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I CONCETTI DI NORMALITÀ, MALATTIA E SALUTE, PATOLOGIA E FISIOLOGIA

In quest’ottica si considera la malattia come qualcosa da allontanare per mezzo di prevenzioni. Le


prevenzioni tradizionali sono di quattro tipi:

• Prevenzione primaria:
si impedisce che il paziente si ammali evitando il contatto con l’agente patogeno (per esempio il
sistema di fogne in città e la pulizia sono mezzi con cui si cerca di evitare il contatto con agenti
patogeni).
• Prevenzione secondaria:
quando non è possibile impedire la comparsa della malattia, poiché essa è di origine genetica o
multifattoriale, si fa uno screening per individuare la malattia in stadi iniziali ed evitare che si
aggravi.
• Prevenzione terziaria:
si impedisce che una malattia cronica si aggravi (per esempio si può impedire la comparsa del
sintomo del piede diabetico ad un paziente che ha il diabete, anche se non si può eliminare il
diabete).
• Prevenzione quaternaria:
è la prevenzione del danno iatrogeno, cioè della malattia causata dalla medicina nel caso di
overprescription che si realizza quando la prescrizione di una cura, fatta dal medico o richiesta dal
paziente, è inefficiente e causa danni al paziente stesso.

Perciò, considerare la malattia come qualcosa che si può evitare con la prevenzione è molto riduttivo.
Infatti il concetto di malattia è complesso e dipende da diversi fattori, che non possono essere stabiliti in
maniera oggettiva.

Es. Le tematiche di un programma di prevenzione sono focalizzate sulla prevenzione primaria: evitare
l’esposizione al rischio. Bisogna però sostituire ad un concetto negativo, che sarebbe quello preventivo,
uno positivo che sta nella salute. Quando si entra nell’ambito promotivo bisogna confrontarsi con i dubbi
degli interlocutori, al contrario di quello preventivo incentrato su slides e lezioni già pronte. Da più tempo
gli operatori sanitari sono nel campo, più per loro è difficile parlare della parte promotiva; sono molto più
focalizzati sulla parte preventiva, perché l’oggetto del loro lavoro è sempre la malattia e acquisiscono gli
strumenti per la malattia. Dunque la promozione alla salute non solo ci obbliga a lavorare sulla soggettività,
ma ci obbliga ad occuparci di un ambito di saperi, che non fanno parte normalmente del corso di studi dei
professionisti sanitari.

Questo fatto condiziona il rapporto tra medico e paziente, i quali possono essere concordi o discordi nello
stabilire lo stato di salute o di malattia, pertanto possiamo parlare di paradosso dell’incontro tra medico e
paziente.

• Il paziente si percepisce sano e il medico lo considera sano


• Il paziente si percepisce malato e il medico lo considera malato
• Il paziente di percepisce sano ma il medico lo considera malato
• Il paziente si percepisce malato ma il medico lo considera sano
Nei casi in cui i pareri di medico e paziente sono in disaccordo è difficile stabilire chi ha ragione. Da un lato il
medico ha delle competenze oggettive che permettono al medico di predire lo stato futuro del paziente.
Infatti, per stabilire lo stato fisiologico o patologico, il medico si basa su delle statistiche. Quindi il metodo
che utilizza prevede di:
-scegliere un campione di persone rappresentativo di tutta la popolazione
-misurare la caratteristica di interesse un numero di volte che riduca al minimo l’errore

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-costruire una curva Gaussiana e ricercare il valore normale (che si presenta più frequentemente nella
popolazione) per stabilire un range di valori considerati nella norma

Tuttavia il fatto che i valori rientrino o meno nella normalità non implica uno stato di salute o di malattia.
Sicuramente è possibile stabilire che, se i valori rientrano nel range di normalità, è statisticamente meno
probabile che la patologia si manifesti; mentre se i valori non rientrano nel range di normalità, è
statisticamente più probabile che la patologia si manifesti. Ma una costruzione gaussiana del “normale” e
un approccio medico basato sulle sole competenze oggettive approssima l’individuo reale ad un individuo
teorico standard, creando un divario con l’individuo reale.

Il concetto di malattia e salute è qualcosa di molto diverso dalla patologia e fisiologia ed esso non può
essere stabilito in modo oggettivo con delle statistiche. Mentre la patologia è una alterazione delle funzioni
fisiologiche, la malattia è una condizione della vita, un cambiamento della qualità dell’esistenza
dell’individuo, che porta alla mancanza di salute intesa come benessere personale, che è concetto che
ognuno percepisce in modo diverso. “Se una persona non può più essere trattata per la sua patologia, può
comunque essere curata?”. Ci sono molte azioni da compiere quando le persone sono ormai intrattabili,
ma non sono mai incurabili, ma anzi esser curati a partire dalla soggettività, dalla promozione del
benessere.
Intendiamo con il termine “salute” libertà incondizionata e silenzio degli organi, con il termine “malattia”
l’incapacità di svolgere le funzioni che la società ci ha dato e che noi abbiamo accettato.

La salute (OMS 1948) non è una condizione di mancanza di infermità, ma è una completo stato di benessere
fisico, psichico e sociale. Cosa definisce però il benessere? Anche diverso concetto di morte. Infatti salute e
malattia sono esperienze eminentemente umane, che ogni individuo mette in relazione con le altre
esperienze della vita. La malattia si inserisce quindi all’interno della storia dell’individuo, pertanto due
persone diverse possono presentare la stessa patologia, ma non hanno mai la stessa malattia. La salute
dunque non va considerata come stato, ma come processo; rappresenta la capacità di superare le crisi
organiche, definendo un “nuovo ordine fisiologico”che consente di ristabilire il flusso della vita.

A questo bisogna aggiungere che l’individuo fa parte di un contesto in cui vive e con cui è in equilibrio.
Questo contesto è rappresentato dalla società, la quale fornisce dei modelli, dei parametri, dei valori e dei
compiti, che l’individuo che ne fa parte accetta. La società quindi definisce anche il concetto di malattia,
poiché stabilisce cosa è normale e cosa non lo è. Per esempio l’omosessualità è stata considerata da molti
come una condizione di anormalità, quindi di malattia. L’aspetto psicologico è estremamente importante
perché è collegato alle persone che stanno intorno all’individuo e che stabiliscono con lui e per lui
parametri di bellezza normali in forma negoziata: la bellezza sociale infatti porta a una reazione attiva da
parte dell’individuo, il quale può decidere se conformarsi o ribellarsi a questo fattore, in modo del tutto
soggettivo.

Georges Canguilhem, filosofo e storico della scienza, nel suo Il normale e il patologico ragiona sul concetto
di normalità. E’ la società che definisce ciò che è normale e ciò che è anormale, dando dei parametri agli
individui con cui essi si devono misurare. Quindi la normalità non può essere associata strettamente allo
stato fisiologico, come allo stato patologico; non è definibile in maniera oggettiva e quantitativa. Egli dice
che in questo processo di relazioni tra medico e paziente, chi ha ragione è sempre il paziente perché è solo
perché una persona un giorno si è sentita malata che esiste una medicina ed è solo perché esiste una
medicina che le persone sanno di che cosa sono malate. Lo stato di malattia è qualcosa di complesso, che
non coinvolge solo l’individuo che la esperisce, ma anche tutte le persone che lo circondano. E’ dunque
innanzi tutto perché gli uomini si sentono malati che vi è una medicina. E’ solo secondariamente, per il
fatto che vi è una medicina, che gli uomini sanno in che cosa sono malati. Si crea un curatore nel
momento in cui il soggetto pone il potere terapeutico in un altro.

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Il normale statistico non ci consente di dare un giudizio morale su una persona, e quindi di poter essere
normativi rispetto alla sua esistenza, in quanto la normalità è da considerare come un processo adattativo
rispetto al contesto in cui l’individuo vive, il quale è variabile.

Un altro scritto che si riferisce ai concetti affrontati è The enigma of Health di Gadamer, nel quale l’autore
utilizza il termine appropriato al posto di normale. Quindi, una condizione di salute appropriata viene
definita come una relazione equilibrata tra individuo e mondo, in una vita che scorre in maniera
appropriata secondo le aspettative di chi la vive. Gadamer inoltre definisce la malattia come la perdita
della libertà indisturbata, che comporta l’esclusione del soggetto che la vive dal ruolo che egli ha nel
contesto in cui vive. La salute implica quindi una riacquisizione di tale libertà del vivere.

Inoltre, è importante sottolineare che la guarigione non può essere il ritorno ad uno status quo ante,
poiché la malattia come esperienza di vita non può essere totalmente cancellata dalla storia di un
individuo. Per questo motivo un individuo può contrarre due volte la stessa patologia, ma non presenta
mai due volte la stessa malattia, poiché egli vive la patologia sempre in modo diverso. La guarigione
implica invece la capacità di superare il momento di crisi, definendo un nuovo ordine fisiologico, che
consente di ristabilire il flusso della vita.

Un altro autore Goldstein definisce la salute come l’essere all’altezza dei doveri che risultano dall’ambiente
che è proprio dell’individuo (Il concetto di salute ed altri scritti), quindi è la capacità propria dell’individuo
di interagire in modo equilibrato con il contesto in cui vive.
Da questo ragionamento emerge una nuova definizione del concetto di normalità, che non viene imposto
dal medico come codice normativo morale, ma è il risultato di una negoziazione tra individuo, ambiente e
società. Per concludere, quindi, possiamo affermare che il ruolo del medico non è soltanto quello di evitare
la patologia, ma curare la persona, che vive all’interno di un contesto sociale, e che non può essere ridotta
al funzionamento fisiologico del suo corpo. (REINSERIRLA NEL SUO RUOLO NELLA SOCIETA’)
Infatti, se l’azione si limita ai corpi e alle molecole nei corpi, senza ristabilire il benessere percepito, la
medicina diventa autoreferenziale e totalmente inefficace al fine di recuperare lo stato di salute. In
funzione di ciò, non esiste necessariamente una relazione tra il concetto di malattia e di patologia, come
non esiste una relazione tra il concetto di salute e di fisiologia, ma un ritorno alla fisiologia non è una
condizione necessaria né sufficiente a determinare il ritorno alla salute.

Il rapporto medico-paziente e lo stato di malattia possono essere interpretati e vissuti in maniera molto
diversa dal medico e dal paziente; è molto importante per un buon medico saper distinguere ciò che può
essere fatto per la malattia in sé (e cioè per la patologia) e ciò che può essere fatto per il paziente malato.

L’attenzione al paziente e non alla sua malattia apre una discussione sulla necessità di capire che cos’è la
salute; la salute può essere intesa come libertà incondizionata e questo induce a considerare la volontà
degli individui e l’idea di benessere che questi individui hanno. Se consideriamo la salute come un diritto,
non ci sono in realtà diritti affermabili; non garantiamo diritti, ma la possibilità di avere dei diritti; non
abbiamo diritto a un diritto specifico ma abbiamo “diritto ai diritti”, poiché i diritti sono mutabili nel
tempo.

Ci sono diversi modi in cui una visita medica si può svolgere, ne esemplifichiamo due:

Caso 1: il dottore (un ginecologo a cui la paziente si è rivolta per avere informazioni riguardo il pap test,
esame da cui è spaventata) dà molte informazioni per scontate senza interpellare la paziente su argomenti
molto importanti come l'orientamento sessuale o le gravidanze avute, sbagliando su alcune questioni
fondamentali e non guadagnando la fiducia della paziente, tanto che questa sostiene di avere le
mestruazioni per evitare di sottoporsi al pap test.

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Caso 2: il dottore non dà per scontata alcuna informazione riguardo la sua paziente e dando la possibilità a
questa di esprimersi senza sentirsi giudicata ne guadagna la fiducia in modo che dia informazioni precise su
di sé (la visita medica dura ovviamente di più).

(Un grosso problema è che il sistema sanitario richiede un certo numero di pazienti al giorno.)

In accordo con Arthur Kleinman gli “attori” in grado di aiutare l’individuo sono riconducibili a tre categorie:
le cure popolari (genitori, rimedi della nonna ecc.)
le cure tradizionali (curatori tradizionali, erboristeria tradizionale, ecc.)
le cure professionali (medici, infermieri, farmacisti, ma anche maghi “professionisti”).
Generalmente, quando le persone sono malate e non riescono ad auto trattarsi, scelgono chi consultare
influenzati dalla relazione individuo-contesto, scelgono le fonti di informazioni e trattamento che
sembrano più appropriate alle loro condizioni, distribuendo l'autorità terapeutica alle figure che meglio
rispondono alle esigenze di accudimento. Quando le necessità dell'individuo sono multiple e complesse,
viene costruita una rete di cura includendo contemporaneamente figure dei diversi settori.

Il filosofo ermeneutico J. Habermas distingue l’agire strumentale dall’agire comunicativo.


Agire strumentale: considerato razionale un comportamento adeguato al raggiungimento di uno scopo
tramite l’utilizzo di strumenti adeguati in date condizioni; si basa su un sapere empirico ed è organizzato
secondo regole tecniche (la biomedicina rientra in questa modalità di azione); da questo processo però
risulteranno tecniche standardizzate e protocolli che oggettivano il soggetto approssimandolo ad un
individuo standard teorico. L’efficacia terapeutica sarà quindi tanto minore quanto più il soggetto si
discosterà da questo standard. L’aumentare l’efficacia terapeutica forzando il soggetto ad allinearsi allo
standard, forzandolo ad utilizzare norme per la propria azione prodotte fuori di sé, può avere efficacia sulla
singola patologia ma non permette il riacquisto della salute come “libertà incondizionata” e ricostituzione
di un equilibrio personale con l’ambiente.
Agire comunicativo: in cui è essenziale appunto la comunicazione, ovvero una interazione tra individui
mediata simbolicamente tramite il linguaggio. Riprendendo le tesi di un altro filosofo ermeneutico, Apel,
dall’uso del linguaggio emerge una struttura in cui troviamo norme di comportamento: poiché non si può
usare un linguaggio in solitudine, è necessario per ogni lingua e contesto rispettare le regole del linguaggio
istituite, e per ogni atto comunicativo sono responsabile dell’uso corretto del linguaggio davanti al mio
interlocutore, facendo in modo che egli comprenda appieno il significato di ciò che gli sto comunicando.
Questa considerazione ha anche implicazioni etiche: rispettare l’interlocutore come avente pari diritti ai
miei, cui consegue l’obbligo di promuovere attivamente la possibilità dell’altro di comunicare, rimuovendo
gli eventuali ostacoli (e.g. informazione corretta e completa).

Tutta l’esistenza individuale e sociale deve essere strutturata in modo da promuovere questa razionalità
che si basa sulla ricerca di una intesa tra individui che sono interlocutori e protagonisti, ma non strumenti,
evitando quindi che la razionalità strumentale si sovrapponga a essa, e che la razionalità dei sistemi
(strutture organizzate a certi scopi) cancelli la razionalità comunicativa.

Es: con un paziente pediatrico il rapporto non è diretto con il piccolo paziente ma è mediato dai genitori,
con i quali si deve scegliere la strada migliore per il bambino, in un rapporto di fiducia e condivisione. Di
questo rapporto si occupano in particolare Barbara Dosso e Silvia Kanizsa, nel libro “La paura del lupo
cattivo. Quando un bambino è in ospedale”. Il rapporto che si instaura con il paziente non è più un rapporto
a due, ma un rapporto a tre, in cui ad ogni vertice di un ipotetico triangolo abbiamo: medico, paziente,
genitori del paziente.
Con l'esperienza, infatti, si arriva a comunicare solamente ciò che è essenziale, ciò che può essere
considerato utile a genitori e pazienti per comprendere la malattia senza indurre fantasie angoscianti. Nel
caso di malattia grave, è fondamentale che il medico si approcci con grande delicatezza e semplicità senza
nascondere nessun aspetto della verità.
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Il linguaggio utilizzato dal medico deve essere comprensibile per chi gli sta di fronte, il tono deve essere
tranquillo e il paziente (o chi per lui) deve essere messo nella condizione di esprimere dubbi di ogni genere
senza sentirsi giudicato; il medico dovrebbe utilizzare modi diversi di espressione, adattati alle persone con
le quali comunica (dopo aver fatto esame di contesto ambientale, momento, caratteristiche
personologiche).
È così quindi che il genitore diventa una sorta di parafulmine di tutte le difficoltà che il medico incontra nel
percorso. La categoria “genitori”, visti come una massa compatta ed uniforme di rapportarsi che costituisce
uno schermo fra medico e genitore ed evitando ogni scambio effettivo impedisce al medico di entrare in
crisi di fronte alle difficoltà e alle ansie dei suoi interlocutori.
Anche in campo pediatrico è fondamentale un’“umanizzazione” della medicina: si deve passare dal
prendersi cura della patologia a prendersi cura della persona malata nel suo complesso.

Questa grande diversità che noi vogliamo garantire al soggetto entra in conflitto con la libertà degli altri
individui. La malattia, quindi, come parte della storia di un individuo, non va rimossa ma semplicemente
elaborata in modo che possa riavere un senso nella vita delle persone. Le persone possono avere due volte
la stessa patologia, ma non possono avere due volte la stessa malattia. Soprattutto per quelle persone
che presentano dei casi complessi lavorare sulla patologia è indicatore di scarsissima efficacia; nella
maggior parte dei casi è opportuno contestualizzare l’individuo. La dissociazione tra patologia e malattia
porta a frequenti ricoveri di anziani “complessi”, definiti “pazienti porta girevole”, sono considerati un
incubo dal sistema sanitario perché impiegano una percentuale di risorse del sistema sanitario molto
elevata (si parla del 60/70 %; ad esempio in Emilia Romagna questa percentuale è il 78% ). Tutto questo è
dovuto a ricoveri evitabili con trattamento territorializzato.

I desideri, benché siano distinti per ogni individuo, sono prodotti dall’esposizione ad una determinata
società, perciò il desiderio dell’individuo va preso in considerazione rispetto al contesto in cui si è
sviluppato. Il desiderio e le volontà degli individui sono sempre importanti, ma non per questo
dovrebbero sempre essere soddisfatti.
Ad esempio una madre (anche informata delle conseguenze) di proposito evita di vaccinare il proprio figlio.
Questo va ad influire sulla società, che infatti cercherebbe di non rispettare la sua volontà e farle comunque
vaccinare il figlio. I sostenitori del vaccino quindi non possono essere sicuri di avere ragione. Anziché il
medico decida in maniera indipendente cosa è meglio per il paziente, risulta dunque più risolutivo dare al
paziente gli strumenti per scegliere autonomamente cosa preferisce fare.

ECONOMISTA FILOSOFO INDIANO: AMARTYA SEN

Quando si considera una libertà, un desiderio, è importante capire:

funzionalità (functioning) dell’individuo: garantire il compimento di quelle (tante o poche) specifiche


funzionalità possedute dall’individuo, azioni e modi di essere che un individuo fa ed è.

capability (capacità): essere liberi/in grado/capaci di fare ciò che si vuole, all’interno delle proprie
funzionalità. Un individuo potrebbe non avere la capacità di fare qualcosa, purché sia all’interno delle sue
funzionalità, se fosse ostacolato (esempio: non posso uscire perché mio padre me lo impedisce, o perché
fuori è pericoloso). La possibilità che l’individuo ha di diminuire consciamente il suo benessere, pur
essendogli possibile evitare una tal perdita, per non venir meno ai propri ideali o al proprio senso del
dovere.
Le capacità non sono tutte uguali ma si dividono in due grandi categorie:
CAPACITA’ DI BASE: sono tutte quelle capacità che è necessario possedere per vivere in modo accettabile,
fuori dalla povertà. Per esempio, nutrizione, vestiario, abitazione adeguata e una buona salute si

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definiscono come funzionalità di base e ad esse corrispondono le capacità di nutrirsi, vestirsi, acquisire
un’abitazione appropriata, evitare la malattia e non morire prematuramente.
CAPACITA’ SECONDARIE: sono quelle capacità che, pur essendo importanti per un individuo, non sono
indispensabili per mantenerlo fuori dalla soglia della povertà. Si annoverano tra le funzionalità più
complesse il benessere, il grado di soddisfazione della propria vita sociale e la felicità, a cui corrispondono
le capacità di realizzare tali condizioni.
Queste riflessioni si rivelano cruciali in ambito sanitario, dal momento che i servizi hanno l’obbligo di
stabilire le priorità per gli interventi e tendono a definire le liste di beni e prestazioni da offrire ad individui
e comunità a partire da una valutazione di efficacia ed impatto.
Le funzionalità e le capacità primarie individuano le condizioni minime essenziali per condurre una
esistenza accettabile, al di sotto di questo livello le condizioni di vita sono considerate umanamente
inaccettabili. Man mano che le funzionalità e le capacità diventano più complesse allora diventano sempre
più rilevanti le scelte personali ed i valori soggettivi.

Ognuno poi ha dei valori diversi, in base ai quali sceglie come comportarsi; non è possibile infatti valutare il
benessere di una persona senza analizzarne i valori di riferimento.

Inoltre ho il benessere personale in riferimento alla propria vita (standard of living), inteso non in senso
monetario, bensì come una sommatoria fra gli elementi di ricchezza materiale e quelli di natura
immateriale che il soggetto possiede.

La capacità dell’individuo di affermare i propri valori, ossia di realizzarsi, concorre ad aumentare il suo
benessere (well-being), concetto più ampio dello standard of living che include anche gli apporti positivi
per il nostro benessere che derivano da un aumento del benessere altrui.

La capacità di produrre il proprio benessere, e quindi di ottenere la salute attraverso l’affermazione delle
proprie libertà, è definita agentività (agency) è il rimediare alle fasi di disequilibrio producendo nuove fasi
di equilibrio ugualmente o maggiormente soddisfacenti rispetto alla precedente fase di equilibrio. Per
garantire il benessere di un individuo occorre fornirgli risorse così da aumentare la sua agentività, ossia
permettergli di espletare al meglio e secondo il suo desiderio le sue capacità in virtù delle funzionalità che
gli sono proprie. Comprende anche la componente del commitment (es. il sentirsi responsabile per diritti
negati ad altre persone). La rilevanza del commitment risiede nel fatto che sancisce una separazione tra
scelta individuale e il benessere personale.

La LIBERTÀ del singolo, che abbiamo identificato come elemento imprescindibile per la sua salute, non può
però configurarsi come un elemento assoluto e senza limiti, poiché è necessario tenere conto anche della
libertà di tutti gli altri individui che fanno parte dello stesso contesto sociale. Bisogna quindi operare una
distinzione fra i tipi di libertà e le modalità con cui sono regolate.
Saper valutare le libertà è molto importante perché legato alle pratiche di risoluzione delle malattie;
l’empowerment del soggetto infatti (ossia fornirgli tutti gli strumenti e le informazioni necessarie ad
aumentarne l’aggettività) ne aumenta la libertà.

In "Elements of a theory of human rights", l'economista indiano nota come le libertà individuali siano
sempre definite dal contesto circostante. Ad esempio il diritto umano a non essere torturati deriva dal
riconoscimento dell'importanza della libertà dalla tortura per tutti. Ma questo diritto individuale e
collettivo ci interroga su quali azioni debbano essere concretamente intraprese per rendere il diritto
esigibile. Esiste un obbligo imperfetto (Kant) riguardante i non aspiranti torturatori che hanno la
responsabilità di mettere in atto tutte le misure necessarie a garantire il diritto prefetto individuale e
collettivo a non essere torturati. Egli ritiene che, attraverso una dichiarazione dei diritti umani, questi
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debbano essere considerati come imperativi etici, piuttosto che come precetti di natura strettamente
giuridica. L’importanza dei diritti umani deriva dall’importanza che hanno le libertà da essi rappresentate
ed è proporzionale al male che deriva dalla loro violazione. I diritti umani, dunque, devono essere, per
definizione, principi universali, riconosciuti e accettati in ogni luogo. Dunque sono delineate due tipi di
diritti o libertà, quelle positive e quelle negative:

1) La LIBERTÀ NEGATIVA è individuabile come una "libertà da", le libertà che sono prodotte tramite
imposizioni o restrizioni esterne che garantiscono le libertà individuali pur limitando quella altrui. Per
garantire le libertà negative occorre un consenso da parte della comunità circa l'attuazione di queste
imposizioni, che consenta quindi l’azione sociale e questo prevede la cessione di una parte delle libertà
personali alla comunità; buona parte della comunità riconosce un valore come importante e pertanto si
preoccupa di tutelarlo creando delle leggi che sanciscano quali siano i comportamenti corretti e quelli
scorretti, istituendo delle pene per dissuadere da una condotta scorretta e degli organi deputati a vigilare
sulla corretta applicazione delle leggi. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 sono emerse quattro
generazioni di Diritti:
diritti civili e politici;
diritti economici, culturali e sociali, anche il diritto al welfare;
diritti di solidarietà, come il diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla pace, allo sviluppo, all’equilibrio
ecologico, al controllo delle risorse nazionali;
diritti derivati dalla scoperta di nuove tecnologie, come il diritto ad una connessione ad Internet veloce.
E’ importante notare come una legge sia diretta espressione dei sistemi di valori di una comunità: una legge
è quindi giusta se non tradisce il valore che era previsto proteggesse e se rispecchia un reale modo di
sentire della comunità.
Norberto Bobbio oppone al concetto di singoli diritti imprescindibili dell’uomo il concetto del “diritto ai
diritti”: anziché tutelare i valori più importanti in modo specifico è meglio garantire che vi sia sempre una
tutela di quei valori così imprescindibili, che esista un “diritto ai diritti”, senza però specificare come questa
tutela si attuerà, poiché la modalità migliore potrà variare nel tempo. Emerge in questo contesto la
differenza tra giustizia, che è un principio, e diritto, che invece rappresenta un dispositivo messo in atto
in un contesto sociale.

2) LIBERTÀ POSITIVA, ovvero le "libertà di", strettamente legate al concetto di funzionalità (functionings) e
capacità (capabilities) di Sen. Occorrono dunque risorse che possano essere messe in condivisione
all'interno della comunità affinché tutti i soggetti appartenenti a tale contesto possano raggiungere i propri
obiettivi. La libertà di cure mediche adeguate, cibo nutriente, una casa sono dipendenti dalla disponibilità di
risorse all'interno della comunità che possano essere disponibili per i membri della società considerata.
Occorre togliere parte delle libertà delle persone per poterne realizzare altre. Un sistema sfruttato a tal fine
è quello della tassazione ma, oltre a questa, occorre comprendere che lo spazio collettivo in cui si attua la
ridistribuzione è di vita. I cittadini devono concordare nel volere crescere l'aggettività di chi non ha risorse
sufficienti, altrimenti dal "chi più ha, più dà" si passa ad una distribuzione uguale per tutti, senza
considerare i bisogni dei singoli che possono essere maggiori o minori. Solo così si può avere un patrimonio
comune, che può a sua volta essere sfruttato o in forma pubblica (come il paesaggio) o collettiva (come il
diritto a pescare o al pascolo) o privata (come le cure o il cibo). La ridistribuzione può essere di beni
materiali (cibo, cure) e immateriali (conoscenza, informazione, avere l'accesso a Internet). Inoltre questi
beni possono essere:
distribuibili (reddito, servizi sanitari)
non ridistribuibili direttamente perché dipendono da quelli distribuibili (cultura, integrazione
sociale,salute)
non distribuibili (malattie genetiche, abilità in determinati ambiti)

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In un sistema sanitario privato, basato sulle leggi della domanda e dell’offerta stabilite dal mercato,
l'accesso ai servizi è determinato dalla volontà e dalla capacità di pagare che l’individuo ha.
In un sistema sanitario pubblico, basato sul concetto di Diritto alla Salute, l'accesso è in teoria determinato
dai bisogni a cui i fornitori di servizi rispondono guidati dalle necessità di tipo sociale, politico, umano e di
Diritto; non è in grado di produrre salute qualora non vengano messe a disposizioni risorse a sufficienza,
soprattutto in relazione a quei soggetti che hanno problemi di salute causati da una scarsa disponibilità di
risorse (malattia prodotta attraverso una riduzione delle libertà positive). Il sistema dei servizi sociali e
sanitari dovrà dunque attingere a risorse ben più ampie di quelle farmacologiche o biologiche, ma questa
risorse non sempre possono essere semplicemente comprate o vendute. Risorse come le reti sociali, la
solidarietà, la percezione del bene comune, le attività di volontariato sono prodotte attraverso processi che
stimolano la costruzione di identità collettive e di beni collettivi.

Infine è notevole come le libertà positive e negative siano fortemente intrecciate, difficilmente separabili.
Ma mentre la violazione delle libertà positive non prevede necessariamente la violazione di quelle negative,
la violazione delle libertà negative prevedono anche la violazione di quelle positive.

La definizione di libertà positiva sfocia nel tema della giustizia sociale perché, come sosteneva Sandro
Pertini “la libertà senza giustizia sociale non è che una conquista fragile, che si risolve per molti nella
libertà di morire di fame”. La società deve prendersi carico di fornire le risorse necessarie a garantire le
libertà positive dei singoli componenti poiché questo contribuisce al benessere collettivo. La sofferenza di
singoli individui è sofferenza per la collettività, pensiero espresso nell’Art. 3 della Costituzione della
Repubblica Italiana, secondo il quale “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese.” Tuttavia è difficile, nella società, trovare una quantità di risorse sufficiente a garantire tutte le
libertà in modo attivo, a fornire servizi pubblici adeguati e gratuiti. Spesso si devono compiere delle scelte
organizzative molto complesse ed è impossibile indicare un modello da seguire che sia privo di difetti. Per
quanto riguarda il sistema di tassazione, che rappresenta il maggiore strumento per reperire risorse, una
soluzione possibile per decidere come ripartire gli oneri è esigere maggiori apporti da chi ha maggiori
possibilità (tassazione progressiva) e si attuerebbero logiche di distribuzione omogenea della tassazione,
con il risultato di ridurre i servizi pubblici e accentuare così le differenze di agentività già esistenti.
Emergono dunque due aspetti salienti relativi alla promozione della Salute come Libertà:
-la necessità della cessione di una parte delle libertà individuali per la costituzione di un patrimonio di
risorse pubblico, comunitario e collettivo.
-l’identificazione di un principio di giustizia sociale che favorisca la soggettività, salvaguardando le
differenze, ma costruendo i presupposti per dare a tutti le stesse opportunità.

Anche la pace è una condizione necessaria per garantire libertà agli individui. Proprio riguardo al tema della
libertà di espressione, che deve essere garantita senza timore di discriminazioni e ripercussioni, Sandro
Pertini cita il celebre aforisma di Voltaire: “Io combatto la tua idea, che è contraria alla mia, ma sono
pronto a battermi sino al prezzo della mia vita, perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente”.
In questa ottica diventano fondamentali tutti quei dispositivi che aumentano la coesione sociale e che
invitano il singolo a non estraniarsi da un problema della società in cui vive solo perché questo non lo
riguarda, come ad esempio le campagne di sensibilizzazione.

Caso dello sgombero dell’edificio ex Telecom a Bologna: il capannone, di proprietà della Telecom, era
vuoto ed è stato occupato da alcune famiglie, circa 300, molte delle quali anche con bambini. Dopo un
certo periodo, la palazzina è stata sgombrata con l’intervento decisivo della polizia. Successivamente è
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stato cercato un alloggio per chi era stato sfrattato, ma a causa della crisi economica e della mancanza di
case popolari, è stato molto difficile.
Il problema è che in questo contesto di crisi molte più persone non hanno la possibilità di pagare l’affitto e
la quantità di alloggi popolari non è più sufficiente per dare una casa a queste persone. Allo stesso tempo
però ci sono sempre più case non popolari, ma di privati, che sono sfitte a causa dell’impoverimento della
società. Si instaura una situazione paradossale, sempre più alloggi sfitti e sempre più persone in difficoltà
abitativa. Per quanto riguarda il diritto alla salute la casa è un determinante di salute quasi immediato
anche se non basta per garantirsi un buon stato di salute. Ecco perché vengono occupati edifici in modo
da avere una casa, ma al tempo stesso riuscire a garantirsi i beni primari, come il mangiare, la salute e
l’istruzione dei propri figli.
È necessario quindi l’intervento delle istituzioni (Comune e Stato) per risolvere questa situazione, pur
salvaguardando sia il diritto alla vita sia il diritto alla proprietà. Sono stati dati ai bambini alloggi temporanei
che, però, non garantiscono, anche nell’immediato, una sistemazione dignitosa.
Esiste una legge che difende la proprietà privata: se tra i valori di un individuo vi è il diritto alla proprietà,
allora questa legge è giusta; se tra i valori di un individuo vi è il diritto alla giustizia e all’uguaglianza,
allora la difesa del diritto di proprietà a discapito del diritto alla vita rende questa legge ingiusta.
Tutta questa prima parte può essere ricondotta alla sofferenza sociale: oggi rappresenta senza dubbio uno
dei temi centrali della riflessione antropologica (Kleinmann).

MORALE ED ETICA

Nel contesto di una società o di un gruppo analogo di persone esistono quasi sempre una maggioranza con
un proprio sistema di valori e una minoranza che deve adattarsi a tale sistema (es apartheid).
La morale è un insieme di regole sociali costruito sulla base di consuetudini, legato strettamente alla
cultura e talvolta così radicato, da essere confuso con leggi di natura. La morale è soggetta a variazioni nello
spazio e nel tempo, mentre l’etica rappresenta la riflessione filosofica che cerca di delineare i limiti del
concetto di bene e di male a prescindere dai contesti culturali e dall’evoluzione storica. La riflessione etica
può rappresentare, in diversi ambiti professionali, un utile strumento di analisi, che non mira a fornire
soluzioni ai problemi esaminati (anzi, tende a renderli più complessi), ma piuttosto a mettere in luce tutti i
loro aspetti, soprattutto i più contradditori, permettendo una comprensione maggiore della situazione.

Il caso Schloendorff (es. paradigmatico, unico): nel 1908, la signora Schloendorff si rivolge a un ospedale di
New York, dove viene ricoverata per problemi addominali. Il dottor Bartlett richiede alla paziente il
consenso per eseguire un “test con etere”, allo scopo di chiarire la natura di una massa addominale. La
signora accetta, ma informa tutto il personale sanitario che la sta assistendo di acconsentire solamente al
test e di non voler essere sottoposta ad alcun intervento chirurgico. Durante l’esame, il dottor Stimson
riscontra la presenza di un tumore addominale incapsulato e, date le circostanze e la risolvibilità
dell’intervento, supportato da evidenze, decide di asportarlo. Dopo l’operazione, il dottor Bartlett riporta
l’accaduto alla paziente, che ricorda i termini dell’accordo e comunica di voler intentare causa all’ospedale.

Gli elementi da tenere in considerazione in questa vicenda sono:


volere della paziente
protocollo di intervento
la mancanza di comunicazione tra il personale che ha visitato la paziente e con cui la paziente ha preso
accordi e il personale di sala operatoria.
In seguito all’intervento, inoltre, la signora ha avuto una necrosi al braccio sinistro

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Il primo processo si conclude a favore dell’ospedale,ma dal successivo ricorso e dalla seconda sentenza
nasce la procedura del consenso informato e si afferma per la prima volta il principio per cui il corpo di una
persona non può mai essere violato contro la sua volontà, perché questo corrisponde ad appropriarsi di
una risorsa altrui, a violare la libertà di un individuo. Le scelte tecniche, soprattutto se prodotte attraverso
quadri teorici appartenenti ai campi delle scienze quantitative, tendono a “naturalizzare” e depoliticizzare
le scelte allocative, riportandole su un piano di neutralità scientifica. È necessario, invece, far capo a principi
e valori di partenza.
E’ evidente come in questo caso particolare le decisioni prese dai medici seguendo la morale siano entrate
in conflitto con la volontà della paziente e come questo conflitto di difficile risoluzione sia stato ricomposto
solo attraverso una riflessione etica più profonda che ha portato alla nascita di una nuova prassi d’azione.
Entrambi i comportamenti sono razionali nel momento in cui vengono giudicati con la morale della
persona che li ha attuati.
Nel caso della signora Schloendorff, l’inviolabilità del corpo è un valore importante; il dottor Stimson invece
decide di seguire il protocollo di intervento, convinto, per quella che è la sua morale e il suo sistema di
valori, di agire correttamente sia da un punto di vista professionale sia da un punto di vista etico.

Un ulteriore esempio, supponiamo che a Bologna si diffonda un’epidemia di ebola.


Un infettivologo per debellare la malattia decide che i pazienti infettati e le persone potenzialmente entrate
in contatto con essi devono essere messi in quarantena.
La razionalità di questo piano potrebbe essere messa in discussione dall’economista a cui viene affidata la
gestione delle finanze del progetto. Secondo lui il piano sarebbe irrealizzabile perché danneggerebbe così
tanto l’economia della città, da impedire la gestione finanziaria del progetto stesso.
Da parte loro i cittadini potrebbero reagire nei modi più svariati.
Il sindaco, invece, assumerebbe una posizione più neutrale per cercare di accontentare tutti i cittadini e
assicurarsi il maggior numero di voti possibile alle elezioni successive.
Ciascuno dei pensieri analizzati, pur opponendosi agli altri, può essere considerato razionale ed è diretta
conseguenza del sistema di valori e della morale della persona che lo esprime. Non esiste probabilmente
una soluzione pienamente soddisfacente. Al massimo possiamo sperare, di giungere a una soluzione di
compromesso, non certo perfetta e totalmente giusta.

E’ per questo che vale la pena considerare la vicenda di Kevin Carter, fotoreporter di guerra in Sud Sudan. In
una zona desertica, Carter vede una bambina sfinita, malnutrita e assetata, che ha perso i genitori e ha
camminato per chilometri in cerca di aiuto. Alle sue spalle, un avvoltoio è già pronto ad intervenire quando
sarà morta. Carter si siede all’ombra sotto un albero e aspetta una ventina di minuti nella speranza che
l’avvoltoio spieghi le ali. Questo non succede, Carter è costretto ad “accontentarsi” e scatta la foto. Nel
frattempo la bambina muore. Da questa vicenda, il fotoreporter potrebbe sembrare un uomo spietato e
senza umanità. Eppure, la sua fotografia, al contrario di altre interviste e testimonianze che vengono
ignorate, viene pubblicata sul New York Times, diventa virale e contribuisce ad innescare la reazione delle
Nazioni Unite che fermano la guerra.
Possiamo concludere che Carter ha agito in modo pessimo, poiché non ha fatto altro che continuare ad
alimentare un sistema per cui non ci preoccupiamo delle tragedie che affliggono quotidianamente il
mondo, finché queste non invadono il nostro spazio vitale, anche se ha contribuito a fermare una guerra.
Questa vicenda, che non ha la pretesa di essere un giudizio ma solamente uno spunto di riflessione su
quanto da noi trattato, mostra in modo chiaro che la riflessione etica è uno strumento profondissimo di
analisi della realtà e delle vicende che accadono attorno a noi e dovrebbe indurci a riflettere su come sia
difficile stabilire in maniera netta cosa sia bene e cosa sia male e su come, a seconda di quali siano i valori
da cui partiamo, i nostri giudizi e le nostre azioni possano variare in maniera davvero radicale.

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Ci si serve del Principalismo per dare indicazioni su quando si sta potenzialmente sbagliando o si sta
tendenzialmente producendo un processo corretto. Possiamo enunciare 4 principi o indicazioni processuali
che guidino le scelte dei sanitari senza rappresentare prescrizioni normative, questi principi sono:
• Rispetto per l’autonomia: tentativo di rendere effettiva l’autodeterminazione del soggetto,
a partire dal presupposto che gli individui devono essere messi in condizioni di raggiungere il loro
benessere ma che il loro benessere non può essere raggiunto senza la loro partecipazione quindi
condividere con loro le informazioni opportune non per indurlo a raggiungere i risultati che
immaginiamo migliori per lui ma perchè possa riflettere su cosa è meglio per lui anche se i suoi
obiettivi non coincidono con i nostri.
• Non-maleficità: che si antepone alla beneficità, perchè riflette sulla normatività della
beneficità senza l’altro. La nostra tensione come sanitari è quella di agire senza limitare le libertà
dell’individuo (non nuocergli appunto), ed oltre a non effettuare azione che possano pregiudicarlo
direttamente, ricercare la sua emancipazione perchè possa compartecipare pienamente ad azioni
benefiche che lo vedano attivamente consapevole.
• Beneficità: ricerca del bene del paziente, nel suo interesse
• Giustizia: è un principio etico mentre il diritto si realizza per mezzo di azioni sociali. La
giustizia è più ampia del diritto. Quando si produce uno scritto si plasma un’idea di giustizia, ma si
trasforma in diritto quando è messo in atto e c’è consenso sociale.

Parametri per la distribuzione delle risorse


Il tentativo ha bisogno di riflessioni che rientrano nel campo etico: una distribuzione eguale delle risorse
non è necessariamente equa e una distribuzione secondo necessità non tiene conto del merito
dell’individuo nella società. Il criterio di utilità sociale o economica riflette la visione utilitaristica secondo la
quale l'obiettivo ultimo del definire priorità dovrebbe essere quello di massimizzare i benefici per l’intera
società. Altri potrebbero sostenere che risorse limitate dovrebbero essere date a chi ha meriti speciali. Ciò
di cui abbiamo bisogno è una serie di principi che fungano da criteri per una giusta distribuzione delle
risorse. Sono i “materiali di giustizia”:
A ciascuno secondo una suddivisione in parti uguali.
A ciascuno secondo il bisogno.
A ciascuno secondo il proprio contributo.
A ciascuno secondo l’impegno e lo sforzo profuso.
A ciascuno secondo il merito.
A ciascuno secondo le leggi del mercato.
Nel formulare le proprie politiche sociali la maggior parte delle società si appellano in genere
contemporaneamente a più di uno di questi principi. È anche ovvio che ciascuno dei principi sopra elencati
occupa una posizione più o meno privilegiata a seconda della tendenza politica dominante in quella società.

Le teorie più importanti che trattano di cosa possa dirsi giusto o sbagliato sono quella:
-deontologica si basa su principi che stabiliscono cosa sia giusto o ingiusto indipendentemente dalle loro
conseguenze trattano dei doveri e dei diritti. Il problema di questo approccio è che non dà indicazioni di
come comportarsi quando due o più di questi principi entrano in conflitto tra loro.
-teleologica (o consequenzialista) sostiene di rispondere a questa difficoltà proponendo che la bontà di
un’azione debba essere giudicata dagli effetti, risultati e conseguenze che produce.

Sono fondamentalmente tre le teorie della giustizia che hanno influenzato, in tempi e modi diversi, la
politica sanitaria di governi ed organizzazioni internazionali (le prime due sono di tipo deontologico, la
terza teleologico):

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1) la libertaria: per giustizia si deve intendere la difesa della autonomia e della libertà (prevalentemente
economica) dell’individuo; vede invece nel libero mercato concorrenziale l’unico meccanismo consentito (e
giusto) per ridistribuire le ricchezze. Anche nel settore sanitario viene auspicato l’espansione del privato per
consentire la libera concorrenza tra i fornitori ed eventualmente anche tra i finanziatori dei servizi sanitari.
Intrinseco è il concetto di merito.
2) l’egalitaria o liberalismo sociale o socialismo democratico: giustizia significa equità. Nel settore sanitario
esistono almeno quattro differenti definizioni di equità:
-uguaglianza di spese sanitarie pro capite
-distribuzione secondo il bisogno
-uguaglianza di accesso (per far uso di una data quantità di assistenza la persona più povera deve sacrificare
di più, deve cioè far senza qualcos’altro che per lui ha un valore maggiore di ciò di cui invece si deve privare
il ricco)
-uguaglianza di livello di salute.
L’egalitario è mosso da spirito altruistico a eliminare le disuguaglianze naturali (ereditate alla nascita) e
sociali (subite durante la vita) e propone che tali scarse risorse vengano impiegate dove esiste il bisogno
maggiore, ma si corre il rischio di utilizzare quantità enormi di risorse in un pozzo senza fondo a scapito di
altri interventi con maggiori probabilità di successo.
3) l’utilitarista pone attenzione di tipo manageriale ed efficientista sugli effetti e sulle conseguenze delle
azioni umane. L’ideale è raggiungere il massimo bene e felicità per la maggior parte della popolazione
(ottenere cioè quella che viene chiamata la massima utilità), produrre risultati desiderabili (visione
teleologica) e minimizzare quelli indesiderabili. Nel settore sanitario, tra risorse finite e domanda senza
limite, è quindi necessario raggiungere compromessi che massimizzino i benefici e minimizzino i costi a
favore del maggior numero delle persone (che non sono necessariamente le più bisognose). La
massimizzazione della utilità non significa necessariamente giustizia. Gli utilitaristi possono essere criticati
di sovrastimare l’obiettività delle loro analisi dei costi; politiche che producono il massimo beneficio netto
per la maggior parte della gente possono comportare costi terribili per le minoranze che vengono così
trascurate.

La proposta contrattualista di John Rawls, il quale afferma che una società giusta dovrebbe essere guidata
dai due principi di libertà ed uguaglianza. Rawls si chiede quale definizione della giustizia verrebbe data da
una persona razionale che fosse posta dietro a quello che egli chiama “un velo di ignoranza”, ossia senza
conoscere la propria posizione all’interno della società in cui vive. Molto probabilmente opterebbe per
una società in cui “Tutti i beni sociali primari (libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi dell’auto-
rispetto) dovrebbero essere distribuiti in modo uguale a meno che una distribuzione ineguale di uno o tutti
questi beni vada a vantaggio del meno favorito.” Il che, applicato al settore sanitario, potrebbe leggersi:
qualsiasi servizio sanitario disponibile dovrebbe essere messo a disposizione di tutti in modo uguale a meno
che una distribuzione ineguale vada a vantaggio del meno favorito.
Paradossalmente se distribuiamo le risorse in maniera eguale, produciamo disuguaglianza. Gli individui
intrinsecamente non partono da una condizione egualitaria, quindi si deve consentire alle persone di
competere a livello della società dopo aver appianato le differenze di partenza.

Tutte le volte che ci si trova a prendere decisioni e ad amministrare risorse, se non si può lavorare su
protocolli, perché riproducono logiche interne, dobbiamo chiederci se le nostre strategie provengono da un
processo di riflessione etica, cui ci siamo sottoposti, oppure se vengono da processi morali impiantati in un
certo territorio per consuetudine, i quali, per quanto possano sembrare naturali, possono essere ingiusti.
Qualsiasi sia la decisione che finiremo per prendere, essa dovrà per forza essere eticamente difendibile.

UOMO E AMBIENTE

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OMINAZIONE: l’insieme dei processi che hanno portato all'uomo attuale, attraverso modificazioni
morfologiche e strutturali da antenati di forma scimmiesca e vede quindi l’homo sapiens sapiens come
prodotto della selezione ambientale.

relazione biunivoca uomo-ambiente: per relazionarsi con l’ambiente l’uomo ha bisogno di subire
modificazioni (corporali) e riti che gli permettono di fabbricare se stesso come essere umano e definire la
propria identità rispetto agli altri individui, uomini e donne. L’uomo nasce come un individuo incompleto e
deve completarsi acquisendo una dimensione sociale che dipende dall’ambiente in cui cresce; processo di
ANTROPO-POIESI.

L’antropo-poiesi (vari processi di


auto-costruzione dell'individuo sociale, in particolare dal punto di vista della modificazione del
corpo socializzato, nonché i vari processi di costruzione del patrimonio culturale di ogni gruppo
umano) è il concetto base per gli studi epidemiologici sulle malattie.
A partire dagli anni ’70, i geografi, come per esempio Milton Santos, iniziano a parlare di “geografia
esistenziale” e non più a descrivere mappe geografiche.
Egli si chiede, pensando ai luoghi di vivenza: “È più facile che chi abita vicino al mare diventi un marinaio o
un boscaiolo?” Come faccio quindi a dire che è l’ambiente che fa pressione sull’uomo se poi l’uomo fa
pressione sull’ambiente? È un processo di circolarità.
Lo spazio non è geografico ma è una rappresentazione della società in movimento.
È la volontà dell’uomo supportata dalle caratteristiche dell’ambiente a far sì che uno spazio diventi ciò che
è e svolga una precisa funzione.
Uno stesso luogo ha connotazioni diverse a seconda della funzione esistenziale, per questo si parla di
geografie esistenziali. Santos definisce uno “spazio come accoppiamento indissolubile tra la specifica
organizzazione spaziale degli oggetti geografici, naturali e sociali, e le vite di chi lo spazio abita ed anima
ovvero la società in movimento.”
Traslando questo discorso in ambito medico ci si potrebbe chiedere chi ha definito i parametri che
sottendono il rapporto medico-paziente e per quale motivo tale relazione si instaura in un ambulatorio e
non in un altro luogo.
La determinazione della funzione del luogo non deriva esclusivamente dalla tipologia di persone che si
riuniscono al suo interno, né tantomeno dagli oggetti che la caratterizzano, bensì dai motivi per i quali le
persone tendono ad aggregarsi e dalle modalità che regolano tale interazione.
Ciò è reso possibile dall’ assunzione preconscia di norme sociali prestabilite, che seppure non
riconosciamo, siamo portati a rispettare.
Questa sedimentazione di norme prestabilite in maniera inconscia si manifesta non solo nei luoghi
esistenziali, ma in maniera più ampia nell’agire umano e nelle relazioni tra gli individui. Per esempio, se

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chiediamo agli studenti di toccarsi reciprocamente i nasi osserveremo dell’imbarazzo e del disorientamento
a causa della possibilità di infrangimento di una regola sociale, che provoca uno stato di tensione che viene
spezzato con l’ilarità collettiva. Ciò perché non vi sono delle norme che regolano tale situazione che ci
appare dunque anormale.
Da ciò (il prof chiede di togliersi una scarpa e mostrarla all’aula) evinciamo che le azioni assumono
significati diversi a seconda del luogo esistenziale (non inteso quindi come luogo geografico) e degli
individui che ospita, i quali sono caratterizzati da una storia, una cultura e da regole acquisite e celate alla
coscienza.

Il discorso dei luoghi esistenziali non si esaurisce qui ma è applicabile anche agli oggetti.
Es. “Ceci n’est pas une pipe” di Magritte. Oppure le collanine di perle, se ci trovassimo in Brasile in un rito
Candomblè esse rappresenterebbero un Orisha a seconda del colore delle perle che la costituiscono; se
invece ci trovassimo al carnevale di Salvador de Bahia esse ci legittimerebbero a baciare le ragazze che
meglio soddisfano i nostri gusti e parametri di bellezza ( socialmente formati). Quindi l’oggetto non va
analizzato in quanto tale, ma come portatore di un significato plasmato sulla cultura e sulle tradizioni che
variano in funzione del luogo e del contesto.
Dal momento che il valore di un qualsiasi oggetto, evento o luogo è strettamente dipendente dal contesto
socio-culturale in cui è collocato e che questo valore deve essere veicolato attraverso un segno (per
esempio una parola) bisogna indagare su che relazione c’è tra il segno e il significato che porta. Nel XX
secolo il linguista francese Ferdinand de Saussure si pone questa domanda.
l’analisi antropologica dell’hipster: quali sono i tratti distintivi che permettono l’identificazione di un
hipster? Il significato “hipster” deve essere caricato su un significante che lo contraddistingua, come per
esempio può essere la barba. Basta un gruppo che, arbitrariamente, attribuisce un significato al
significante. Essendo i segni a rendere esplicite le differenze, caricando su una categoria di diversità un
sistema simbolico, si crea l’alienazione di tutto ciò che non rientra in quell’ insieme, arrivando persino a
legittimare guerre in nome delle differenze. Per esempio, in Ruanda tra il 1990 e il 1993 dove coloro che
presentavano una certa forma del naso erano nel mirino della discriminazione barbarica che li portava alla
morte. Cosa accade nel momento in cui uno dei significati socialmente stabiliti e veicolati da un tratto viene
a mancare? Ecco che viene prontamente sostituito dagli altri tratti dell’insieme, basti pensare alla versione
giapponese dell’hipster: pur non possedendo la barba ne sopperisce la mancanza con altri accessori,
derivanti da quell’insieme di tratti definiti da Saussure sintagma (la combinazione di due o più elementi
linguistici linearmente ordinati nella catena fonica).
Ma cosa accade nel momento in cui abbiamo un’intersezione di più insiemi, precedentemente isolati tra di
loro?
Questo non è nient’altro che l’effetto della globalizzazione, in cui abbiamo una rapida ibridizzazione di
significanti che appartengono ad altri campi sociali.

STRUTTURALISMO
L'attenzione non è più focalizzata sull'uso della lingua, ma sul sistema di linguaggio sottostante. De
Saussure poneva l'attenzione su due diversi piani all'interno di un segno: il significante, che è il piano
dell'espressione (trasportatore di informazioni), e il significato, che è il piano del contenuto. Alcuni autori,
come ad esempio Claude Lévi-Strauss sostenevano che fosse in qualche modo possibile tradurre un
significato da una cultura all’altra costruendo una matrice.
Lévi-Strauss enunciava : Le relazioni familiari, i miti, alcuni riti tribali, benché abbiano forme totalmente
diverse dalle nostre, hanno significato e funzione sociale sostanzialmente sovrapponibili, quindi io non
devo cercare di seguire quel significato specifico, ma devo astrarlo come se utilizzassi un vocabolario che
mi fa la traduzione da “che cosa vuole dire quella persona con quel simbolo e significato dentro ad un
contesto” a “che cosa significherebbe nel mio”, così io posso in qualche modo comprendere.
La biomedicina è molto legata allo strutturalismo. La malattia, seppur percepita in modo diverso, è in
qualche modo traducibile in termini occidentali attraverso, ad esempio, un’opera di mediazione culturale
con la quale si può capire che cosa significhi ciò che le persone vogliono comunicare, permettendo di
relazionarci con persone di una diversa cultura.

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POST-STRUTTURALISMO
Negli anni Settanta, il problema sollevato dai post-strutturalisti è che i segni non producono sempre
significati comuni, anzi possono produrre significati che non sono traducibili da una comunità all’altra e
quindi possono trarre in inganno sembrando corrispondenti a concetti propri del nostro bagaglio culturale.
Il filosofo Jacques Derrida ci dice che per costruire l’idea di un oggetto quando definisco la sua funzione,
devo usare altri significati precedentemente conosciuti. Devo quindi differire ad altri significati e ciò mi
porta ad impelagarmi a causa della mancanza di un set comune di significati, perciò se non abbiamo altri
significati non possiamo costruire neanche la matrice. Il problema dell’utilizzo di matrici è che forniscono
definizioni molto rigide e così si perdono le sfumature e le sfaccettature che possono trovarsi dentro lo
stesso significato
Per costruire un significato ho bisogno di un altro significato, perché per definire cosa sia un tavolo, posso
dire
che questo serve per mangiare ma l’oggetto tavolo è differente da cultura a cultura.
Il mondo occidentale è caratterizzato da un sistema di pensiero di tipo dualista; secondo Derrida dunque,
bisogna destrutturare le coppie poiché portano a produrre “gerarchie violente”. Se entrassimo in contatto
con culture che invece presentano un flusso continuo di pensiero e non dualista ci troveremmo spaesati e
perderemmo i nostri punti di riferimento. Bisogna dunque analizzare quali sono le relazioni di potere che
permettono ad un significante di emergere.

SOCIETA’ E CULTURA

La necessità di avere un consenso sul significato delle parole è importante per la società e la capacità di
comunicare costruisce i significati ed in seguito anche i significanti (il significante, che è il piano
dell'espressione (trasportatore di informazioni), e il significato, che è il piano del contenuto.) Per questo motivo i
significati socialmente prodotti producono quello che viene definito corpo sociale, l’insieme della
comunità, che esiste e funziona soltanto quando si relaziona. Avendo una società che produce individui, se
manca la società, viene a mancare anche l’individuo.

Un post-strutturalista di nome Jean Baudrillard, ha notato che nell’epoca dei social network e di Photoshop
i segni non si riferiscono più a cose reali, anzi ormai ci troviamo in un contesto in cui i simboli sono riferiti
ad un campo che non è esistente, segni ipertestuali di iper-realtà. Un contesto globalizzato e
tecnologizzato produce significati ad una velocità mostruosa. Infatti, le culture non sono mai state
sottoposte a livelli di pressione trasformativa tanto grandi.
Un altro contributo importante viene dagli studi di genere e dai teorici queer, i quali si domandano che
senso abbiano categorie come il “genere”, se in momenti diversi gli individui possono presentare identità
sessuali diverse e con diverse sfaccettature. Quando costruiamo categorie, può succedere, come abbiamo
visto nel caso del medico e del paziente, che queste non corrispondano ai significati e alle categorie
gnoseologiche con cui noi costruiamo la malattia. Però, queste reti di segni e significati descritti modificano
completamente le persone e modificano anche la costruzione della società.

Quindi la necessità di comunicare per mantenere il corpo sociale coeso, diventa fondamentale, ed è per
questo che alcuni sociologi strutturalisti come Emile Durkheim, paragonano la società a un organismo
vivente, in cui per produrre uno stato di benessere sociale o di progresso, gli individui devono essere in
grado di comunicare in maniera produttiva.
Ci sono 2 tipi di possibilità di interazione:
un’interazione disorganizzata
un’interazione organizzata
Quando in una società, più individui, per via di una moda, comprano tutti lo stesso oggetto, producono
un modello di moda. Secondo altri modelli, degli individui possono congiungersi in gruppi creando delle
reti; accade che parte della sovranità dell’individuo viene data al gruppo, che comincia a produrre un
vettore sociale di trasformazione, perchè sommando le forze dei singoli individui si cominciano a produrre

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tensioni sullo spazio sociale; si sviluppa ciò che viene identificato come un supraindividuo (es. delle
bevande zuccherate).

Secondo Max Weber, sociologo strutturalista, benché nella società si producano reti di supraindividui,
nessuna istituzione è superiore agli individui stessi, dal momento che sono ciò che dà vita alla società
attraverso le stesse istituzioni: la famiglia, la chiesa ecc. La società, attraverso le regole che consentono agli
individui di vivere come organismi, produce un processo di incorporazione delle regole stesse che fanno
vivere gli individui in armonia. La società non è superiore all’individuo perché esiste il libero arbitrio e
pertanto non è determinista.
Se l’individuo non aderisce ad una moda o nega le relazioni con altri individui, non può essere forzato a
relazionarsi. Ciò diventa cruciale quando si vuole produrre un effetto di tipo terapeutico, o produrre
un’azione di comunità, poiché diviene difficile la capacità di patteggiare e comunicare. Inoltre, un grado di
comunicazione è sostenuto dal fatto che non si comunica con soggetti non nominati, vasi vuoti di
conoscienza, ma si comunica con chi ha già delle conoscenze congruenti con il mondo in cui stanno
vivendo.

Nel 1871 Edward Burnett Tylor sviluppa il concetto di cultura secondo cui essa, intesa nel suo senso più
ampio etnografico, è un insieme complesso che include la conoscenza, la fede, l’arte, la morale, il diritto,
costume e qualsiasi altra capacità e abitudini acquisite dall’uomo in quanto membro di una società.
Dice che la cultura non deve mai essere confusa con scolarità (non si può definire il grado di cultura di una
società con il grado di scolarità) nè deve essere confusa con la produzione intellettuale perchè sono cose
che fanno parte della cultura ma non le definiscono. Cultura è tutto ciò che un gruppo sociale produce, e i
suoi prodotti sono compatibili ad una giusta interazione fra individuo ed individuo, società ed individuo,
società ed ambiente.

Un altro antropologo, Boas, afferma che non si può dire che vi siano culture più o meno sviluppate o più o
meno avanzate (es. la cultura che gli inglesi hanno non li proteggerà da un’alta probabilità di morte mentre
tentano di colonizzare l’Australia, non predisponendoli a quel determinato ambiente); non c’è una linearità
fra le culture, ma queste percorrono strade diverse. Le culture sono in continua trasformazione, in
evoluzione, ma non in un sistema evolutivo di tipo positivista, cioè dal peggio al meglio, ma semplicemente
in cambiamento.

Un altro antropologo, Kroeber, nota quanto segue: gli individui sono il risultato della relazione con lo spazio
che li circonda, del “mezzo in cui sono stati socializzati” e che l’individuo moderno può essere compreso
soltanto se si comprende la storia di quella società. L’uomo è “erede di un lungo processo cumulativo, che
riflette le conoscenze e le esperienze acquisite dalle molte generazioni che l'hanno preceduta”. In realtà,
anche la malattia può essere compresa solo se si comprende la storia di quel gruppo.

RAZZA: link tra la maggiore presenza di una patologia e la “razza” (es. nera)? Questo rappresenta la
trasformazione di un prodotto sociale in una caratteristica materiale (il concetto di razza è ormai abolito da
decine di anni). Come fare a costruire una categoria epidemiologica a partire da una caratteristica fisica,
che definisce tra l’altro l’idea di razza? Es. “l’ipertensione è più diffusa nella razza nera”. Si può partire da
un indagine statistica, per cui si rileva che un gruppo di persone è particolarmente soggetto alla patologia. Il
discorso del fenotipo non tiene, ma nemmeno il discorso del genotipo. Quando negli Stati Uniti vennero
costruite le categorie epidemiologiche, ciò fu fatto attraverso lo studio delle cartelle cliniche dei pazienti
ipertesi; negli USA storicamente gli immigrati (come ispanici - latinoamericani - schiavi, o i “non 100%
bianchi”, come gli indiani autoctoni) hanno goduto di minori diritti dei bianchi, in particolare a seguire le
cure mediche. La demarcazione tra razze era anche segnata da altri elementi come ad esempio: quando
veniva fatto il censo, la prima cosa valutata era il colore (deciso dal funzionario), e la razza, che poteva
anche essere dichiarata dall’individuo (es. nero indiano); in questa produzione, per meccanismi legali
complessi ora vi sono 200 combinazioni di colore diverse. Andando però a fare gli studi si sono trovate
categorie già prefissate. Generalmente la porzione afrodiscendente delle popolazioni americane sarà più

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povera, vivrà nelle periferie, avrà un alimentazione con cibi processati; ciò ha portato a fenomeni come i
deserti alimentari.
Altro esempio, il Brasile, per cui politiche statali sono state in grado di modificare le posizioni delle persone;
qui il colore è un fattore di razzismo mostruoso (ad es. nella medicina legale, nell’analisi dei criminali, il
colore del criminale che sta sul tavolo settorio è sempre più scuro di quello del medico che esegue
l’autopsia). A partire dal governo Lula si sono effettuate per la prima volta politiche redistributive di
compensazione per la popolazione afrodiscendente, non sotto forma di incentivi economici alle persone,
ma sotto forma di incentivi ad attività culturali. A Rio de Janeiro la situazione è ancora peggiore: nel censo
si hanno risposte stravaganti in relazione ad es. alla fede calcistica (“giallorosso”, “nerazzurro”); chi
raccoglie i dati è obbligato a trascrivere quanto dichiarato, e ci sono patologie legate al crac che sono
correlate a colori delle squadre di calcio delle città.
L’importanza di questo risiede in realtà nel fatto che, se si utilizza la categoria non come categoria fisica ma
come un prodotto sociale, l’informazione “giallo-rosso” è molto eloquente. È comune, nella deprivazione
dell’identità, attaccarsi ad identità che non sono vere ma che vengono sentite più vicine.
La questione delle categorie è importante: la creazione della categoria in sé non è neutra, ma dichiara una
realtà piuttosto che un’altra. Se non si riesce a racchiudere un gruppo, è vero che si può perdere in termini
di efficienza diagnostico-terapeutica, ma allo stesso modo è necessario sapere individuare bene il gruppo.
ES: Se un gruppo ebreo ashkenazita, molto chiuso, ha una possibilità di avere più patologie genetiche, se si
“smonta” il gruppo, non lo si riconosce più come tale, la possibilità di fare prevenzione si annulla. La
caratteristica del rischio non è l’appartenenza alla religione, ma il fatto che gli appartenenti alla religione
stiano facendo incroci tra consanguinei da troppe generazioni; la stesse modalità di incidenza della
patologia si riscontra nella nobiltà inglese. Il fattore di rischio non è l’essere nobili o ashkenaziti, ma
l’avere un certo comportamento riproduttivo; sbagliare la categoria depotenzia di fatto la possibilità di
fare prevenzione (Es. analogo: aids ad Haiti, per cui avere ristretto la prevenzione solo agli omosessuali ha
creato la categoria sbagliata, e l’aver sbagliato il gruppo ha portato a diffusione della patologia; oppure
sottoporre a test preventivi persone solo perché parte di un gruppo, senza includere chi di quel gruppo non
è parte ma presenta lo stesso fattore di rischio, oppure includendo chi è divenuto parte di quel gruppo
durante la vita ma non è a rischio).

Un altro sociologo, Thomas, sostiene che non ci interessa la realtà oggettiva ma la costruzione sociale
della realtà; se le persone pensano che qualcosa sia reale questo diventerà reale nelle sue conseguenze.
Esempio, dal momento che abbiamo costruito la razza, questa diventerà vera nelle conseguenze sociali che
ha. Non è importante se una persona sia davvero pericolosa o meno, l’importante è che se la costruzione
sociale dice che una persona è così, il risultato è che qualcuno finirà per ucciderla, al di là della realtà.
Es. del “furto di pene” in Congo, Ghana: una volta riempito di significati il significante, il problema risulta
chiaro, ma per arrivare a questo bisogna aprire uno spazio di patteggiamento e dialogo con il paziente.

Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, ci dice che i prodotti culturali non possono essere separati
dalla società né dalle istituzioni sociali, perché queste possono essere prodotte soltanto attraverso
interpretazioni, simboli e valori espressi all’interno di uno spazio culturale. Per questo altri autori alla fine
degli anni ’70 arrivano a dire che la scienza, e di conseguenza la medicina, sono un prodotto culturale
della società, come religione, stato, e le altre istituzioni socialmente prodotte; questo perché ogni cultura
ha sentito il bisogno di spiegare il mondo in maniera differente, perciò di dotarsi di strumenti per
analizzarlo in modo differente. Ad esempio, durante il Medioevo la conoscenza della natura e del mondo
veniva fatta attraverso la Bibbia e non c’era il bisogno di sperimentare. Poi Cartesio separa il piano
metafisico da quello materiale, che è facilmente dimostrabile e diventa argomento della scienza,
“amputandosi” però una parte, ovvero precludendosi il metafisico. Nelle culture orientali, non c’è mai un
momento di separazione tra i due ambiti, si utilizza sempre l’uno per influenzare l’altro. L’ambito medico
rispecchia ciò. La malattia, pertanto, non può essere studiata solo in campo biologico, ma ha necessità di
essere studiata in campo politico, sociale, delle relazioni culturali, ecc.. e non può essere staccata dalla
storia di tutto un contesto.

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Levi Strauss (strutturalista), antropologo strutturalista, aggiunge che molti dei prodotti culturali
(istituzioni, relazioni parentali) svolgono le stesse funzioni in culture diverse però ad esempio una cultura
senza dio, senza religione non esiste.
Ed è questo che dice Levi Strauss cioè se abbiamo una freccia di analisi della cultura dell’altro invece di
fermarci a cercare di interpretare la parte visibile noi possiamo cercare di comprendere quale è la funzione
di quello nello spazio (non mi interessa la cultura di una persona se questa è raffreddato o posseduto, a me
serve indagare quale è la funzione sociale di una malattia per l’individuo e per la comunità. E la funzione
sociale di quella malattia nell’individuo e nella società è sempre la stessa).

Arrivano i post strutturalisti:


Geertz dice: “Badate che chi legge la cultura ne opera un interpretazione, e la cultura non può essere
svincolata da chi la guarda. Persone di culture diverse che leggono la stessa cultura vedranno culture
diverse.”
Ogni volta che un soggetto diverso si approccerà a un testo ne leggerà e ne rivelerà dei contenuti differenti,
ma anche lo stesso soggetto che si confronta con lo stesso testo può capire cose differenti dopo diverse
letture.

Hall dice:”Le culture possiedono milioni di step o livelli.”


Livello terziario o livello esplicito: codici dai significati cosi ampi che la società ha scambiato che sono
compresi dalla maggior parte delle persone, anche da altre culture.
Es: capire che un autobus è un autobus e che per salire bisogna pagare un biglietto
Livello secondario o livello dei riti: delle comunicazioni più complesse, della ritualità socialmente definita.
Es: Io posso partecipare a una danza surah, e vedendo la presenza di vestiti bizzarri e cambi di musica
bizzarri capisco che quella è una rappresentazione rituale e comprendo che ha un valore di comunicazione
per le persone che la fanno. Però, dice Hole, se chi sta partecipando mi spiega la volta dopo posso
comprendere.
Livello primario: cosi profondo da essere inconsapevole, precongnitivo, prelinguistico ma è post culturale
e post sociale. Questo vuol dire che è definito dall’interazione tra cultura e società, benché il soggetto lo
ponga ad un piano di naturalità quindi che non pensi che quello sia di base culturale.
Es: 1- Due neonati (gemelli maschio e femmina) posso riconoscerli dal colore perché il colore dei bambini
alla nascita è blu per il marchio e rosa per la femmina. Non si sa perché siano stati scelti proprio quei due
colori, ma è una conoscenza già intrinseca nella società.
2- La comunicazione e il processo di incorporazione anche di valori, simboli, significati complessissimi come
può essere il soggetto, il complemento, il verbo, articoli avviene tramite l’ambiente, per via deduttiva
quindi se me lo spiegano lo capisco. La lingua cosi come la grammatica sociale viene acquista totalmente
in via precognitiva, setta i nostri valori e se ce la spiegano la possiamo capire ma non perché la usiamo la
sappiamo spiegare.
Oppure, i medici sanno come costruire in maniera strutturata una malattia nello spazio della biomedicina,
ma non perché conoscono tutti i meccanismi ma perché la biomedicina non è strutturalmente definita ma
socialmente definita.
Per costruire la BIOMEDICINA serve:
l’istituzione spa
l’affrancamento alle religioni stato nazionale
concezione moderna della diversità
legittimazione sociale (al posto di essere nei campi a lavorare siamo sui banchi a studiare) per la
costruzione di una legge scientifica la quale avviene attraverso la politica perché per fare un esperimento
bisogna seguire dei modelli.
Alla fine di questo processo si produce un ordine di verità su questa malattia che è ben spiegabile, ben
comprensibile ma non per questo non soggetto a regole culturali e sociali del mondo. Lo scopo
dell'analisi antropologica non è quella di smentire la biomedicina, ma invece quella di
studiarla all'interno di un cambiamento culturale e storico

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LE TRAPPOLE DELLA CULTURA:

Le culture sono un fiume, scorrono, quindi in questo modo la cultura X non è mai uguale. All’interno della
società i processi culturali non sono omogenei, non procedono alla stessa velocità e non producono lo
stesso livello di cultura in tutti i luoghi sociali.
Es: Se noi lavorassimo con un paziente di un altro paese noi dobbiamo richiedere le caratteristiche di
quel paese, perché devo conoscere la cultura di origine del paziente intraprendendo prima una
formazione sulle varie caratteristiche della malattia nei vari paesi.
Essenzialismo culturale, che non tiene conto del fatto che all’interno di uno spazio in cui c’è una base
omogenea ci sono diverse realtà, storie diverse che quindi hanno prodotto processi di acculturazione
differenti. “L’individuo ha sempre una cultura specifica, cioè la cultura non appartiene a quel posto a
quella classe sociale ma appartiene all’individuo”.
La cultura è istantanea perché nell’istante successivo la cultura stessa può cambiare a causa
dell’interazione di due individui di idea diversa. Processi di acculturazione differente ci espongono
progressivamente ad avere relazioni differenti e quindi rafforza alcuni tipi di cultura o li trasforma.
Quando mi metto in rapporto con una cultura, bisogna rapportarsi sempre con l’individuo in evoluzione.
Non ho solo una cultura, faccio una cultura, produco una cultura e questa cultura va indagata in maniera
specifica.
La globalizzazione, mette i “bastoni fra le ruote” poiché la differenza fra due zone può diventare o
essere impressionante nel contesto culturale e sociale della globalizzazione.
Es: (chiede di riconoscere varie città/paesi) La cosa comune di questi posti è la criminalità elevata e che
i buoni sono i bianchi e i cattivi sono i neri. Chi viene da un contesto di paese colonizzato, la criminalità
è più diffusa nelle persone povere, e siccome i colonizzatori si sono impossessati delle ricchezze altrui
non casualmente i criminali non sono bianchi.

Cultura come processo in continua trasformazione, la cultura come fiume che scorre a diverse velocità, la
cultura come produzione di spazi dei singoli che deriva da altri prodotti simbolici.

Da non fare mai:


Costruire l’idea di una persona di bassa cultura
Sostituire elementi che possono strutturare la visone dei soggetti all’esistenza degli oggetti (scambiare
cultura dell’individuo da cose che ne definisce l’esistenza).
Comprendere che due persone che vivono in territori diversi per via di processi di globalizzazione possono
avere la stessa cultura.
Persone che vivono nello stesso territorio possono avere culture completamente diverse perché la cultura,
essendo prodotta dalle interazioni, dipenderà da con chi interagisco (territorio diverso ma territorio
esistenziale uguale).
ESEMPIO: In passato veniva dato per scontato la costruzione culturale della malattia, cioè le persone si
ammalavano nello stesso modo nelle stesse aree geografiche.
La capacità di produzione di malattie o di salute in un luogo dipende dalla flessibilità ai sistemi simbolici e
all’idea di materiale e di immateriale.

IL CORPO NELL’AMBITO BIOMEDICO

Il medico è socialmente riconosciuto come la figura che “sa” del corpo umano e che è in grado di curare
dalle patologie. Questo “mondo” creato da macchinari all’avanguardia, numeri, unità di misura e
conoscenze estremamente approfondite portano il sanitario a trascurare le relazioni sociali. Egli si rifugia
nei dati oggettivi, come i risultati dei test ed esami a cui sottopone un paziente, per poi processare secondo
la sua conoscenza questi dati. Questo processare sfocerà nella diagnosi e la prescrizione.
Le persone non potrebbero vivere la loro relazione con il mondo in alcun modo se non attraverso il
proprio corpo, quindi il corpo diventa un mezzo, oltre che per vivere, anche per vivere le relazioni.
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• Il corpo è indispensabile per comunicare: attraverso la parola, la gestualità e tutte le altre
espressioni non verbali riesce a produrre i significati che noi diamo agli oggetti. Tramite il corpo
riusciamo ad esprimere il significato del significante. Il corpo come oggetto è quello puramente
organico, quello di cui tratta la scienza biomedica ma quel corpo potrebbe subire un processo di
produzione dei significati così che il significante corpo biologico assuma una valenza sociale con
significato vero e proprio passando per il processo, simile a quello linguistico, della produzione dei
significati. Alcuni significati li elaboriamo automaticamente, come le metafore costruite sul corpo
(avere fegato o essere degli smidollati, ecc…). Creiamo quindi una rete di significati sul corpo che
sconfinano l’ambito della salute ed esso ha acquisito un significato sociale vero e proprio. Occorre
quindi analizzare le forme del corpo nell’interazione tra i soggetti e quando il soggetto è immesso
nella società.

• Il nostro corpo media le interazioni sociali e ci fa sentire anche più o meno “adatti” al luogo e alla
situazione in cui ci troviamo. Possiamo dire che il corpo è il nostro luogo di rapporto con la società
e come tale è anche un luogo della costruzione del nostro benessere. Il benessere individuale
dipende dallo stato di salute dell’individuo, quindi dal sé, ma anche dalla costruzione sociale del sé,
ovvero da come gli altri ci percepiscono e da come ci sentiamo parte di una società. Il corpo diventa
di conseguenza il luogo della volontà sociale.

• La valenza della malattia nell’ambito del corpo come luogo sociale: “il criminale e soprattutto la
frequenza dei crimini rappresentano, in una società, la malattia del corpo sociale. La frequenza della
criminalità rappresenta una malattia, ma la malattia della collettività, la malattia del corpo sociale.
Molto diverso, per quanto analogo all’apparenza, è il tema che si vede affiorare nel XVIII secolo, nel
quale non è il crimine la malattia del corpo sociale, ma è il criminale che, in quanto criminale,
potrebbe effettivamente essere un malato.” Michel Foucault. Il corpo del criminale diventa
allora l’autore della malattia sociale.

• l’effetto delle modificazioni del corpo: osservando diverse parti del mondo è evidente come i
modelli comportamentali e i punti di riferimento estetici subiscano notevoli variazioni. Essere
conformi agli standard “imposti” può portare la persona desiderosa di integrazione sociale a
compiere scelte per adattare il proprio sé al “volere” della società di appartenenza, soprattutto in
culture dove i canoni sono molto rigidi.
Molto spesso trasformazioni corporali drastiche predispongono l’individuo a un maggior rischio di
sviluppare patologie (anche gravi). Persone appartenenti ad altre società, specialmente se con
modelli culturali diametralmente opposti, non riescono a comprendere queste decisioni
apparentemente prive di senso. La motivazione di questa incomprensione sta nel fatto che una
persona indipendentemente dalla società di appartenenza cercherà di fare il possibile per
raggiungere il benessere che non è una grandezza oggettiva misurabile in termini assoluti ma
necessita di un contesto sociale affinché possa assumere un significato.
L’OMS ha cercato di definire il benessere come “lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e
spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale
personale nella società".
Sarebbe invece di maggior efficacia impostare una strategia di guarigione efficace e rispettosa della
persona richiedente la cura. Il medico non fa benevolenza, svolge invece un’azione “empowerment
“ sull’individuo. Il lavoro sul corpo quindi produce effetti sociali e psicologico-percettivi, ma la
prescrizione che il medico produce ha anche una valenza politica, diventa uno strumento di
controllo della società.

Cultura e modificazioni del corpo: L'infibulazione


-interessa 130 milioni di donne in tutto il mondo
-escissione di una parte o di tutti i genitali esterni

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-erroneamente attribuibile alla religione, tuttavia è nel contesto domestico; addirittura in alcuni paesi
africani viene svolto in strutture sanitarie. Solitamente viene praticato da una esperta del settore, tuttavia,
alcune volte può essere svolto dai componenti della famiglia (come la nonna).
-tecnica molto invasiva che ha la pretesa di purificare la donna, attenuare la femminilità considerata
potenzialmente pericolosa, assicurando la verginità e addirittura ritenuta come pratica di igiene personale.
-L'età varia nelle diverse aree: in alcune regioni, in tenera età (1-10 anni), poco prima dello sviluppo della
pubertà o prima di convolare a nozze.
-Il dolore sopportato dalla donna ha un valore sociale importante, è necessario per la sua crescita, per
imparare a superare prove difficili e deve essere quindi motivo di orgoglio.
-terribili risvolti da un punto di vista clinico: incontinenza, emorragie, infezioni, tetano, slogature e
dislocazioni. Nel 1984 in Senegal, venne creato l'Inter African Committee che considerò queste pratiche un
attentato ai diritti delle donne. “Gli uomini tendono a naturalizzare i costumi per conferire loro stabilità e
certezza” Montaigne

Donne con la parrucca


Il “peruk takan kadnilar” è un’opera che mostra donne costrette a portare una parrucca:

• per nascondersi dalle autorità,


• per potere avere un determinato ruolo sociale,
• per mascherare gli effetti del cancro,
• per riconoscersi in un’identità transessuale.

I corpi sono il prodotto dell’interazione tra pratiche culturalmente codificate ed esperienze personali, tra
potere e meccanismi di resistenza che gli individui elaborano. Ciascuna di queste quattro donne vive al
margine della normalità imposta da alcune norme (es. la definizione della malattia).
La parrucca è un metodo per modificare il corpo, può essere scelta in base l’ideale di bellezza e femminilità
culturalmente diffuso. Assieme ad essa ci possono essere altri eventi modificatori come la chirurgia
genitale. La parrucca non modifica solo la percezione sociale, ma anche la percezione personale del proprio
corpo. L’identità che cercano o in cui si nascondono queste donne sono culturalmente informate, e in parte
condivise da altre donne, quindi questa nuova identità si scarica del vissuto individuale e si carica di valenze
politiche.

1) L’identità transessuale: la parrucca l’ha aiutata ad abituarsi alla femminilità, abituata a costruire qualcosa
che mancava nel suo corpo, non nella sua anima. L’identità del transessuale è molto fragile, in quanto la
società ha creato una struttura in cui il cambio di sesso non è ben accettato. Nel caso in cui a un
transessuale vengono tagliati i capelli la sua identità viene distrutta ed egli non riesce neanche più a uscire
di casa, ma con la parrucca, un simbolo di ciò che è dentro ma non fuori, questa identità si ricostruisce.
La società e la costruzione del corpo tocca anche i discorsi che definiscono sessualità, riproduzione, salute e
malattia dell’individuo, ottenendo un corpo che è un prodotto culturale e storico.

2) La trasformazione del corpo e le false identità: La parrucca per nascondersi dall’autorità crea così una
falsa identità di sé. Viene ridotta la propria aggettività per aumentare le proprietà sociali, quasi come
fossero un prodotto, che deve rimanere costante perché sia accettabile da parte dell’individuo.
La parrucca ora diventa un simbolo di queste multiple identità: la si mette quando si vuole essere noi stessi
(libertà) e la togliamo quando vogliamo farci vedere dagli altri come loro vogliono che noi siamo (prestigio
sociale).

3) La malattia come “attacco terroristico” nei confronti del corpo. La modificazione del corpo può aiutare a
resistere a questo attacco, o a renderlo ancora peggiore.
Es: donna con il cancro al seno quindi mammella asportata, ma è un trauma perché rende il corpo
incompleto provocando una crisi d’identità. Questa modificazione del corpo ha reso ancora più terribile la
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malattia, anche se risolutiva nei confronti della patologia. Altro aspetto da considerare è la chemioterapia:
fa perdere i capelli, altro simbolo fondamentale della femminilità. La parrucca può servire per combattere
l’attacco terroristico dato dalla malattia.

4) Rottura tra corpo e volontà sociali: studentessa obbligata a portare la parrucca perché all’università era
stato vietato l’uso del foulard come segno della laicità dell’istituzione, impediva alla ragazza di riconoscersi.
Essa era soggetta a delle pressioni sociali che portavano a un disagio interiore dovuto alla deprivazione
obbligata dalla società della sua identità personale.

La modificazione e la migrazione: effetti sull’individuo e sulla società La migrazione di società intere


presenta un paradosso: da un lato abbiamo una cultura eradicata dal suo spazio di origine che si deve
mescolare a una cultura nuova del paese dove essi sono migrati, ma mantenendo comunque il rapporto
con le persone del prima. Si ottiene così una costruzione ibrida del corpo e della società stessa.

La malattia come luogo del potere


La biomedicina agisce in un ampio contesto storico e sociale. Oltre a gestire la fragilità fisica e psichica
dell’individuo si inserisce anche in un contesto determinando influenze politico-sociali.
Es. Alcuni popoli credono che l’AIDS e il disfacimento del corpo da essa provocato sia lo rottura delle “leggi
della terra” dovuto alla violazione del taboo sessuale. L’AIDS è un’arma per tenere sotto controllo la
riproduzione delle persone, una strategia politica. Quindi c’è necessità di un intervento legislativo nel
rapporto tra l’individuo e il suo corpo, partendo dai concetti di bio-potere e biopolitica di Foucault, gli Stati
si intromettono deresposabilizzando l’individuo della salute del proprio corpo.

MARCEL MAUSS E LE TECNICHE DEL CORPO

Marcel Mauss, noto antropologo francese, è il primo studioso che attraverso quelle che definisce tecniche
del corpo analizza la valenza sociale dello stesso. “Per tecniche del corpo si intende, in senso ampio, tutto
ciò che il corpo rende possibile in termini di movimento delle membra, di muscolatura, di articolazioni, di
capacità di prensione e di manipolazione, di capacità organiche e di espressività generale, nella vita
quotidiana o in situazioni estreme, nella comunicazione, nell'arte, nelle attività ludiche o nella sessualità”
Mauss sostiene che le persone non abbiano un corpo ma che lo realizzino in ogni momento durante
l’interazione con gli altri. Per relazionarci con gli altri è necessario comunicare e per comunicare ciò che
pensiamo è necessario utilizzare il nostro corpo come intermediario.

Il linguaggio verbale sicuramente rende conto di una buona fetta dei contenuti che possiamo comunicare
agli altri, ma la comunicazione non si esaurisce lì ma comprende anche quello che viene chiamato
linguaggio non verbale: come ci muoviamo, vestiamo, comportiamo… Noi abbiamo quindi tecniche
specifiche del corpo, culturalmente stabilite, grazie alle quali possiamo costruirci una posizione all’interno
della società. Se non veniamo addestrati ad una tecnica avremo difficoltà ad eseguirla quindi in base alla
società a cui apparteniamo verremo plasmati attraverso la stimolazione dell’uso di determinate tecniche
a scapito di altre.

MICHEL FOUCAULT, IL CORPO COME CENTRO DEI PROCESSI SOCIALI

Il sociologo francese Michel Foucault sostiene che non è possibile comprendere una società se non si
comprendono prima i corpi delle persone. Moltissime relazioni sociali avvengono su un piano corporeo in
quanto oltre ad essere lo strumento fisico dell’azione il corpo ha anche una valenza simbolica-
comunicativa, è la parte “pubblica” del nostro essere, pertanto va curato, modificato, decorato per poter
essere inserito in una determinata società.

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Corpi e dittature: Il legame fra mente e corpo è indissolubile. Nelle dittature il controllo dei corpi ha
sempre assunto un ruolo centrale. Gli individui venivano addestrati ad avere un obiettivo comune, quello di
essere forti per poter rappresentare la potenza della nazione, veniva esaltato il modello del “superuomo”.
Nel fascismo e nel Nazismo ad esempio si trovò nella ginnastica il mezzo ideale per unificare in un coro
forte e deciso la popolazione e soggiogarla al proprio volere. Venne così fondato un modello al quale
ispirarsi, nacque il mito dell’atleta forte, sano, indistruttibile e fedele all’autorità. Un ruolo di fondamentale
importanza era l’uniformità: non solo gli esercizi erano di gruppo (quindi il singolo non aveva potere
individuale) ma vennero introdotti anche cori nei quali tutti erano tenuti a cantare all’unisono, indossando
le medesimi uniforme, e a rinnegare la propria persona per il bene di un traguardo comune superiore.
Nelle dittature ai cittadini viene insegnato che il sacrificio del proprio corpo per il bene della patria è
lodevole e meritevole di onore.

Corpi e razzismo: pone le sue fondamenta proprio su presunte differenze fisiche determinanti
l’appartenenza o meno ad una razza superiore. Per dirigere l’azione di una massa il modo migliore era
creare un nemico comune ben identificabile. Il corpo di chi non apparteneva al gruppo superiore veniva
caricato di un significato negativo con l’attribuzione di caratteristiche psicologiche e morali ben chiare, il
modello veniva quindi imposto alla società obbediente che si adoperava a mettere in pratica le idee
razziste del dittatore. La differenza corporea per quanto fosse una base scientificamente scorretta, per la
popolazione era sufficiente per giustificare anche le azioni più violente applicate nei confronti delle razze
“inferiori” (legittimazione delle atrocità).

Der Stürmer era una rivista settimanale del 1923 che assunse una grande importanza nella diffusione di
ideali antisemiti nella popolazione, venivano utilizzate immagini forti spesso basate su menzogne. Le
vignette erano frequentemente a tema pornografico e veniva incentrata l’attenzione sul pericolo della
“perversione giudaica”: gli ebrei venivano raffigurati come vermi, insetti o come uomini tozzi e con un
grande naso colti in flagrante nell’atto di violentare una giovane ragazza ariana il più delle volte legata e
seminuda.

Nei campi di concentramento istituiti e socialmente accettati in quel periodo la pratica del controllo dei
corpi conobbe il suo più drammatico sviluppo. I prigionieri di Ravensbrueck, Auschwitz e degli altri campi,
subivano dei trattamenti di standardizzazione imposta, la testa veniva rasata a tutti indipendentemente
dal sesso o da altre caratteristiche, in più tutti vestivano le stesse uniformi. In condizioni così rigide dove la
propria individualità veniva annullata con la forza, risultava quasi impossibile per i deportati, resistere senza
perdere il controllo della propria identità e della propria mente. Erano così disumanizzati per poter
legittimare i carnefici a perpetuare il loro operato

Il concetto di habitus (Bourdieu ha sviluppato il concetto di "habitus", che permette di spiegare la maniera attraverso
cui un essere sociale interiorizza la cultura dominante (la doxa) riproducendola. Il punto di vista dominante non è dunque
né immobile (è il risultato delle percezioni sociali degli individui), né facilmente evolvibile (la violenza simbolica porta i
dominati e i dominanti a riprodurre involontariamente gli schemi della dominazione).) introdotto da Bourdieu
riguarda il fatto che non si possono considerare l'individuo e la società come due soggetti differenti e non
collegati tra di loro: è il rapporto tra le strutture e condizioni sociali esterne ed il comportamento e la
soggettività dei soggetti. Dobbiamo sempre tenere a mente che il soggetto si trova in uno spazio che porta
inevitabilmente ad una trasformazione dell'individuo o che, allo stesso modo, il soggetto può trasformare.
Es: gli individui che popolano le favelas, questi sono condizionati dal luogo in cui vivono, oppure sono gli
individui stessi a cambiare le favelas (impatto che il campo sociale ha sul corpo e impatto che il corpo ha sul
campo sociale)

Per capire al meglio la natura sociale dell'habitus e delle abilità che si realizzano attraverso l'utilizzo del
corpo, bisogna tenere conto del legame indissolubile tra 3 elementi: sociale (educazione, ambiente,
abitudini, cultura), biologico (fisico), psicologico (benessere psicologico).

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L'Incorporazione

La sociologa americana E. Krieger riprende un concetto di un antropologo statunitense: il corpo essendo


perennemente in contatto con un ambiente sociale ha incorporato le abitudini derivanti da quest'ultimo,
ma siccome il corpo non è passivo nello spazio in cui vive, bisogna affermare che il concetto di
incorporazione non è un processo passivo. Thomas Csordas è una delle figure più importanti quando
parliamo di incorporazione. Egli elaborò la sua teoria negli anni '90: l'individuo ''produce'' il corpo a
seconda delle relazioni che quest'ultimo ha con l'ambiente e studiando le relazioni tra corpo e individuo
bisogna tenere conto di questo fattore.

Sarebbe lecito chiedersi quale rapporto c'è tra incorporazione e medicina, ebbene, a tal proposito lo stesso
Csordas sottolinea il fatto che lo scopo dell'analisi antropologica non è quella di smentire la biomedicina,
ma invece quella di studiarla all'interno di un cambiamento culturale e storico. Bisogna considerare la
biomedicina anche come sistema culturale, legato a contesti economici, sociali e politici. Analizzando la
persona malata si potrebbe dire che la malattia è il risultato della incorporazione dei processi sociali in cui
la persona sta vivendo e studiando la malattia quindi possiamo comprendere quale impatto hanno avuto
i processi sociali dentro al soggetto.

Bisogna sempre ricordare che le malattie non sono equamente distribuite dentro la comunità ma in
maniera diseguale perché gli individui sono disposti in maniera diseguale ai fattori che provocano le
malattie. In questa prospettiva, Ilario Rossi si dedica al tema delle malattie croniche: le malattie della
civilizzazione non avendo una cura nel presente, devono essere gestite nel tempo. La gestione delle
malattie croniche favorisce l'ampliamento del paradigma biomedico. Le risposte dei pazienti rivelano una
elaborazione del proprio corpo, in cui i riferimenti alla medicina è solo una delle molte componenti. Ivo
Quaranta e il suo studio dell'AIDS, condotto in Camerun, dimostra che il sapere locale intorno alla malattia
è il prodotto di continue interpretazioni.

Nella quotidianità l'individuo è portatore di un corpo fisico personale che è quello dei vissuti soggettivi,
ma anche di un corpo sociale formato dai significati e dai simboli sociali che servono per comunicare.
Affermiamo quindi che il corpo è prodotto e produttore, come un insieme di prodotti culturali, sociali,
politici, economici e storici.

Il corpo come spazio del dissenso

Il corpo è in grado di produrre differenziazione, di distinguersi e creare diversità attraverso l'utilizzo di


forme proprie del corpo stesso. Una persona che utilizza il suo corpo come spazio di dissenso non è facile
da reprimere. Es: l'anoressia, usano il proprio corpo per esprimere una condizione di malessere. Il
movimento delle Femene, donne che utilizzano il proprio corpo per manifestare contro le ingiustizie sociali.

Il corpo come network di affezioni nel campo sanitario

“Il corpo umano è come un tempio, e come tale va curato e rispettato, sempre” Ippocrate

Spinoza sostiene che i corpi si influenzano vicendevolmente, si affettano l'uno con l'altro. Nello spazio
biomedico perdiamo di vista il corpo nella sua autenticità di corpo che produce affetti e trattiamo un corpo
organico pieno di organi. Il motivo della mancanza di una imperturbabilità emotiva a fronte di queste
situazioni altamente stressanti è proprio la vasta rete di affezioni che i corpi generano l'uno dall'altro e a cui
nessuno può essere indifferente in quanto uomini. Nell'incontro tra il medico e il paziente non è possibile
togliere uno dei soggetti e dunque per poter curare l'altro dobbiamo essere pronti a rendere operativa la
trasformazione che l'altro attua su di noi, se consideriamo solo la nostra oggettività di medici perdiamo
l'abilità curativa, non siamo più medici.
Non essere preparato soprattutto in campo medico a percepire come il corpo è affettato dagli altri corpi
che si deve curare può comportare gravi danni, come a voler sostituire a un medico un computer e questo
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toglie due componenti importantissime del processo di cura:
1) la capacità del terapeuta di scegliere il setting dove esprimere al meglio le sue potenzialità
2) puntare alla relazione che si è in grado di produrre.
crisi della presenza come in questo quadro di fine '800 denominato “The Doctor” di Sir Luke Fildes. Un
medico fa la visita domiciliare a una bambina povera in presenza dei genitori, non c'è più nulla da fare, il
medico sta lì, ci mette la sua presenza, percepisce le affezioni che si creano in quello spazio. Questa cosa è
possibile solo se recuperiamo nel corpo lo spazio di relazione tra individui e società. Come il corpo è un
prodotto delle relazioni sociali, si ha anche un produttore di relazioni sociali che riproducono effetti in altri
corpi.

Il contributo dell'antropologia nella medicina

La recente branca dell'antropologia medica si propone di ricercare il benessere dell'uomo in tutte le sue
dimensioni, e intende ricercarlo proprio partendo dalla considerazione del corpo umano nelle sue storie e
nelle culture. Questo per enfatizzare il fatto che la comprensione di malattia, salute, nascita e morte è
inestricabilmente legata al contesto sociale e culturale del soggetto in cui queste sono vissute. In
particolare l'antropologia medica si occupa di tutto l'insieme di conoscenze che si sono sviluppate attorno
al corpo malato e poter così fornire un utile sostegno alla medicina odierna per quella sua parte più
debole che è la comprensione e l'integrazione della dimensione socio-culturale del paziente. E' utile
costruire un rapporto di critica costruttiva tra antropologia medica e biomedicina. La prima infatti non si
deve limitare solamente a descrivere le dimensioni etnografiche delle varie popolazioni, ma deve anche
saper modulare negativamente certi aspetti radicati in una cultura quando questi risultano essere
solamente obsoleti nei confronti del fine dell'antropologia, ossia il raggiungere il benessere di tutti gli
individui.
Utilizzando il concetto di habitus e di incorporazione, possiamo arrivare a comprendere come la
manifestazione patologica dell'organo sia l'anello finale di una serie di relazioni che hanno visto come
protagonisti sia l'individuo che la società, poichè sono inscindibili.

Il corpo nella medicina occidentale

La medicina occidentale è basata sull'opposizione tra mente e corpo, spirito e materia.


- materialismo già nell'antica cultura greca, come in Aristotele nel suo De Anima, ma anche nel corpus
Ippocratico,la medicina debba trattare solo casi in cui i sintomi si possono vedere, toccare, udire.
- Renè Descartes che per primo gettò le basi del materialismo radicale che caratterizza la scienza di oggi;
non poteva negare l'esistenza di mondo sovrannaturale ma neanche quello reale, concludendo così che essi
erano inevitabilmente separati tra loro: il dualismo cartesiano non ammette alcuna continuità tra una
dimensione e l'altra, tra divino e materiale, tra mente e corpo.

E' il caso di riconsiderare queste dimensioni finora considerate così nettamente separate come facente
parti di un unica realtà che trovano vita nell'individuo.
Caso emblematico: lezione di medicina in cui veniva presentata a degli studenti una donna che soffriva un
mal di testa molto intenso e per tempi prolungati. La donna spiegò di fronte agli studenti la complessità
della sua situazione famigliare, costretta a subire le violenze del marito ubriaco, a murarsi in casa per
badare alla vecchia suocera e a preoccuparsi per il futuro incerto del figlio. Alla fine di questa storia, una
studentessa chiese al professore quale fossero le vere cause del malessere che colpiva la donna. L'errore di
questo modo comune di pensare sta nel ritenere significativo solamente l'ambito organico-biologico,
mentre risulta essere totalmente irrilevante ai fini della comprensione del malessere il contesto esistenziale
del paziente.

- Altra critica mossa alla medicina moderna da parte di Milan Kundera ( 1929.-
scrittore, poeta, saggista e drammaturgo francese di origine cecoslovacca, assurto prepotentemente

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alla notorietà nell'Italia del riflusso negli anni ottanta del XX secolo per il suo romanzo L'insostenibile
leggerezza dell'essere.) è la tendenza della medicina a specializzarsi in settori sempre più ristretti,
oscurando sempre di più una visione organica e complessa dello scibile medico.

Il corpo nelle culture non-occidentali

Esistono molti altri sistemi di conoscenza non-occidentali che fanno leva su altri valori. Alcune
epistemologie non-occidentali considerano le entità simili tra loro in un unico modello olistico:
-L'insieme delle singole parti, per quanto differenti, rappresentano gli “organi vitali” di un unico insieme.
- gli opposti complementari: il simbolo dell'antica medicina cinese della “complementarietà bilanciata”
dello Yin-Yang, unione che fa combaciare perfettamente il caldo e il freddo, il chiaro e l'oscuro, il femminile
e il maschile. L'individuo secondo la concezione cinese, grazie alle influenze derivate dal taoismo e dal
confucianesimo, doveva avere un rapporto di interdipendenza con i propri simili e con il proprio ambiente,
così da entrare a far parte di una dimensione esistenziale maggiore. Anche la concezione cosmologica
islamica è basata sull'integrazione della complementarietà degli opposti. Towhid espone il concetto
unificante di un'esistenza che si riconduce sullo stesso piano divino, quindi la concezione di un monismo tra
mente e corpo che gli uomini devono raggiungere. Stessa concezione per la filosofia buddista: essi non
considerano la propria interiorità come una discontinuità rispetto alla realtà esterna e alla natura, ma anzi
mente e natura sono plasmate dalla stessa materia (il mondo stesso non è altro che proiezione della
mente). E' la meditazione che i buddisti considerano come mezzo privilegiato per il raggiungimento della
comprensione, in una trascenda che va al di là di linguaggio, pensiero, e scrittura.

La cosmica differenza tra due mondi, due modi di pensare, tra filosofia occidentale e orientale è, secondo
Suzuki, filosofo buddista, racchiusa nella brevità di questo haiku: Se guardo attentamente vedo un nazuna
in fiore presso la siepe! Nell'haiku del poeta giapponese Basho il soggetto non strappa il nazuna, ma rimane
folgorato dalla sua bellezza, dalla sua appartenenza a un insieme armonico del tutto, tanto da ammirarla da
una distanza di rispetto e in un certo senso comprenderla nel suo insieme. Il probabile atteggiamento di un
occidentale di fronte a un'irrefrenabile curiosità avrebbe significato il strappare via il fiore, vivisezionarlo,
analizzarlo, classificarlo, e così facendo distruggerlo. Questo, in tutta coerenza col modello filosofico
offerto da Bacone, secondo il quale la natura, il mondo materiale, deve essere “fatto schiavo” per i voleri
dell'uomo.

La malattia e le sue dimensioni

Tre modelli esplicativi della malattia:


Disease è la malattia dentro il corpo (fisico)studiata dalla medicina 6 anni
Illness è la malattia data dalle proprie percezioni (psicologia, corpo culturale)studiata dalla psicologia
Sickness è la malattia socialmente prodotta e che sta alla base del concetto di violenza strutturale (Galtun),
e che riguarda quindi lo spazio socialecampo dell’antropologia

Dobbiamo considerare due dimensioni:

• Produzione sociale della malattia


Es. fattori di rischio legati all'inquinamento di un dato momento storico in cui per mantenere attiva
l'industria delle auto si devono verificare dei “sacrifici” in termini di salute che si riversano sulla
popolazione come l'esposizione a gas, sostanze cancerogene, polveri ecc.
• Costruzione sociale della malattia(legittimazione sociale)
Es. Quando vi è consenso si definiscono i parametri per l'infarto. Cosa succede se dopo il consenso
devo cambiare i parametri? Cambio il modello secondo cui si ha un infarto. Al cambiare della
definizione, cambia la malattia. La società dunque non è solo in grado di produrre malattie
attraverso fattori di rischio, ma di fatto costruisce le malattie nel senso che ti incasella come malato
laddove i tuoi parametri dovrebbero essere standard.

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Es. “psicosi del minatore”: il medico era pagato dalle industrie minerarie e attribuiva il non
respirare bene al fumo e alla vita insalubre, suggerendo di smettere di fumare. Dopo la seconda
Guerra Mondiale, con la sindacalizzazione delle miniere compaiono le lesioni polmonarie dovute
all'esposizione di carbone. Per questo la creazione di una malattia è una questione centrale nelle
società umane: si può infatti deliberatamente negare l'esistenza di una malattia per fini economici
o politici, così come crearne una ad hoc per discriminare una precisa classe sociale o etnia.

Corpo e dimensione sociale

Un'altra questione è la dimensione del corpo tra i suoi normali aspetti fisiologici e il modo con cui essa
viene incorporata nella società. Prendiamo due diverse tipologie di età:
una è quella anagrafica
l'altra è la realtà che la società costruisce attorno all'uomo invecchiato.

Esistono società dove l'uomo anziano è rispettato e considerato come depositario della cultura, a cui
spetta primariamente le risorse e a cui è affidato il compito di dirimere le controversie.
Se consideriamo invece la moderna società occidentale e la sua mentalità dell'iper-produttività, l'anziano
verrà visto come un individuo che ha perso la propria utilità, e quindi non avente più diritto né a rispetto né
a risorse. Quindi l'invecchiare causa patologie che sono certamente associate alla causa primaria (numero
di anni di vita) ma in realtà anche al contesto sociale che vi si crea attorno.

Altro esempio sulla costruzione sociale delle malattie. Secondo uno studio fatto in Inghilterra sulla
distribuzione della mortalità del cancro al polmone rispetto agli anni '70 e gli anni '90 viene calcolata
l'incidenza di cancro al polmone per 100 000 abitanti. Oltre alla mortalità dividono la popolazione in fasce
di professioni: si vede che negli anni '70 la mortalità per cancro al polmone è circa 2 volte e mezzo
superiore nei lavoratori non specializzati che invece delle professioni manageriali e che la mortalità del
cancro ha un gradiente secondo le fasce di lavoro. Il fattore primario che causa il cancro al polmone è
sicuramente la sigaretta, ma perché la mortalità incide maggiormente sulle classi sociali basse? Queste
cause non vanno ricercate nel semplice funzionamento biologico del polmone del fumatore, bensì le
motivazioni (maggior stress a lavoro=più sigarette fumate), l'educazione (campagne di sensibilizzazione
contro il tabacco) e anche la disponibilità ad accedere ai controlli di routine (quindi disponibilità
economica) che stanno attorno a queste realtà. I dubbi sul perché certe malattie sembrano persistere più
in una classe sociale piuttosto che in un'altra trovano una risoluzione nel fatto che ci si focalizza solo sul
corpo biologico senza considerare quello personale.

Cancro e femminilità negata

Questo comporta ad esempio la perdita di capelli o una mastectomia, rinnegando, mediante la privazione
dei suoi aspetti culturalmente più riconosciuti, il sentirsi donne, compagne, madri. Il cancro al seno in
particolare si presenta come un insidioso violentatore della femminilità, andando a minare la propria
identità di genere. Già citato più in alto, Kutlug Ataman presenta la storia di una giornalista, Nevval Sevindi,
vittima del cancro al seno, che in una sua intervista focalizza l'attenzione sull'aspetto del corpo femminile:
“con il cancro mi è sembrato che la mia femminilità fosse messa alla prova perché il seno ed i capelli sono i
simboli più importanti della femminilità. E il cancro attacca proprio questi simboli. Mi sentivo come se
alcune cellule terroristiche attaccassero la mia femminilità e ho resistito all'attacco”

Per questo motivo durante la terapia le donne sono spesso indotte a seguire gruppi di sostegno così che
la qualità di vita e il benessere fisico percepito sia quanto più alto possibile. E' soprattutto responsabilità
del medico curante porre grande attenzioni e sostegno alla paura, all'ansia e a tutte quelle emozioni
esasperanti che la condizione di malattia inevitabilmente pone alla donna.
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Aspetti più cruciali:
1) l'asportazione di utero o delle ovaia va a ledere i principali simboli della maternità; l'impossibilità di
procreare, la brusca interruzione ormonale, anche il flusso mestruale assente sono, a maggior ragione in
una giovane donna, accolti come una violenza sui naturali ritmi della vita e che causano una non
accettazione della propria immagine corporea, perdita di autostima e senso di inadeguatezza nelle
relazioni.
2) Il seno poi, normalmente vissuto nel momento dell'allattamento come forma di amore primordiale e
maternità, nonché come fattore determinante dell'identità e della sensualità femminile, viene spesso
marcato dalla malattia con profonde cicatrici se non con la completa rimozione con la mastectomia.
3) la perdita di capelli e gli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici. Molti medici concordano che non
basta combattere la malattia in sé, ma è necessario curare anche questi aspetti del vissuto personale, della
sfera del privato, per fare sì che le donne siano sempre pronte a lottare.

Dopo che la malattia è stata sconfitta i segni che questa ha lasciato sul corpo sono purtroppo indelebili
anche con le migliori chirurgie plastiche e ricostruttive. Si fa qui necessario quel percorso di
riappropriazione del sé, del proprio corpo femminile, con tutti i suoi aspetti “estranei”, nuovi.

APPROFONDIMENTO DAL CANALE B:


Produzione sociale della malattia
La società produce malattie attraverso due meccanismi:

• l’esposizione a fattori di rischio che fanno ammalare in modo diverso ogni categoria di persone a
seconda dell’esposizione ad essi

• la costruzione di categorie in cui inserire le persone

Dunque la società è in grado di produrre sofferenza all’interno degli individui che la costituiscono; non solo
il medico deve risolvere questa situazione indotta dalla società, ma è necessaria una rete di produzione di
salute. Il tutto è realizzato attraverso due componenti principali: l’azione e la non azione, che concorrono
contemporaneamente alla produzione di malattie.

Foucault ha studiato le relazioni di potere attraverso l’esempio del Panopticon, una tipologia prigione
sviluppata alla fine dell’ottocento. In questa prigione la guardia si trova al centro del luogo e i sorvegliati si
trovano tutt’intorno, in mondo che possano essere sorvegliati 24 ore su 24 e potenzialmente le guardie
possono sempre sapere ciò che i detenuti stanno facendo. I prigionieri, sapendo che possono esser
controllati costantemente, sono più propensi a conformarsi alle regole della prigione; quindi non è il fatto
che siano effettivamente controllati ma la probabilità che questo possa avvenir in qualsiasi momento che li
sprona alla diligenza.
All’interno delle reti sociali il network di relazioni produce vettori di forze che sono capaci di generare la
malattia, ma nessuno dei soggetti da solo riuscirebbe a generarla, e allo stesso tempo i soggetti che
generano la malattia sono sia produttori che prodotti delle forze sociali.

Sacralità del corpo

Giorgio Agamben è un filosofo italiano autore del testo “L’uomo sacro”, in cui afferma che si può uccidere
un uomo perché gli uomini sono sacri; per poter uccidere un uomo basta che venga salvato restringendolo
a una condizione parziale dichiarandola poi come tutto.

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Agamben si rivolge ai medici oggettivisti, esortandoli a far attenzione al fatto di essere stati sequestrati da
brutali forze politiche che li utilizzano inconsapevolmente per produrre politiche sociali di emarginazione e
produzione di disuguaglianze. I medici sono lo strumento migliore per trasformare un’esistenza in
un’esistenza di sofferenze in un corpo e poter costruire così delle soluzioni che salvano le persone
sacrificandole.

Uomo sacro perché la “sacralità” della vita è protetta da trattati internazionali, leggi, e servizi dedicati. Ma
mentre si dichiara la sacralità della vita, una parte della popolazione mondiale è considerata dal senso
comune e quindi dalle istituzioni come ineluttabilmente “sacrificabile” e per questo esclusa dai meccanismi
di protezione della vita. Questa contraddizione si supera attraverso la protezione biomedica della vita come
mera esistenza biologica. Questo meccanismo serve per allocare in maniera differenziale le risorse della
comunità.

Prendendo come esempio la situazione attuale in cui un gran numero di persone richiedono asilo nel nostro
paese, in quanto nel loro è in corso una guerra civile, esse vengono messe in campi profughi per un tempo
indeterminato ponendovi all’interno un medico; così si può affermare d’aver salvato le loro vite. Ma non
potendo lavorare, essendo emarginate socialmente e non potendosi quindi realizzare, l’unica esistenza che
rimane loro è quella biologica.

È stato creato un sistema nel quale la vita sacra è quella biologica, ovvero la vita spogliata di qualunque
altra caratteristica se non quella fisiologica. È possibile produrre questa salvezza di vita biologica in quanto
abbiamo un certificatore, ovvero il medico, che produce un universo simbolico che serve per giustificare la
società di non aver preso provvedimenti che avrebbero potuto salvare le loro vite.

La definizione del concetto di vita rinvia al suo emergere tanto come oggetto quanto come soggetto del
potere. Mano a mano che la vita viene sempre più intesa in termini biomedici essa diventa “nuda”,
isolata dalle sfere del valore e dell’etica, come suggerisce Agamben. La vita diviene parte del “potere”
paradossalmente proprio attraverso la sua esclusione: è in quanto “nuda vita”, corpi sofferenti e da salvare,
mera esistenza biologica che oggi gran parte della popolazione mondiale si vede riconosciuti quei diritti
ascrivibili alla cittadinanza. La nuda vita, in altre parole, emerge come modalità storica di costruzione di
rapporti di potere, effetto di specifiche strategie di controllo.

Il corpo risulta quindi come terreno per la rivendicazione di diritti attraverso l’esclusione da una vita
socialmente significativa; sono queste forme di bio-cittadinanza che producono forme più sottili di
esclusione.

Violenza strutturale

Violenza Strutturale o quotidiana: ineguali relazioni di potere, marginalizzazione, esclusione sociale come
causa di differenti speranze di vita in soggetti con differenti posizioni sociali.

Strutturale perché la trasmissione della malattia non dipende da stili di vita, abitudini culturali o scelte
personali, ma piuttosto dai limiti strutturali alla possibilità di azione individuale, al progresso economico,
sociale e scientifico.

Analizzando il pensiero di Farmer si mette in luce il concetto di violenza strutturale, focalizzandosi sui
meccanismi sociali dell’oppressione, “che sono tanto peccaminosi quanto apparentemente colpa di
nessuno”. Per violenza strutturale, infatti, egli intende quel particolare tipo di violenza che viene
esercitata in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita, che è prodotta
dall’organizzazione sociale stessa, dalle sue profonde diseguaglianze e che si traduce in patologie,
miseria, mortalità infantile, abusi sessuali ecc.

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Farmer ponendo l’attenzione sul caso AIDS denuncia i processi storici politici ed economici che hanno dato
luogo a questa forma di violenza strutturale, ed in tal modo individua le azioni umane e le scelte come i
responsabili della produzione di tale violenza. Il suo merito è stato sì quello di aver posto l’attenzione alle
condizioni materiali dell’esistenza, ma ha fatto emergere al tempo stesso una profonda contraddizione: se
da un lato critica il riduzionismo biomedico in quanto elimina le relazioni sociali incorporate nella malattia,
dall’altro si impegna a potenziare l’accesso ai servizi biomedici, senza preoccuparsi delle conseguenze delle
diffusione di tali pratiche in relazione ai saperi locali.

Dal momento che il concetto di giustizia e benessere sociale è al centro del pensiero di Farmer, egli
sottolinea la mancata presa in carico della sofferenza da parte del potere, che non deve risultare
secondaria al suo favorire l’oppressione e l’esclusione sociale.

Al contrario Nguyen indaga i processi sociali che ridisegnano le forme della cittadinanza, del sé e della
modernità, come per esempio la diffusione dei farmaci antiretrovirali in Africa occidentale in relazione alla
situazione dell’AIDS. Adottando una prospettiva biopolitica, ispirata direttamente dai lavori di Foucault e di
Agamben, Nguyen mette in luce come “quanto più le ineguaglianze sociali fanno registrare il loro impatto
nei corpi degli svantaggiati, tanto più il loro destino è legato alla biologia e alle politiche di intervento su di
essa”.

Richiamando l’esempio iniziale, riguardante il falso invalido, ci si può chiedere quale ruolo svolga il
sanitario. In tutti questi casi il soggetto è incapace di produrre una strategia che possa guarirlo non
esponendolo a fattori di rischio, si presenta dal medico affermando di essere malato; il medico può agire su
due fronti: o definendo la malattia e prescrivendo farmaci, oppure cercando di risalire ai processi che
hanno portato alla malattia provando a risolverli.

• Nel primo caso il medico concorre alla produzione sociale della malattia perché produce un
simbolico che dimostra che il sistema sanitario si sta occupando delle persone garantendo loro uno
stato di salute, medicalizzando il prodotto sociale. Questo disinnesca dunque ogni tipo di riflessione
sociale sulla malattia.

• Nel secondo caso il medico si pone in una posizione critica che lo porta ad essere l’oggetto della
repressione sociale.

A seconda della scelta che il medico fa, entra nelle forze cruciali che causano la malattia o nei processi che
guariscono le persone.

La guarigione non può avvenire solo tramite la pratica della professione medica, ma bisogna produrre una
rete in grado di sostenere l’affermazione di un simbolico diverso; non è possibile portare a completa
guarigione il paziente, in quanto il medico da solo non è in grado di avere l’accumulo di forze sufficienti per
sostenere una nuova costruzione delle ragioni con la malattia, perché una nuova costruzione del simbolico
dietro la malattia sovverte le regole sociali e la relazione tra i soggetti in quella comunità.

La sofferenza sociale accomuna una serie di problemi umani la cui origine e le cui conseguenze affondano le
loro radici nelle devastanti fratture che le forze sociali possono esercitare sull’esperienza umana. I poteri
politici, economici e istituzionali sono ampiamente coinvolti nel determinare sofferenza sociale, in cui sono
coinvolte anche questioni di salute, welfare, legali, religiose e morali.

Veena Das riporta che la società tende a nascondere a se stessa la sofferenza che essa impone agli
individui solo per il semplice fatto di appartenerci; tuttavia le scienze sociali al posto di denunciare tale
condizione tendono a mimare il silenzio della società stessa. Questo concetto di sofferenza sociale porta la
riflessione sulla violenza silente che è oramai radicata nella modalità d’azione dell’uomo nei confronti del
mondo, e questo non permette ad essi una presa di coscienza di tale meccanismo.

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Incontrando nell’attuale periodo una grande quantità di pazienti con elevate fragilità, bisogna diventare
soggetti in grado di dare altri nomi alla malattia delle persone, ma soprattutto comprendere come ci si può
articolare nelle reti della società, altrimenti non si può avere una capacità risolutiva, perché si diventerebbe
automaticamente strumenti di perpetuazione dei processi sociali che causano la malattia. Per questo negli
strumenti di valutazione sanitari vengono inseriti argomenti di tipo qualitativo perché non sempre quando
c’è un sevizio che produce assistenza, questa assistenza sta producendo salute. Se ciò che genera patologia
è prevalentemente un processo sociale, l’apertura di un ospedale con specialisti risulta essere solo un
costo per la società che non produce risolutività, se non sui corpi, ma riafferma principi biopolitici di
restrizione dell’esistenza alla mera esistenza biologica, al loro corpo biologico, e si crea l’immaginario
collettivo che facendo un intervento chirurgico si salva la vita ad una persona che allora risulta totalmente
guarita. È uno spazio di retorica in cui si rischia di cadere, come capita spesso con il volontariato e la
cooperazione internazionale.

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