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S.S.I.S.
VIII ciclo
INDICE SOMMARIO
Capitolo I
L’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO
1. Il fenomeno giuridico. Pag. 1
2. Gli ordinamenti giuridici o l’Ordinamento giuridico? 2
3. Il sistema delle fonti dell’ordinamento italiano. 5
4. la gerarchia delle fonti; 7
5. la Costituzione italiana. 11
Gerarchia delle fonti nell’ordinamento italiano – Schema 15
Capitolo II
LA TUTELA DEL SISTEMA DELLE FONTI
1. La Corte Costituzionale. 16
2. La questione di legittimità costituzionale. 18
2.1. In via incidentale. 18
2.2. In via principale. 21
3. Le altre funzioni della Corte Costituzionale. 22
Capitolo III
IL PARLAMENTO
1. La tripartizione dei poteri. 24
2. Composizione e funzioni del Parlamento. 25
3. Il potere legislativo. 28
3.1. Il procedimento ordinario. 29
3.2. Il procedimento aggravato. 34
Capitolo IV
IL GOVERNO
1. La funzione del Governo. 37
2. Composizione. 38
3. Formazione. 40
4. Il potere esecutivo e la funzione normativa. 42
4.1. Il Decreto Legge. 43
4.2. Il Decreto Legislativo. 44
Capitolo V
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
1. La,funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica. 46
2. Le attribuzioni. 48
3. 1 reati presidenziali. 50
Capitolo VI
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1. La funzione della Pubblica Amministrazione. 52
2. L’organizzazione della P.A. alla luce del principio di sussidiarietà. 54
I
3. L’attività amministrativa. 56
4. Il potere amministrativo. 59
5. Atti & provvedimenti amministrativi. 61
6. Il procedimento amministrativo. 63
Capitolo VII
LA LEGISLAZIONE SCOLASTICA
1. I principi costituzionali dell’istruzione. 67
2. L’istruzione e il nuovo Titolo V Cost. 69
3. L’istituto scolastico. 70
4. Il ruolo del docente.. 74
II
L’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO.
1. Il fenomeno giuridico.
1
campo di azione dei soggetti. Ed è proprio seguendo tale alveo che la scienza
del diritto si è imbattuta nell’esame del fenomeno sociologico, direttamente
influenzato dai comandi, spesso perentori e ancor più frequentemente
impositivi, predisposti dal cd. DIRITTO.
È chiaro, già a questo punto della nostra modesta e quanto mai incompleta
indagine, che lo studio delle norme in sé considerate, qualunque sia il loro
ramo di appartenenza non può proseguire (anzi non può principiare) senza
l’individuazione di una definizione di che cosa sia il diritto inteso come vero e
proprio nucleo del fenomeno giuridico.
2
superasse la sfera individuale non poteva dirsi “diritto”, stante
l’imprescindibile idea di ordine sociale immanente al concetto di diritto.
Questo perché nella teoria cd. Istituzionalista di Santi Romano, il diritto prima
di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di
rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in
cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante”.
È su tale base che la teoria in esame giungeva a formulare nei termini di
un’equazione “necessaria e assoluta”1 il rapporto tra diritto e istituzione, vista,
quest’ultima, come ente o corpo sociale in cui risulta del tutto superata la
dimensione puramente individuale dell’uomo.
Per Santi Romano l’istituzione è, dunque, organizzazione sociale ed
organizzazione sociale è ordinamento, un ordinamento sempre e
necessariamente giuridico, essendo scopo precipuo del diritto, quello
dell’organizzazione sociale, di modo che “ogni forza che sia effettivamente
sociale e venga quindi organizzata, si trasforma per ciò stesso in diritto”2.
Un limite contestato a Santi Romano è quello di aver raggiunto, sì, una
concezione in grado di trovare la matrice produttiva del diritto in seno alla
istituzione, ma di non essere riuscito a fornire con altrettanta profonda
convinzione un esaustivo significato interpretativo al concetto di istituzione.
Cosa resa ancor più evidente dalla equazione assoluta che secondo la teoria
istituzionalista lega diritto e istituzione: se diritto è istituzione e viceversa, il
rischio per coloro che si interroghino sulla genesi del fenomeno normativo, è
di cadere in un circolo vizioso fra i due termini dell’equazione, senza riuscire a
capire quale dei due sia preesistente (e dunque, produttivo dell’altro).
In aggiunta a ciò, è stato osservato che l’individuazione del diritto in seno ad
ogni istituzione comporta l’automatico riconoscimento di una pluralità di
ordinamenti giuridici all’interno di un singolo Stato, di tanti ordinamenti
quanti sono i gruppi sociali organizzati all’interno di questo.
Questa considerazione (che ha consegnato alla storia della scienza del diritto la
teoria di Santo Romano come teoria pluralista oltre che come istituzionalista),
ha evidenziato un ulteriore limite: se diritto è ogni corpo sociale organizzato,
1
Cfr. T. Martines, Diritto Costituzionale, Milano, 1994, p. 18 e ss.
2
Sono parole di Santi Romano in L’ordinamento giuridico, Firenze, 1951, p.25 e ss.
3
si deve definire ordinamento e dunque diritto anche un’organizzazione
malavitosa, presentando questa i caratteri richiesti ma non definiti dalla teoria
di Santi Romano?
A superare i limiti della comunque evoluta concezione istituzionalista,
si è sviluppata l’opposta teoria cd. pura del diritto (o normativa), che,
attraverso l’opera interpretativa di Hans Kelsen, vede il diritto esaurirsi nelle
norme stesse, viste come comandi, come giudizi ipotetici, come schemi
qualificativi.
Si tratta indubbiamente di una teoria orientata a indagare sull’oggetto del
diritto e non su che cosa questo sia o debba essere.
Per Kelsen il diritto è ordinamento normativo del comportamento umano, un
sistema di norme che regolano il comportamento degli individui,
qualificazione giuridica di fatti esteriori.
Secondo tale teoria, il diritto, concepito, dunque, come insieme di comandi e
di qualificazioni, appare comunque riconducibile ad unità, vista come insieme
di norme che trovano il proprio fattore catalizzante in un comune fondamento
da cui dedurre la validità ma, soprattutto, l’esistenza stessa di ogni norma
giuridica. Kelsen immagina una Norma fondamentale, un archetipo primigenio
da cui far discendere ed, al tempo stesso, in cui far confluire tutte le norme che
costituiscono il diritto, l’ordinamento.
La razionalità del pensiero Kelseniano, spinge a configurare una collocazione
sistematica interna all’ordinamento stesso, ove le norme giuridiche si trovano
organizzate secondo il medesimo rapporto che lega norme “regolanti e norme
regolate, da collocare, quest’ultime al di sotto delle prime, in modo che una
norma di rango superiore costituisca il fondamento della validità della norma
a quella sottoposta”3. Veniva così definito un vero e proprio SISTEMA
GERARCHICO delle fonti del diritto, ovvero di quei fenomeni elaborativi e
creativi del diritto e dell’ordinamento giuridico che sono le norme giuridiche.
Effetto di tale teoria è quello di superare il pluralismo della precedente visione
di Santi Romano, per accogliere una più realistica concezione “monistica”
dell’ordinamento giuridico, da intendere come insieme delle norme giuridiche
3
V. Kelsen, la dottrina pura del diritto, (trad. it.), Torino, 1966, p. 9; per l’evoluzione del
pensiero Kelseniano v. Allgemeine Theorie der Normen, Wien 1979.
4
in vigore e dunque come un corpus unico e singolo, non essendo concepibile,
all’interno di un unico stato, la presenza di più norme fondamentali da cui far
discendere più ordinamenti giuridici.
È sulla scorta di tale precisazione che si è giunti al perfezionamento della
teoria pura del diritto per opera di Mortati, il cui merito rimarrà quello di aver
operato una mediazione tra le due teorie, nella necessità di ricollegare il
fenomeno giuridico ad una concreta realtà sociale da cui questo non potrà mai
dirsi avulso. Di qui l’ultimo passaggio interpretativo del fenomeno giuridico
che, sulla scorta ed in applicazione della teoria normativa, vede nella norma
fondamentale l’istituzione, intesa come “fondamentale legge di vita, di cui
nessun gruppo può fare a meno, perché è essa che, rimanendo costante nel
tempo, presiede al suo svolgimento e lo caratterizza”4. Una norma
fondamentale che, nel pensiero di Mortati, è rappresentata dalla Costituzione,
“base dell’ordinamento in quanto identifica il fine fondamentale del gruppo
sociale e si pone come forza capace di assicurare l’osservanza e di garantire
il mantenimento delle regole essenziali al raggiungimento di tale fine”5.
4
V. Mortati, Costituzione (Dottrine generali), in Enc. del dir., XI, p. 152.
5
Cfr. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, ed. rielaborata ed aggiornata, Padova,
1991, p. 9.
5
Riflettendo su quanto abbiamo appena visto essere il fondamento e le
conclusioni della teoria in parola, possiamo rispondere che l’ordinamento
italiano è L’INSIEME DELLE NORME GIURIDICHE ATTUALMENTE VIGENTI NEL
NOSTRO PAESE.
TEMPO.
6
Ciò posto, possiamo addentrarci nello studio, sia pure sommario,
dell’ordinamento giuridico italiano, di quel corpus di norme che costituisce e
produce il diritto in Italia.
Occorre, in questo senso, evidenziare come le norme giuridiche non siano mai
poste da una sola ed unica fonte, essendo possibile affiancare alla norma base
elementare degli attuali ordinamenti statali individuata nella LEGGE,
numerose altre norme, derivanti dai decreti legge, dai decreti legislativi, dalle
leggi regionali ecc.
Nella loro variegata complessità tutte le norme appena elencate assurgono
pacificamente al ruolo di fonte, ossia di fenomeno produttivo di diritto.
Ciò che, tuttavia, appare ormai imprescindibile, a questo punto della nostra
analisi, è l’individuazione di un valido e stabile criterio che permetta di
assegnare una collocazione sistematica ad ogni fonte che componga il nostro
ordinamento.
In tale ottica, il criterio comunemente assunto fa riferimento alla forza di ogni
fonte come elemento di collocazione dell’una rispetto alle altre.
Per forza di una norma viene intesa “la capacità di innovare rispetto alle
norme preesistenti, modificandole o abrogandole, o di resistere alle
innovazioni che venissero introdotte da norme non dotate della stessa forza” 6.
In applicazione di tale concetto si è, così, raggiunta la definizione di una scala
gerarchica lungo la quale è possibile collocare i singoli tipi normativi, le
singole fonti del diritto, sulla base della dipendenza di una norma dall’altra.
In pratica, quando una norma trarrà il proprio contenuto da un’altra norma,
quest’ultima sarà posta su un gradino superiore rispetto alla prima. Per lo
stesso principio, la fonte sottoordinata non potrà modificare la norma ad essa
sovraordinata dovendone, anzi, rispettare ed applicare il contenuto e, dunque,
anche la relativa forza modificatrice.
La concreta inderogabilità applicativa di tale schema trova conferma anche nel
caso in cui il criterio in esame non venga rispettato, magari, perché una norma
abbia violato il dettato di una norma ad essa superiore, ponendovisi in
contrasto. Di fronte ad una simile ipotesi, l’ordinamento giuridico, a tutela
della sua unitarietà, ha previsto il meccanismo della illegittimità della norma
6
Cfr. Falcon, Lineamenti di diritto pubblico, Padova, 2003, p. 34.
7
di rango inferiore che contrasti con una norma superiore. Illegittimità che
comporta la non applicabilità della norma contrastante con lo stesso
ordinamento in quanto violativa del criterio basilare di collocazione gerarchica
delle norme di cui questo si compone. La non applicabilità della norma
illegittima significa garantire la prevalenza della norma sovraordinata su
quella inferiore avversa che dovrà essere modificata in senso compatibile con
il resto del sistema o, in estrema ipotesi, espunta dall’ordinamento.
8
integrano il testo di una norma, verrebbe negato dall’inesistenza di quella
stessa norma che ne rappresenta il fine ultimo. È’ dunque per tale empirica ma
innegabile considerazione che le leggi costituzionali e di revisione
costituzionali, pur potendo modificare il contenuto della Costituzione, non
vengono poste sullo stesso gradino gerarchico, ma su un piano
immediatamente inferiore a questa.
Una fonte di produzione del diritto che si colloca su un piano del tutto
peculiare, sia per l’origine che per le caratteristiche che le sono proprie, è la
NORMA COMUNITARIA AUTOAPPLICATIVA.
9
Il fatto di provenire da una dimensione sopranazionale, di trovare una
applicazione diretta e preferenziale (e dunque anche in deroga alle norme
vigenti all’interno dell’ordinamento), permette di collocare tali norme
autoapplicative ad un gradino secondo solamente alle norme di rango
costituzionale, nella soglia cd. SOVRAPRIMARIA.
Scendendo ulteriormente, abbandonato il gruppo delle “norme di rango
costituzionale” ed attraversato il gradino sovraprimario, giungiamo alle norme
di “rango primario”, categoria rappresentata essenzialmente dalla legge
ordinaria. Con tale espressione si suole identificare la legge del Parlamento,
dell’organo che nel nostro Paese è titolare del potere legislativo. Ed in questo
sta la ordinarietà di questa fonte che rappresenta l’elemento tipico, l’unità di
misura, del nostro ordinamento. Accanto a questo elemento di ordinarietà, ve
ne è, tuttavia, un altro, ancor più rilevante, rappresentato dalla necessità di
distinguere tali leggi del Parlamento da quelle, già esaminate, deputate ad
incidere sul testo della Costituzione, le quali, provenendo sempre e
ovviamente dall’organo titolare del potere legislativo, debbono essere
chiaramente distinte, nella loro eccezionalità, dalle leggi comuni, dalle leggi,
appunto, ordinarie.
Proseguendo in questo “dantesco” cammino lungo i gradini del nostro
ordinamento, ci troviamo ora ad esaminare un caso particolare, rappresentato
da norme che non rientrano propriamente nel novero delle leggi ordinarie in
quanto non provengono dal Parlamento ma dal Governo. Un’eccezione che
trova giustificazione o nella ricorrenza di situazioni gravi ed urgenti da
disciplinare o nell’emanazione, da parte del Parlamento, di una legge-delega
volta a autorizzare il Governo (che è titolare del potere esecutivo e non
legislativo) ad emanare atti desinati ad avere la medesima forza della legge.
Tali atti, nelle rispettive ipotesi delineate sono i DECRETI LEGGE ei DECRETI
LEGISLATIVI.
La forza di questi atti, detti, appunto, anche “atti aventi forza di legge” è pari a
quella della legge ordinaria, ma solo in presenza dei presupposti sopra
esaminati e comunque ricollegabili al potere del Parlamento, da cui dipende,
dunque, la legittima esistenza di queste norme. Tale aspetto ha spinto i giuristi
a collocare tali fonti su un gradino appena inferiore a quello della legge
10
ordinaria, per collocarli nel grado di fonte sub-primaria del nostro
ordinamento.
Del pari, un’altra fonte sub-primaria, questa volta autonoma è
rappresentata dalle leggi regionali. Queste norme venivano collocate a livello
secondario, ma, a partire dal 2001, con l’operata riforma del Titolo V della
Costituzione, hanno subito una riqualificazione che ha imposto l’introduzione
di questo nuovo gradino alla scala gerarchica.
Questo perché con la riforma costituzionale citata, il ruolo delle Regioni e il
potere legislativo di cui sono titolari è stato sviluppato in applicazione del
principio di sussidiarietà, potenziando l’ente più vicino al cittadino, con il
risultato di conferire alle Regioni un potere normativo pari a quello statale
nell’ambito, però, delle materie di competenza esclusiva ed entro i confini del
territorio regionale.
Tali limiti sono i responsabili di una qualificazione sub-primaria delle norme
regionali rispetto a quelle statali, che, tuttavia, entro il limite di competenza e
territoriale, sono comunque destinate a cedere il passo di fronte ad una diversa
disposizione normativa regionale. Di qui l’ulteriore elemento dell’autonomia,
in quanto frutto dell’autonomo potere legislativo fornito alle regioni dalla
nuova stesura dell’art. 117 Cost., che si dispiega verso tutte le materie non
riservate allo Stato come ente centrale.
Ancora in basso incontriamo le fonti di rango secondario, rappresentate
essenzialmente dai regolamenti, norme il cui potere è delimitato spesso alla
disciplina di organi dell’amministrazione pubblica, per fare un esempio, e che,
pertanto, si trovano sottoposti a tutte le norme sin qui esaminate.
Ancora inferiori risultano, da ultimo, quelle fonti di produzione del
diritto che vengono definite fonti-fatto, per evidenziarne la stretta connessione
con fattori meramente fattuali, anziché formali di produzione istituzionale.
Si tratta essenzialmente della cd. CONSUETUDINE, fonte che deriva dalla
coscienza che un gruppo sociale avverte, di un comportamento come
imprescindibilmente dovuto, pur senza che nessuna norma abbia statuito
alcunché in tal senso. Siamo indubbiamente alla soglia minima del fenomeno
di produzione del diritto.
11
5. La Costituzione Italiana.
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del nostro ordinamento che è, senza dubbio, anche l’ultima norma che possa
ragionevolmente essere abbandonata al rischio di rielaborazioni conseguenti
ad ogni singola applicazione ai diversi casi concreti.
Il carattere votato della Costituzione italiana, pone la nostra Carta in
contrapposizione alle cd. costituzioni ottriate, ovvero a quelle costituzioni che
venivano “concesse” dal sovrano dalla cui volontà, in tal modo, veniva a
dipendere il riconoscimento dei diritti dei sudditi.
L’evoluzione dello stato moderno, tuttavia, ha chiaramente relegato tale tipo di
costituzioni sul piano meramente storiografico dello studio del diritto.
Occorre, tuttavia, precisare in quale senso la nostra costituzione possa dirsi
votata, stante che il popolo Italiano non ha, in realtà, mai partecipato, tramite il
proprio voto, alla stesura del testo della Costituzione.
In effetti, il carattere votato deriva dal fatto che il popolo italiano ha espresso
la propria opinione elettorale nella scelta dei componenti l’assemblea che ha
avuto il compito di redigere il testo della Costituzione. È attraverso il voto
popolare, espresso a suffragio universale, diretto e segreto, che, infatti, è stata
eletta l’Assemblea Costituente.
L’opera dei 75 componenti l’Assemblea, ha prodotto una costituzione
che viene definita come lunga, connotazione che certo non dipende dal mero
numero di articoli di cui si essa si compone ma che fa, invece, riferimento al
contenuto stesso della norma fondamentale. Questa, in effetti, è costituita da
due grossi corpi. Un primo, deputato a riconoscere e garantire i principi
fondamentali posti alla base dello Stato unitamente ai diritti e alle libertà
fondamentali dei cittadini, seguito da un secondo corpo in cui viene
organizzata e disciplinata la struttura funzionale dello Stato, attraverso
l’individuazione e la definizione degli organi di cui questo si compone e per
mezzo dei quali opera. Una simile articolazione distingue la nostra
costituzione da altre carte fondamentali in cui è riscontrabile magari solo la
prima parte e che, per tal via vengono definite corte (come il Bill of Rights).
Ma l’elemento di più spiccata connotazione è forse rappresentato dalla
natura rigida della Costituzione.
La rigidità in questione indica la scelta operata dai Costituenti di creare un
sistema normativo in cui, posta al vertice la Costituzione, si è cercato di
13
rendere quanto mai stabile il contenuto della norma fondamentale. Ciò per due
ordini di ragioni: per una logica necessità di coerenza interna del sistema
normativo (che ad ogni modifica facilmente operata alla Costituzione avrebbe
potuto soffrire una devastante riscrittura di tutte le norme a questa
sottordinate) e, in secondo luogo, per tutelare il delicato e fondamentale
contenuto della Costituzione (si pensi, in particolare alla prima parte) dal
rischio di rimaneggiamenti poco meditati se non addirittura dolosamente
operati.
Ciò ha portato l’Assemblea a prevedere un rigido e complesso meccanismo
come unica via per operare modifiche al testo della Costituzione: il
procedimento aggravato che viene imposto al Parlamento per la emanazione di
quelle uniche norme che possono vantare una simile forza innovatrice, le leggi
costituzionali e le leggi di revisione costituzionale.
Il già ristretto margine di innovazione del testo costituzionale è poi
ulteriormente delimitato dalla possibilità di sottoporre a modifica solo alcune
norme della Costituzione, per effetto di limiti espressi (come nel caso dell’art.
139 Cost., che esplicitamente preclude la sottoposizione a revisione della
forma repubblicana democratica), oppure di tutti i limiti impliciti che
impediscono la modificabilità di quei principi fondamentali che ormai sono
divenuti immanenti ad ogni moderno stato liberale-democratico.
Pur tuttavia, è inevitabile sottolineare la necessità di prevedere la possibilità
per la Costituzione stessa di vedere aggiornato il proprio contenuto alle mutate
esigenze dello Stato e dei cittadini, specie in considerazione della tendenziale
stabilità delle norme costituzionali, la cui vita è destinata a snodarsi lungo
svariati lustri.
È in ossequio a tale esigenza che la Costituzione può essere definita aperta (o
flessibile), un carattere che, ictu oculi, potrebbe apparire in contrasto con
l’appena esaminata connotazione rigida ma che, ad una più attenta lettura, si
dimostra, anzi, caratteristica complanare e presupposta a quella appena
esaminata.
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Gerarchia delle fonti nell’ordinamento
Italiano
Costituzione
Leggi Costituzionali / Leggi di Revisione Costituzionale
Regolamenti
Usi e consuetudini
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LA TUTELA DEL SISTEMA DELLE FONTI.
1. La Corte Costituzionale.
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norma da cui questo discende. Tale organo è, appunto, la Corte Costituzionale,
l’organo che, con un’espressione quanto mai atecnica potremmo definire “il
giudice delle leggi”.
La Corte si compone di 15 giudici costituzionali, scelti fra: magistrati di
giurisdizioni superiori (Cassazione, Consiglio di Stato ecc.), professori
ordinari di discipline giuridiche e tra avvocati con almeno 20 anni di
professione. Ad operare la scelta all’interno dei contesti elencati è previsto che
provvedano vari organi, ciascuno per un quota uniforme dei componenti. In
questo modo, un quinto dei giudici costituzionali è nominato dal Presidente
della Repubblica, un quinto dal Parlamento riunito in seduta comune (Camera
e Senato si riuniscono congiuntamente) ed il rimanente quinto dalle supreme
magistrature ordinarie e amministrative (dei 5 componenti 3 sono scelti dalla
Corte di Cassazione, 1 dal Consiglio di Stato e 1 dalla Corte dei Conti).
I componenti della Corte Costituzionale durano in carica 9 anni e non sono
rieleggibili in quanto si è considerato che la prospettiva della prosecuzione del
mandato avrebbe potuto incidere assai negativamente sulla imprescindibile
serenità di giudizio che deve guidare i giudici costituzionali.
Diversa è, invece, la posizione del Presidente, eletto dalla stessa Corte
Costituzionale per tre anni, che gode della rieleggibilità salvo, in ogni caso, il
venir meno della carica alla scadenza dei nove anni.
Lo status di membro della Corte Costituzionale si caratterizza, poi, per la
titolarità di immunità analoghe a quelle parlamentari, che garantiscono
l’impossibilità di perquisizioni personali, intercettazioni e applicazione di
provvedimenti restrittivi della libertà personale senza preventiva
autorizzazione dell’organo di appartenenza.
In particolare, giova inoltre ricordare come, al fine di garantirne la libera
indipendenza di opinione, i giudici costituzionali non siano sindacabili né
possano essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati
nell’esercizio delle loro funzioni13.
La Corte Costituzionale svolge tali funzioni con la partecipazione del numero
minimo di 11 giudici, che si riuniscono in udienze pubbliche, cui segue la
deliberazione in camera di consiglio adottata alla maggioranza dei voti.
13
V. L. Cost. 11 marzo 1953, n. 1, art. 5.
17
2. La questione di legittimità costituzionale.
18
modo, viene espunta dall’ordinamento, con conseguenze estese a tutti i
destinatari di quella norma.
Per tale ragione e, in particolare, per la delicatezza del giudizio e dei suoi
effetti, il nostro ordinamento prevede, dunque, la possibilità per il cittadino di
ottenere un accertamento sulla legittimità di una norma, ma unicamente in
forma mediata, indiretta.
In primo luogo, infatti, la proposizione della questione di legittimità
costituzionale di una norma viene a dipendere dalla instaurazione di una
controversia innanzi ad un magistrato, sia esso civile, penale, amministrativo,
ecc.
Solo nel contesto di una causa in corso, infatti, il cittadino, che sia parte
processuale di quel processo, può sollevare la questione, sostenendo la
violazione da parte di una determinata norma di una o più disposizioni della
Costituzione.
In primo luogo, occorre osservare che tale questione di legittimità vede
interlocutore della parte che la solleva non certo la Corte Costituzionale,
quanto, piuttosto, il giudice che dovrà decidere la controversia nel cui ambito è
nata la questione stessa.
La ragione di questo passaggio risiede nella necessità di alcune operazioni
preliminari che il giudice chiamato ad applicare la norma sospettata di
illegittimità, deve compiere in conseguenza dell’avvenuta formulazione della
questione di legittimità costituzionale.
Tali operazioni sono rappresentate dal preliminare giudizio di non manifesta
infondatezza della questione, che dovrà, pertanto, apparire fondata su
plausibili e documentati motivi di diritto, in mancanza dei quali la
proposizione della questione medesima presso la Corte risulterebbe destituita
di ogni interesse e valore.
Altra operazione che il giudice dovrà compiere è quella finalizzata ad
accertare la rilevanza della questione rispetto ai fatti di causa.
Con tale espressione si intende che il giudice, chiamato a risolvere la
controversia dovrà accertare di non avere la possibilità di applicare, con
risultati equipollenti, altra norma rispetto a quella tacciata di illegittimità
costituzionale. Ove si aprisse tale prospettiva, infatti, ragioni di economia
19
istituzionale e di tutela da possibili strumentalizzazioni che potrebbero
coinvolgere la funzione nomofilattica, instraderebbero il giudice stesso verso
la preferibile applicazione di una norma diversa rispetto all’attivazione di un
delicato e complesso sindacato avente ad oggetto norme dell’ordinamento.
Ove, comunque, le due descritte valutazioni prodromiche dovessero
confermare al giudice la sommaria fondatezza della questione sollevata e
l’impossibilità di ricorrere a diversa disposizione di legge, allora,
indubbiamente, sorgerebbe per quel giudicante l’impossibilità di statuire sulla
controversia incardinata presso di lui dalle parti contrapposte.
All’esito di simili verifiche il giudice, pertanto, non potrà far altro che
sospendere il proprio giudizio, inesorabilmente arrestato dall’impossibilità di
applicare una norma ictu oculi in contrasto con la Costituzione. Sospeso,
dunque, il giudizio, il giudice redigerà una relazione attestante le valutazioni
compiute (ordinanza di remissione), con cui accompagnerà la trasmissione del
fascicolo di causa alla Corte Costituzionale perché svolga il proprio sindacato
di legittimità costituzionale. È per questa funzione di “mittente- proponente”
della questione di legittimità che il giudice viene definito come giudice a quo,
giudice dal quale proviene l’impulso che incardina presso la Corte
Costituzionale il giudizio sulla legittimità costituzionale di una norma.
Un aspetto peculiare che riguarda il sindacato di legittimità effettuato
dalla Corte è quello relativo agli strumenti attraverso i quali si pronuncia il
giudice delle leggi: le sentenze.
Queste possono essere innanzitutto di due basilari tipi, sentenze di
accoglimento e sentenze di rigetto, a seconda, rispettivamente, che la
questione venga accolta, con relativa declaratoria di illegittimità e conseguente
caducazione, oppure, che la questione venga, invece, rigettata, con declaratoria
di piena legittimità della norma sottoposta al giudizio della Corte
Costituzionale.
Di particolare interesse sono le sentenze di accoglimento, le quali si
distinguono a loro volta in sentenze interpretative e in sentenze additive.
Le prime sono sentenze con cui la Corte, accogliendo la q.l.c., chiarisce quale
sia l’interpretazione da seguire per superare il contrasto normativo.
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In pratica, in questa ipotesi il testo della norma illegittima può anche rimanere
immutato per effetto dell’interpretazione che a questo viene data. La
particolare valenza di questa tecnica è quella di scongiurare il vuoto normativo
conseguente alla mera declaratoria di illegittimità che determinando
l’espunsione della norma dall’ordinamento, comporta la necessità
dell’intervento del legislatore al fine di colmare lo spazio lasciato, per tal via,
scoperto all’interno dell’ordinamento.
Diverso è il caso delle sentenze additive, con cui la Corte si pronuncia
affermando un particolare tipo di illegittimità, questa volta conseguente ad una
mancanza del testo di legge. Mancanza che viene colmata dalla sentenza
additiva estendendo il contenuto della disposizione normativa fino a
ricomprendere ipotesi di per sé non previste dalla quella norma.
In particolare, il fenomeno estensivo della disciplina normativa oggetto di tali
sentenze ha permesso di evidenziare una efficacia produttiva di diritto di tali
pronunzie in quanto, a ben vedere, la Corte in effetti, aggiungendo alla legge
sottoposta al suo vaglio disposizioni in origine da questa non previste,
determina la nascita di nuove norme, di nuovi comandi, in pratica produce
diritto.
In coerenza con tale considerazione, le sentenze additive della Corte
costituzionale vengono collocate all’interno della gerarchia delle fonti, sul
piano delle norme di rango primario, essendo perfettamente in grado di
modificare (e financo di abrogare) le norme collocate su tale gradino.
21
Per tal via, occorre indagare quali siano i soggetti autorizzati ad adire in via
principale la Corte Costituzionale.
Questi possono essere lo Stato (il Governo) nei confronti delle Regioni, le
Regioni nei confronti dello Stato oppure più regioni tra di loro.
Tra questi soggetti, si incardina così un giudizio, pendente dinnanzi alla Corte,
che si atteggia in modo analogo ai giudizi che ordinariamente intercorrono tra
i cittadini. La particolarità, oltre che dalla natura dei soggetti coinvolti, è data
dall’oggetto del contendere che è rappresentato, anche in questo caso, da una
norma, di cui si sostiene l’illegittimità costituzionale perché emanata da
soggetto diverso da quello che si assume titolare del relativo potere normativo.
Così, ad esempio, il Governo impugnerà presso la Corte Costituzionale una
norma regionale emanata nell’ambito di una determinata materia, lamentando
la sottrazione, da parte di quella regione, del potere di legiferare sul quella
stessa materia.
Occorre osservare come questo tipo di sindacato abbia subito, negli ultimi
anni, un notevole impulso, dovuto alla riforma del Titolo V della Costituzione,
operato con la L. Cost. 3/2001 che ha ridefinito il rapporto Stato/regioni,
assegnando un ampio e non delimitato potere legislativo autonomo in capo alle
Regioni, con conseguente travaso di competenze dall’ambito statale a quello
regionale. Aspetto che ha lasciato un notevole margine di incertezza circa la
chiara e univoca collocabilità di alcuni comparti nell’ambito di competenza
dello Stato anziché delle regioni, a tutto vantaggio di tale tipo di sindacato
costituzionale.
22
I primi si verificano tra Stato e Regioni e tra Regioni, quando entrambi i
soggetti rivendicano un determinato potere, oppure quando vengano lamentato
dall’uno il cattivo esercizio del potere delle altre o viceversa. Come intuibile,
nella prima ipotesi ci troviamo di fronte ad una situazione analoga a quella
trattata a proposito del giudizio in via principale. In effetti, quel tipo di
giudizio può essere visto come un’ipotesi specifica di conflitto di attribuzione,
dal momento che l’oggetto del conflitto di attribuzione (l’attribuzione di un
potere ad un ente anziché all’altro) ben può coinvolgere il potere legislativo,
facendo confluire in un unico giudizio le due ipotesi.
Altra funzione precipua della Corte Costituzionale è il giudizio cui viene
sottoposto il Presidente della Repubblica quando messo in stato di accusa dal
Parlamento in seduta comune per alto tradimento o per attentato alla
Costituzione, gli unici reati presidenziali.
In questo caso, la Corte svolge funzioni giudicanti assimilabili a quelle di un
giudice penale, al quale si sostituisce in considerazione della delicatezza
dell’ipotesi e della connotazione dell’”imputato” che, venendo meno agli
obblighi assunti verso la Costituzione e il Paese ha, di fatto, violato la norma
fondamentale del nostro ordinamento. Ma l’esame verrà ripreso trattando della
figura del Presidente della Repubblica.
23
IL PARLAMENTO
24
Questi profili, tipicamente post-rivoluzionari ma essenziali nella loro
affermazione di principio, hanno avuto una evidente conferma della loro
imprescindibile attualità all’esito della seconda guerra mondiale, quando ci si è
universalmente confrontati con i fenomeni assolutistici-dittatoriali di quel
periodo storico. In tale ottica, l’Assemblea Costituente ha avvertito la
imprescindibile esigenza di garantire il nostro Paese dal rischio di poter
nuovamente essere vittima di gestioni accentrate ed incontrollate dei poteri
propri di uno Stato.
In applicazione, dunque, del principio di tripartizione dei poteri, il dettato della
Costituzione ha predisposto una struttura composta da tre organi fondamentali,
il PARLAMENTO, il Governo e la Magistratura, rispettivamente titolari del
potere LEGISLATIVO, del potere Esecutivo e del potere Giudiziario, i quali
vengono esercitati in modo coerente ma del tutto autonomo essendo tali organi
posti su un piano di assoluta e reciproca indipendenza.
Ove, per ipotesi, non dovesse essere rispettata tale distribuzione del potere, si
verificherebbe un lesione del principio liberale-democratico in parola, che si
concretizzerebbe in un conflitto di attribuzioni del quale si occuperebbe, come
visto, la Corte Costituzionale in qualità di organo a sé stante votato a garantire
il rispetto della Costituzione.
Occorre, comunque, evidenziare la predisposizione di forme di collegamento
tra i singoli organi (quali il rapporto di fiducia che lega Governo e Parlamento)
finalizzati a ridurre ai minimi termini il rischio del verificarsi di simili
situazioni.
25
Prima di esaminare il procedimento attraverso il quale vengono prodotte le
“leggi”, occorre soffermarsi su quale sia ragion d’essere di tale organo, la sua
composizione e le funzioni che gli sono proprie.
Il Parlamento ha come precipua ragion d’essere quella di rappresentare il
elezioni. Con l’esercizio del diritto di voto, giova ricordarlo, il popolo esercita
comma: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei
che li ha eletti, così che tutto ciò che viene posto in essere dal Parlamento, in
cittadino elegge i componenti del Parlamento e questi, in nome e per conto del
cittadini, si può osservare che, sia pure in forma mediata, sia lo stesso popolo a
26
Ed in ciò, forse, risiede l’elemento su cui maggiormente si fonda il carattere
democratico del nostro Paese, la cui forma viene, per quanto esposto, definita,
evidenziando quale sia l’organo direttamente eletto dal popolo quale proprio
rappresentante.
Parlamento viene da questo esercitato in nome e per conto del popolo sovrano,
Senato, distinte per numero ed età dei componenti (630 Deputati di età non
ciascuna camera significa che, posta la chiara equivalenza del potere e delle
legge o qualunque altro atto rientrante nei poteri parlamentari) che appartiene
al Parlamento e non già ad una singola camera, le cui deliberazioni sono così
due ali del Parlamento, non avendo gli stessi poteri, si trovano collocate
27
gerarchicamente l’una al di sotto dell’altra in un rapporto di controllato-
controllore.
con altri organi che, come nel caso del Governo, pur agendo in modo
comunque sottoposto ad una sia pur blanda forma di controllo da parte del
3. Il potere legislativo.
produttiva di diritto, nel sistema delle fonti, definendo la legge, ossia la norma
28
In quest’ottica, dobbiamo, comunque, precisare come oltre alla legge
revisione costituzionale.
anche sul piano delle modalità dell’esercizio del potere legislativo, la cui
revisione costituzionale.
L’iter di formazione della legge viene definito come una “serie ordinata di
formazione della legge, si deve precisare come l’intero iter si compia per opera
ultima della norma può essere definita come il prodotto dell’attività di più
Parlamento.
15
L’espressione è di Falcon, Op. cit., p. 264.
29
Detto questo, la prima fase che incontra l’iter di formazione della legge è
allegate alla bozza del testo di legge, oppure il Governo, 5 Consigli Regionali,
Questo per quanto riguarda l’iniziativa cd. esterna che, ovviamente, si affianca
alla naturale iniziativa interna al Parlamento, che può infatti attivarsi anche
Tale testo approvato dalla commissione viene poi discusso in via generale in
aula, per essere poi discusso ed eventualmente approvato articolo per articolo.
30
Successivamente si passa al voto finale che ha lo scopo di verificare che quella
formulazione del testo di legge goda ancora del favore della maggioranza
dell’assemblea.
Terminata questa ulteriore fase, il testo passa poi all’altra Camera, presso la
Ove anche la seconda Camera approvi lo stesso identico testo, la futura legge
passerà alla fase della promulgazione. Nel diverso caso in cui la seconda
Camera dovesse dissentire sulla formulazione del testo approvato dalla prima
promulgazione.
La fase di approvazione, tuttavia, può seguire altre vie ed essere così realizzata
il più possibile il cd. fenomeno della “navetta” che si verifica quando le due
31
tuttavia, non possono essere adottate ove oggetto di approvazione siano testi di
Ad ogni buon conto, terminata l’approvazione del testo di legge da parte delle
quella norma che sta per entrare in vigore. Controllo da riferire alla
Costituzione e che vede impegnata non già la Corte Costituzionale 16, bensì il
forza del suo ruolo di garante super partes dei valori costituzionali.
potrà rifiutare la firma, apponendo il cd. veto sospensivo, il cui effetto è quello
promulgazione.
Se, tuttavia, pur di fronte al veto sospensivo, le Camere dovessero portare alla
motivo è rappresentato dal già trattato ruolo preminente del potere legislativo e
16
La scelta di sottrarre al potere della Corte tale tipo di sindacato è stata motivata dalla
necessità defatigatoria di evitare che la Corte medesima si debba pronunciare su tutte le leggi
da promulgare, a tutto vantaggio di una più efficace tutela del sistema nei confronti di norme
già in vigore e quindi pienamente efficaci.
32
dell’organo che ne è titolare il quale, se il Presidente avesse avuto il potere di
opporre il veto sospensivo ad oltranza, sarebbe, di fatto, finito sotto l’egida del
potere presidenziale con notevoli rischi per l’assetto democratico del Paese.
pubblicazione del testo di legge nella Gazzetta Ufficiale. Tale fase, detta anche
il contenuto della nuova legge che sta per entrare in vigore, visto che con la
pubblicazione la legge non dispiega ancora i suoi effetti cogenti, cosa che
di prendere visione e coscienza del testo della legge, prima che questo acquisti
dettato normativo potrà essere sanzionato a prescindere dal fatto di non aver
avuto concreta conoscenza di quella nuova norma, dal momento che, terminata
33
3.2. Il procedimento aggravato.
caratterizza per una maggiore complessità delle fasi e delle procedure che il
testo da parte di una Camera, questo verrà trasmesso alla seconda Camera per
poi essere di nuovo ritrasmesso alla prima che lo invierà nuovamente alla
34
Particolarmente rilevante è poi l’ulteriore elemento di aggravamento del
assoluta delle singole Camere (il voto della maggioranza non già dei presenti,
superiore ai 2/3 della singola Camera, la norma passerà nelle mani del
Nel diverso caso in cui non venga raggiunta la citata maggioranza qualificata,
strumento di democrazia diretta (al pari del referendum abrogativo) nel senso
determinate modifiche.
35
discussione possano non essere condivise da una base sufficientemente vasta
del popolo. È naturale, tuttavia, che la modifica del testo della Costituzione
non può prescindere, stante gli effetti che vi si ricollegano, dalla condivisione
stato di incertezza, deve essere presentata entro 3 mesi dalla pubblicazione del
testo che viene disposta prima della promulgazione e senza che questa entri in
Uffciale.
36
IL GOVERNO.
37
2. Composizione.
38
Alla luce di ciò, la preminenza della figura del Presidente si sostanzia,
piuttosto, in un potere di rappresentanza del Governo oltre, naturalmente, a
poteri di gestione dell’attività deliberativa di questo, come la convocazione del
Consiglio dei ministri e la fissazione dell’ordine del giorno, mentre, per il
rimanente “l’autorità di cui gode e la sua capacità di imprimere una effettiva
unità di indirizzo politico governativo dipendono piuttosto dalle sue doti
personali e dalle circostanze politiche in cui operi”20.
Per quanto attiene, invece, al ruolo e ai poteri del Consiglio dei
ministri, occorre precisare che la Costituzione non fornisce indicazioni
esplicite in tal senso, tanto che la funzione di determinazione dell’indirizzo
politico e, soprattutto, amministrativo si trova sancita in una legge ordinaria, la
L. 400 del 1988 cui viene demandata la massima parte della disciplina del
funzionamento dell’organo esecutivo.
Nel contesto di tale potere fondamentale il Consiglio deve essere visto come
l’organo assolutamente più elevato della pubblica amministrazione, le cui
funzioni sono da inquadrare come esplicazione concreta e periferica
dell’applicazione delle leggi e, con ciò, del potere esecutivo.
Ogni singola amministrazione, infatti, ha come vertice di potere e di
organizzazione il ministro nella sua qualità di titolare del ministero
competente per la singola materia di attività delle varie amministrazioni, che
sono, dunque, organizzate per ministeri (o dicasteri).
Il fatto che il vertice venga individuato nei singoli ministri anziché in capo al
Consiglio, ci permette di evidenziare la assenza di qualsivoglia gerarchia tra
questo e i ministri che lo compongono. La Costituzione stessa, infatti, precisa
come i ministri siano responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei
Ministri e individualmente per gli atti dei loro dicasteri (art. 95, comma 2
Cost.).
Da ultimo, nella complessa struttura governativa, fatta di numerosi
organi (comitati, sottosegretariati, commissariati) che, per ragioni di
concretezza espositiva siamo costretti a tralasciare, meritano, inoltre,
menzione i cd. ministri senza portafoglio che si distinguono dai ministri a tutti
gli effetti per il fatto di non essere a capo di un ministero. I ministri senza
20
L’espressione è di Falcon, op. cit., p. 225.
39
portafoglio sono pertanto nominati presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri, relativamente ad incarichi particolari, specificatamente individuati e
che, pertanto, configurano tali soggetti come una figura per così dire
eventuale, sia per presenza che per numero.
3. Formazione.
Il legame che intercorre tra Parlamento e Governo, come abbiamo già detto,
riveste un ruolo imprescindibile per l’esistenza e il funzionamento
dell’Esecutivo.
A ciò, senza dubbio, si ricollega la procedura prevista dalla Costituzione per la
formazione del Governo, nell’ambito della quale, infatti, svolge un ruolo
decisivo il Parlamento.
In primo luogo, la vita del Governo si trova, infatti, collegata alla durata in
carica delle Camere in quanto, in ogni caso, all’esito delle elezione, quando
dunque si forma il nuovo Parlamento, il Governo deve presentare le proprie
dimissioni. Ciò al fine di garantire una perfetta rispondenza tra maggioranza
parlamentare scelta dal popolo e composizione dell’organo chiamato a dare
attuazione all’operato del rappresentante della sovranità popolare.
Tuttavia, il Governo, oltre che per questa fisiologica evenienza, può essere
costretto a dimettersi anche in conseguenza dell’approvazione della cd.
mozione di sfiducia votata a suo danno da una Camera. Anche in questo caso,
il Governo, non potendo più contare sul sostegno e sull’intesa con il
Parlamento è costretto a presentare al Presidente della Repubblica le
dimissioni, come conseguenza di quella che viene definita come crisi
Parlamentare, per evidenziare l’origine del venir meno del rapporto di fiducia.
A conferma della struttura complessa del Governo, sta la possibilità per il
Parlamento di colpire con la mozione di sfiducia anche singoli ministri, oltre
che l’intero Esecutivo, con l’effetto di un onere di dimissione limitato al
singolo ministro, cosa che, quindi, non determina la caduta del Governo che
potrà continuare a svolgere il proprio mandato.
40
È poi da precisare come al fine di mantenere una certa unitarietà e capacità
degli organi costituzionali all’adempimento di attività imprescindibili, sia stata
prevista la cd. prorogatio, ossia un prolungamento in vita del Governo
dimissionario al solo fine di compiere quegli atti di ordinaria amministrazione
senza i quali, in attesa della nomina del nuovo esecutivo, si verificherebbe una
paralisi istituzionale.
Vediamo ora quale procedura sia prevista per la nascita di un nuovo
Governo.
La prima fase è rappresentata dalle consultazioni che il Capo dello Stato
compie al fine di accertare quali siano i parametri in virtù dei quali il futuro
Governo potrà contare sulla fiducia delle Camere.
In tal senso, dunque, verranno consultati i Presidenti delle due Camere, i capi
dei gruppi parlamentari e i segretari dei partiti politici.
Sulla scorta di tali consultazioni, il Presidente della Repubblica individuerà un
soggetto cui verrà affidato l’incarico di formare il nuovo Governo. Costui,
secondo una costante prassi costituzionale, accetterà l’incarico con riserva,
così da non vincolare le decisioni del Presidente della Repubblica nel caso di
fallimento del mandato (che viene definito esplorativo) volto alla formazione
del nuovo Governo.
Il soggetto incaricato, che tendenzialmente diverrà il nuovo Presidente
del Consiglio, inizierà, così, una serie di consultazioni e valutazioni volte ad
individuare i soggetti cui affidare i ministeri e le materie che, non rientranti in
altri dicasteri, abbisognano della nomina di specifici ministri senza
portafoglio.
Una volta completato l’ipotetico organico, il futuro Governo si presenterà al
cospetto del Presidente della Repubblica il quale nominerà dapprima il
Presidente del Consiglio e, successivamente, i singoli ministri da questi
proposti. È a questo punto che le dimissioni del Governo uscente verranno
accettate con decreto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal neo-
nominato Presidente del Consiglio.
A questo momento, tuttavia, il Governo non assume ancora le proprie funzioni
in quanto ciò accadrà solo in seguito al giuramento che i componenti
rassegneranno nelle mani del Presidente della Repubblica. La fase successiva,
41
tuttavia, è quella cui è rimessa l’effettiva e definitiva instaurazione del
Governo come titolare, a tutti gli effetti, dei poteri che gli competono.
Entro 10 giorni dal giuramento, infatti, il nominato Governo dovrà redigere il
cd. programma di Governo con il quale entro lo stesso termine dovrà
presentarsi alle Camere per ottenere da queste la fiducia, che verrà votata
proprio sulla scorta del programma, che segnerà, così, le linee guida e gli
impegni che il Governo stesso si assumerà nei confronti del Parlamento e,
quindi, del popolo.
Da ciò si comprenderà più compiutamente la ragione che impone le dimissioni
del Governo colpito da sfiducia e che, del pari, impediscono il definitivo
insediarsi del Governo che non dovesse ottenere la fiducia in questa ultima
fase della sua formazione.
42
funzione, delegata all’Esecutivo dal Parlamento, per ragioni di celerità o di
opportunità.
Nel caso del decreto legge il presupposto fondante l’esercizio delle funzioni
normative da parte del Governo risiede in una particolare situazione di
emergenza che richieda l’approntamento di una disciplina normativa di
carattere primario in tempi assolutamente rapidi.
L’esempio è senz’altro offerto dal verificarsi di calamità naturali che
richiedano l’immediata disponibilità di risorse e di una disciplina di situazioni
contingenti che solo una norma di carattere primario può fornire.
I tempi operativi del Parlamento, in effetti, certo non possono garantire una
risposta, in termini di legge, sufficientemente celere e, dunque, di fronte alla
improcrastinabile necessità ed urgenza, la Costituzione ha previsto questa
apparente eccezione alla usuale ripartizione dei poteri.
Non è a caso che tale disciplina è stata definita come una eccezione
meramente apparente, perché in realtà il decreto legge, emanato dal Governo
all’esito della discussione ed approvazione collegiale da parte del Consiglio
dei Ministri, è, in realtà, destinato a fronteggiare una emergenza nelle more
dell’intervento parlamentare. Ciò significa che la ragion d’essere di tale norma
è limitata al tempo tecnico necessario al Parlamento per disciplinare con legge
ordinaria la situazione contingente.
È per tale ragione che il decreto legge, all’esito della sua approvazione viene
promulgato dal Presidente della Repubblica ed entra in vigore il giorno
seguente la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
La caratteristica peculiare del decreto legge è, tuttavia, quella di avere un
durata determinata, rimanendo in vigore per 60 giorni dalla sua pubblicazione.
Decorso tale termine si aprono due ipotesi: se lo stato di emergenza dovesse
venire meno e con esso la necessità di una relativa disciplina normativa, il
decreto decade e viene considerato come mai esistito; se, invece, le circostanze
43
che ne hanno richiesto l’emanazione dovessero permanere, allora il decreto,
per non decadere con gli effetti sopra illustrati, dovrà, entro lo stesso termine
di 60 giorni, essere convertito in legge dal Parlamento, cui viene presentato il
decreto nel giorno seguente la sua emanazione affinché possa così iniziare
l’iter di conversione (assolutamente identico a quello di una legge ordinaria).
Terminato l’iter di conversione, la legge ordinaria che verrà emanata sostituirà
il decreto legge nella disciplina della materia, con la possibilità di operare
anche modifiche al testo originario di questo.
Una ulteriore possibilità è fornita dalla prassi, invalsa soprattutto alcuni anni
orsono, che permette la reiterazione del decreto legge che, in tal modo viene
prorogato in attesa della sua conversione. L’applicazione incontrollata di tale
consuetudine ha, però, richiesto la modifica della L. 400/88 al fine di
scongiurare il rischio di una reiterazione a tempo indeterminato che portava ad
una pericolosa quanto aberrante trasformazione di una norma a carattere
temporaneo in una norma in grado di soppiantare (con tutte le conseguenze del
caso) la legge del Parlamento.
Nel diverso caso del decreto legislativo, ciò che legittima il Governo
all’esercizio di funzioni normative è, non già uno stato di fatto, quanto un vero
e proprio atto normativo, anzi, una legge del Parlamento, la legge delega.
Le ragioni che spingono il Parlamento a delegare le funzioni normative al
Governo sono essenzialmente da ricercare o in una limitazione del carico da
parte del titolare del potere legislativo, specie per materie non particolarmente
delicate, oppure nel particolare contenuto tecnico che taluni interventi
normativi possono richiedere e che i parlamentari potrebbero essere in grado
di valutare in modo approssimativo, certamente non al livello tecnico di un
ministro, specie nel caso si tratti di un cd. Governo tecnico, composto da
soggetti realmente impegnati nel contesto di competenza di quel dicastero che
44
reggono (si pensi a quanti primari e/o professori universitari di medicina
hanno ricoperto il ruolo di ministro della salute).
Qualunque sia la ragione di opportunità che consigli al Parlamento questa via,
sicuramente più celere ed efficace, ciò che caratterizza il decreto legislativo è
il suo presupposto, la delega per mezzo della quale vengono dati gli indirizzi e
tracciati i paletti di confine dell’attività delegata al Governo.
Decisivo, anche al fine dell’imprescindibile rispetto dei due autonomi poteri
dei soggetti coinvolti da tale tipo di norma, è il rispetto di tali indicazioni. Ove,
infatti, il Governo si dovesse discostare dalla traccia contenuta nella legge
delega, il decreto legislativo che ne deriverebbe sarebbe radicalmente
illegittimo per eccesso di delega. Su tale violazione si potrebbe pronunciare la
Corte Costituzionale, la quale sanzionerebbe il decreto abnorme con la già
vista declaratoria di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 76
Cost., che afferma, appunto che “L'esercizio della funzione legislativa non può
essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri
direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.”
45
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.
Quella del Presidente della Repubblica Italiana è una figura sui generis nel
contesto degli organi che la Costituzione ha posto a fondamento della struttura
istituzionale del nostro Paese.
Le ragioni sono molteplici. Il Presidente della Repubblica è titolare di
numerose attribuzioni, che si diramano sino all'interno dei tre singoli poteri
dello Stato, il che farebbe legittimamente pensare ad una figura assolutamente
centrale nell'organizzazione statale. Un organo monocratico, dotato di un forte
potere, che fosse in grado di influenzare, partecipandovi, le scelte e l'esercizio
dei tre poteri fondamentali, tuttavia, si sarebbe posto su un piano di assoluta
incompatibilità con i criteri e i principi assunti a fondamento dell'opera della
costituente al fine di garantire il nostro Stato dal rischio di concedere troppo
potere nelle mani di pochi.
Proprio in ossequio a tale esigenza, la figura del Presidente della Repubblica, è
stata configurata dall'art. 87 Cost., come garante dell'unità nazionale, un ruolo
che lo vede rappresentante dello Stato sia all'interno (nella vita istituzionale e
politica), sia verso l'esterno (nei rapporti internazionali).
In questo senso, dunque, le prerogative che il Presidente può manifestare verso
il potere legislativo, esecutivo o giudiziario, devono sempre essere lette
46
nell'ottica di una funzione di garanzia che la funzione presidenziale ricopre
anche verso la Costituzione e i valori in essa contenuti.
Certamente, una figura dal così alto significato si deve necessariamente
collocare super partes, nel senso di non essere coinvolto nelle dialettiche che
dividono le compagini politiche e che vincolerebbero le scelte del Presidente
agli effetti che possano da queste derivare anziché all'equilibrio e alla tutela
dell'ordine costituzionale.
Da un punto di vista strettamente funzionale, invece, si deve rammentare che il
Presidente viene eletto, tra i cittadini i possesso dei diritti civili e politici che
abbiano compiuto i 50 anni di età, dal Parlamento in seduta comune (Camera e
Senato si riuniscono in un'unica seduta) che deve raggiungere la maggioranza
dei 2/3 dell'assemblea, la quale, solo in questo caso, si compone anche di tre
delegati per ogni Regione, eletti dal Consiglio Regionale in modo che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze.
Una volta eletto e dopo aver prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica, il
Presidente assume a tutti gli effetti il proprio mandato della durata di 7 anni
(due anni in più rispetto al Parlamento, che conta su un mandato
quinquennale) nel corso dei quali gode della irresponsabilità affermata dall'art.
90 Cost., a lettera del quale Il Presidente della Repubblica non è responsabile
degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni.
Trenta giorni prima della scadenza del mandato vengono indette le elezioni per
la nomina del nuovo Presidente in attesa del quale i poteri del Presidente
uscente verranno prorogati al fine di garantire continuità alla figura
istituzionale.
Dopo la cessazione dalla carica, l'ex Presidente assume, di diritto, la carica di
senatore a vita salvo sua espressa rinunzia.
Nel contesto dell'esigenza di continuità nelle funzioni del Presidente, deve
essere, infine, esaminata la disciplina predisposta per l'ipotesi di impedimento
che, ove temporaneo, vede il Presidente del Senato assumere ad interim le
vesti di Presidente della Repubblica fino al rientro del titolare, mentre nel caso
di impedimento permanente non rimarrebbe altra strada che l'indizione di
nuove elezioni.
47
2. Le attribuzioni.
48
ripetutamente, a causa di un margine di maggioranza minimo che può essere
cancellato dall'assenza di pochi parlamentari con l'effetto di impedire il
raggiungimento di una maggioranza. Si pensi all'esempio che vede una
compagine politica vincere le elezioni con uno scarto di voti minimo (2%). La
composizione del Parlamento dovrà rispettare il più possibile tali proporzioni,
il che significa che all'interno delle due assemblee la maggioranza che
determina la formazione della volontà dell'organo è rappresentata da un
numero di seggi molto vicino a quelli ricoperti dalla compagine di minoranza.
Questo scarto minimo potrebbe essere facilmente colmato dall'assenza dei
deputati o Senatori, così che il numero dei presenti che rendano voto
favorevole all'approvazione di una legge potrebbe essere uguale a quello dei
contrari con il risultato di non riuscire a formare alcuna maggioranza
deliberativa. Il Parlamento, come ogni altro organo collegiale, in mancanza di
una maggioranza si blocca non potendo formare alcuna volontà. Ma in
un’ipotesi ancora più macroscopica, per le stesse ragioni, si potrebbe arrivare
all'approvazione di leggi per il voto favorevole della compagine che non ha
raggiunto la vittoria elettorale con un conseguente, completo sovvertimento
del rapporto di rappresentanza politica.
Va da sé che la possibilità di formare una volontà aderente all'esito elettorale
in tempi concreti e con una certa stabilità è presupposto e, al tempo stesso,
obiettivo imprescindibile della rappresentatività di cui è titolare il Parlamento
che, ove venga a trovarsi in queste circostanze, certo non permette al popolo di
esercitare alcuna sovranità.
Si tratta, perciò, di una situazione di stallo che colpisce l'organo
istituzionalmente più importante con conseguenze tali da pregiudicare la forma
repubblicana democratica parlamentare su cui si fonda lo Stato italiano. Di
fronte ad una tale situazione, il costituente, ha conferito al garante dell'unità e
dei principi costituzionali il potere di risolvere la stasi sciogliendo
anticipatamente le Camere e indicendo nuove elezioni per la costituzione di un
nuovo Parlamento che sia in grado di svolgere la propria funzione.
Un potere che vista la gravità delle conseguenze che ne derivano, non può
essere esercitato dal Presidente negli ultimi sei mesi del suo mandato
49
(semestre bianco) in quanto si è ritenuto che potesse offrire la possibilità di
strumentalizzazioni.
Nell'ambito del potere esecutivo le funzioni del Presidente della Repubblica si
sostanziano nella nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questo,
dei singoli ministri, nella dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle
Camere, nell'annullamento, su un piano amministrativo, degli atti illegittimi di
qualunque autorità e nella decisione sui ricorsi straordinari presentati contro
provvedimenti amministrativi, nonché nel potere di scioglimento dei Consigli
Regionali, provinciali e comunali nei casi previsti dalla legge.
Su un piano giudiziario, il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio
Superiore della Magistratura (organo di autogoverno della magistratura),
nomina un terzo dei componenti della Corte Costituzionale e può, in singoli
casi, concedere la grazia o commutare le pene.
3. I reati presidenziali.
50
Per lo stesso principio di irresponsabilità, il Presidente della Repubblica si
trova in uno stato di immunità che, anche sul piano penale, ammette due
uniche eccezioni: l'alto tradimento e l'attentato alla Costituzione. Le due
ipotesi costituiscono gli unici reati per i quali il Presidente può essere
sottoposto a giudizio e si verificano, rispettivamente, nel caso di divulgazioni
di segreti inerenti la difesa del Paese a potenza nemica e, nel secondo caso,
nella tenuta di un comportamento istituzionale atto a sovvertire l'ordine
costituzionale.
Qualora il Presidente dovesse incorre in una di queste ipotesi estreme di reato
è previsto un particolare procedimento che prende il posto di quello che per i
cittadini è il processo.
È in primo luogo necessario che venga votato lo stato d'accusa del Presidente,
che corrisponde ad una sorte di denuncia, che il Parlamento deve votare in
seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri. Deliberata la messa
in stato d'accusa, il Presidente (che nel frattempo è tenuto per prassi a
dimettersi) si presenta alla Corte Costituzionale che, riunita in composizione
allargata con l'aggiunta di altri 16 membri scelti tra cittadini di almeno 50
anni, in possesso dei diritti civili e politici, ha il compito di giudicare sulla
sussistenza o meno del reato ascritto. Da notare che la Corte Costituzionale, in
questo caso, svolge una funzione giudicante in senso stretto, compiendo
valutazioni assimilabili a quelle di un giudice penale. Certo, la rilevanza dei
fatti e l'assoluta specialità dell’"imputato'' hanno portato ad individuare in capo
a tale organo, anziché in capo alla magistratura, il potere di effettuare un
simile sindacato, tanto più che, ove si rifletta sul ruolo di garante che la
Costituzione ha assegnato al Presidente della Repubblica, apparirà chiaro
come la realizzazione di questi reati integri anche (e soprattutto) una profonda
violazione dei principi costituzionali che, alla luce dei fatti, vedono come
unico e forte garante proprio la Corte Costituzionale.
51
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
Parlando dei poteri dello Stato, abbiamo tracciato un filo conduttore che lega il
primario potere di fare le leggi, con il conseguente potere di dare attuazione a
queste, la cui tutela risulta affidata al potere di controllo sul rispetto concreto
delle norme in vigore, attraverso la repressione di eventuali violazioni delle
stesse.
In questo insieme di attività e funzioni, dobbiamo ora occuparci di come,
concretamente, possa essere data attuazione al dettato delle norme in vigore
nel nostro Paese.
L’attività del Governo, come visto, si sostanzia, infatti, in un’attività di
carattere centrale, istituzionale che, come tale, è ancora caratterizzata da un
consistente livello di astrattezza che impedisce di ravvisare negli atti
dell’Esecutivo la concreta e ultima applicazione del dettato normativo nei
confronti del singolo cittadino.
Oggetto della presente analisi è, infatti, la verifica di come, concretamente, il
singolo cittadino percepisca la gestione e la realizzazione degli interessi di cui
si è fatto portatore, garante e promotore lo Stato.
52
Quest’ultima considerazione, ci permette, innanzitutto, di evidenziare un
fondamentale presupposto: lo stato agisce per la tutela e la realizzazione di
interessi che appartengono, tendenzialmente, a tutti i cittadini.
Interessi come quello alla salute, all’istruzione, al lavoro, sono senza dubbio
comuni a tutti i cittadini, al di là delle interpretazioni ideologiche a questi
applicabili. Per capire la centralità assoluta della gestione di tali interessi
(definibili come interessi pubblici) è sufficiente volgere lo sguardo verso la
struttura di cui si compone il Governo, titolare del potere di attuare la
disciplina normativa. All’esito di una simile verifica, scopriremo una assoluta
rispondenza di ogni singolo Ministero ad altrettanti interessi comuni a tutti i
cittadini così da creare autonomi e coordinati centri di potere esecutivo, volti
alla disciplina di ogni singolo interesse pubblico.
Il Ministero dell’Istruzione, università e ricerca, sarà, per tal via, titolare di un
fascio di poteri orientati, nell’ambito dell’attività esecutiva, alla
predisposizione di strumenti, previsti dalle norme vigenti, strumentali alla
migliore gestione dell’interesse all’istruzione dei cittadini.
L’attività del ministero, qualunque esso sia e qualunque sia il suo campo
operativo, certo non può avere come destinatari i singoli cittadini che
richiedano l’attuazione di un interesse pubblico. Sarebbe inimmaginabile che
l’iscrizione di ogni singolo bambino ad un istituto scolastico possa dipendere
da un provvedimento ministeriale. Lo stesso è a dirsi per ogni altra attività
esecutiva (basti pensare a cosa accadrebbe se ogni adempimento anagrafico,
fiscale ecc., dovesse essere realizzato a Roma, presso gli uffici del Ministero
competente).
Da tali considerazione emerga chiara la necessità di una struttura periferica
capillare, cui lo Stato possa conferire poteri specifici al fine di dare attuazione
specifica agli interessi pubblici, in modo da gestire uniformemente tutte le
singole situazioni che ne facciano richiesta.
È questa la funzione della Pubblica Amministrazione che si colloca pertanto
all’immediata dipendenza dei ministeri e, dunque, del Governo, partecipando
come strumento operativo all’esercizio del potere esecutivo.
Corollario di ciò è la necessità di diversificazione della P.A. in tante
amministrazioni quanti sono i settori di interesse dello Stato, anzi, è più
53
corretto affermare la netta rispondenza tra interessi pubblici e amministrazioni
pubbliche chiamate alla gestione concreta degli stessi.
Per quanto nel linguaggio corrente l’espressione “pubblica amministrazione”
sia utilizzato in senso generale per indicare la burocratica struttura statale, alla
luce di questa sommaria valutazione, dobbiamo concludere che la struttura
amministrativa è senz’altro basata su un concetto pluralista di riparto di
competenze affidate a numerosi centri di interesse e, dunque, a numerose
“pubbliche amministrazioni” che agiscono in completa e reciproca autonomia
gestionale sotto l’indirizzo e il controllo del ministero competente.
In questo modo, le singole pubbliche amministrazioni vengono configurate
come strumenti di cui si servono i ministeri per curare a livello periferico i
bisogni dei cittadini. Sillogisticamente, si può quindi affermare che, se un
interesse pubblico corrisponde ad un bisogno dei cittadini e che oggetto
dell’attività dei singoli ministeri di cui si compone il Governo è la cura degli
interessi pubblici, in attuazione delle norme vigenti e attraverso le strutture
della P.A., posta la corrispondenza e unitarietà dell’attività amministrativa con
quella governativa, possiamo affermare conclusivamente affermare che scopo
della funzione amministrativa è quello di soddisfare in concreto i pubblici
interessi della comunità attraverso la soddisfazione del bisogno sociale.
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titolari di alcun potere e senza poter manifestare all’esterno la volontà
dell’ente di appartenenza (uffici).
Ma l’aspetto più attuale e rilevante della organizzazione della funzione
amministrativa è offerto dallo studio dei cd. Enti territoriali o Enti Locali.
Tali enti, che l’art. 114 Cost. individua nelle Regioni, Province, Città
metropolitane e Comuni sono enti cui è demandato il compito di gestione
(articolata su scala territoriale secondo uno schema a cerchi concentrici) dei
singoli organi delle varie amministrazioni, creando così, una struttura
periferica attraverso cui lo Stato è in grado di coordinare l’attività
amministrativa.
Recentemente, tuttavia, il ruolo degli enti locali ha subito una profonda
reinterpretazione alla luce del cd. principio di sussidiarietà che è stato assunto
nell’organizzazione dello Stato e che ha, di fatto, ribaltato il rapporto
cittadino/Stato.
Questa sorta di rivoluzione copernicana è stata operata dapprima attraverso
l’emanazione del D.lgs 267/00 che ha riordinato le funzioni e la disciplina
generale degli Enti Locali e, successivamente, con la fondamentale riforma del
Titolo V della Costituzione che esaminiamo ora nei suoi effetti
amministrativistici dando per acquisite le considerazioni già svolte a livello
legislativo.
Attraverso questi impianti normativi si è voluto spostare il punto focale
dell’attività non solo amministrativa ma dello Stato stesso verso il cittadino. In
tal modo il bisogno del cittadino è, oltre che oggetto, anche punto di partenza
per la individuazione dell’ente titolare del potere di gestione di quel interesse
pubblico, secondo un cammino che partendo, dunque, dal singolo risale a
ritroso la struttura periferica dello Stato sino a giungere agli organi centrali. In
questo risiede il concetto di sussidiarietà che assegna il potere di gestione
dell’interesse all’ente autonomo più vicino al cittadino. L’art. 118 Cost.
prevede, infatti, che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni
salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province,
Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”.
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Il vantaggio per il cittadino è evidente in quanto come interlocutore non avrà
più enti distanti, sia geograficamente che strutturalmente, che spesso
determinavano un rimpallo delle sue esigenze destinate a perdersi nei meandri
della ciclopica struttura amministrativa. Oggi l’interlocutore diretto delle
esigenze del singolo è l’ente più vicino a questo e solo ove tale ente si
dimostrasse carente del concreto potere di gestione si risalirebbe alla Provincia
ed eventualmente alla Regione, risalendo progressivamente la struttura
organizzativa dello Stato.
3. L’attività amministrativa.
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come legittima, potendo, conseguentemente approntare i mezzi di difesa cui il
singolo ricorrere a difesa dei propri interessi, lesi da un’attività illegittima
perché posta in violazione del principio in parola.
Il principio del buon andamento cui la norma orienta l’organizzazione
della P.A. è un canone di razionalità dell’attività amministrativa oltre che della
organizzazione di questa.
Buon andamento vuol dire, infatti, buon funzionamento e quindi efficienza,
vista come rapporto tra risorse a disposizione di una singola amministrazione e
obiettivi gestionali dell’interesse pubblico. Ma, in accoglimento di tale
principio, si è voluto disciplinare anche in concreto l’attività
dell’amministrazione, imponendo anche il criterio di efficienza, ossia un
parametro del buon andamento fondato sul rapporto tra risorse utilizzate ed
obiettivi raggiunti, al fine di valutare non solo a livello astratto la rispondenza
delle risorse agli obiettivi della P.A. ma anche come e con quali risultati questa
abbia impiegato le proprie forze.
Tali criteri, che hanno finalmente dato una veste reale al principio del buon
andamento sono un conquista recente, operata alla fine degli anni ’90 con le
leggi “Bassanini” che a partire dal 1997 (la prima legge Bassanini è la n° 59
del 15.03.1997) hanno avuto il compito (e forse il merito) di aver introdotto
anche a livello amministrativo i criteri prettamente imprenditoriali un tempo
propri del solo settore privato.
L’ulteriore principio su cui si plasma l’organizzazione e l’attività della
P.A. è il principio di imparzialità, il cui contenuto è nettamente correlato ad
una fondamentale disposizione della Costituzione, l’art. 3, chiamato a
riconoscere a tutti i cittadini il diritto all’uguaglianza.
È infatti tale ultima disposizione che afferma il principio di uguaglianza,
affermando che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione;
di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Occorre, tuttavia, fare una precisazione. Il principio riportato non deve essere
inteso in senso sostanziale, assoluto, in quanto una simile interpretazione
porterebbe inevitabilmente alla negazione del principio stesso. Se, infatti,
considerassimo “tutti i cittadini uguali tra di loro” commetteremmo un errore
57
fondamentale che impedirebbe di valutare la concreta posizione dei singoli e,
di conseguenza i bisogni e le caratteristiche di ognuno.
Il principio di uguaglianza ne risulterebbe cancellato. Per capire la portata
dell’affermazione, apparentemente sorprendente, basta immaginare alcuni
banali esempi. Nell’ambito fiscale e tributario, l’affermazione che tutti i
cittadini sono uguali (tra loro) porterebbe con sé la conseguenza che tutti i
cittadini, in quanto uguali, devono soggiacere alla medesima imposizione
fiscale. Ma questo significa che, se, per poterli definire uguali, non
consideriamo le posizioni dei singoli, il ricco possidente che non ha nemmeno
bisogno di lavorare per vivere si troverebbe a pagare le tasse in misura uguale
a quella che graverebbe su un operaio o su un pensionato. Si lascia al lettore
ogni valutazione circa le conseguenze concrete.
Riconoscere la pari dignità dei cittadini e la loro uguaglianza vede, allora,
come presupposto una obiettiva valutazione delle diversità di ognuno, al fine
di poter percepire a pieno la posizione complessiva del singolo cittadino, sia
sotto il profilo del bisogno che sotto il profilo dei doveri, così da poter trattare
in modo uguale situazioni uguali. Il che ci porta a capire come reale oggetto
del principio di uguaglianza non siano tanto i cittadini, quanto le condizioni,
giuridiche e di fatto che li caratterizzano individualmente.
La trasposizione di tali assunti nell’ambito dell’attività amministrativa è
evidente: la P.A. deve organizzarsi ed agire in modo da rispettare ed applicare
il principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 Cost. gestendo il bisogno dei
singoli (e, dunque, gli interessi pubblici della cui gestione si occupa) in modo
uguale rispetto a cittadini e a situazioni tra loro uguali.
Da ultimo, occorre segnalare l’esistenza di altri principi fondamentali
per l’attività amministrativa, la cui valenza, tuttavia, è inferiore a quella dei
principi sopra esaminati, non già per il significato o gli effetti, quanto per il
valore normativo delle disposizioni che li sanciscono.
È questo il caso del principio di trasparenza, che impone alla P.A. di agire in
modo da rendere accessibile al privato interessato dall’attività amministrativa
tutti i documenti e i mezzi utilizzati dall’amministrazione che procede.
Tale principio, non codificato nell’esaminato testo dell’art. 97 Cost., è stato
sancito con la L. 241/90, che ha come oggetto la disciplina del diritto
58
d’accesso (applicazione del principio di trasparenza) e del procedimento
amministrativo. Come legge ordinaria, la L. 241/90, si colloca, come fonte del
diritto, su un piano inferiore rispetto all’art. 97 Cost. e ciò non solo perché,
come sappiamo, deve essere conforma al dettato costituzionale, ma anche
perché per modificarne il contenuto è sufficiente una legge ordinaria o un
decreto legislativo, mentre per la modifica di disposizioni costituzionali è
necessario un procedimento aggravato.
Ciò comporta, allora, una maggiore forza dei principi dell’attività
amministrativa che traggano origine da norme costituzionali, dovuta alla
evidente maggiore stabilità normativa che caratterizza la norma che li
sancisce.
4. Il potere amministrativo.
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caratterizza effetti, termini e contenuto senza, perciò, innescare alcuna
sanzione di illegittimità né alcun tipo di annullamento.
È chiaro, tuttavia, che nessun privato sarebbe disposto a vedersi limitata la
propria sfera di diritto, tendendo, invece, a far prevalere i propri interessi sulla
volontà dell’amministrazione. Si pensi all’esempio di un provvedimento di
esproprio: certamente nessuno accetterebbe a buon partito l’idea di vedersi
privare del proprio terreno o della propria casa per la costruzione di
un’autostrada.
In realtà, però, non si deve dimenticare che l’attività della P.A., ancorché
talvolta apparentemente lesiva della posizione di un singolo, si fonda sul
benessere di tutti, idealizzato nell’interesse pubblico che, per tale sua
connotazione, merita senza dubbio la prevalenza su un eventuale interesse di
segno contrario che faccia capo ad un singolo privato il quale, fra l’altro,
percepirà, comunque, i frutti della tutela di quel interesse pubblico.
Per ottenere questo, tuttavia, è necessario che la P.A. abbia un potere che non
compete ai soggetti privati ma solo agli organi dello Stato, un potere, cioè, che
permetta alla P.A. di obbligare i destinatari della propria attività ad
uniformarsi a questa, anche contro la loro volontà (potere coercitivo).
Ad evitare, comunque, che un simile potere possa risolversi in una costante ed
incontrollata compromissione della posizione dei privati in nome dell’interesse
pubblico, è posto il principio di discrezionalità che impone
all’amministrazione di valutare comparativamente l’interesse pubblico di cui
essa è titolare e gli interessi dei privati che dovessero trovarsi in posizione
configgente, in modo da equilibrare discrezionalmente i due elementi.
Tale valutazione, definita opportunità o merito dell’attività amministrativa, ha
lo scopo di permettere alla P.A. di agire tutelando l’interesse pubblico,
secondo la via, comunque, meno lesiva degli interessi privati coinvolti.
L’ultimo aspetto di rilevanza ai fini dello studio del potere amministrativo è
legato alla sua genesi.
Come abbiamo visto in precedenza, la P.A. è organizzata con legge, il che
significa che è il Parlamento (o, nei casi e nei limiti previsti, il Governo) che
organizza la struttura di una P.A. e organizzare vuol dire anche creare.
60
Ove, dunque, dovesse sorgere un nuovo interesse pubblico (si pensi
all’ambiente o a diritti ed interessi comuni a tutti i cittadini ma di nuova
generazione) si avvertirebbe la necessità della gestione e tutela dello stesso da
parte dello Stato che ne abbia riconosciuto l’esistenza.
È quindi necessaria l’individuazione di una P.A. che, concretamente, si occupi
della gestione del nuovo interesse pubblico. In quest’ottica, tuttavia, potrebbe
anche darsi che nella struttura già esistente non sia possibile conferire la
titolarità di tale interesse ad alcuna amministrazione già operante, in quanto il
settore in cui sorge il nuovo interesse non può essere tecnicamente ricompreso
in altri già esistenti ed “assegnati”.
A questo punto sarà la legge a determinare la nascita di una nuova struttura,
assegnando ad essa l’organico, le risorse, le strutture, disciplinandone
l’organizzazione, il funzionamento e, soprattutto, conferendo alla stessa il
potere amministrativo di gestione di quell’interesse pubblico che le viene
assegnato in gestione e tutela.
A questo punto della nostra trattazione è necessario esaminare quali siano gli
strumenti attraverso i quali la P.A. riesce a “prendersi cura” dell’interesse
pubblico che la legge le ha assegnato in titolarità e in funzione del quale ha
alla stessa conferito anche il forte potere amministrativo necessario.
È comunque opportuno premettere una precisazione.
La P.A. ha, innanzitutto, due possibilità, o agire esercitando il potere tipico e
autoritativo della P.A., attraverso i mezzi che fra poco esamineremo, oppure
scendere su un piano di parità con i privati, scegliendo di esercitare poteri
assolutamente analoghi a quelle di qualunque cittadino. Sarà, così, possibile
per una P.A. che voglia o debba costruire un raccordo autostradale: o emanare
un provvedimento di esproprio con cui acquisire i terreni necessari contro la
volontà dei proprietari, oppure scegliere di acquistare gli stessi terreni dai
proprietari disposti a vendere, agendo, così, attraverso strumenti appartenenti
61
non al diritto amministrativo (provvedimento amministrativo), ma al diritto
privato (contratto di compravendita). In queste ipotesi, la cui scelta è affidata a
scelte discrezionali di convenienza, si dice, infatti, che la P.A. agisce iure
privatorum (con il diritto dei privati).
Posto che tali ultime ipotesi, rese sempre più frequenti dalla razionalizzazione
dell’attività amministrativa, non presentano particolarità che le distinguano
dalla normale attività dei privati, dobbiamo soffermarci, invece, sulle
caratteristiche degli strumenti di azione amministrativa: gli atti e i
provvedimenti amministrativi.
Come di fatto già chiarito, si tratta dei due strumenti che permettono alla P.A.
di agire, producendo effetti nel mondo esterno finalizzati alla gestione
dell’interesse pubblico.
L’atto amministrativo è un atto della P.A. con il quale viene portata verso
l’esterno l’attestazione di una situazione di fatto esistente e sulla quale,
tuttavia, l’amministrazione non incide né modificando, né creando, né
estinguendo diritti e/o interessi coinvolti.
L’esempio tipico di tale strumento è offerto dal certificato, sia esso anagrafico,
giudiziario o quant’altro.
A ben guardare, infatti, quando la P.A. certifica qualcosa, conferma, attesta
semplicemente l’esistenza di una data situazione: il certificato di stato civile
attesta che Tizio è coniugato con Caia, ma certo non va ad incidere in alcun
modo sui diritti di coloro che afferma essere coniugi.
Da questo punto di vista il potere che viene esercitato per mezzo di un atto
amministrativo, è assai sfumato, risolvendosi in una particolare attendibilità di
ciò che viene certificato, risultando difficile immaginare che la portata di un
certificato possa andare contro la volontà di un privato fino al punto di
prevalere su questa.
Diverso è il caso del provvedimento amministrativo.
In questo caso ci troviamo di fronte all’esercizio più vero del potere
amministrativo, con tutte le connotazioni che gli sono proprie, prima fra tutte
la autoritarietà.
Il provvedimento, come strumento di esercizio della potestà amministrativa, si
caratterizza, poi, per la cd. esecutorietà, connotazione che permette
62
all’amministrazione di portare immediatamente ad esecuzione il contenuto
dello stesso, anche quando esso presenti profili di illegittimità. In pratica è a
questa caratteristica che si deve la necessità di impugnare il provvedimento per
sospenderne gli effetti che vengono prodotti in conseguenza dell’emanazione,
ancorché viziata, del provvedimento stesso e che divengono definitivi ove
nessuno provveda in tal senso entro 60 giorni dalla sua emanazione.
Ma ciò che più di ogni altra caratteristica permette di distinguere il
provvedimento è il suo carattere discrezionale. Da intendere non nel senso che
l’amministrazione sia libera di emanarlo o meno, quanto nel senso che il
provvedimento sia sempre frutto dell’esercizio di un potere discrezionale,
visto come potere di ponderare equamente l’interesse pubblico con quello dei
privati coinvolti.
La natura discrezionale del provvedimento è conseguenza della sua funzione,
nel senso che lo strumento in parola, a differenza dell’atto amministrativo, è
ciò che permette alla P.A. di incidere sulle posizioni di diritto dei privati
(diritti, interessi, obblighi ecc.) modificandone il contenuto o, vieppiù,
creandone di nuove o estinguendo quelle esistenti.
Esercitato in tali tratti distintivi, il potere amministrativo è così in grado di
dispiegare tutta la sua forza tipica e gli affetti autoritari di cui la P.A. ha
bisogno per la gestione dell’interesse pubblico.
6. Il procedimento amministrativo.
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Ben diverso è il caso del provvedimento.
Abbiamo visto che l’ubi consistam di questo strumento è la discrezionalità,
che impone una valutazione comparativa degli interessi privati coinvolti, al
fine di bilanciarne il peso rispetto all’interesse pubblico.
Per fare ciò, tuttavia, sarà necessario per l’amministrazione procedente,
compiere una serie di operazioni e di adempimenti, finalizzati, in primo luogo,
all’individuazioni di quali e quanti siano tali interessi privati e, in secondo
luogo, alla valutazione di come questi si collochino rispetto all’attività che la
P.A. deve compiere e, infine, di come poter equilibrare i due piatti di questa
ipotetica bilancia.
Tutto questo viene realizzato in una serie fasi attraverso le quali la P.A.
compie in modo sequenziale tutte le operazioni per tal via necessarie
all’emanazione del provvedimento.
Questo insieme organizzato di fasi, viene definito procedimento
amministrativo, o iter di formazione del provvedimento amministrativo.
La prima fase di cui questo iter si compone è la fase dell’iniziativa,
rappresentata dalla domanda che viene rivolta alla P.A. competente al fine
dell’emanazione di un provvedimento amministrativo. L’ipotesi più frequente
è quella che vede il privato stesso dare inizio al procedimento all’esito del
quale sarà destinatario degli effetti dell’attività amministrativa compiuta per
suo impulso.
Tuttavia, sappiamo che il provvedimento può senz’altro avere un contenuto
sfavorevole per il suo destinatario e questo ci porta a considerare una diversa
origine dell’iniziativa, non più proveniente dal privato ma autonomamente
realizzata dalla P.A. che, in tal modo, si autodetermina all’emanazione del
provvedimento che andrà ad incidere negativamente sulla posizione di diritto
dei destinatari.
Del pari potrà accadere che l’iniziativa di un procedimento derivi da una
richiesta di una distinta amministrazione la quale, in quanto titolare di un
diverso potere amministrativo, non può emanare il provvedimento richiesto
perché esulante dalla sfera di potere conferitole.
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Alla presentazione della richiesta (da chiunque avanzata),
nell’amministrazione procedente (quella che dovrà emanare il provvedimento)
sorgerà l’obbligo di ottemperare ad alcuni adempimenti.
In primo luogo, l’amministrazione dovrà individuare il cd. Responsabile del
procedimento, ovvero il funzionario che si occuperà direttamente dell’intero
procedimento e che, peraltro, sarà il riferimento per ogni esigenza dei privati
interessati dall’attività amministrativa. In secondo luogo, l’amministrazione
dovrà poi fissare un termine espresso entro cui si dirà tenuta alla chiusura del
procedimento, chiusura che, in accoglimento dell’onere di provvedere che
grava sulla P.A., dovrà necessariamente essere espressa, per quanto di
contenuto positivo o negativo. Ove, poi, la richiesta fosse stata presentata per
corrispondenza, l’amministrazione dovrà comunicare al richiedente e a tutti
coloro che vengano individuati come interessati (soggetti su cui ricadranno gli
effetti dell’attività amministrativa) la cd. Comunicazione di avvio del
procedimento, attraverso cui verrà data loro notizia dell’attività
procedimentale iniziata e del nominativo del responsabile affinché possano
partecipare alla formazione della volontà dell’amministrazione in modo da
favorirne il razionale ed efficace esercizio.
La successiva fase è anche la più delicata dell’intero impianto
procedimentale, essendo la fase mediante la quale la P.A. raccoglierà tutti gli
elementi di fatto e di diritto sulla cui base formerà la propria volontà
provvedimentale.
Si tratta della fase istruttoria, nel cui ambito verranno, pertanto, individuati gli
interessi coinvolti e verrà anche raccolta tutta la serie di elementi sulla cui
scorta valutare il peso di questi e gli effetti che si possano produrre in
conseguenza delle diverse ipotesi di provvedimento che la P.A. procedente
potrà realizzare.
Ma è anche in questa fase che il privato può esercitare un’importante
conquista raggiunta grazie alla L. 241/90, cui si deve la definizione e la
disciplina che stiamo esaminando del procedimento amministrativo, il diritto
di partecipazione all’attività amministrativa.
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Il privato coinvolto dall’attività amministrativa ha, in pratica, la possibilità di
partecipare al procedimento volto all’emanazione di quel provvedimento che
dispiegherà i propri effetti sulla posizione di diritto di cui è titolare.
Per evitare l’innescarsi di impugnative, ricorsi, risarcimenti e, in generale,
complicazioni dell’attività amministrativa (e dunque della gestione
dell’interesse pubblico), la normativa in esame ha introdotto la possibilità per
il privato di difendersi PRIMA dell’emanazione del provvedimento,
indirizzando, così l’attività dell’amministrazione in una direzione compatibile
con gli interessi dei privati coinvolti.
A ciò è finalizzata la comunicazione di avvio del procedimento.
Raccolti tutti gli elementi di fatto e di diritto su cui inciderà l’attività
della P.A., si apre la fase decisionale, attraverso la quale si formerà la volontà
della amministrazione procedente e, quindi, il contenuto del provvedimento.
Va da sé come ciò venga realizzato sulla scorta di quanto effettuato nella
precedente fase, così che un’eventuale enucleazione viziata o parziale dei
presupposti di fatto e di diritto, comporterà un cd. Vizio di merito del
provvedimento, la cui illegittimità non deriverà tanto da una violazione di
legge, quanto dalla formazione alterata della volontà della P.A.
Da ultimo, il procedimento amministrativo si può sviluppare attraverso
la fase integrativa dell’efficacia.
La ragion d’essere di tale fase si fonda sulla circostanza che, in taluni casi (non
in tutti), il provvedimento, che all’esito della fase decisionale è già completo
(perfetto), per poter dispiegare i propri effetti, abbisogna di un’ulteriore
operazione da parte della P.A. che procede. Spesso tale operazione si sostanzia
in un controllo sulla disponibilità finanziaria necessaria all’esecuzione del
provvedimento stesso.
Una simile necessità, tuttavia, non è sempre ricorrente, dal che si desume il
carattere eventuale di tale ultima fase, all’esito della quale il provvedimento,
oltre che perfetto, sarà anche pienamente efficace, potendo così concorrere
immediatamente alla gestione dell’interesse pubblico anche contro la volontà
di singoli privati ma per il perseguimento di utilità di carattere generale.
66
LA LEGISLAZIONE SCOLASTICA.
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Ovviamente, tale differenziazione non ha (e non può avere) riflessi sulla
struttura dell’iter formativo né sulla possibilità di accedere all’istruzione, sia
essa pubblica che privata.
A sancire tale principio è posto l’art. 34, comma 4 Cost., ai sensi del quale “La
legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la
parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento
scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.
Per raggiungere tale risultato è, tuttavia, necessaria la predisposizione di
programmi comuni, così che i contenuti essenziali dell’istruzione rimangano
immutabili di fronte alla binomia pubblico-privato e ciò è possibile solo
attraverso la predisposizione di tali contenuti a livello statale.
Clausola di salvaguardia di tale assunto è la cd. equipollenza del titolo ai fini
dell’accesso all’esame di Stato, nel senso che il rispetto dei contenuti
essenziali da parte degli istituti privati è il presupposto della possibilità per gli
studenti di quegli istituti di accedere alle procedure statali di abilitazione
(esame di stato).
In pratica, l’iniziativa privata dell’insegnamento incontra come limite il
rispetto di tali contenuti. Limite che, ove non osservato a favore di una
incondizionata libertà di insegnamento privato, preclude l’accesso all’esame di
stato, evidenziando come il valore legale del titolo sia, in realtà, finalizzato
all’equiparazione delle scuole nell’ambito del tipo di studi attraverso
l’eliminazione giuridica delle differenze qualitative.
Un altro aspetto che evidenzia il binomio pubblico-privato
dell’istruzione è la condizione cui è subordinato il diritto dei privati
all’istituzione di scuole, imprescindibilmente condizionato dalla mancanza di
oneri per lo Stato conseguenti all’iniziativa privata nel settore.
Il momento di interesse di tale disposizione sta nell’interpretazione
dell’attività scolastica privata. Questa, infatti, se da un lato si è vista (forse
giustamente) escludere la possibilità di finanziamenti di origine statale,
dall’altro si trova inconfutabilmente a svolgere un’attività rientrante a pieno
tra quelle di cui si deve fare carico lo Stato, il quale si trova, così, sgravato
dall’attività privata.
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Non si deve tuttavia tralasciare che l’attività privata (qualunque sia il settore di
assistenza in cui si affianchi allo Stato) viene comunque realizzata, o nella
forma imprenditoriale o nella forma professionale. In ciascuna di tali due
forme il privato non può ricevere compenso dallo Stato, per quanto vi si
affianchi nella erogazione di un servizio, in quanto il fulcro del settore privato
si fonda sul fatto che l’esercente percepisca direttamente dall’utente il proprio
compenso ed è da tale compenso che deve trovare alimento l’attività privata
che, altrimenti, si troverebbe sostenuta dalle stesse fonti che già alimentano
l’alternativa pubblica. Se così fosse i costi verrebbe di fatto duplicati,
determinando la caduta di qualsivoglia utilità nella bivalenza pubblico-privato.
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i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio
nazionale” (art.117, comma 2 lett. m) Cost.).
Alle Regioni, in pratica, spetterà la gestione del sistema scolastico di cui lo
Stato imporrà il rispetto del limite minimo determinato di prestazioni.
Certamente la potestà legislativa statale si troverà, tuttavia, limitata da ciò che
lo stesso art. 117 comma 3 Cost. indica come “l’autonomia delle istituzioni
scolastiche”, ma di cui, purtroppo, fornisce un mero richiamo senza alcuna
definizione.
Il dato normativo che soccorre in tale ricerca è il già citato art. 21, L. 59/97
che, nell’ambito della razionalizzazione dell’attività amministrativa, ha
concepito gli istituti scolastici come organismi destinati ad acquisire, nel corso
del tempo, una propria personalità giuridica da cui desumere la propria
autonomia.
3. L’istituto scolastico.
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Appare evidente come, alla luce di tale disciplina, il servizio scolastico si
atteggi e, anzi, venga configurato come un vero e proprio servizio pubblico
scolastico. Una definizione dovuta, oltre che per la natura della fonte di
riferimento, anche per le caratteristiche dei poteri cui viene rimessa
l’organizzazione e la gestione del servizio, i cui connotati pubblicistici
emergono con evidenza anche sul piano della obbligatorietà del suo esercizio e
della fruizione di questo da parte dei cittadini, nel rispetto del più generale
interesse pubblico all’istruzione e, quindi, al progresso del Paese.
In ambito normativo primario, il punto di riferimento per desumere la
disciplina cui sottoporre l’istituto scolastico è fornita dall’articolo unico della
L. 62/00, nel testo del quale troviamo la diversa espressione “servizio
nazionale di istruzione”.
L’apparente discrasia di tale disposizione, volta a riconoscere e disciplinare le
scuole paritarie, non deve trarre in inganno. Nulla può cambiare nei connotati
che l’istruzione ha ricevuto per effetto di dettati di rango costituzionale. Se
così fosse, come sappiamo bene, la L. 62/00, in quanto legge ordinaria, si
troverebbe in contrasto con il dettato costituzionale, subendo gli effetti della
inevitabile declaratoria di illegittimità.
Al di là di tale scontata ma doverosa precisazione, dobbiamo soffermarci su
tale normativa, partendo dalla sua finalità. Come visto, lo scopo della L. 62/00
è stato quello di riconfigurare il sistema dell’istruzione secondo una sorta di
bipolarismo di cui sono interpreti l’istituto statale e gli istituti paritari privati e
degli enti locali.
Ora, nel servizio pubblico è possibile enucleare due livelli basilari, il primo,
rappresentato dalla preventiva individuazione degli obiettivi, degli standards
qualitativi e quantitativi del servizio, l’altro, rappresentato dall’erogazione del
servizio stesso.
L’effetto di tale distinzione si riverbera sul piano della qualità del servizio
erogato in quanto l’individuazione di tali due livelli, consente di far
riferimento non già ad un unico soggetto, bensì di diversificare gli interpreti
della gestione del servizio in modo da garantire al cittadino una reale
indipendenza del servizio dalle ragioni contingenti di utilità che potrebbero
71
influenzare il gestore ove questo si trovi ad essere ad un tempo chiamato a
fissare i principi, gli obiettivi ma anche ad erogare il medesimo servizio.
In tale prospettiva è sicuramente evidente come il primo livello appartenga
naturalmente a soggetti pubblici, ancorché territoriali come le Regioni,
Province, ecc.
Per quanto attiene, invece, al secondo grado, posto che i contenuti essenziali si
trovano già definiti al primo livello e che, dunque, unico oggetto residuale
dell’attività dell’istruzione è quello della erogazione di questa, nulla impone di
connotare l’interprete di tale livello (il gestore) come soggetto pubblico,
potendo, tale funzione di erogazione del servizio, ben essere affidata, anzi, ad
un soggetto privato.
D’altronde, il ricorso a tali soggetti nell’erogazione di un servizio pubblico (e
dunque anche del servizio scolastico), oltre che perfettamente realizzabile, è
anche cosa resa sempre più frequente dalla positiva ricaduta economico-
finanziaria che subisce la P.A. dall’apertura, verso il mercato concorrenziale
dei privati, di settori di attività che avrebbe il compito di finanziare e gestire.
Si tratta indubbiamente di un’ipotesi applicativa del principio di buon
andamento affermato dall’art. 97 Cost.
Tuttavia, non possono essere tralasciati alcuni caratteri essenziali del servizio
scolastico, che distinguono questo dagli altri servizi, specie di rilevanza
economico-industriale, in cui si può estrinsecare l’attività amministrativa.
Stante, infatti, la necessità di commisurare i contenuti e le modalità di
erogazione del servizio con la posizione complessiva del destinatario, si deve
osservare come la scindibilità dei due livelli divenga assai più sfumata nel
contesto del servizio scolastico.
L’erogatore (ovvero l’insegnante), infatti, non può essere visto come mero
esecutore di un’attività. Ciò in quanto l’attività scolastica non può certo essere
considerata alla stregua di un’attività materiale in cui una parte concepisce ed
un’altra realizza. In una simile situazione è certamente facile immaginare una
netta distinzione nei due livelli che, tuttavia, non è riscontrabile ove il servizio
erogabile non sia assolutamente standardizzabile, per effetto di un continuo
dialogo tra erogatore e fruitore che inevitabilmente spinge l’erogatore verso il
livello superiore di definizione del servizio.
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Sulla scorta di quanto sin qui affermato, siamo portati, allora, a
considerare l’istituto scolastico come un organo autonomo del servizio
dell’istruzione.
Ciò è, indubbiamente vero, specie sotto il profilo organizzativo
dell’erogazione che, come visto, può spingersi sino ad interessare i contenuti
dell’attività dell’istruzione.
Tale margine presuppone, però, la necessaria esistenza di un ambito
decisionale riservato all’istituto scolastico, reso così autonomo rispetto ai
poteri pubblici.
Resta, tuttavia, che quello dell’istruzione è un interesse che, rientrando
pacificamente nell’ambito degli obiettivi fondamentali di qualsiasi comunità,
deve essere definito come pubblico, con ciò imponendo una generale
compatibilità delle finalità del sistema dell’istruzione con i dettati degli enti
territoriali competenti alla gestione dell’interesse pubblico in parola.
Secondo tale lettura, dunque, il potere politico statale incontra due precise
limitazioni, offerte dalla necessità di rispettare l’ambito tecnico riservato agli
istituti e di lasciare all’erogatore sufficienti spazi di intervento socio-
economico.
Tale quadro deriva esplicitamente da una lettura sistematica delle disposizioni
costituzionali dedicate all’istruzione, in forza delle quali ai pubblici poteri è
riservato il compito di dettare le norme generali sull’istruzione (v. artt. 33 e
117, comma 2), i livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lett.
m)), pur tutelando, al tempo stesso, l’autonomia scolastica sancita dall’art.
117, comma 3 Cost..
A fare da pendant a questa articolazione normativa, è la disciplina legislativa
ordinaria che all’art. 21, comma 9, L. 59/97, afferma che “L’autonomia
didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema
nazionale di istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà
di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto di apprendere. Essa si
sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti,
organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della
possibile pluralità di opzioni metodologiche, e in ogni iniziativa che sia
espressione di libertà progettuale, compresa l’eventuale offerta di
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insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi e nel rispetto delle esigenze
formative degli studenti.”
Indubbiamente, come osserva perspicacemente Marzuoli, “in attuazione degli
ordinari (ma fondamentali) principi concernenti l’azione di pubblici poteri,
come il buon andamento, l’individuazione e l’attribuzione delle
responsabilità, la conoscibilità e trasparenza, parrebbe indispensabile un
sistema di valutazione e di controllo adeguato. E quello che oggi esiste non è
tale. Da quest’ultimo punto di vista dunque l’autonomia, rispetto alle norme
costituzionali, è troppa e non poca”23.
23
Cfr. Marzuoli, Istruzione e servizio pubblico, Bologna, 2003, p.108.
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dell’istituto chiamato a operare la scelta dei docenti, con buona pace della
libertà di insegnamento.
È del tutto chiaro, infatti, come la libertà di insegnamento sia un principio la
cui applicazione deve superare la dimensione individuale in modo da poter
presiedere all’esercizio del servizio stesso nella sua uniforme interezza.
Va comunque detto che anche la diversa strada del reclutamento per
mezzo di procedure concorsuali non elimina ogni difficoltà sistematica di
compatibilità con i valori posti dalla costituzione a fondamento del servizio
scolastico.
Se da un lato, infatti, il reclutamento concorsuale del personale docente
potrebbe risolvere in senso statalista il dubbio interpretativo (aggravato dal
vigente Titolo V Cost.) su chi sia il datore di lavoro del corpus dei docenti,
dall’altro comporterebbe un’importante condizionamento di quel margine di
libertà (discrezionale) di cui deve godere l’istituto e, con esso, il docente nella
concreta graduazione del servizio.
D’altronde, una visione matura della funzione docente porta ad ampliarne il
contenuto verso attività strumentali e correlate ad essa, il cui scopo ultimo è
quello di concorrere allo sviluppo delle conoscenze sociali e delle capacità del
corpo sociale stesso. Il che è, in fondo, ciò che rende l’istruzione un interesse
pubblico.
In quest’ottica deve, pertanto, essere possibile per l’istituto scolastico
autonomo il ricorrere a figure comunque in grado di operare il trasferimento di
conoscenze in cui si sostanzia l’istruzione, in accoglimento ed attuazione del
margine di autonoma organizzazione che gli compete, oggi più che in passato,
per effetto dell’introdotto principio di sussidiarietà, in ossequio al quale solo
l’istituto può dirsi direttamente a contatto con le esigenze dell’utente.
È forse questa la quadratura del cerchio. Seguendo questa ricostruzione, in
effetti, si potrebbe finalmente trovare il momento di coesione tra la libertà di
insegnamento, che richiede un determinato status giuridico stabile e tutelato, e
la possibilità, rimessa a singoli istituti, di raggiungere le competenze di cui
abbisogna, al di là delle, talvolta, sclerotizzate schematiche della funzione
docente giuridicamente configurata.
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