa riconoscere di essere responsabili delle nostre scelte e che la nostra libertà
di farlo si basa su principi e valori piuttosto che su umori o situazioni.
Regola 2 ~ Comincia pensando alla fine
Occorre avere chiaro nella mente un obiettivo, identificare principi, relazioni e scopi
ai quali teniamo maggiormente e ci dedichiamo in tutto e per tutto.
Regola 3 ~ Dai precedenza alle priorità
Vuol dire vivere ed essere guidati dai principi più importanti per noi e non dalle
urgenze o dalle forze che premono dall’esterno.
Regola 4 ~ Pensa win/win
Pensare vinco/vinci è una struttura della mente e del cuore che cerca il vantaggio e il
rispetto reciproco in qualsiasi tipo d’interazione. E’ non pensare egoisticamente
(vinco/perdi) o da martire (perdo/vinci). E’ pensare a “noi” anziché a “me”.
Regola 5 ~ Prima cerca di capire, poi di farti capire
Significa ascoltare con l’intenzione di capire gli altri piuttosto che con l’intento di
rispondere. In questo modo le opportunità di parlare apertamente e di essere capiti
si presentano in maniera più semplice e naturale. Per cercare di capire occorre
prendere in considerazione chi si ha davanti; per cercare di farsi capire occorre
coraggio. L’efficacia sta nel giusto equilibrio e nella giusta integrazione di entrambe le
cose.
Regola 6 ~ Sinergizza
La sinergia è la terza alternativa, in altre parole non fare a modo mio, né a modo
tuo, ma in un terzo modo che è migliore rispetto alla soluzione a cui saremmo arrivati
entrambi per conto nostro. E’ il risultato a cui si arriva rispettando, valorizzando e
perfino celebrando le differenze. E’ risolvere i problemi, cogliere le opportunità ed
elaborare le differenze.
Regola 7 ~ Affila la lama
Significa rinnovarci costantemente nelle quattro dimensioni della vita: fisica,
sociale/emotiva, mentale e spirituale. E’ la regola che aumenta la nostra capacità di
vivere efficacemente tutte le altre regole.
Trovare la strada verso una visione, dei valori e delle priorità strategiche comuni vuol
dire unire in una sola voce, in un solo grande obiettivo, persone con punti di forza e
modi di vedere il mondo diversi. Per trovare la strada abbiamo a disposizione alcune
alternative.
La prima alternativa consiste nell’annunciare una visione, dei valori e una strategia al
gruppo senza un reale coinvolgimento da parte loro.
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La seconda alternativa è basata sul coinvolgimento esagerato in analisi e riunioni,
affrontare discussioni infinite e fuori luogo, lavorare quasi partendo dal presupposto
che non sia necessario mettere in atto alcuna strategia o legittimazione.
La terza alternativa consiste non solo nel coinvolgere adeguatamente le persone nel
processo di sviluppo di visione, missione e strategia, ma anche di riconoscere che se
riusciamo a costruire una cultura della fiducia adeguatamente salda e se anche noi
siamo leali, il potere di identificazione sarà proporzionale al potere di coinvolgimento.
Solo attraverso la terza strategia saremo in grado di trovare la strada verso una
visione comune.
E’, infatti, proprio la visione che a livello personale si traduce nel trovare la strada a
livello organizzativo. Mentre individualmente serve ad identificare ciò che reputiamo
veramente importante e rilevante per noi stessi.
Esecuzione
Il lavoro di allineamento (aligning) non finisce mai. Richiede sforzi e aggiustamenti
costanti perché le numerose realtà coinvolte mutano costantemente. I sistemi, le
strutture e i processi devono essere flessibili in modo da potere essere sempre tarati
in base alla realtà che cambiano. Tuttavia devono fondarsi su principi immutabili. Con
questa combinazione d’immutabilità flessibile è possibile creare un’azienda stabile e
agile allo stesso tempo.
Le aziende e le istituzioni allineate realmente fondate sui principi hanno un’autorità
morale istituzionalizzata. Essa è la capacità istituzionale di produrre qualità
affidandosi costantemente alle relazioni con gli stakeholder e focalizzandosi su
efficienza, rapidità, flessibilità e buon posizionamento sul mercato.
L’essenza del principio dell’allineamento sta nel partire dai risultati. L’efficacia è data
dall’equilibrio tra la produzione di risultati desiderati e la capacità di produzione. In
altre parole, le persone vogliono le uova d’oro, ma è la gallina a deporle. L’essenza
dell’efficacia sta nell’ottenere i risultati desiderati in modo da poter ottenere ancora
più risultati in futuro.
La passione è il fuoco, l’entusiasmo e il coraggio che prova un individuo
facendo qualcosa che gli piace portando a compimento un nobile fine,
qualcosa che soddisfa i suoi bisogni più importanti. La radice della parola
entusiasmo significa “Dio dentro di te”. La legittimazione (empowering) è
esattamente la stessa cosa, solo che si tratta del contesto aziendale dei lavoratori
che fanno quello che amano, in modo tale da soddisfare i loro bisogni più profondi e
quelli essenziali dell’azienda. Le loro voci si integrano.
Oggi la leadership è l’argomento più scottante. La new economy è basata sul lavoro
intellettuale e knowledge work è sinonimo di persona. Il knowledge worker è il nostro
più grande investimento finanziario.
Il knowledge work di qualità ha un tale peso che, liberando il suo potenziale, offre
alle aziende una straordinaria opportunità di creare altissimo valore. Dà valore
aggiunto a tutti gli altri investimenti già fatti dall’azienda. I knowledge worker, infatti,
sono il punto di connessione con tutti gli altri investimenti dell’azienda. Forniscono
focalizzazione, creatività nell’utilizzo degli investimenti volti al miglior raggiungimento
degli obiettivi dell’impresa. Il capitale intellettuale e sociale sono la chiave per dare
valore aggiunto e ottimizzare tutti gli altri investimenti.
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E’ quindi di cruciale importanza concepire la legittimazione delle persone (allineare le
voci) come il frutto dell’essere un modello, allineare e trovare la strada. Altrimenti le
aziende citeranno e proclameranno la legittimazione ma non saranno in grado di
metterla in pratica. Non avranno una visione comune, non avranno alcuna disciplina
e certamente nessuna passione.
Il motore interno per trovare la propria voce e ispirare gli altri trovare la loro, è
alimentato da un fine dominante: servire i bisogni umani.
Se non andiamo verso gli altri e se non soddisfiamo i loro bisogni, non espandiamo
né sviluppiamo, come invece potremmo, la nostra libertà di scelta. Le nostre relazioni
migliorano e diventano più profonde quando tutti insieme cerchiamo di servire la
nostra famiglia, un’altra famiglia, un’organizzazione, una comunità o altri bisogni
umani.
Paradigmi
Ricorda: Il modo in cui noi vediamo le cose, dipende dal modo in cui esse sono o dal
modo in cui dovrebbero essere.
I nostri atteggiamenti e comportamenti nascono proprio da queste credenze, il modo
in cui vediamo le cose è la fonte del nostro modo di pensare e del nostro modo di
agire.
Tutto dipende dai nostri paradigmi (modello, modo di percepire, un prospetto o un
sistema di riferimento) che in senso generale sono il modo in cui noi vediamo il
mondo, non in termini fisici, ma nei termini di percepire, comprendere, interpretare.
Per comprendere i paradigmi dobbiamo vederli come MAPPE, noi sappiamo che la
mappa non è il territorio, essa è la rappresentazione di certi aspetti del territorio.
Es: vogliamo raggiungere via Condotti a Roma ed utilizziamo una cartina sbagliata
(per errore tipografico c’è scritto Roma ma in realtà è Firenze) naturalmente
cercheremo invano di raggiungere la nostra destinazione e ciò provoca frustrazione.
o Potremmo lavorare sul comportamento: essere più attento, raddoppiare la
velocità, ma il risultato è arrivare più in fretta nel posto sbagliato.
o Potremmo lavorare sull’atteggiamento: pensare in modo più positivo, ma
anche in questo caso non arriveremmo alla nostra destinazione, anche se
forse non ci importerebbe perché siamo felici.
Il punto è che ci siamo persi, il problema fondamentale non ha nulla a che vedere
con comportamento e atteggiamento, ma con la cartina sbagliata.
Il primo e più importante requisito è la precisione della mappa , ciascuno di noi ha
nella propria testa moltissime mappe. Noi interpretiamo tutto quello che percepiamo
attraverso queste mappe mentali, e presumiamo che il modo in cui vediamo le cose
sia il modo in cui esse siano o in cui dovrebbero essere.
Ricordi l’esercitazione fatta in aula sulla figura con i due volti?
La conclusione è stata: due persone possono vedere la stessa cosa non trovarsi
d’accordo, eppure avere entrambe ragione.
Insegnamento
1) Quanto sia forte l’effetto del condizionamento sulle nostre modalità di
percezione, sui nostri paradigmi. Se 10 secondi hanno quel tipo di impatto sul
nostro modo di vedere le cose, che dire del condizionamento di una vita
intera? Le influenze subite nella nostra vita dalla famiglia, scuola, colleghi etc..
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hanno contribuito a formare i nostri schemi mentali, i nostri paradigmi, le
nostre MAPPE.
2) Dimostra anche che tali paradigmi, sono la fonte dei nostri atteggiamenti e
comportamenti.
3) Con quanta forza i nostri paradigmi influenzino il modo di interagire con gli
altri. Per quanto chiaramente e obiettivamente noi crediamo di vedere le cose,
ci stiamo cominciando a rendere conto che gli altri vedono le stesse cose in
modo diverso, in base al proprio punto di vista altrettanto chiaro e obiettivo.
Questo non significa che non esistono fatti, i fatti sono identici. E’ l’interpretazione di
questi fatti che si basa su esperienze precedenti.
Essere consapevoli dei nostri paradigmi, mappe o sistemi di riferimento, dal
modo in cui noi siamo stati influenzati dalla nostra esperienza.
Se ne siamo consapevoli possiamo testarli nella realtà, prestare ascolto ad altre
persone ed essere aperti alle loro percezioni, ottenendo un quadro più ampio e una
visione molto più obiettiva.
La più importante scoperta che si ottiene da questa dimostrazione è il “SALTO DEL
PARADIGMA”, l’esperienza in cui qualcuno finalmente “vede” in modo diverso la
figura.
I nostri paradigmi (corretti o scorretti) sono la fonte dei nostri atteggiamenti e
comportamenti e in definitiva dei nostri rapporti con gli altri.
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Le mappe corrette esercitano un impatto enorme sulla nostra efficacia personale ed
interpersonale, un impatto molto maggiore di qualsiasi nostro sforzo per cambiare i
nostri atteggiamenti e comportamenti.
PRINCIPI DI CRESCITA E CAMBIAMENTO: durante la nostra vita ci sono stadi
successivi di crescita e di sviluppo. Ogni passo è importante e ciascuno richiede
tempo (principio del processo nell’area della crescita fisica e fisiologica). Lo stesso è
per le emozioni, per le relazioni umane e nel carattere.
Quindi bisogna partire dai principi e rivedere i nostri paradigmi e poi impegnarsi nel
processo di sviluppo, concentrare gli sforzi verso principi che procurino risultati a
lungo termine.
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CONCLUSIONI
Attraverso questa dispensa ho voluto sottolineare che le regole del lavoro stanno
cambiando. Oggi siamo valutati e valutiamo secondo un nuovo criterio: non solo in
base a quanto siamo intelligenti, preparati ed esperti, ma anche prendendo in
considerazione in nostro modo di comportarci verso noi stessi e di trattare con gli
altri. La nuova misura di eccellenza dà per scontato il possesso di capacità
intellettuali e di conoscenze tecniche sufficienti a svolgere il nostro lavoro. Invece,
punta principalmente su qualità personali (il “PLUS”), sulle cosiddette soft skills,
come l’iniziativa e l’empatia, la flessibilità, la creatività, la capacità di adattarsi, la
proattività, ecc... Per questo parliamo di “voce”.
Solo quando saremo in grado di guardarci dentro, ma soprattutto quando vorremmo
conoscere noi stessi, i nostri bisogni, le cose per noi più importanti, saremo in grado
di esprimere la nostra voce.
Desidero sottolineare, che tutti noi siamo dotati di talento. In ognuno di noi risiedono
delle doti innate, che abbiamo fin dalla nascita, forse ancora non le conosciamo, ma
stanno lì ad aspettare che noi le scopriamo. Quindi quasi come un fiore che sboccia
in primavera, scopriamo tali doni o talenti che utilizzati appropriatamente ci portano
a condurre una vita equilibrata, coerente ed efficace.
Se seguiamo i principi sviluppiamo gradualmente autorità morale, le persone si
fidano di noi e, se le rispettiamo davvero, se ne intuiamo il valore e il potenziale e le
coinvolgiamo, possiamo arrivare a condividere una visione comune.
Solo mettendo al di sopra di ogni interesse personale il servizio dei bisogni umani si
arriverà al successo, proprio perché è questo il vero DNA del successo.
Ricorda: NOI SIAMO GLI ARTEFICI DELLA NOSTRA VITA.
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